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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287868 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Maggio 11, 2010, 06:11:15 pm »

11/5/2010 - TACCUINO

L'Udc pronta a formare un governo con chi ci sta
   
MARCELLO SORGI

Anche se tutti o quasi hanno reagito in modo scettico, la proposta fatta da Casini nell’intervista a Lucia Annunziata di un governo «tecnico», o di «unità nazionale» o di «ricostruzione nazionale» ha fatto molto discutere, perché tutti sanno che il leader Udc non parla mai o quasi mai a vanvera.

Così che, prima di chiedersi se l’ipotesi era realizzabile, tutti si sono chiesti perché Casini l’aveva tirata fuori.

Senza entrare nei dettagli delle tre formule adoperate, simili, differenti, eppur collegate tra loro, si tratterebbe di mettere su un governo che, organicamente o con un appoggio più o meno esplicito, fosse sostenuto insieme da centrodestra o centrosinistra.

Un governo a termine, con un programma limitato, e una maggioranza finalmente in grado di fare le riforme vagheggiate inutilmente da tanto tempo. Un esecutivo siffatto, al di là della disponibilità, esclusa immediatamente e simmetricamente dai due poli, avrebbe bisogno, per imporsi, di un trauma in grado di por fine all’esperienza berlusconiana. Anche quello non si vede.

Berlusconi infatti non è nelle condizioni in cui era nel 2006, quando perse le elezioni per soli ventiquattromila voti, e fece più o meno la stessa proposta. Oggi è saldamente a Palazzo Chigi e può ancora contare su una maggioranza ampia ancorché litigiosa.

Perché allora Casini s’è sbilanciato? Per tre ragioni evidenti, anche se non sufficienti.

Prima, l’emergenza giudiziaria che, uno dopo l’altro, sta colpendo ministri e alti esponenti del governo e del partito di Berlusconi, a partire dall’inchiesta sui Grandi Eventi e a cominciare da Bertolaso, Fitto, Verdini, Scajola e adesso anche Bondi.

Seconda, l’emergenza economica che sul finire della settimana scorsa sembrava (e ieri per fortuna molto meno) poter colpire l’Italia né più né meno come ha colpito la Grecia e rischia ora di aggredire Portogallo e Spagna.

Terza, forse la più importante, la necessità per Casini di darsi una prospettiva strategica diversa da quella rivelatasi fallimentare degli accordi a sinistra e a destra sperimentati alle ultime regionali, che hanno dato all’Udc per la prima volta negli ultimi anni un risultato deludente.

Dunque dal gran vociferare che s’è fatto in questi giorni attorno al governo d’emergenza, almeno emerge una novità: l’Udc è pronta a rientrare in un governo, di tutti se possibile, e altrimenti di quelli che ci staranno.

A un Berlusconi alle prese con la rivolta quotidiana di Fini e dei finiani, la notizia non dispiacerà. Anche se sbaglierebbe a pensare che il vecchio alleato Pier, fiaccato dall’opposizione, sia pronto a fargli da ruota di scorta.


http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7335&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #136 inserito:: Maggio 12, 2010, 09:56:16 am »

12/5/2010 - TACCUINO

Una legge da sottrarre alla propaganda

MARCELLO SORGI

Pur purgata con gli emendamenti leghisti e privata del suo contenuto più controverso - il diritto automatico per i detenuti di trascorrere a casa l'ultimo anno di pena, che invece verrà vagliato volta per volta dai giudici di sorveglianza - la legge «svuota-carceri», su cui ieri il ministro di giustizia Angelino Alfano ha raggiunto un accordo con il ministro dell’Interno Maroni, si presenta come uno dei provvedimenti più delicati della ripresa parlamentare dopo le elezioni amministrative.

E non solo per le divisioni, emerse fino all'ultimo, all'interno della maggioranza, ma anche per l'impatto che il provvedimento, una volta approvato, avrà sull’opinione pubblica, specie su quella di centrodestra, sensibilizzata oltre ogni limite in tutte le campagne elettorali sul tema sicurezza. Anche se il problema dell’affollamento delle carceri andava affrontato (ci sono oltre 67 mila detenuti in istituti di pena adatti a ospitarne al massimo 40 mila), sarà interessante vedere con quali argomenti sarà presentata una legge che, comunque la si guardi, rappresenta per il governo una svolta. Dalle ronde metropolitane, dall’arresto degli immigrati per la clandestinità trasformata in reato (causa non ultima del riempimento delle carceri), alle scarcerazioni programmate. Da un impianto «legge e ordine» predicato in tutte le salse, a un apprezzabile ripensamento sul tema dei diritti dei detenuti, che non possono essere costretti a scontare la pena in condizioni disumane, alle quali, tra l'altro, alcuni di loro non riescono a sopravvivere.

Che qualcuno degli scarcerati, benché inviato agli arresti domiciliari per finire di saldare il suo conto con la giustizia, possa evadere più facilmente, è nel conto. Così come che possa tornare a delinquere, come è purtroppo accaduto altre volte. La vicenda della legge «svuota-carceri» proprio per questo andrebbe una volta tanto sottratta alla propaganda, anche a sproposito, che ha riguardato per motivi elettorali il problema della sicurezza, e spiegata, semmai, come il frutto di una riflessione più attenta alle conseguenze negative, che non a caso il Capo dello Stato aveva segnalato all'atto di promulgare la legge precedente, di un modo di legiferare frettoloso e propagandistico. Sarebbe davvero significativo che qualcuno, forse anche lo stesso Alfano, dicesse queste cose: anche perché non siamo di fronte all’indulto pasticciato su cui il governo Prodi si giocò parte della sua credibilità. E questa volta non sentiremo - si spera - il centrosinistra accusare il centrodestra di aver messo per strada i delinquenti, come accadde, a parti rovesciate, quattro anni fa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7341&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #137 inserito:: Maggio 14, 2010, 10:59:44 pm »

14/5/2010

Ora serve una mossa del premier
   
MARCELLO SORGI

La lista, o le liste, dei - come chiamarli? -, beneficiati da Anemone, il costruttore al centro dello scandalo dei grandi appalti, somiglia drammaticamente ad altri simili elenchi - quelli della P2 o dei famosi 500 esportatori di capitali, dei collaboratori dei servizi stranieri e di quelli italiani deviati - da cui è periodicamente scandita la vita pubblica in Italia. Con un obiettivo, stavolta, molto più chiaro dei precedenti: colpire l'unico nome - Silvio Berlusconi - che fino a questo momento non compare sul registro dell’imprenditore romano, che, insieme al gran dispensatore di appalti Angelo Balducci, aveva messo su la «cricca» e il sistema oggi sotto inchiesta.

