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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287817 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Marzo 23, 2010, 09:12:30 am »

23/3/2010 - TACCUINO

Un sistema per compattare l'alleanza

MARCELLO SORGI

Silvio Berlusconi è alla ricerca di un progetto che possa risultare unificante per il centrodestra, all’indomani di un risultato elettorale come quello delle regionali che s’annuncia, anche nel migliore dei casi, non radioso. L’ideale sarebbe recuperare il pacchetto di riforme economiche liberali e liberiste, a cominciare dal taglio delle tasse, con cui il Cavaliere esordì sedici anni fa. Ma anche senza che il ministro Tremonti glielo ripeta, Berlusconi sa bene che al momento simili proposte sono incompatibili con la situazione economica ancora difficile e con i vincoli europei.

Di qui l’idea del ritorno alle riforme istituzionali, meno sexy, certamente, per un elettorato che dà già molti segni di stanchezza, e già provate nella precedente legislatura di governo del centrodestra con un risultato mediocre. All’interno del pacchetto della Grande Riforma, tuttavia, c’è un argomento, il presidenzialismo, che non a caso il premier ha rilanciato nei suoi ultimi comizi, e che può risultare mobilitante, se non per un elettorato affamato di contenuti più concreti, almeno per rimettere insieme una maggioranza che, sia all’interno del Pdl, sia nel rapporto con la Lega, mostra crepe evidenti a soli due anni dalle elezioni del 2008.

L’elezione diretta del Presidente della Repubblica è infatti da sempre la bandiera di Fini e degli ex An a lui più vicini. L’unità nazionale raccolta attorno ad un uomo, scelto dagli elettori e che la rappresenta carismaticamente, è per il Presidente della Camera l’unico prezzo possibile per l’accettazione di un’effettiva introduzione del federalismo, richiesta su cui Bossi (non a caso freddo al momento sul presidenzialismo) basa la continuazione dell’alleanza con il centrodestra. Una Lega più forte, tra l’altro, come quella che s’annuncia dopo le regionali, diventerà ovviamente più esigente: ed ecco per il Cavaliere la necessità di arrivare alla trattativa con un’impostazione che possa tenere insieme i suoi due principali alleati. Inoltre, e questo nella strategia del premier non guasta, mentre a destra il presidenzialismo, coniugato con il federalismo, può servire a rinsaldare la maggioranza, a sinistra, dove il Pd cerca di stringere una nuova alleanza con Casini, produrrebbe l’effetto opposto: da sempre l’Udc, parlamentarista, è contraria a un Capo dello Stato o a un premier eletto direttamente.

Fin qui, il discorso fila. C’è solo un problemino da risolvere: se si arriva davvero al presidenzialismo, chi sarà il candidato della prima volta per il centrodestra?

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« Risposta #106 inserito:: Marzo 24, 2010, 08:37:44 am »

24/3/2010 - TACCUINO

Ma quello dei vescovi non è un dietrofront
   
MARCELLO SORGI

Adesso tutti diranno che i vescovi hanno fatto marcia indietro e dopo aver adoperato l’aborto in aiuto al centrodestra si sono accorti, anche per le prevedibili reazioni all’interno del mondo cattolico, di dover aggiustare il tiro. In realtà, com’era forse troppo sbrigativo lunedì tradurre il documento della Conferenza episcopale come uno schieramento tout court a favore di Berlusconi, e in particolare della Polverini, e contro la Bonino, lo è allo stesso modo interpretare come un ripensamento la lettera di ieri dei vescovi liguri, firmata peraltro dallo stesso cardinale Bagnasco che presiede la Cei e aveva sottoscritto la relazione antiabortista.

Il discorso semmai andrebbe capovolto. E cioè: in una campagna elettorale in cui per la prima volta tra i candidati governatori ce ne sono due che fanno riferimento a posizioni abortiste e in favore dell’eutanasia, i vescovi hanno o no diritto di rivolgersi ai cattolici per richiamarli a scegliere attentamente per chi votare? E possono farlo senza che questo necessariamente significhi schierare la chiesa accanto al centrodestra e al centrosinistra?

Da quando non c’è più la Dc – e sono ormai sedici anni – di candidati cattolici, da tempo ce ne sono da ambedue le parti. L’Udc, il partito che più espressamente fa riferimento ai valori cattolici, è alleato secondo le situazioni con il Pd o il Pdl. Le due prese di posizione dei vescovi, sia quella antiabortista, sia quella che richiama anche altri valori quali il lavoro, la famiglia, la solidarietà anche con gli immigrati, possono dunque essere considerate rivolte, non solo ai cattolici - che comunque dovrebbero far sentire più forte la loro voce sui principi, specie in una campagna elettorale monopolizzata dal premier e fondata ormai solo su scambi di accuse reciproche –, ma anche a quei laici che, pur partendo da posizioni distanti e in qualche caso contrastanti con quelle di fede, vogliano comunque interessarsene, dialogando e se del caso assumendo impegni concreti.

Inoltre, prima di liquidare come infortuni politici le due uscite dei vescovi, occorre ricordare che poco più di un mese fa proprio la Cei intervenne con un documento ufficiale per comunicare tutto il proprio sconforto di fronte a una classe politica, nel suo insieme, ridotta com’è ridotta quella italiana, e per sottolineare la necessità dell’avvento di una nuova generazione di uomini pubblici, più dediti all’impegno civile al servizio della società e meno a farsi gli affari propri.

da lastampa.it
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 25, 2010, 10:57:05 am »

25/3/2010 - TACCUINO

Alla conquista del Nord la Lega ha messo la freccia

   
MARCELLO SORGI

Bossi ieri ha messo la freccia e ha annunciato che al Nord è possibile il sorpasso della Lega sul Pdl. L’annuncio va preso con le molle. Non perché non sia possibile, anzi: in Veneto il sorpasso è scontato, in Lombardia è probabile e in Piemonte, anche se lo è meno, sarà compensato da una forte crescita del Carroccio. Il punto è che il modo in cui il Senatur ha chiamato la sua gente alla riscossa va inquadrato in tutta la strategia con cui il leader leghista è andato alla (definitiva) conquista del Nord approfittando della crisi interna del Pdl.

Bossi è partito mesi fa con il chiedere la guida della Lombardia per «accontentarsi» dei due candidati governatori in Veneto e in Piemonte: non male, specie se si considera che partiva da zero e che nella prima regione è sicuro di vincere e nella seconda ha buone probabilità. La «rinuncia» (anche in questo caso le virgolette sono d’obbligo) alla Lombardia, s’è detto, dipendeva dal fatto che Bossi non voleva trovarsi con un governatore padano della Padania che avrebbe in qualche modo potuto offuscare la sua leadership. Vero o falso che sia, Bossi lo ha lasciato credere.

