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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 254178 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:47:14 pm »

29/1/2010 - TACCUINO

Quando i "cacicchi" si impongono sui partiti
   
MARCELLO SORGI

Per la Puglia, Berlusconi è tornato sui suoi passi, ha chiuso la trattativa con Casini e ha detto che non si farà «incantare da nessuno». In realtà, anche se non è riuscito a incantare il premier, il capo dell’Udc un risultato lo ha raggiunto: candidato, sospeso e poi di nuovo ricandidato nel giro di ventiquattro ore, l’aspirante governatore del centrodestra Rocco Palese è incorso in una falsa partenza. Pazienza, cercherà di rifarsi. Gli toccava inseguire un avversario molto forte come Nichi Vendola, partito a razzo dopo la vittoria alle primarie, adesso sarà più duro riacciuffarlo.

L’infinita vicenda pugliese, e più in generale tutta la preparazione delle regionali, sulle quali molti leader politici si stanno rompendo la testa, si possono anche leggere in un altro modo. A partire, per esempio, dalla legge elettorale per i governatori, costruita su misura, quindici anni fa, per limitare il potere del centro sulla periferia. I ras locali, i «cacicchi», come li chiamava D’Alema, si sono dotati di uno strumento per gestire direttamente candidature e alleanze locali. In base alla legge, infatti, il governatore manovra un listino personale che in base al premio di maggioranza gli consente di far eleggere i suoi fedelissimi, e di gestire una sua personale maggioranza in consiglio regionale.

Così, se il «cacicco» è forte, uno alla Vendola, per intendersi, o ai suoi tempi, alla Bassolino, siccome è certo o quasi certo che il premio finirà nelle sue mani, gli alleati si mettono in fila dietro la sua porta e i partiti alle volte si spaccano, localmente, perché le singole correnti sono pronte a passare dal centrodestra al centrosinistra (o viceversa) pur di entrare nella coalizione che si annuncia vincente.

E’ una sorta di trasformismo legalizzato. Ed è ciò che fece dire a Bassolino, una volta, quasi con le stesse parole che usava Gava: «Conosco i miei elettori uno per uno. Se mi candido io, votano per me. Se c’è Berlusconi, qualche libera uscita la devo mettere in conto». Tra elezioni politiche e regionali la differenza sta in questo. Nelle prime sono i leader a scegliere, praticamente a nominare, deputati e senatori. Nelle seconde, a decidere, è il «cacicco». Se non vuol mollare, vedi Vendola, non c’è verso di schiodarlo. Ma se per caso ha cambiato lavoro, vedi Fitto, che a Bari, prima di diventare ministro, era il «cacicco» del centrodestra, la successione si fa complicata. «Palesemente» complicata, verrebbe da dire, guardando a cosa è successo nel centrodestra nelle ultime ore.

da lastampa.it
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« Risposta #76 inserito:: Febbraio 02, 2010, 02:18:19 pm »

2/2/2010 - TACCUINO

Il rebus-data sulle macerie del Partito
   
MARCELLO SORGI


Naturalmente sono in molti a interrogarsi sulle ragioni del «no», ribadito ieri e ormai dato per scontato anche dal suo partito, di Romano Prodi alla candidatura a sindaco di Bologna. Nei giorni scorsi, malgrado le resistenze dell’interessato, l’ipotesi sembrava andare avanti, spinta dalla necessità e da diversi segnali in positivo: la crisi aperta all’improvviso con le dimissioni di Delbono, l’opportunità di un candidato di alto profilo, il modo spontaneo in cui da parte di molti ambienti e personalità della città, da Lucio Dalla, per dire, all’ambiente universitario, alla gente comune, c’era stata una sorta di gradimento preventivo all'idea del ritorno del Professore.

Forse però prima di chiedersi il perché del suo rifiuto sarebbe meglio pensare a cosa sarebbe successo se Prodi avesse risposto di sì. Considerato che non c’è stata né una sede né una riunione del centrosinistra in cui l’ipotesi sia stata discussa, approvata e incoraggiata magari con un semplice comunicato, un momento dopo la designazione ci sarebbe stato da aspettarsi che una componente anche minima del vecchio Ulivo avrebbe avuto sicuramente qualcosa da ridire sulla scelta del fondatore. Ma si doveva prima chiedere al Professore se esistesse una sua disponibilità, o domandare agli alleati del centrosinistra se fossero disponibili? O si doveva prima ancora e prima di tutto interrogare Casini sulla possibilità che l’Udc, avviando un nuovo esperimento a Bologna, sostenesse l'illustre candidato del Pd?
O diversamente cercare di convincerlo in nome della «bolognesità» e della vecchia amicizia con il Professore?