Se nel giro di pochi mesi era riuscita a inguaiare un uomo chiave di Palazzo Chigi come il capo della Protezione civile Bertolaso, uno dei tre coordinatori del partito del presidente come Verdini, e due ministri come Scajola e Matteoli, che potrebbero non essere i soli, vuol dire che la stessa «cricca», o si sentiva intoccabile, o puntava più in alto. E da questo punto di vista la lista di Anemone sembra fatta apposta per dipingere un insieme di corruzione più vasto e articolato di ogni previsione.

Nella rete dei «criccaioli» infatti - al di là di responsabilità da provare e al di fuori, purtroppo, delle garanzie personali che spettano a ogni cittadino - non manca nessuno: c'è il politico e il professionista, il giudice e il prete, il giornalista e il regista, oltre ai funzionari delle diverse amministrazioni che facevano girare la macchina, uniti da annotazioni generiche, indirizzi di case da ristrutturare o comperare, lavori edilizi effettuati e chissà mai se pagati.

Ma non solo: quel che emerge - o più precisamente, quel che si vorrebbe far emergere - è qualcosa che sta sospeso tra l'immaginario e la realtà. L'idea, insomma, che la piccola e la grande corruzione, la mano che lava l'altra mano mentre la stringe, il sorriso complice, il circolo degli amici da favorire sempre, in omaggio a un giuramento paramafioso, siano ormai la regola generale del Paese - e soprattutto di quel mezzo Paese che ha Roma per capitale. In questo senso, il cerchio che si stringe attorno a Palazzo Chigi e poi s'allarga via via, fino a comprendere tutte le categorie più rappresentative di una certa immagine della romanità, diventa lo strumento più adatto a colpire il premier, destinato ad apparire come il capo supremo del governo della corruzione.

Che poi a una lettura più attenta delle carte si capisca benissimo come andavano veramente le cose, poco importa. Eppure è chiaro - oggi lo si può affermare con sufficiente convinzione - che se i metodi sono gli stessi di Tangentopoli, se le tangenti venivano chieste e pagate in contanti o in natura, e le percentuali erano perfino più esose, in questa storia tuttavia c'è una differenza che balza subito agli occhi. Salvo casi sporadici, a incassare, invece dei partiti e di molti dei loro esponenti come ai vecchi tempi, erano adesso dirigenti statali e altissimi funzionari che lucravano solo nel proprio interesse. Tra qualche anno magari si scoprirà che la caduta della Prima Repubblica era avvenuta solo per quel che riguardava la classe politica, mentre un gran pezzo di pubblica amministrazione - beninteso la parte corrotta della burocrazia - aveva potuto continuare tranquillamente a corrompere e a rubare senza alcuna soluzione di continuità. Gli stessi nomi di grand commis di scandali datati Anni Ottanta-Novanta, non a caso ricompaiono in questi giorni.

Ma in un caso o nell'altro, quale che sia la versione che passerà, il danno per Berlusconi è già fatto. E' uno strano destino che l'uomo del Nord, l'imprenditore brianzolo che più di tutti e meglio di tutti ha rappresentato la cosiddetta (e incompiuta) rivoluzione italiana, sia avviato mestamente - a meno di colpi di coda - a una sorta di trasfigurazione: da personaggio simbolo della Seconda Repubblica, da capo del «governo del fare», a incarnazione vivente della nuova «Roma ladrona», che rischia di seppellire nuovamente, con se stessa, un ventennio quasi di aspirazioni e speranze di cambiamento tradite, e di aprire la strada a un rigurgito di estremismo nordista.

Questo spiega perché il Cavaliere, forse per la prima volta, non se la stia prendendo con la magistratura. E perché, in privato, sfogandosi con i suoi collaboratori, prometta di voler fare rapidamente piazza pulita. Quel che invece non si comprende è cosa aspetti, perché indugi, perché ormai da settimane sembri come paralizzato, mentre intorno a lui alleati e avversari, amici ed ex amici, e naturalmente uomini del suo governo e del suo partito, mettono in scena la danza della morte. Berlusconi, almeno questo, dovrebbe averlo capito: se non muove qualcosa, se non fa cadere qualche testa, ogni giorno che passa per lui sarà peggio.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7351&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #138 inserito:: Maggio 22, 2010, 05:44:04 pm »

20/5/2010 - TACCUINO

Il Cavaliere cavalca anche la crisi
   
MARCELLO SORGI

A giudicare dalle prime anticipazioni diffuse ieri, il nuovo libro di Bruno Vespa in uscita a giorni ci consegnerà un'immagine di Berlusconi diversa da quella a cui siamo abituati. L'autore ha parlato a lungo con il Cavaliere e ne ha ricavato la sensazione di un aggiustamento di strategia e di un atteggiamento più realista e meno orientato a promesse che, allo stato dei fatti, sarebbero difficili da mantenere, a cominciare da quella del taglio delle tasse che il premier rinvia definitivamente al superamento della crisi economica.

Ecco, è proprio la battaglia contro la difficilissima congiuntura europea la frontiera su cui Berlusconi intende giocare i tre anni che restano della legislatura, non nascondendo nulla della gravità della situazione, ma accompagnando tutto con un fondo di ottimismo, basato sul fatto che finora, grazie a quel che il governo ha fatto, l'Italia s'è trovata meglio dei suoi partners più ammalati, e sono stati smentiti gli uccelli del malaugurio che volevano presto il nostro Paese nelle stesse condizioni di Grecia, Spagna e Portogallo.

Berlusconi sa che l'enorme debito pubblico che appesantisce i conti italiani, valutato in un miliardo di euro di titoli pubblici che mediamente ogni giorno devono essere piazzati sui mercati internazionali, non consente affatto di dormire sonni tranquilli. Ma è convinto che la credibilità della politica economica del governo, come è stato finora, riuscirà ad arginare i tentativi di trasformare l'Italia in un nuovo obiettivo della speculazione.