Anche il modo in cui ha presentato l’ipotesi della Lega primo partito al Nord, come qualcosa che non dovrebbe affatto turbare il Cavaliere perché non incrina le alleanze del centrodestra, si spiega. Bossi è il primo a sapere che non è così: per il Carroccio si tratterebbe di un traguardo storico che produrrebbe una deflagrazione immediata proprio a partire dalla Lombardia. Lì infatti il Pdl ha sì il controllo di Milano, della Provincia e della Regione, ma le diverse anime a cui fanno riferimento il sindaco e i due presidenti sono già in guerra tra loro: Formigoni, alla sua quarta designazione da governatore, è sostanzialmente il capo di un partito a sé, oggetto di contestazioni di cui il pasticcio della rischiata esclusione della lista è stato solo un preavviso. La Moratti è al centro di un assedio che punta a farla fuori prima delle elezioni comunali del prossimo anno e soprattutto prima che la preparazione dell’Expo 2015 entri nel vivo. Podestà, che guida la provincia, è il più vicino al Cavaliere, ma non ha grandi spazi di manovra.

Accanto al terremoto lombardo-veneto (perché anche all’ombra del Leone è matematico che il sorpasso non sarà accolto con grida di gioia), crescerebbe subito come uno tsunami la resa dei conti romana, con Fini deciso a non fare sconti né a Berlusconi né al suo amico Umberto. Sono queste ragioni che fanno sognare a Bossi il sorpasso, ma forse, sotto sotto, gli fanno anche sperare che non ci sia.

da lastampa.it
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« Risposta #108 inserito:: Marzo 27, 2010, 04:55:58 pm »

27/3/2010

E' stata la campagna peggiore
   
MARCELLO SORGI


L’abbuffata finale di interviste televisive - con Berlusconi in diretta quasi a reti unificate su tutti i tg pubblici e privati - ha chiuso degnamente una campagna elettorale che verrà ricordata come la peggiore della storia repubblicana.

Se non fosse per lo squilibrio evidente, tra il premier che ieri sera dilagava, malgrado le multe imposte dall’Agcom ai telegiornali troppo squilibrati in suo favore, e Santoro che giovedì per andare in onda chiedeva la carità a Sky, a Internet e ai canali satellitari, si potrebbe pensare che, senza dirselo, i due si fossero messi d’accordo, talmente grottesca era nelle due versioni la loro rappresentazione dell’Italia.

Un Paese avvelenato dall’odio diffuso a piene mani dalla sinistra comunista e dai conduttori di talk-show a essa vicini e pertanto esclusi dal video su sua richiesta, secondo il Cavaliere. E per Santoro, affiancato da Floris, Lerner e da una fila di comici stranamente seri, un Paese privato della sua libertà d’espressione e letteralmente ripiombato nel fascismo. Ora, è tutto da vedere che questo possa servire a mobilitare gli elettori, spingendoli verso i seggi e battendo il timore accresciuto dell’astensione. Il rischio è che produca l’effetto contrario.

Tra l’altro, all’indomani delle elezioni sarà impossibile capire chi ha vinto e chi ha perso. E non solo per il malvezzo nostrano di proclamarsi sempre vincitori a dispetto di qualsiasi risultato. In questo caso, da entrambe le parti, è stata predisposta un’accurata strategia per confondere le acque. Se si fosse votato un anno fa, prima degli ultimi mesi difficili che hanno offuscato l’immagine del presidente del Consiglio e del suo governo, il centrodestra avrebbe potuto mirare a ribaltare il quadro che lo vede al governo di sole due Regioni delle tredici in cui si vota domani. Ma adesso, non è un mistero, dopo il modo rissoso in cui si è arrivati alla presentazione delle liste e dopo la lunga coda giudiziaria che ne è seguita, il Pdl punta a un aggiustamento più o meno sensibile, in attesa di migliori occasioni. Non che la riconferma in Lombardia o in Veneto, o la sospirata conquista del Piemonte, del Lazio, della Campania e della Calabria, ammesso che si verifichino, non siano importanti. Ma è il vento di cambiamento a cavallo del quale Berlusconi era tornato a Palazzo Chigi che ormai soffia molto più debole. Di qui la mancanza di un metro condiviso per misurare i risultati, e l’incertezza che fa dire al premier che avrà vinto non chi controllerà un maggior numero di regioni, ma chi potrà dire di avere una massa più numerosa di cittadini amministrati. E ancora, che non sarà poi così importante se la Lega sorpasserà il Pdl, in tutto o in parte del Nord.

Anche il centrosinistra si consola con la speranza che all’indomani del voto la maggioranza delle amministrazioni contese resti in mano sua. Ma ammesso, anche in questo caso, che la previsione si realizzi, non è pensabile che i leader del Pd non considerino il danno che verrebbe loro dalla perdita di una grande regione come il Piemonte e di una o più di quelle del Centro-Sud. La verità è che, realisticamente, il Pd fa i conti con la situazione sconfortante in cui si trova a due anni dalla fondazione e dopo due cambi di segreteria, e non è in grado di valutare il contraccolpo dei numerosi scandali e inchieste giudiziarie da cui sono stati investiti i suoi amministratori. In alcuni casi i candidati governatori di centrosinistra vanno al voto consapevoli di non godere di un appoggio convinto della loro parte. In altri le elezioni rappresentano solo un passaggio di una serie di lotte intestine che riprenderanno tra due giorni.

Così si spiega perché, più di altre volte, la campagna elettorale si sia risolta in uno scambio corrivo di accuse e di insulti tra Berlusconi e i suoi avversari, e perché nessuno dei problemi reali, nazionali o locali, abbia trovato una qualche accoglienza nell’inconcludente dibattito delle ultime settimane. Se tutto questo davvero fosse parte di un tacito accordo per far sì che in mancanza di veri vincitori, dopo il voto, e una volta deposte le armi, governo e opposizione tentassero di riaprire un confronto, con l’obiettivo di ridare un senso alla legislatura e dedicare i prossimi tre anni alle riforme più urgenti, anche una campagna elettorale così brutta potrebbe essere archiviata con sollievo. La sensazione, invece, è che chissà quanto tempo ci vorrà, prima che i veleni evaporino e la politica ritrovi la sua strada maestra.

da lastampa.it
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« Risposta #109 inserito:: Marzo 30, 2010, 11:17:26 am »

30/3/2010

Astensioni, le ragioni di un virus
   
MARCELLO SORGI

L’allarme per l’astensione era giustificato, la sorpresa perché si è verificata no. Che non ci fosse in giro una gran voglia di andare a votare, era chiaro da settimane, ed anche negli ultimi giorni, ciascuno di noi aveva potuto constatarlo, tra amici e conoscenti o in famiglia.

Siamo ancora lontani, tuttavia, (con il 63,6% di affluenza) dai livelli della Francia, in cui più della metà degli elettori ha disertato i seggi. E resta sorprendente, semmai, che dopo una campagna elettorale orrenda come quella a cui abbiamo assistito, due italiani su tre, malgrado tutto, si siano recati alle urne.