Domande come queste, ne siamo sicuri, si saranno affacciate varie volte all’interno del partito di Bersani. E nell’impossibilità di trovare una risposta condivisa avranno portato a bruciare, dopo tutte quelle consumate fin qui, anche la candidatura di Prodi. Non a caso l'interessato, nelle parole usate pubblicamente per sfilarsi, ha lasciato intendere che s’è tirato da parte quando ha capito che attorno al suo nome stava nascendo l’ennesimo pasticcio di questa sfortunata, per il Pd, stagione della scelta dei candidati governatori e sindaci.
Da adesso c’è un altro modo per capire come andranno le elezioni a Bologna: basta aspettare di conoscerne la data. Se il ministro Maroni decide di accorparle alle regionali del 28 marzo, vuol dire che s’è convinto che il «no» di Prodi è senza ripensamento. Se invece prende tempo, è perché vuole rosolare a puntino sia gli eterni indecisi del Pd, sia il loro (mancato) candidato.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 03, 2010, 09:25:42 am »

3/2/2010 - TACCUINO

Non decolla il laboratorio tra Udc e Pdl
   
MARCELLO SORGI

La battaglia cominciata ieri alla Camera sul «Legittimo impedimento» - la seconda (dopo il «processo breve») legge pensata per ridare al premier la protezione dai processi che la Corte Costituzionale gli aveva tolto annullando il «Lodo Alfano» - si concluderà oggi con l’approvazione del testo e probabilmente, complice la diretta tv, con scontri anche peggiori di quelli a cui si è assistito in Aula.

Ma al di là dei contenuti del provvedimento - una pezza sul buco, messa lì in attesa che il «Lodo» possa essere riapprovato come legge costituzionale - il «legittimo impedimento» si segnala come occasione di riavvicinamento tra l’Udc, che ha già promesso di astenersi nel voto finale di oggi, e il Pdl, che vuole arrivare a qualsiasi costo e a tappe forzate all’approvazione in giornata. Avvicinamento, questo tra Casini e Berlusconi, cominciato più di due mesi fa con l’incontro a Palazzo Chigi che sembrava foriero di chissà quali intese tra i due, in vista delle Regionali, e che invece ha prodotto come unico risultato concreto solo l’annuncio dell’astensione di oggi.

Se la trattativa sulle Regioni fosse andata diversamente, anche l’accordo in materia di giustizia avrebbe potuto diventare più esplicito. Invece, le cose sono andate come sono andate, con Berlusconi che alla fine s’è lasciato convincere da Bossi a contestare la «politica dei due forni» di Casini e non è riuscito ad approfittare del progressivo logoramento dei rapporti tra Udc e Pd per stringere l’ex alleato.
La traccia più evidente di questo logoramento, nel dibattito e nel prossimo voto della Camera, è il definitivo schiacciamento di Bersani e D’Alema sulle posizioni di Di Pietro (anche se il leader di Italia dei Valori, va detto, nel genere grottesco non ha eguali) e la distinzione, nel voto, tra l’Udc che si astiene e il centrosinistra che si oppone.

Se le cose andranno dunque come preannunciato ieri, si potrà dire che alla Camera, dopo il fallimento in Puglia, è stato sepolto il laboratorio del centrosinistra allargato a Casini, ma non è stato inaugurato quello del ritorno dell’Udc nel centrodestra.

La convergenza sul «legittimo impedimento», infatti, sembra destinata a non produrre altri risultati. E la politica in questa stagione, da qualsiasi parte la si guardi, si conferma sterile. L’unico che ci guadagna qualcosa è sempre Berlusconi: dal Senato è riuscito a far varare il «processo breve», dalla Camera il «legittimo impedimento», deve solo decidere adesso quale dei due portare per primo all’approvazione definitiva nell’altro ramo del Parlamento, per trasformarli in legge.