Anche se occorrerà leggere tutto il filo del ragionamento, da questa nuova strategia si possono fin d'ora ricavare alcune deduzioni. Berlusconi punta ancora sul suo governo e considera la crisi economica come un'occasione per rafforzarlo. Poi, com'è accaduto ieri sul federalismo, prevede che le opposizioni in Parlamento si divideranno di nuovo tra «no» e «ni», e non è detto che uno scontro frontale sulla manovra che Tremonti sta preparando si riveli un toccasana per la sinistra. L'opinione pubblica è autenticamente preoccupata di un peggioramento della situazione e chiede che si trovi una strada per venirne fuori, non che la strada scelta dal governo venga ostruita. In questo quadro il rafforzamento della maggioranza e la sostituzione del ministro o dei membri del governo toccati dalle inchieste giudiziarie potrebbero rivelarsi meno difficili. In altre parole, se Casini davvero non vuole finire a rimorchio della sinistra di piazza, e se Bossi vuole arrivare fino in fondo al percorso del federalismo, il premier pensa che dovranno venire a più miti consigli.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7377&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #139 inserito:: Maggio 22, 2010, 05:48:10 pm »

19/5/2010 - TACCUINO

L'impossibile Cavaliere rossonero
   
MARCELLO SORGI

Anche se accompagnato dalle solite smentite, o mezze smentite, lo sfogo, intercettato dal settimanale «A», di Berlusconi che vorrebbe vendere il Milan ma sa di non poterlo fare, è forse il documento più autentico dello stato d'animo del premier in questa primavera di paralisi politica e tensioni post-elettorali. Nella sua carriera di uomo del fare e imprenditore vincente, prima ancora che di leader politico, il Milan infatti occupa un posto importantissimo, secondo solo alla tv e alla rivoluzione culturale promossa nei primi anni di Canale 5: quelli, per intendersi, di «Drive In» e «Happy Days».

Nel 1986, quando acquistò la squadra e ne divenne presidente, il Cavaliere era già il tycoon dell’impero televisivo concorrente della Rai, che poteva contare su tre reti, ma non ancora su una legge che consentisse alle tv private di trasmettere legalmente, per la quale fu necessario aspettare fino al 1990 (la famosa Mammì, approvata alla fine di uno degli ultimi scontri dilanianti, poco prima della fine della Prima Repubblica).

Per l'uomo cui nessuno in quel momento avrebbe attribuito ambizioni politiche, e che invece rappresentava già l'altra Italia che di lì a poco si sarebbe manifestata nelle urne, il Milan fu insieme il modo di darsi un riconoscimento (tutti i grandi imprenditori erano proprietari delle più importanti squadre di serie A) e lanciare una sfida (lui avrebbe dimostrato che era capace di vincere più di tutti). E al momento opportuno anche il Milan si sarebbe trasformato in un formidabile strumento di comunicazione con l'elettorato.

Ora che Berlusconi, da tempo, non ha più la possibilità di occuparsi in prima persona della squadra, la parabola del Milan ripercorre a modo suo la vicenda del governo. Il Cavaliere contestato allo stadio perché ha licenziato l'allenatore Leonardo, e amareggiato perché non riesce a sostituirlo con Van Basten, ricorda ancora come due anni fa la vendita di Kakà gli fosse costata tre punti alle europee. Per questo sa di non potersi disfare della sua squadra, e quasi quasi tornerebbe volentieri a dettare le formazioni e a fare il tifo dagli spalti. Ma non può.

Analogamente, Berlusconi è convinto di sapere quel che servirebbe all'Italia per riprendersi, sarebbe pronto a farlo subito alla sua maniera, senza stare da mane a sera a discutere con i suoi avvocati, ad annoiarsi con la fila querula degli esponenti del suo partito litigioso, a combattere con Fini o ad ascoltare le lamentele di Bossi sui ritardi del federalismo. Ma non può.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7371&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #140 inserito:: Maggio 22, 2010, 06:13:35 pm »

18/5/2010 - TACCUINO

Perché Bossi non vuole lasciare Kabul


MARCELLO SORGI

Della breve e inconcludente polemica di ieri all'interno della maggioranza sull'intervento in Afghanistan, resterà agli atti la cautela e la tempestività con cui Bossi ha voluto chiudere subito il nuovo fronte aperto dall'ambigua presa di posizione di Calderoli, che nuovamente (lo aveva già fatto in altre occasioni simili, ma con l'avallo del Senatur) aveva messo in dubbio l'opportunità dell'Italia di mantenere i propri impegni nelle missioni internazionali.

Bossi non solo ha preso chiaramente posizione per ricordare che il governo non può decidere unilateralmente di ritirarsi, ma ha chiaramente spinto il suo ministro a fare lo stesso, in modo che nel giro di un pomeriggio il problema è rientrato, prima di provocare nuovi attriti con gli alleati. Adesso sono in molti a pensare che la svolta del leader del Carroccio in politica estera abbia in realtà una spiegazione più domestica. Bossi in questi giorni è infatti impegnato a dimostrare che la Lega, e solo la Lega, è un alleato affidabile per Berlusconi e per il Pdl, e l'allargamento della maggioranza all'Udc vagheggiato dal premier in realtà non sia affatto necessario.

Da sempre, il Senatur ha un cattivo feeling con Casini. Tra i suoi, proprio in questi giorni, ricordavano che fin dai tempi del precedente governo lo definiva «il carugnitt de l'uraturi», un soprannome difficile da tradurre, ma che trasuda tutta la diffidenza nei confronti del leader dell'Udc. Pur essendo convinto che l'operazione di recupero dei centristi nel recinto del governo ha più probabilità di non riuscire, che non di essere realizzata, il Senatur in qualche modo la teme. E pur avendo un pessimo concetto del furbo Pier, gli riconosce notevole professionalità politica e capacità anche di rimediare agli inevitabili errori del Cavaliere nella trattativa. Se Berlusconi decide di andare avanti nel costruirsi, per dirla con Andreotti, un secondo forno nella maggioranza, ed aumentare i suoi margini di manovra, per ora ristretti nella tenaglia Bossi-Fini, lo farà con la consapevolezza che ogni passo verso l'Udc dovrà essere accompagnato da una proposta altrettanto allettante per la Lega, che per intanto mantiene una posizione di veto. E cosa succederebbe, appunto, se Bossi, che ha dovuto mollare il ministero dell'Agricoltura in cambio della guida delle regioni Veneto e Piemonte, si ritrovasse con una di quelle offerte che non si possono rifiutare di Berlusconi, con un serio rafforzamento della delegazione leghista al governo in cambio di un patto di fine legislatura insieme con Casini?

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7365&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #141 inserito:: Maggio 24, 2010, 03:48:03 pm »

24/5/2010

Ritorno alla guerra
   
MARCELLO SORGI

Per capire - a parte l’intreccio di parole - le manovre attorno alla manovra del governo, non bastano né la gelosia tra Berlusconi e Tremonti, il ministro più esposto davanti all’Europa alle prese con la crisi dell’euro, né la sorda contrapposizione tra un fronte cosiddetto rigorista e uno considerato accomodatore.

L’una e l’altra esistono da sempre all’interno del centrodestra, con confini incerti e continuamente cangianti.