Anche a non voler sommare la rissa, con otto, dicasi otto, sentenze, emesse da magistrature di vari gradi e diversi tipi, per decidere sull’ammissione delle liste del Pdl a Roma e a Milano, e poi gli scandali giudiziari e le intercettazioni che hanno colpito entrambe le parti, e ancora la cancellazione degli spazi televisivi di informazione e di approfondimento dedicati alle elezioni, era abbastanza evidente per tutti che queste elezioni non avrebbero segnato la fine del mondo. Che importassero a Berlusconi e a Bersani, così come a Fini, Bossi e Di Pietro, d’accordo: «ma a noi ne viene veramente qualcosa?», si saranno chiesti gran parte dei cittadini, stanchi di sentirsi chiamare all’appello da partiti che hanno ormai problemi uguali e deficienze assai simili.

C’era inoltre una non trascurabile differenza tra le regionali di quest’anno e quelle del 2005: allora, con la legislatura 2001-2006 giunta agli sgoccioli, l’elettorato sapeva di poter esprimere un giudizio politico sull’operato del governo di centrodestra al potere da quattro anni. E la bocciatura fu talmente sonora che, pur avendo Berlusconi recuperato in extremis, l’anno dopo, nella campagna per le politiche, non riuscì a fare il miracolo e perse contro Prodi per ventimila voti.

Al contrario, stavolta – e la gente lo aveva capito benissimo -, con le regionali che cadono a meno di metà del percorso, e Berlusconi che ha ancora tre anni di tempo, fino al 2013, per raddrizzare l’andamento caracollante del suo governo, anche un forte successo dell’opposizione, che non c’è stato, non avrebbe potuto cambiare il corso delle cose.

In elezioni tutto sommato locali, a cui inutilmente, e con i peggiori argomenti, come s’è visto, s’è cercato di dare respiro nazionale, un peso, uno spostamento, potevano portarlo i candidati governatori, che andavano individuati con grande attenzione. Ma a questo, invece, i due maggiori partiti si sono applicati confusamente, o sulla base di calcoli politici lontani dai problemi e dai territori ai quali avrebbero dovuto essere collegati, e destinati pertanto a infrangersi contro la realtà.

Valgano, per tutti, due esempi: Mercedes Bresso, in Piemonte, e Rocco Palese, in Puglia.

Che a dispetto di una buona prova dell’amministrazione da lei guidata l’immagine della governatrice del Piemonte si fosse appannata, si sapeva già dall’anno scorso, quando si sentì parlare della possibilità che la Bresso fosse dirottata al Parlamento Europeo e al suo posto si candidasse Chiamparino. Per ragioni legate non solo alla sua storia politica, ma ai suoi più recenti atteggiamenti, anche in polemica con il suo partito, come quando aveva proposto la formazione di un Partito democratico del Nord, il sindaco di Torino sarebbe stato molto più adatto a fronteggiare la candidatura nuova, e per certi versi rivoluzionaria, del leghista Cota. Ma siccome ai vertici del Pd era considerato un rischio dargli un’ulteriore chance di crescita, l’ipotesi Chiamparino venne accantonata come un azzardo. Con il risultato, appunto, di incoraggiare l’astensionismo (i votanti in Piemonte sono scesi dal 71,4 al 64,3 per cento) e di farlo nuocere più nel campo del centrosinistra che non nell’altro.

Allo stesso modo, Berlusconi, con il suo solito fiuto, s’era reso conto subito che quella di Palese era la scelta di un brav’uomo, forse anche un discreto professionista del Consiglio regionale pugliese, ma per niente in grado di fronteggiare la candidatura carismatica di Nichi Vendola, che s’era imposta a dispetto perfino di un leader del Pd come D’Alema.

Il Cavaliere, preso dai suoi molti guai, non era poi riuscito a costruire un’intesa con Casini su un’indicazione concordata, e non aveva potuto accettare di far correre tutto il centrodestra dietro le insegne della Poli Bortone, scesa in campo con l’Udc, e i cui voti, sommati a quelli del Pdl (e sottratto l’astensionismo che ha visto i votanti calare dal 70,5 al 63,2 per cento), avrebbero potuto far cambiare di segno la Puglia.

Caso per caso, ragionamenti del genere, potrebbero essere applicati ad almeno sette delle tredici regioni in cui s’è votato: guarda caso, quelle decisive. S’è preferito invece credere che gli elettori, alla fine, avrebbero mandato giù qualsiasi minestra pur di non doversi buttare dalla finestra. Senza mettere in conto che tra i giochi possibili di un elettorato ormai piuttosto avvertito, e in genere (tolte le ultime settimane) piuttosto informato e sofisticato quanto a orientamenti politici, c’era anche la carta del non voto.

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« Risposta #110 inserito:: Marzo 31, 2010, 02:59:32 pm »

31/3/2010 - TACCUINO

Sinistra lontana dal territorio non si è accorta del pericolo-Grillo

MARCELLO SORGI

All'indomani dei risultati si intrecciano e si contrappongono le analisi più originali. Prima che intervenga la severa legge dei flussi (c'è ormai un metodo scientifico per stabilire il tragitto quasi di ogni voto, e gli studiosi sono al lavoro), è tutto un alternarsi di dichiarazioni e spiegazioni, specialmente, com’è ovvio, nel campo degli sconfitti.

Tra le varie tesi adottate dal Pd per giustificare la delusione della sconfitta, soprattutto in Piemonte e Lazio, c'è quella che le candidate del centrosinistra sarebbero state penalizzate dall’imprevisto successo delle liste Grillo, che, oltre a mostrare performances inaspettate in varie altre città (vedi Bologna e più in generale l'Emilia), sarebbero diventate letali sotto la Mole, dove appunto, con il 4 e passa per cento rastrellato sul territorio piemontese, avrebbero tolto alla Bresso una quantità di voti determinante per la vittoria.

Possibile? Possibile: la Bresso lo ha detto e ripetuto nel momento amarissimo in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Bersani ci giura e ne ha fatto uno degli argomenti più forti della sua conferenza stampa di ieri. E sono stati tanti gli esponenti del centrosinistra che sono tornati sull'argomento. C'è tuttavia una domanda alla quale, se non gli esponenti del Pd che ieri hanno dichiarato tardivamente guerra a Grillo, dovrebbero rispondere con i loro numeri gli studiosi dei flussi: come si fa ad essere sicuri che i seguaci del comico ligure abbiano portato via consensi solo alla sinistra? Nel voto per Grillo, da quel che si può capire, ci sono una serie di componenti tra le più disparate che sommano, è dato presumere, atteggiamenti radicali di qualsiasi orientamento, le aree estreme di ogni frangia di protesta, l'antinucleare con l'antindustriale, l'ecologismo fondamentalista con l'integralismo religioso, il pacifismo con l'antiamericanismo, l'agricoltura biologica con l'antiOgm, oltre, naturalmente, a un certo numero di casi di professionismo politico parassitario, che lo stesso Grillo è stato costretto a sconfessare per evitare confusioni.