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« Risposta #78 inserito:: Febbraio 04, 2010, 10:12:26 am »

4/2/2010 - TACCUINO

Silvio vince senza forzature né colpi di mano
   
MARCELLO SORGI

Dopo quella del «processo breve» al Senato, l’approvazione del «legittimo impedimento» da parte della Camera segna una svolta che va valutata attentamente. Berlusconi tre mesi fa, subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il «lodo Alfano» era dato politicamente per morto. Il suo isolamento era completo. Oltre all’opposizione, compattamente schierata con i giudici della Consulta, aveva contro il Quirinale e una parte consistente della sua stessa maggioranza, allineata con il Presidente della Camera e con le riserve da lui espresse pubblicamente e negli incontri riservati avuti con il premier, alla ricerca di un nuovo salvacondotto dai suoi guai giudiziari.

Per raggiungere il suo obiettivo Berlusconi ha dovuto, nell’ordine: ricostruire il rapporto con il Capo dello Stato, ritrovare un’intesa con Fini, agganciare in qualche modo il leader dell’Udc Casini, spaccando l’opposizione, e poi ovviamente correggere, smussare, modificare leggermente i due progetti messi a punto dai suoi esperti, promettendo che quello che non è stato fatto in prima lettura a Palazzo Madama e a Montecitorio sarà fatto nella seconda, al momento della trasformazione in legge dei testi appena approvati. Tra le righe il premier ha lasciato intendere che il «processo breve», il più contestato dei due provvedimenti, potrebbe anche essere abbandonato: dipenderà ovviamente da molti e diversi fattori, non esclusi i risultati elettorali delle prossime regionali e l’atteggiamento dei giudici di Milano, di cui è prevedibile un inasprimento nei confronti delo loro illustre imputato.

Ma al di là di quel che succederà, conta molto quel che è già accaduto. Berlusconi ha ottenuto quel che voleva non con un colpo di mano, con abusi di potere, con forzature: ma semplicemente discutendo, trattando, costruendo consenso attorno alle sue proposte, disarmando (in parte) gli avversari, in una parola facendo politica e senza neppure adoperare l’arma del decreto. Al momento dell’approvazione s’è preso pure il lusso di andarsene in missione all’estero con un gruppo di ministri.

Se le cose sono andate così è anche perché, al di là dell’aspetto personale, deprecabile, degli effetti delle nuove norme (quando diventeranno tali), in Parlamento, checché ne dicano i leader dell'opposizione antiberlusconiana, l'atteggiamento di senatori e deputati verso i magistrati non è affatto favorevole. Una ragione di più per riflettere: tanti sforzi, tante discussioni e tante attese per portare a casa due leggi così discutibili, potevano essere messi a frutto di una vera riforma della giustizia.

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« Risposta #79 inserito:: Febbraio 05, 2010, 12:15:32 pm »

5/2/2010 - TACCUINO

Perché Bersani fa del caso Morgan un fatto politico
   
MARCELLO SORGI

Con l’entrata in scena di Bersani in difesa di Morgan, quello del cantante aspirante concorrente di Sanremo, escluso dal Festival perché ha confessato in un’intervista di fare uso di cocaina, è definitivamente diventato un caso politico. Per il momento se ne è discusso in tv a «Porta a Porta», la terza camera del Parlamento, ma non è escluso a questo punto che una sessione del «question time» possa essere dedicata a capire se la Rai ha deciso di mettere da parte l’artista per ordine del governo, o se invece è disposta a riabilitarlo, dopo il pentimento su Rai Uno davanti a Bruno Vespa.

Il leader del Pd è stato il solo a dire che Morgan non va massacrato per la sua debolezza, ma, vuoi perché l’argomento è spinoso, vuoi perché la destra l’ha preso a pretesto per una campagna proibizionista, a cui la ministra dei giovani Giorgia Meloni e il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri si sono dedicati senza risparmiarsi, l'unico alleato che Bersani s’è ritrovato è stato un altro cantautore, Simone Cristicchi, mentre Lucio Dalla, democristianamente, s'è defilato, dicendo che Morgan non doveva raccontare in giro i fatti suoi.

Invano il direttore generale della Rai Masi chiede che anche in questo caso si abbassino i toni. L’idea che la Rai sia in grado di decidere da sola chi mandare a Sanremo e chi no non sfiora nessuno, tutti hanno qualcosa da dire o da contestare al proprio avversario, e il povero Morgan, saggiamente, ha detto a Vespa «chissenefrega di Sanremo»: tanto lui la sua bella settimana di pubblicità l’ha avuta, e a questo punto il ruolo di martire non potrà che contribuire al successo dei suoi dischi.