Purtroppo la questione è più seria. Nel giro di poche settimane, sull’onda dell’affondamento della Grecia e del naufragio annunciato di Spagna e Portogallo, l’Italia s’è trovata candidata a entrare a sorpresa nella lista dei reprobi dell’Unione. Diversamente dalla volta scorsa, quando la crisi finanziaria colpì in pieno le banche dell’America, e in Europa quelle di Paesi considerati solidissimi come Germania e Inghilterra, o Austria e Belgio, ma non dell’Italia, stavolta il nostro è tra quelli che destano più preoccupazioni, a motivo della crescita insopportabile del debito pubblico, ormai sui mille e ottocento miliardi, i cui interessi ci costringono a collocare sui mercati internazionali almeno un miliardo di euro al giorno di titoli di Stato. Che succederebbe se da un giorno all’altro, come appunto è accaduto in Grecia e rischia di accadere in Spagna, i nostri titoli non venissero più considerati degni di fede?

Di qui la necessità, alla quale Tremonti s’è applicato impegnandosi davanti ai partners europei, di aggredire il debito italiano più drasticamente di quanto era stato fatto. Molto di più, dal momento che, è inutile nasconderlo, finora era stato fatto poco. E poiché il debito è generato dall’eccessiva spesa pubblica, causata a sua volta dal costo della macchina statale, cioè dei pubblici dipendenti, e di un sistema assistenziale, si tratti di sanità o pensioni, troppo costoso per come è ridotta l’Italia, sono questi i capitoli di bilancio da aggredire.

Che si discuta, prima di decidere come aggredirli, è normale. Specie se l’ordine dei valori supera di gran lunga quello di un normale aggiustamento primaverile dei conti, si avvia, con i 28 miliardi della manovra, a somigliare a una seconda finanziaria, e si presenta come il primo, ahinoi!, di una serie di passi simili o più gravosi che dovremo fare ogni anno, per un bel po’ di anni, per cercare di riportare i conti italiani nei confini dei rigidi parametri del sistema dell’euro. Così come non c'è niente di strano che Tremonti si trovi a fronteggiare le resistenze dei suoi colleghi di governo, e Berlusconi intervenga per mediare tra i suoi ministri.

Quel che invece non era prevedibile, e invece è accaduto (anche se non s’è materialmente realizzato), è che un frangente così delicato, che riguarda la possibilità stessa dell’Italia di restare agganciata all’Europa, si trasformasse in un’occasione per tentare di mandare a gambe per aria Berlusconi. La coincidenza non poteva apparire più strana: il leader del centrodestra era appena uscito vincitore dalla tornata nazionale delle elezioni regionali, in cui molti prima del voto lo davano per sconfitto. La crisi greca è esplosa a cavallo dei risultati, e subito s’è cominciato a sentir parlare della necessità di un governo di emergenza, che archiviando finalmente la confusa esperienza berlusconiana, si preparasse ad affrontare la tempesta.

Basta solo rileggere i giornali di queste settimane. Per primo ne ha parlato Casini, offrendo la disponibilità del suo partito, fin qui contrario a tornare alleato del Cavaliere, a farsi carico delle criticità del momento. Poi qualcosa s’è mosso anche dentro il Pd, con il leader della minoranza interna Franceschini che ha prefigurato un appoggio del suo partito a un nuovo governo, non guidato da Berlusconi, ma in grado di evitare la frana. Appoggio, va riconosciuto, subito negato dal segretario Bersani.

Nei disegni di chi manovrava per questo governo, candidato a guidarlo ovviamente era Tremonti. Mentre il ministro dell’Economia si dava da fare a Bruxelles per puntellare la credibilità italiana, si sono fatte molto speculazioni sul suo nome. C’è stato perfino chi ha tentato di far arrivare al Quirinale la voce che Tremonti era pronto a farsi avanti, e aspettava solo la chiamata. Naturalmente, com’è apparso subito chiaro a tutti, un piano del genere era appeso per aria.

Tremonti per primo si sarebbe sottratto a uno sbocco siffatto, che non avrebbe avuto del resto né l'appoggio di Berlusconi, né quello della Lega. Nel giro degli ultimi due giorni, anche le opposizioni hanno dovuto fare i conti con la realtà. Casini restando ancorato a un atteggiamento di responsabilità verso la manovra, che se non servirà a migliorare i rapporti con il centrodestra, almeno lo distinguerà dalla solita strategia piazzaiola a cui si prepara il centrosinistra. Bersani riunificando il Pd sull’attacco al governo, spinto fino agli insulti personali contro la Gelmini.

L’incontro di stasera a Palazzo Chigi con le parti sociali, per presentare le linee generali della manovra, di conseguenza si annuncia freddo com’erano ai vecchi tempi le convocazioni degli ambasciatori per scambiarsi le dichiarazioni di guerra. Se Berlusconi, assumendo la titolarità della manovra, sperava in una particolare attenzione, data la gravità del momento, anche dei suoi avversari, dovrà proprio ricredersi. Pd e Cgil, che contro Tremonti forse non avrebbero sparato a palle incatenate, si preparano a fare una guerra, a cui paradossalmente la discesa in campo in prima persona del Cavaliere ha offerto un bersaglio rassicurante, oltre che mobilitante. Così l’Italia sotto gli occhi dell’Europa rischia di perdere un’altra occasione per fare sul serio.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7391&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #142 inserito:: Maggio 25, 2010, 09:35:10 am »

25/5/2010 - TACCUINO

Quando le leggi nascono contro qualcuno raramente funzionano

MARCELLO SORGI

Dal contestatissimo testo di legge sulle intercettazioni (ma forse sarebbe meglio definirlo anti-intercettazione o anti-pubblicazione) emergono una serie di punti controversi, che sono stati messi in risalto ieri nelle lunghe assemblee organizzate a Roma e a Milano dalla Federazione Nazionale della Stampa, e rispetto ai quali ieri da parte del centrodestra al Senato è venuta una piccola apertura a rimetterli in discussione. La riduzione delle pene per i giornalisti diventa inutile, se accompagnata da multe fino a quasi mezzo milione di euro per gli editori di giornali che pubblicano i verbali. Lo spostamento della responsabilità di stabilire cosa va pubblicato e cosa no dal direttore all’editore cambia completamente la governance nelle redazioni, in pratica i giornalisti non sapranno più a chi riferirsi e gli editori dovranno fare un lavoro che non gli compete, e per cui forse molti di loro, che fanno valentemente altri mestieri, non sono preparati.