Sono solo alcuni esempi. Ma che tutto questo tolga voti solo alla sinistra, e non anche alla destra, è da dimostrare. E ammesso che sia possibile dimostrarlo, c'è da chiedersi come mai un pericolo così grande per lo schieramento democratico sia stato, non solo sottovalutato, ma ignorato. Non l' avevano vista, i dirigenti del Pd, la proliferazione di liste Grillo? E durante una campagna in cui il territorio è stato battuto palmo a palmo, nessuno aveva dato l'allarme? E' credibile che se ne siano accorti solo il giorno dopo?

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« Risposta #111 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:40:19 am »

1/4/2010 - TACCUINO

Come chiudere il ventennio del Cavaliere
   
MARCELLO SORGI

Dopo il passaggio elettorale che ha avuto un indubbio effetto stabilizzatore, e in vista di un triennio in cui non sono in calendario consultazioni generali come quella appena conclusa, la ripresa del dibattito sulle riforme avviene all’insegna di una generale buona volontà e di una dichiarata assenza di pregiudizi. Tutti in sostanza, maggioranza e opposizione, sono convinti che i campanelli dell’astensione e del voto di protesta hanno suonato anche per ricordare alle forze politiche che devono far vedere di essere meno inconcludenti di quanto sono apparse finora.

L’occasione di dimostrarlo esiste nella seconda metà della legislatura. Ed è anche chiaro da cosa dipenderà. Non, o non solo, dai contenuti delle riforme – presidenzialismo, federalismo, elezione diretta del Capo dello Stato o del premier, riduzione del numero dei parlamentari, giustizia, fisco, legge elettorale e così via – dal momento che tutti più o meno si dichiarano disposti a confrontarsi su tutto. La questione vera è un’altra: se davvero si arrivasse a varare un gruppo di riforme importanti sotto l’egida del governo Berlusconi e con il consenso di tutta o parte dell’opposizione, si può pensare che il giorno dopo questo passaggio storico lo stesso Berlusconi si faccia da parte? Il Cavaliere, lo stesso che fino a qualche giorno fa veniva sbertucciato o insultato o paragonato, addirittura, a Mussolini, riesce in un’impresa simile a quella di De Gaulle in Francia, dopo di che saluta e se ne va? Via, non è credibile.

Allo stesso modo, non è un mistero, sia gli alleati di Berlusconi che ieri si sono seduti con lui al tavolo delle trattative, sia gli oppositori che all’indomani del voto gli hanno offerto la loro disponibilità, non fanno mistero di aspettare di capire il momento in cui il premier passerà la mano.

Non è problema di Seconda o Terza Repubblica, anche se qualcuno già ne parla e ne scrive. Piuttosto di uscire dall’ipocrisia per cui Berlusconi si dovrebbe accontentare di chiudere in bellezza il ventennio a cui arriverà con la fine della legislatura, e gli altri, alleati o oppositori che siano, dovrebbero lealmente collaborare con lui, convinti che non vuole altro che portare a termine il sogno per cui è sceso in campo e finalmente dedicarsi a un meritato riposo e ai nipotini. Fino a che non si uscirà da quest’equivoco – e non è facile – è davvero difficile che riforme condivise possano fare qualche passo avanti.

L’occasione di questa mezza legislatura c’è, ma altrettanto il rischio che venga sprecata.

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« Risposta #112 inserito:: Aprile 02, 2010, 08:16:01 am »

2/4/2010

Interruzione di pubblico servizio

MARCELLO SORGI

Non c’è nulla di strano che come in altri Paesi anche in Italia - dove pure il diritto all’aborto è stato riconosciuto per legge trentadue anni fa, e riconfermato con referendum popolare ventinove anni fa - l’introduzione della pillola abortiva riapra una discussione mai sopita, in tutto questo tempo. Ma tra le parole del Papa e quelle dei neo-governatori leghisti del Piemonte e del Veneto una distinzione va fatta.

Che Benedetto XVI in questo momento richiami i cattolici a battersi per il rispetto della vita fin dal concepimento, è logico, e perfino ovvio. E tuttavia, se Cota e Zaia sono liberi, in quanto cattolici, di manifestare opinioni coincidenti con quelle del Papa, le cose che hanno detto come governatori appena eletti sono sorprendenti e in qualche modo illegittime. Non c’entrano né le confessioni religiose né le posizioni politiche. Il primo dovere di un presidente della Regione, specie se scelto direttamente dal popolo, è assumere l’impegno, non solo con i suoi elettori ma anche con quelli che non lo hanno votato, di rispettare le leggi. Tutte le leggi, anche quelle che non gli piacciono, come la 194. E di garantire a qualsiasi cittadino i diritti assicurati da norme consolidate.

Questo normale dovere, di una persona che assume una responsabilità pubblica importante come quella di guidare l’amministrazione di una Regione, dovrebbe essere scontato. Se non lo è, o non lo è più, solo perché per la prima volta sono stati votati due governatori leghisti, in Italia la confusione è destinata ad aumentare. Infatti, superata la parentesi, carica di passioni e di tensioni, della campagna elettorale, e conosciuti i risultati e i nomi degli eletti, i cittadini, di qualsiasi opinione, non dovrebbero preoccuparsi di vivere in un altro mondo. Naturalmente ogni riforma è possibile, ogni legge può essere cambiata, ma finché questo non avviene il governatore, come ogni altra pubblica autorità, fa quel che deve, non ciò che vuole. Anche se ha in mente la rivoluzione.

Ecco perché le affermazioni di Cota e Zaia sono incomprensibili. Provengono, è bene ricordarlo, non da due giovani che hanno appena smesso di marciare in un corteo studentesco, ma da due uomini politici di una certa esperienza, uno capogruppo ancora in carica dei deputati leghisti, l’altro ministro dimissionario dell’Agricoltura, che si sono candidati davanti agli elettori con volti e idee moderati. E per questo sono stati apprezzati dalla maggioranza dei cittadini e sono usciti vincitori da competizioni elettorali neppure tanto drammatiche, in cui il massimo della suspense, nel caso del Piemonte, è stato attendere fino a notte fonda lo spoglio delle schede.

L’idea che Cota, a due giorni dal voto, si alzi e dica che farà marcire nei magazzini le pillole abortive pur di evitare di somministrarle a donne che hanno diritto di chiederle, oltre che necessità, è incredibile. Non sta a lui decidere di queste cose, e se lo facesse quasi certamente rischierebbe di commettere reati. Se le pillole abortive acquistate dagli ospedali su indicazione dei medici che intendono usarle (la 194, va ricordato, prevede anche l’eventualità dell’obiezione di coscienza dei sanitari contrari all’aborto per ragioni di principio) dovessero, per ordine del governatore, essere effettivamente abbandonate in qualche sotterraneo, si verificherebbero, insieme, una parziale interruzione di un servizio pubblico (la mancata assistenza a donne che non sono in grado di portare avanti una gravidanza, e vorrebbero interromperla avvalendosi del nuovo metodo chimico, meno invasivo di quello tradizionale) e lo spreco del denaro pubblico speso per l’acquisto dei farmaci necessari. Lo stesso vale per quel che ha detto Zaia sulla sua intenzione di bloccare gli ospedali veneti che si accingono a usare la pillola.