Sono solo alcuni esempi. Ma al dunque, non è questo o quel punto della legge che va cambiato, ma il modo stesso di concepirla. Come purtroppo molte altre e recenti leggi, questo è un testo concepito contro qualcuno, vedi i magistrati politicizzati che sono l’incubo di Berlusconi, o i giornalisti rei ai suoi occhi di non voler riconoscere i successi del governo e pronti a far di tutto per immiserirne l’immagine. Prima ancora di stabilire se effettivamente sia così, e se l’impressione personale del Cavaliere possa essere motivata in qualche caso, va detto che le leggi che nascono contro raramente funzionano.

Sarebbe bastato, prima di mettere giù il testo, convocare qualche audizione in Parlamento delle categorie interessate, dicendo francamente che negli ultimi tempi i casi di abuso delle intercettazioni si sono fatti più frequenti e, quando sono stati seguiti da pubblicazione, gli effetti negativi di questi errori sono risultati amplificati. Anche se il sentimento corporativo è molto forte in tutte le categorie, è possibile che sia all’interno della magistratura, sia tra i giornalisti, qualche consiglio utile per i parlamentari che devono fare la legge alla fine sarebbe venuto.

A cominciare dal fatto che, insieme ad alcuni atti riservati, la maggior parte dei verbali che si stampano o si mettono in onda sono pubblici, e prima di venire nelle mani dei giornalisti, finiscono in quelle degli avvocati e dei loro assistiti: i quali, in una moderna epoca di comunicazione come la nostra, sono liberi di passarli ai giornali e di sperare che la pubblicazione contribuisca ad alleggerire il quadro delle accuse o a creare attorno al processo un clima più favorevole. Spesso non c’è, in questo, alcun reato.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7399&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #143 inserito:: Maggio 26, 2010, 03:35:55 pm »

26/5/2010 - TACCUINO

L'azzardata scommessa di Berlusconi
   
MARCELLO SORGI

I fischi dei dipendenti di Palazzo Chigi contro Tremonti e Brunetta, il «no» di Regioni e Comuni, il gelo della barricata della Cgil, annunciata in diretta al Tg3 da Epifani, che non ha escluso lo sciopero generale. Man mano che il governo svela le sue carte, Silvio Berlusconi prende atto che questo della manovra economica è sicuramente il passaggio più difficile che gli è toccato affrontare nella sua lunga carriera di governo. Più difficile, va detto, per le conseguenze dei rapporti con gli elettori e per la dura resa alla realtà della crisi, che ha cancellato tutt’insieme i messaggi rassicuranti diffusi fin qui dal premier.

In apertura del Consiglio dei ministri, Giulio Tremonti è stato chiarissimo con i suoi colleghi: in tutta Europa sia i governi dei Paesi più in difficoltà come Grecia, Spagna e Portogallo, sia di quelli più preoccupati per quel che potrebbe accadere come Germania e Inghilterra, stanno mettendo a punto strategie di rigore, augurandosi che la stretta comune possa bastare e le mire degli speculatori si spostino dalla zona dell’euro. Sottovoce, poi, gli alleati europei si scambiano i timori più inconfessabili, come quello che dopo un’intera estate di turbolenze il sistema della moneta unica possa di nuovo trovarsi di qui a poco sotto attacco e in bilico. Questo spiega anche la strategia di Berlusconi rispetto all’annuncio dei sacrifici e del permanere di un «rischio Grecia»: la prima battuta affidata a Gianni Letta lunedì sera è servita a ricentrare su Palazzo Chigi la titolarità della manovra, di cui tutti chiedono al premier di assumersi la responsabilità in prima persona, accettando l’implicita smentita di se stesso e del suo precedente atteggiamento ottimista che i fatti gli impongono. La decisione di aspettare ancora a «metterci la faccia» è legata alla necessità di valutare bene il complesso delle reazioni prima di parlare.

Il Cavaliere è convinto che superata la prima fase difficile dell’accoglienza della manovra, l’opinione pubblica chieda soprattutto che la crisi venga affrontata e governata. Ed è a questo punto - ritiene - che un messaggio chiaro, che inquadri quel che sta accadendo nel contesto europeo e rivaluti gli aspetti positivi della nostra realtà, che hanno consentito fin all'Italia qui di reggere meglio di altri membri dell’Unione di fronte alla congiuntura, potrebbe servire a riconsolidare il rapporto tra il centrodestra e la sua gente. Berlusconi, in altre parole, anche in un momento così complicato, punta ancora su di sé. È una scommessa molto azzardata.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7404&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #144 inserito:: Maggio 27, 2010, 04:37:06 pm »

27/5/2010 - TACCUINO

La sinistra sulle barricate resta lontana dal Colle
   
MARCELLO SORGI

Le reazioni del centrosinistra e della Cgil alla manovra del governo, indurite ieri in coincidenza della conferenza stampa di Berlusconi e Tremonti, hanno reso più evidente, oltre al fossato che divide maggioranza e opposizione, la distanza che rimane tra Pd e Idv e tra la maggiore organizzazione sindacale, da una parte, e il Presidente della Repubblica dall’altra. Mentre infatti il Capo dello Stato - a conclusione del suo viaggio in Usa e dell’incontro con Nancy Pelosi, la speaker della Camera dei rappresentanti, che ha seguito quello con il presidente Obama alla Casa Bianca -, ribadiva la necessità di una svolta rigorosa nella politica economica italiana e di un deciso taglio della spesa pubblica, per far fronte all’emergenza della crisi, ma anche per cogliere le opportunità di una ripresa che comincia a manifestarsi, in Italia il «no» alla manovra dell’opposizione e della Cgil diventava definitivo.

Non c’è infatti alcun margine di trattativa per il Pd e per l’Idv (diverso, come si sa, l’atteggiamento dell’Udc di Casini, deciso a interloquire con il governo), che in Parlamento si opporranno in modo frontale all’approvazione di una manovra giudicata iniqua e rivolta contro le categorie più deboli, tra cui gli statali che avranno gli stipendi bloccati. E ci sono, per Epifani, le condizioni per proclamare al più presto uno sciopero generale. Ovviamente, nessuno si aspettava da parte loro applausi per la manovra. Ma la coincidenza con l'appello alla ragionevolezza, ribadito due volte in pochi giorni da Napolitano, ha fatto sì che quello delle opposizione e del maggiore sindacato suoni come un doppio rifiuto, al Quirinale e al governo.

La ragione per cui il Presidente della Repubblica ha scelto invece il palcoscenico della sua missione Usa per sostenere la linea dei sacrifici è chiara: Napolitano è stato invitato da Obama non solo come Capo dello Stato, ma anche come uno tra i più convinti leader europeisti, che ritengono che questa fase di crisi possa essere utilizzata per rilanciare l’Unione europea e spingerla a superare le resistenze interne che hanno frenato fin qui l'evoluzione dei suoi rapporti interni e il rafforzamento dei legami politici e comunitari, dopo la battuta d’arresto subita con il fallimento della Costituzione europea.

Sono problemi molto seri, che la reazione del centrosinistra in questo momento non prende in considerazione. In questo senso quello sindacale e dell'opposizione è un «no» tutto italiano, che oltre a ignorare l'appello di Napolitano, si rifiuta di guardare al di là della stretta cornice dei confini italiani.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7410&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #145 inserito:: Maggio 29, 2010, 12:41:52 pm »

29/5/2010

Non si può tornare indietro
   
MARCELLO SORGI

Dal giorno del varo della manovra in qua, il clima attorno alla svolta del governo non accenna a distendersi. Non sono solo la dura opposizione decisa dal centrosinistra e lo sciopero generale annunciato dalla Cgil a tenere alta la temperatura. La settimana s’è chiusa, ieri, con un nuovo rimbrotto del premier nei confronti della Confindustria, dopo l’accoglienza fredda che gli era stata riservata giovedì all’assemblea degli imprenditori e che inutilmente aveva provato a sciogliere. La sensazione è che dopo una buona partenza, almeno sotto il profilo del metodo, Berlusconi non si renda conto che rischia di incartarsi. D’improvviso s’è sgonfiata la determinazione con cui - nel giro di pochi giorni e dopo una serrata trattativa con il ministro dell’Economia Tremonti, che tiene costantemente il polso dell’Europa - il premier aveva portato il suo governo e la sua maggioranza a varare la manovra, accolta positivamente a Bruxelles.

In luogo di andare avanti con la durezza necessaria e la consapevolezza che questo è forse il passaggio più difficile per il Paese negli ultimi vent’anni, almeno da quando nel ’92, con Giuliano Amato a Palazzo Chigi, l’Italia rischiò di uscire una volta e per sempre dal rigido recinto di Maastricht, il Cavaliere ha inaugurato a sorpresa una sua personale strategia di comunicazione. Se martedì era stato fermo nel pretendere dai suoi ministri un sì a scatola chiusa sull’insieme che lui e Tremonti avevano definito, alla fine di una contrattazione non priva, per sua stessa ammissione, di divergenze, «ma senza mai alzare la voce», mercoledì sembrava quasi pentito, alla conferenza stampa in cui doveva spiegare il senso delle decisioni prese al grande pubblico dei telespettatori e dei cittadini. Siccome in fatto di comunicazione Berlusconi non fa mai niente a caso, la linea che aveva messo a punto per presentarsi, come tutti i leader europei alle prese con gli stessi problemi, da Merkel a Sarkozy, da Cameron a Zapatero, era l’esatto contrario di quel che ci si poteva aspettare.

Invece di sostenere, con orgoglio, il coraggio del governo di prendere le misure necessarie per far fronte all’emergenza, il premier s’è presentato come se fosse stato costretto a farlo e soprattutto come se quel che aveva fatto non lo convincesse fino in fondo. Come se appunto l’Italia - la sua Italia - non avesse bisogno della cura pesante ch’era stata prescritta, e fosse costretta a ingoiare l’olio di ricino del rigore per colpa di un’Europa dissestata e di un ministro dell’Economia che deve risponderle senza indugi. Con la mimica ineguagliabile che lo contraddistingue, Berlusconi ha fatto intendere alla sua gente: che volete, ci tocca fare così per un po’, fosse dipeso da loro ci volevano pure far aumentare le tasse, ma alla fine noi abbiamo tenuto, li abbiamo frenati, e tra poco torneremo a fare alla nostra maniera, fregandocene di Maastricht e di Bruxelles. Un messaggio come questo, che, va detto, è arrivato chiarissimo a tutti, era l’esatto contrario di quello che ci si aspettava da un presidente del Consiglio che solo ventiquattr’ore prima aveva messo tutto il peso della sua leadership per far passare la manovra.

Il resto ne è la diretta conseguenza. L’accoglienza in Confindustria, impensabile per un leader che è sempre stato guardato dalla maggior parte degli imprenditori italiani come un modello, e che a Vicenza, benché claudicante e dolorante, fu sollevato da un’ovazione che quasi ribaltò il risultato delle elezioni, era purtroppo logica. Ma come poteva pensare Berlusconi di incassare l’applauso dei suoi colleghi, se lui per primo sembrava poco convinto di quello che aveva deciso? E come poteva sperare di fugare i loro dubbi proponendogli di portare la loro presidente al governo, in un governo il cui capo non si mostra sicuro di quel che sta facendo? Anche il rimbrotto con cui ieri li ha invitati a leggersi il testo della manovra, poteva risparmiarselo, per la semplice ragione che a tre giorni dal varo della manovra un testo definitivo non c’è. L’imbarazzo con cui s’è concluso l’incontro al Quirinale di ieri pomeriggio, che per un’ora aveva tenuto con il fiato sospeso gli osservatori, sta tutto qui.

A parte la lista dei nuovi Cavalieri del lavoro da presentare tra pochi giorni - argomento su cui il presidente del Consiglio, che alla categoria appartiene da tempo, è assai ferrato -, e a parte il resoconto sul viaggio del Capo dello Stato in Usa e sul suo colloquio alla Casa Bianca con Obama, di cui Napolitano gli aveva già riferito al telefono da Washington, i due non avevano che dirsi. Il Presidente della Repubblica aveva già sollecitato pubblicamente nei giorni scorsi l’invio del testo della manovra, per poterlo esaminare e giudicare.
Ma a causa delle numerose modifiche a cui è ancora sottoposto (vedi ad esempio il nodo delle Province da cancellare), a tre giorni dal Consiglio dei ministri, il Quirinale non lo ha ancora ricevuto. Anche se i sondaggi lo spingono a disconoscere le decisioni che lui stesso ha preso, Berlusconi farebbe bene ad abbandonare la tattica di far finta di aver subito una manovra che sarebbe stata anche più dura, se non si fosse impuntato. E’ molto meglio che adoperi il suo carisma per dire alla gente la verità, sui tempi duri che ci aspettano e sulla possibilità che questa sia solo la prima volta che ci tocca stringere la cinghia. Insomma la manovra, se vuol farla passare nel Paese, oltre che in Parlamento, il premier deve difenderla fino in fondo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7417&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #146 inserito:: Giugno 01, 2010, 11:44:37 am »

1/6/2010 - TACCUINO

Dalla tregua alla resa dei conti
   
MARCELLO SORGI

Il ministro Alfano aveva appena annunciato, la scorsa settimana, il faticoso raggiungimento di un accordo all’interno della maggioranza sul contestato ddl sulle intercettazioni. Ma evidentemente era stato troppo ottimista. La decisione del presidente della Camera Fini di scendere in campo ieri contro il testo che il Senato sta per licenziare ha aperto uno scontro che, prima che politico, è istituzionale, e vede non solo la seconda carica dello Stato schierata contro la terza, ma anche il vicecapogruppo del Pdl, partito di cui Fini è cofondatore, che ne invoca esplicitamente le dimissioni.