Che il dibattito sull’aborto (meglio, sul diritto di abortire) si ponga oggi in termini diversi rispetto a trent’anni fa, è assodato. Per effetto del progresso scientifico, che ha fatto molti passi avanti in oltre tre decenni, sono cambiati l’inizio e la fine della vita, ciò che una volta sembrava affidato al destino oggi è in larga misura prevedibile, determinabile, evitabile, e questo, in alcuni casi, provoca dubbi e apre interrogativi per cui non sempre c’è risposta. Così si capisce che all’aspetto culturale e di principio del problema si siano appassionati anche laici non credenti, e due anni fa, alle ultime elezioni politiche, un giornalista, un intellettuale come il direttore del Foglio Giuliano Ferrara, partendo da posizioni di minoranza, abbia voluto proporre provocatoriamente una lista «pro-life», per spingere laici e cattolici - almeno quelli di centrodestra - a uscire dalle ipocrisie sul terreno delicato della vita e della morte, della fede e della scienza.

In una discussione completamente diversa, e anche apertamente contraddittoria, rispetto al passato, poco o pochissimo spazio hanno trovato gli aborti e i parti clandestini, i primi drasticamente ridotti grazie alla 194, gli altri tristemente moltiplicatisi, specie all’interno delle comunità di extracomunitari, con conseguenze quasi sempre letali per i neonati. Ma nella giornata in cui i suoi due nuovi colleghi leghisti hanno straparlato di aborto, non è male che a ricordare questo aspetto del problema sia stata pure Renata Polverini, governatrice di centrodestra del Lazio, schierata per la vita, ma consapevole del suo obbligo di rispettare la legge.

da lastampa.it
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« Risposta #113 inserito:: Aprile 07, 2010, 04:52:38 pm »

7/4/2010

Don Vito la sponda dei boss

MARCELLO SORGI

Capita raramente, ormai, che la forza del racconto scritto riesca a prevalere su quella, evocativa, delle immagini da cui siamo bombardati di continuo.

Ma succede nel caso di «Don Vito» (Serie bianca Feltrinelli, 18 euro), il libro dedicato da Francesco La Licata alla storia di Vito Ciancimino, il «sindaco dei corleonesi», l’uomo che governò Palermo e la Dc siciliana per oltre vent’anni e per conto della mafia.

Visto in tv, Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco che insieme al fratello Giovanni ha fornito all’autore una testimonianza preziosa, sembrava debole e incerto. Invece, nella lunga ricostruzione fatta con La Licata, dà vita a un affresco che non può non sembrare incredibile, se non fosse per il serio lavoro di inchiesta e di documentazione che lo accompagna.

La Licata avverte a ogni buon conto che tutti i fatti descritti sono oggetto di indagine della magistratura e saranno i giudici a vagliarne l’autenticità. Ma anche al di là dei singoli avvenimenti e dei numerosi protagonisti - tra cui figurano, manco a dirlo, Andreotti, Lima, il banchiere Calvi, Licio Gelli, oltre a tutta o quasi tutta la classe dirigente siciliana tra gli Anni Sessanta e Novanta - la lettura è straordinaria per un aspetto che verrebbe da definire antropologico.

E cioè il modo di vita, la perfetta convivenza tra politica e mafia in una città, un territorio in cui i due poteri non possono fare a meno l’uno dell’altro. Le consuetudini, il rispetto, le liturgie, le prese di distanza, i segreti, e poi naturalmente i soldi, un fiume di soldi, di «piccioli», come li chiamano loro. Vito Ciancimino ha solo qualche anno in più di Bernardo Provenzano, un ragazzo svogliato delle elementari e non ancora il capo di Cosa Nostra, quando viene chiamato a dargli lezioni private di matematica, nella Corleone della loro infanzia. Ne nasce un’amicizia che durerà tutta la vita, e una tacita divisione di ruoli fondata sulla regola che «cane non mangia cane», e che «per vivere nella giungla - come diceva Don Vito - devi essere capace di trattare con le belve».

Il sindaco è descritto dai figli come un padre dispotico e come una specie di satrapo che governa la città dal salotto di casa e da un tavolo attorno al quale siedono fianco a fianco, o uno dopo l’altro, politici, prelati, mafiosi, killer, leader nazionali, capi massonici, alti funzionari, altissimi magistrati, e naturalmente imprenditori. Come tutti quelli dotati di un potere assoluto, Ciancimino è pieno di nevrosi, ipocondriaco, frequenta medici svizzeri, è superstizioso e ricorre a uno zio medium, ha molte amanti, tra cui una cognata, che si fa scoprire: e quel giorno, pur di non essere colto in un momento di debolezza, Ciancimino, grazie a un amico costruttore, farà addirittura abbattere un muro dell’alcova, per penetrare in un altro appartamento e fuggire indisturbato. Sembra un film. Il sindaco non ama gli animali, e un altro giorno, in un attacco d’ira, spalleggiato dai vigili urbani che sono la sua Securitate, sparerà, uccidendolo, a un cane entrato nel suo giardino.

Nello stesso tempo Ciancimino non si sente della stessa razza dei capimafia. Anzi ama distinguersene, e coltiva a modo suo un’idea di primato della politica. I mafiosi, le «belve della giungla» sono per lui «l’altra sponda». La regola per conviverci è garantirgli negli affari «un’equa parte», ciò che Lima sintetizza nello slogan «mangia e fai mangiare». Scorrono gli anni della grande speculazione edilizia - e della trasformazione-devastazione della città che una volta si definiva «Palermo felicissima» -, scanditi dagli incontri tra i due amici corleonesi. Una volta la settimana Don Vito vede Provenzano, eterno latitante che si aggira indisturbato sotto il falso nome di «ingegner Lo Verde», e a loro si aggiunge spesso un terzo, misterioso, personaggio, il «signor Franco», una sorta di 007 che non si capisce se dipenda dall’apparato di sicurezza nazionale o risponda direttamente alla Cia e agli americani.

E’ l’insieme di questi chiaroscuri, le diverse tonalità dell’enorme zona grigia che si allarga pian piano all’intero Paese, che conferisce, pur nella dimensione grottesca, una sua grandezza, e perfino un’inutile epica a tutta la vicenda. Non a caso, unico nel suo genere, e diversamente da Lima e da altre vittime eccellenti della guerra seguita alla pax mafiosa che lui stesso aveva garantito, Don Vito morirà nel suo letto. Come un vero boss.