Fini si è effettivamente lasciato prendere la mano, criticando il lavoro dell’altro ramo del Parlamento e accusando i senatori di rischiare di licenziare una legge irragionevole. Tra l’altro al Senato le intercettazioni sono ancora oggetto di una dura battaglia parlamentare, che potrebbe sfociare nell’ostruzionismo dell’opposizione, da cui intanto sono state presentate circa tre centinaia di emendamenti. Il Pdl accusa il presidente della Camera di essersi piegato alle pressioni della magistratura (uno dei punti di dissenso riguarda il limite di 75 giorni come tempo massimo per l’ascolto dei telefoni degli indagati). Ed è evidente che già nelle interminabili votazioni che si svolgeranno a Palazzo Madama la possibilità di una saldatura tra l’opposizione esterna e quella interna alla maggioranza si fa concreta.

Alla Camera, poi, senza un accordo preventivo tra finiani e centrodestra, il ddl non potrà che arenarsi. Il tentativo di ottenere una serie di modifiche che suonino da smentita all’articolato che verrà dal Senato è dichiarato. Si andrebbe in quel caso a una terza, e probabilmente a una quarta lettura del testo, con un allungamento dei tempi che porterebbe a far coincidere le intercettazioni con l’esame della manovra, e a un conseguente, probabile, accantonamento delle prime rispetto alla seconda, per evitare di mettere troppa carne al fuoco e tenere Governo e Parlamento in uno stato di continua tensione.

La reazione di Schifani a Fini è stata molto risentita. La secca richiesta del vicecapogruppo dei senatori Pdl Quagliariello al cofondatore, di scegliere tra il suo ruolo istituzionale e quello di capo corrente, lascia capire quale sia lo stato dei rapporti tra la maggioranza e la minoranza del partito, dall’interno del quale nessuna dichiarazione di solidarietà degli ex-An s’è levata in difesa dell’ex-leader. Anche se tutti fino a qualche giorno fa, parlavano di tregua, da ieri invece la resa dei conti sembra più vicina.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7428&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #147 inserito:: Giugno 08, 2010, 11:40:54 pm »

8/6/2010 - TACCUINO

Casini-Di Pietro

Scontro a due per sopravvivere
   
MARCELLO SORGI

La polemica tra Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, al di là dei toni e degli insulti che si sono scambiati, è una spia delle conseguenze che il duro confronto sulla manovra economica tra governo e Pd sta avendo sull’intera opposizione. Finora, infatti, Di Pietro aveva preferito attaccare Bersani e contendere alla sinistra radicale l'elettorato più antiberlusconiano. E Casini, chiusa la parentesi delle doppie alleanze a sinistra e a destra per le regionali, e verificato che i suoi elettori non lo seguono quando sceglie il centrosinistra, aveva inaugurato una fase di ridefinizione strategica e di riavvicinamento, sia pur critico, al governo.

Dopo le due uscite televisive del ministro dell’Economia (la prima, a Ballarò, con il fuori programma della telefonata di Berlusconi), e soprattutto dopo la seconda, il faccia a faccia Tremonti-Bersani officiato da Santoro ad Anno zero, è emerso che in questo momento la partita, non solo quella della manovra, si gioca soprattutto tra Pdl e Pd, e tra governo e Confindustria, da una parte, e Cgil dall’altra.

Di qui l' inquietudine del leader Udc, che vede oscurata la sua disponibilità ad appoggiare, tutte o in parte, le misure anticrisi.
E il nervosismo di Di Pietro, che a parte i guai personali emersi negli ultimi giorni dall’inchiesta sui Grandi Appalti, ha tutto da temere da un’intesa anche parziale sulla legge intercettazioni, possibile anche in questo caso grazie a un confronto serrato tra Pdl e Pd in Parlamento e sotto lo sguardo attento del Capo dello Stato.

E' difficile dire quale potrà essere nei prossimi giorni l’esito di queste trattative (ieri anche sulla contestata norma che consente la proroga solo di quarantotto ore in quarantotto ore del termine delle intercettazioni è arrivata un’apertura). Soprattutto della vicenda della manovra economica, destinata ad occupare la scena almeno per tutta la seconda metà dell'anno, tra Italia ed Europa, come si vede da quel che sta succedendo a Londra e Berlino e dall’accelerata che il governo dovrà dare in materia di pensioni delle donne.

Ma già adesso è evidente che qualcosa sta cambiando: in mancanza di scadenze elettorali prossime, i due maggiori partiti, pur restando alternativi e non rinunciando a forti contrapposizioni, sono, come dire, costretti a far politica. Mentre i partiti minori, finora agevolati dalla campagna elettorale permanente e dallo scontro propagandistico a qualsiasi costo, si sentono stretti. E in qualche caso annaspano, com'è successo negli ultimi giorni a Casini e a Di Pietro.

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« Risposta #148 inserito:: Giugno 10, 2010, 12:27:41 am »

9/6/2010

Sconfitti e vincitori per finta
   
MARCELLO SORGI

Anche se alla Camera l'opposizione annuncia una battaglia che sfocerà probabilmente nell'ostruzionismo, l'accordo siglato ieri al vertice del Pdl ha due obiettivi chiarissimi, uno di sostanza e uno politico. Il primo è l'approvazione in tempi brevi, costi quel che costi, anche uno scontro parlamentare con l'ostruzionismo che una parte dell'opposizione ha già annunciato, della brutta legge sulle intercettazioni.
Un testo, va detto, rimasto praticamente quasi com'era, con i limiti alle indagini dei magistrati e la censura ai giornali, alle tv e ai loro editori sui contenuti dei verbali.

Com'era prevedibile, e largamente annunciato - malgrado la rottura del 22 aprile, quando Berlusconi e Fini si erano presi pubblicamente a pesci in faccia -, i due cofondatori hanno ritrovato l'intesa, al punto che il capo della minoranza interna, fin qui molto battagliera, del partito del presidente, s'è accontentato di qualche limatura, come quella che sposta da 48 a 72 ore il termine per la proroga delle intercettazioni dopo i 75 giorni previsti come tempo massimo. E di un gioco delle parti con il premier, degno di quel «teatrino della politica» che il Cavaliere dice ogni giorno di aborrire.