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« Risposta #114 inserito:: Aprile 08, 2010, 03:21:52 pm »

8/4/2010

La regola dei veti incrociati
   
MARCELLO SORGI

Ci sono molte ragioni per accostarsi con scetticismo al ritorno della Grande Riforma, a cui Berlusconi e il centrodestra vorrebbero dedicarsi adesso, per arrivare nel 2013, alla scadenza delle prossime elezioni politiche, con un assetto costituzionale completamente mutato e un Paese finalmente riformato e traghettato fuori dai cascami della sua eterna transizione.

La prima è che, per quanto se ne discuta da anni, per non dire decenni, la Grande Riforma è sempre fallita, indipendentemente dalla volontà, dalla qualità e dall’esperienza dei leader che vi hanno posto mano. S’è rivelato impossibile riprodurre lo spirito virtuoso dei Costituenti, che in soli diciotto mesi, tra il ’46 e il ’48, riuscirono a mettere da parte tutte le loro divisioni ideologiche, territoriali e generazionali, per dar vita a una Carta costituzionale che ancora oggi, pur collocata nel suo tempo, è considerata un esempio.

Tal che è diventato più facile, anche quando l’obiettivo sembrava a portata di mano, farne saltare la riscrittura invece che concluderla. Nel passato recente questo è accaduto almeno tre volte: all’inizio degli Anni Ottanta, quando fu Berlinguer ad affondare la prima Commissione Bicamerale dedicata alle riforme. E al principio e a metà dei Novanta, quando furono affossate, in rapida sequenza, prima la Bicamerale presieduta da De Mita, e poi quella di D’Alema.

Quest’ultima, proprio il giorno dopo il patto che, anche se nella sede impropria della sala da pranzo di casa Letta, era stato concluso da centrosinistra e centrodestra, e che Berlusconi stesso, dopo averlo siglato, s’incaricò di far saltare.

Perché questo sia accaduto - e nei diversi casi in cui è avvenuto - è ormai oggetto di studio. Ma essenzialmente, si può dire, il motivo è sempre stato lo stesso: anche quando avevano trovato un compromesso, alleati e avversari, seduti attorno al tavolo, si sono sempre fatti prendere dal dubbio che le nuove regole potessero rafforzare oltre misura uno di loro, e di conseguenza si sono tirati indietro. Fu così, appunto, quando il Pci temette che Craxi, all’apice del suo successo, diventasse il vero beneficiario della Grande Riforma. O quando Segni e Occhetto, preoccupati di una restaurazione della Prima Repubblica moribonda, sbarrarono la strada a De Mita. E infine quando il Cavaliere, agli albori del suo ventennio, ritirò la stretta di mano data a D'Alema.

Stavolta invece è Berlusconi il candidato al ruolo di riformatore destinato, dapprima a spendere tutto il suo impegno, e poi a rischiare la delusione. Dopo il buon risultato elettorale alle regionali, e approfittando di un triennio in cui, tolti alcuni importanti appuntamenti locali (l’anno prossimo si vota per i sindaci a Milano, Torino, Bologna, Napoli e Reggio Calabria), non sono previste scadenze elettorali nazionali, il Cavaliere infatti s’è convinto di sfruttare l’occasione offerta dalla seconda metà della legislatura.

Dall’indomani del voto, il suo attivismo è inarrestabile, affollata l’agenda degli incontri, in cima ai quali ha messo quello con il Capo dello Stato e con il suo alleato strategico Bossi. Dopo la cena di Arcore di martedì sera, dopo il vertice del Pdl a Palazzo Grazioli di ieri, e dopo aver richiamato in servizio, gesto significativo, come consigliere, anche il padre fondatore di Forza Italia Giuliano Urbani, Berlusconi ha l'aria di non voler perdere tempo.

Se l’attivismo della Lega, che ha gettato sul tappeto il modello del semipresidenzialismo francese, disturba una parte del gruppo dirigente del Pdl, il premier non se ne cura. Se la richiesta di Bossi di una larga intesa, con tutta o parte dell'opposizione, per una solida e definitiva approvazione del federalismo, non piace a tutti nel centrodestra, il Cavaliere è determinato a tacitare i mugugni: perché ancora una volta vuol dimostrare di poter riuscire dove altri hanno dovuto rinunciare. E al di là del forte rumore di grancassa che si avverte sulla scena, e delle molte smorfie di perplessità che si percepiscono dietro le quinte, è prematuro oggi fare scommesse su un tentativo appena cominciato.

Allo stato dell’arte, Berlusconi gode di una cauta attenzione del Quirinale, ma soffre di un’evidente freddezza dell’opposizione, che va dall’aperta contrarietà di Di Pietro, alla difficoltà del Pd di trovare al suo interno una sintesi che superi la tradizionale unità antiberlusconiana. La necessità che le riforme, per evitare di essere sottoposte al vaglio popolare come prevede l’articolo 138 della Costituzione, siano votate in Parlamento con una maggioranza di due terzi, rende strategico il contributo del centrosinistra. Eppure, la sensazione è che il premier non si preoccupi più di tanto di questo aspetto, e si prepari ad affrontare il percorso accidentato della Grande Riforma alla sua maniera, puntando soprattutto su se stesso e sul rapporto diretto con gli elettori. Tra un po’, come dal palco dei suoi ultimi comizi, lo sentiremo chiedere: volete o no un presidente dotato di più poteri, per realizzare gli impegni che ha preso senza dover perdere tempo con il teatrino della politica? Volete la riduzione del numero dei parlamentari, senza le tante scuse che la Casta ha preso fin qui per evitarla? Volete il taglio delle tasse? E’ così via. E’ da vedere che questo sia il modo per arrivare al presidenzialismo, sia pure all’italiana. Mentre è sicuro, di qui al 2013, che per questa strada si arriva a un altro referendum su Berlusconi.

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« Risposta #115 inserito:: Aprile 09, 2010, 11:25:45 am »

9/4/2010 - TACCUINO

Sullo sfondo il rischio delle elezioni

MARCELLO SORGI

Gianfranco Fini la fa meno facile rispetto a Berlusconi e alla Lega. Nel suo primo intervento dopo il risultato elettorale, che a detta di tutti ha rafforzato l’asse tra il premier e il leader leghista, il presidente della Camera non rinuncia a distinguersi, anche di fronte a un’ipotesi – quella del semipresidenzialismo francese – costruita per venirgli incontro.

Fini manda due messaggi. Il primo al presidente del consiglio e cofondatore del Pdl, per ricordargli che la strada scelta è molto più complessa di quel che potrebbe sembrare e richiede una lunga serie di interventi sulla Costituzione, a cominciare dal necessario riequilibrio tra i nuovi poteri di un Capo dello Stato eletto direttamente e quelli del Parlamento che dovrebbe bilanciarli. Fini non lo dice, ma è implicito che l’intesa stabilita con la famosa «bozza Violante», che prevedeva un forte rafforzamento dei poteri del premier, forse poteva rappresentare una base di confronto, a partire dalla quale l’introduzione dell’elezione diretta, che trova ancora resistenze nel centrosinistra e un’assoluta contrarietà dei centristi, sarebbe stata più facile da far digerire.

Il secondo messaggio è rivolto all’opposizione: sottolineando l’importanza di una nuova legge elettorale da accompagnare alla revisione costituzionale il Presidente della Camera sa di toccare un punto indispensabile per il Pd e i suoi alleati, e che invece il Pdl non vuol mettere in discussione.

Tutto ciò, ovviamente, non basta a dire che Fini s’è messo di nuovo di traverso, ma che considera essenziale, diversamente da Berlusconi, arrivare all’approvazione delle riforme con l’appoggio di parte o tutta l’opposizione. Questa impostazione è condivisa anche dalla Lega, che vuole arrivare a un’introduzione del federalismo definitiva, in quanto votata da una larga maggioranza parlamentare, e non provvisoria e sottoposta al vaglio del referendum, come prevede l’articolo 138 della Costituzione per le riforme votate a maggioranza semplice.

Dietro la posizione di Fini s’affaccia anche il sospetto, non esplicito ma diffuso nelle file dei parlamentari a lui più vicini, che Berlusconi possa eventualmente cercare di approfittare anche di un insuccesso della campagna per le riforme, per interrompere una legislatura ingolfata e riprendere la vecchia idea delle elezioni anticipate, grazie alle quali potrebbe riproporsi anzitempo come candidato a Palazzo Chigi. Ciò che più di tutto il presidente della Camera teme e vuol cercare di evitare.

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« Risposta #116 inserito:: Aprile 13, 2010, 06:18:42 pm »

13/4/2010 - TACCUINO

Se Matera e Macerata non bastano a sorridere

MARCELLO SORGI

A meno di non volersi consolare con Macerata e Matera, come ha fatto l'altra volta con Liguria e Basilicata, il centrosinistra dovrà prima o poi cominciare a guardarsi allo specchio e a fare una riflessione sulla tornata elettorale. E non perché la perdita di Mantova abbia chissà quale valore simbolico, ma perché è evidente che il trend negativo nazionale, invece di essere contraddetto in situazioni specifiche, si ripercuote localmente in modo quasi automatico.

Al di là delle molte ragioni allineate nell'analisi del voto (astensionismo, successo della Lega, logoramento dei "cacicchi" meridionali), c'è un aspetto più generale che andrebbe approfondito. Nell'era delle democrazie maggioritarie è ormai assodato che per competere occorrono tre cose: un uomo, un programma e una coalizione. In questo, per anomala che sia, l'Italia non fa eccezione. Ma a ben guardare il centrosinistra non ne ha più nessuna delle tre. Dal 2008, dopo la sconfitta di Prodi, non ha un candidato per la guida del Paese: così che si trova nella situazione che ha l'anti-berlusconismo - unico punto su cui le sue anime si ritrovano unite - ma non ha l'anti-Berlusconi.

Non ha neppure un programma: anzi, pur essendosi celebrati i congressi delle sue componenti più importanti, a partire da quello del Pd che ha già cambiato due segretari, sembra aver rinunciato al confronto interno per approdare a un minimo comune denominatore. In materia istituzionale, economica, sulla giustizia, per non dire dei valori (vita, morte, famiglia) l'idea di approdare a un decalogo condiviso è fuori dalla realtà. Tre giorni fa, solo per aver provato ad aprire un discorso su magistratura e obbligatorietà dell'azione penale, poco mancava che il responsabile di settore del Partito democratico Orlando finisse sotto processo.

Infine, anche sulla coalizione, c'è una sostanziale immobilità. A detta di molti le elezioni regionali avrebbero seppellito il laboratorio aperto con l'Udc per allargare al centro la coalizione di centrosinistra, tuttavia, a giudicare dagli interventi dei leader dopo i risultati, l'ipotesi è ancora in campo. Ma lo è veramente? E se lo è, cosa si sta facendo per renderla più realistica? E se non lo è, si lavora a un'alternativa? E quale? Sono solo alcune di una lunga serie di domande che il Pd, e non soltanto il Pd, rivolge a se stesso nel tentativo di innescare un esame di coscienza. Salvo poi a lasciarle sempre senza risposta.

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« Risposta #117 inserito:: Aprile 14, 2010, 02:52:11 pm »

14/4/2010 - TACCUINO

La presa in giro del ricorso all'istituto referendario

MARCELLO SORGI

L’agonia dei referendum continua, anche grazie, va detto, all’uso malaccorto che se ne fa. Ieri Di Pietro ha annunciato la raccolta delle firme per puntare all'abrogazione della legge sul legittimo impedimento, con cui Berlusconi sta cercando di ottenere un rinvio dei processi che lo riguardano. E contro cui, non va dimenticato, i giudici di Milano che si occupano delle pendenze penali del premier hanno già annunciato ricorso alla Corte Costituzionale, che potrebbe dichiararne l’illegittimità, come accadde per il lodo Alfano, già il prossimo autunno, prima della fine dei diciotto mesi di salvacondotto per il Cavaliere.

Un referendum su questa materia è quindi manifestamente inutile, e mette inoltre per la prima volta i giudici della Consulta nella spiacevole condizione di dover decidere quasi contemporaneamente sulla costituzionalità della legge e sull’ammissibilità della richiesta di abrogazione. Di Pietro, che è un ex magistrato, non può non essersi accorto di quest’incongruenza. Ma va avanti lo stesso con la raccolta delle firme e non si pone il problema di dire la verità ai cittadini che si fermeranno ai banchetti a firmare, senza immaginare, così, di contribuire alla crisi del referendum e non alla sua riuscita. Nello stesso senso va la mossa annunciata dalle tre associazioni dei consumatori Adusbef, Federconsumatori e Movimento dei consumatori, e condivisa dai Verdi, di promuovere un’altra raccolta di firme e una nuova consultazione contro il decreto per la «privatizzazione dell’acqua», come impropriamente è stata definita la norma che punta a trasferire ai privati acquedotti e aziende pubbliche che gestiscono il servizio idrico. Il tentativo evidente è di indurre nei cittadini il timore che, con la privatizzazione, il prezzo dell’acqua, finora poco significativo, salirà alle stelle, rendendo troppo onerosa in tempi di crisi perfino l’igiene personale.

Anche in questo caso si tratta di una mezza presa in giro per gli elettori e di un ulteriore colpo all’istituto referendario: che dopo una storia illustre, fatta di grandi battaglie civili radicali come quelle sul divorzio e sull’aborto, oltre trent’anni fa, o svolte importanti sulle quali il Parlamento s’era bloccato, come il nucleare e la responsabilità dei magistrati, e dopo aver contribuito, con i referendum elettorali, al passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, non meritava proprio di finire così, usato malamente come strumento di propaganda e svuotato dall’astensione che da tredici anni, ormai, svuota le urne del «sì» e del «no».