Al termine dei lavori, sbrigati nello spazio di una mattinata, Berlusconi infatti s'è astenuto, unico in tutto il sinedrio dei dirigenti del centrodestra, per testimoniare la sua insoddisfazione sul compromesso finale. E poco dopo, davanti all'assemblea degli albergatori italiani, ha ripetuto il solito ritornello del presidente del Consiglio che in Italia non ha alcun potere, dell'impossibilità di fare una legge come si deve, attraversando i mille passaggi previsti dalla Costituzione proprio per limitare il potere del premier, e di un Paese governato in realtà dalla magistratura di sinistra e dalla lobby dei giornalisti. Si fingeva, insomma, insoddisfatto, mentre in cuor suo gongolava per aver portato a casa la posta a cui aveva puntato fin dall'inizio.

Allo stesso modo, e quasi contemporaneamente, Fini recitava la parte del vincitore. In una dichiarazione seguita alla conclusione della riunione del Pdl, il presidente della Camera, fino a ieri l'avversario più risoluto del Cavaliere, gli dava atto della sua disponibilità alla resa, ricordandogli come, con gesto responsabile, pur non avendo rispettato fino in fondo le promesse fatte ai suoi elettori, fosse riuscito a mantenere l'impegno più importante: quello «in materia di lotta alla criminalità e di difesa della legalità».

La messa in scena tra i due leader tornati alleati rimane l'unica vera novità politica della giornata. Se sono arrivati al punto da concordare un copione così preciso, in cui il vincitore recita la parte dello sconfitto e viceversa, allora è vero che il lavoro diplomatico seguito alla crisi di un mese e mezzo fa ha dato i suoi frutti. Da oggi in poi Berlusconi sa che dovrà assicurare a Fini tutta la visibilità di cui ha bisogno, senza tante storie di lesa maestà. E Fini, al dunque, lo ripagherà riportando all'ordine le sue truppe più riottose. Il centrodestra, nel suo insieme, ha davanti altri tre anni di legislatura al potere, e non vuol certo giocarseli perché qualche anima bella della sinistra vagheggia governi tecnici o istituzionali, pur di far fuori Berlusconi. Il quale ieri, tra l'altro, a riprova della sua effettiva contentezza per il risultato della partita, è arrivato perfino a scherzare sull'eventualità che anche con le limitazioni introdotte i giudici possano ancora divertirsi a registrare le conversazioni con le fidanzate.

Purtroppo ormai, al di là del modo in cui ci si arriverà, visto il vento di tempesta che già spira a Montecitorio, la legge-bavaglio s'annuncia come realtà. I cambiamenti decisi ieri e già presentati come emendamenti al Senato, in modo che alla Camera giunga un testo definitivo, se del caso da approvare a colpi di fiducia, non sono in grado di rendere più accettabile una riforma gravida di serie conseguenze. Va ricordato: per la prima volta, malgrado la volontà ripetutamente dichiarata di lotta sempre più dura contro la criminalità, si riducono i mezzi posti a disposizione della magistratura e delle forze dell'ordine per praticarla. La limatura imposta ai limiti per le intercettazioni ambientali, così come a quelli per la ricusazione dei giudici, unita al risibile allungamento temporale di sole 24 ore per le registrazioni, non sono tali da mutare la sostanza di una legge sbagliata e malfatta. Che ci sia stato in passato qualche eccesso nel modo di intercettare è evidente. Ma è altrettanto sicuro che la malattia, se di questo veramente si trattava, non meritasse una tale cura da cavallo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7457&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #149 inserito:: Giugno 10, 2010, 05:24:38 pm »

10/6/2010 - TACCUINO

Le riforme vittime dei sondaggi

MARCELLO SORGI

Il problema, certamente, non è nuovo, anche se negli ultimi tempi sta assumendo dimensioni mai viste. In tempi in cui, esaurito l'appuntamento elettorale più importante della legislatura, la politica potrebbe cercare davvero di produrre risultati, cresce invece il condizionamento dei sondaggi. In particolare, gioca sul posizionamento dei partiti la rilevazione settimanale sul consenso ai leader, che li porta continuamente ad aggiustare le proprie tattiche quando non a smentirsi apertamente.

All'interno del centrodestra, tanto per fare un esempio, è opinione diffusa che il via libera al prosieguo dell'iter parlamentare delle intercettazioni, sia stato determinato, più che dai contenuti dell'accordo e dalle modifiche al testo, dalla possibilità, per Fini, di proclamarsi vincitore anche se la legge che dovrebbe essere approvata non è poi cambiata di molto. Allo stesso modo Berlusconi, prendendo subito dopo le distanze dal suo partito e dal compromesso raggiunto, ritiene di esser rimasto in sintonia con la parte più radicale del suo elettorato: quella, per intendersi, che vorrebbe dare una lezione definitiva alla magistratura.

Una volta era quasi solo un’idea fissa del Cavaliere. Gli altri, facevano (o dicevano di fare) la politica con la «P» maiuscola, lui continuava come sempre nella vita a guardarsi le tabelle delle rilevazioni ogni mattina, prima di inventarsi la sua uscita del giorno. Ora invece è diventata una mania che coinvolge tutti, ma proprio tutti, i principali attori dello spettacolo politico quotidiano, maggioranza e opposizione, governo, istituzioni e parti sociali. La lite tra i due Presidenti delle Camere della settimana scorsa, così come la manifestazione annunciata da Bersani contro la manovra economica, le due uscite televisive consecutive di Tremonti, seguite dall’annuncio, mai così franco, del premier al suo partito («Sapete che io e Giulio sui alcune cose non andiamo d’accordo»), il richiamo di Di Pietro al fascismo e alla Resistenza, hanno un'unica chiara motivazione: la maledetta tabella, o la serie di tabelle, che dagli istituti demoscopici ogni sette giorni arrivano sulle scrivanie dei membri di una classe dirigente che ormai vivono come le star tv in quei cinque minuti, prima delle dieci del mattino, che precedono l'arrivo dei dati Auditel e la classifica dei programmi più o meno visti. Questo serve a spiegare anche perché sia diventato impossibile che un'intesa, o una rottura, come ad esempio quella sulla «blindatura» delle intercettazioni, durino più di un giorno o due. Ma è chiaro che in un clima siffatto resta spazio solo per le emergenze, e non ha senso aspettarsi seriamente uno straccio di riforma.

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