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« Risposta #118 inserito:: Aprile 15, 2010, 09:48:20 am »

15/4/2010 - TACCUINO

L'ennesima novità del Senatùr

MARCELLO SORGI

Con Umberto Bossi c’è sempre una novità. Appena parla, tutti si stupiscono e sgranano gli occhi come a dire: che succederà? Bossi è in politica da più di vent’anni, la Lega ha alcune decine di parlamentari eletti almeno dal ‘92 - dicasi ‘92, quando c’era ancora la Prima Repubblica - il Senatur si porta dietro questo cognome dai tempi ormai molto lontani in cui era uno dei due leghisti presenti a Palazzo Madama, eppure ancora oggi, se dice una cosa, qualsiasi cosa dica, l'aria è da si salvi chi può.

Anche ieri è successo qualcosa del genere quando Bossi ha detto che la Lega vuol portare i suoi uomini ai vertici delle grandi banche. Sorpresa, sconcerto, curiosità: ma dove sta il problema? Le grandi banche, come si sa, sono da tempo private e possedute in parte da azionisti stranieri. Nelle fondazioni bancarie, che partecipano al capitale, sono presenti rappresentanti dei comuni, delle province, delle regioni, oltre a professionisti di varia estrazione, dei quali, non è un mistero, talvolta si possono intuire le simpatie politiche.

Pur con limiti evidenti, questo è ancora un sistema migliore di quello della vecchia lottizzazione delle casse di risparmio, quando ancora il settore bancario era composto da una miriade di aziende che entravano a far parte della grande torta del sottogoverno suddiviso tra i partiti. C’è qualcosa di strano se, per ciò che ancora riguarda le nomine di fonte politica, la Lega avanzi le sue richieste? Possibile che nessuno si ricordi che la prima volta che Bossi parlò di banche era in un’intervista a Giovanni Cerruti, pubblicata sulla «Stampa» ben 18 anni fa? Rileggerla è molto istruttivo: allora, alla porta del Senatur, bussavano Spadolini, Craxi e Martinazzoli, il leader leghista era ancora nel personaggio dell'antipartitocratico, ma non escludeva l’ingresso al governo.

All’opposizione, guarda caso, anche a quel tempo pensava di lasciare solo Fini, ch'era ancora il segretario del Msi. Quanto al resto, Bossi diceva quello che dice oggi: federalismo, riforme, il Nord alla Lega. E oltre alle banche, pensava a reti e Tg Rai. Dal tono con cui le diceva, si capiva che era pronto ad accontentarsi della metà della metà di quel che chiedeva. Eppure, ripetute fino alla noia all'indomani di ogni vittoria elettorale degli ultimi vent'anni, queste stesse cose incredibilmente destano allarme e vengono accolte come inquietanti novità.

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« Risposta #119 inserito:: Aprile 16, 2010, 03:56:05 pm »

16/4/2010

La resa dei conti

MARCELLO SORGI

C’è un’evidente vena di follia nella rottura annunciata ieri dopo un tempestoso incontro di due ore tra Fini e Berlusconi. Benché il clima tra i due cofondatori del Pdl si fosse deteriorato da tempo, a nessuno sembrava possibile che alla fine si spaccasse davvero il partito appena uscito vincitore dall’ultima, difficile, tornata elettorale (e in tutte quelle celebrate negli ultimi due anni). Invece è successo. La frattura è drammatica, piena di risentimenti e accompagnata da una caccia all’uomo che procede con argomenti inconfessabili, perché Fini ha annunciato di voler costituire suoi gruppi parlamentari e i berlusconiani nella notte hanno avvertito i transfughi, a uno a uno, che se lasciano il partito si ritroveranno presto fuori dal Parlamento, nel caso, per niente improbabile, di uno scioglimento.

Tra le tante ragioni di impazzimento, ce ne sono due evidenti. La prima è lo stato dei rapporti personali tra Fini e Berlusconi e tra Berlusconi e Bossi.

Da tempo il presidente della Camera si ritiene emarginato dall’asse tra il premier e il Senatùr e non ha tollerato che il progetto di riforma elettorale concordato tra i due venisse annunciato dopo un’allegra serata di canti e barzellette, per festeggiare il neo-governatore leghista del Piemonte Cota, nella villa berlusconiana di Arcore. Alla festa partecipava anche il ministro della Difesa La Russa, coordinatore, in rappresentanza dell’ex-partito di Fini, e membro del triumvirato che regge il Pdl. Ma il presidente della Camera, questo è il punto, si sente tradito, e non più garantito, dai suoi ex-colonnelli, divenuti troppo amici del Cavaliere. E vorrebbe sostituirli con suoi nuovi fedelissimi, a cominciare dal vicecapogruppo alla Camera Bocchino, controllato illegittimamente - e misteriosamente, par di capire, secondo Fini - dai servizi segreti, non si sa per ordine di chi.

La seconda ragione è politica e Berlusconi ne porta intera la responsabilità. Inaugurando, all’indomani delle elezioni, la stagione delle riforme a cui dedicare la seconda parte della legislatura, il presidente del consiglio, non del tutto consapevolmente, è come se avesse suonato il «liberi tutti». Le riforme infatti, soprattutto quelle costituzionali, richiedono un confronto largo, senza pregiudiziali, e maggioranze qualificate in Parlamento: per evitare, com’era già accaduto nel 2006 alla fine della prima legislatura di governo del centrodestra, che la Costituzione cambiata da una sola parte politica sia poi bocciata dagli elettori nel successivo referendum. Ma Berlusconi, di concordare con l’opposizione, tutta o in parte, il suo progetto riformatore, non ha alcuna voglia. E men che meno di rischiare di finire in minoranza, perché magari Fini, Bersani, e lo stesso Bossi si mettono d’accordo ai suoi danni. Di qui lo stallo in cui è precipitata, dopo i primi roboanti annunci, la Grande Riforma, e il pullulare di ogni tipo di trasversalismo e correntismo, perché in un campo che è stato dichiarato aperto tutti giocano con e contro tutti.

Ieri notte nelle file dei due eserciti regnava la più assoluta confusione. A parte la dichiarazione del presidente del Senato Schifani, che, irritando il Quirinale, ha ricordato a tutti che se una maggioranza si spacca e non è più tale si va diritti alle elezioni anticipate, nessuno era in grado di dire con certezza cosa succederà. Fini e i suoi non minacciano crisi di governo, ma è difficile che Berlusconi possa accettare il solito rappattumamento, pur di tirare avanti. Molto dipenderà dai numeri dei nuovi gruppi che il presidente della Camera sta cercando di formare. Se davvero arriveranno a cinquanta deputati e diciotto senatori, tanto per dire due cifre che venivano fatte circolare, il governo, pur formalmente in carica, sarebbe praticamente paralizzato, e l'intenzione di Berlusconi di far saltare il tavolo e andare a nuove elezioni ne uscirebbe rafforzata. Nell’enorme edificio del partito del premier, ormai è chiaro, s’è aperta una crepa. E incuranti degli elettori, che li hanno votati per farli governare, i due cofondatori, al momento, lavorano per allargarla.

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