I politici al contrario non rinunceranno tanto facilmente a sviscerare fino in fondo il caso. Lo fanno - va detto - con una passione certamente superiore a quella che hanno messo nel recente scontro sul «legittimo impedimento» o in quelli di tutti gli altri giorni su Berlusconi.

È facile immaginare che qualcuno arriccerà il naso in segno di dissenso e finirà a ricordare con malinconia i tempi in cui la politica con la «P» maiuscola si occupava solo di questioni serie. Ma a parte il fatto che qualche debolezza per il mondo dello spettacolo ce l’avevano anche i grandi leader della Prima Repubblica (una volta Saragat da Presidente della Repubblica arrivò a mandare un telegramma di congratulazioni a Sofia Loren, per la nascita del suo primo figlio), non è affatto il caso di scandalizzarsi, o di compiacersi: la politica, in Italia, ormai è questa cosa qui.

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« Risposta #80 inserito:: Febbraio 09, 2010, 09:31:55 am »

9/2/2010 - TACCUINO

Troppo mediatiche le accuse del figlio di Don Vito
   
MARCELLO SORGI


L’ escalation delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino non si ferma. Dopo aver presentato Provenzano, finora considerato il capo della mafia e l'arresto più importante avvenuto nella storia del Dopoguerra, come una sorta di collaboratore occulto dello Stato, in grado di accentuare o allentare la tensione criminale in Sicilia secondo le intese o i dissensi con diversi governi, e dopo aver descritto il senatore Dell’Utri come nuovo interlocutore della mafia e nuovo canale di comunicazione con lo Stato, molto più efficiente di Andreotti, ieri ha detto più o meno che la mafia fu cofondatrice di Forza Italia nel '94 e sperava, con questo, di risolvere finalmente i suoi problemi. La tesi del giovane Ciancimino è che la mafia, nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, si sarebbe dedicata alle stragi, per convincere i nuovi arrivati alla guida del Paese che solo in accordo con Cosa Nostra avrebbero potuto governare tranquillamente.

Questa ed altre rivelazioni - tali, e fatte con tale candore, da far arricciare il naso anche ad esperti mafiologi e a magistrati che hanno rischiato la vita nella lotta contro la mafia -, da un mesetto circa il giovane Ciancimino le sta centellinando in un'aula di giustizia del tribunale di Palermo che ospita il processo contro il generale Mori, ufficiale dei Carabinieri accusato di aver trattato un armistizio tra i boss e lo Stato.

Il tenore delle dichiarazioni di Ciancimino va in crescendo. Il giovane sostiene che il padre, già sindaco di Palermo, amico di Provenzano e in affari con lui, prima di morire, lo mise al corrente di tutti i suoi segreti. Varie volte al giorno una parte della testimonianza del figlio viene anche trasmessa in tv, e in certi momenti Ciancimino ricorda l'Alì Agca che, nei numerosi processi che subì per l'attentato al Papa, in diretta televisiva annunciava continuamente la fine del mondo.

La domanda che sorge spontanea di fronte alla performance del giovane Ciancimino è se prima di farlo parlare in aula, e di conseguenza in televisione, di cose così gravi, non sarebbe stato il caso di ascoltarlo in un ambito più ristretto, anche per poter approfondire le sue accuse prima di portarle in giudizio. Col processo Andreotti in fondo abbiamo già vissuto a lungo nel dubbio di essere stati governati per quarant’anni da un capomafia. Poi, per fortuna, dopo sette anni il dubbio è stato sciolto. Non vorremmo ora ricominciare a temere che negli ultimi quindici, su un totale di sessant’anni di democrazia repubblicana, la mafia con Berlusconi avrebbe ripreso il sopravvento. E magari dover aspettare un altro decennio per sapere che non era vero.

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« Risposta #81 inserito:: Febbraio 11, 2010, 10:35:51 am »

11/2/2010 - TACCUINO

E Silvio scherza: da quando sono single c'è la fila...
   
MARCELLO SORGI

Né rimpianti, né rimorsi». Berlusconi archivia così il terribile 2009 della storia delle escort e della fine del suo matrimonio, alla presentazione romana del libro di Bruno Vespa «Donne di cuori» che lo racconta. Non vorrebbe parlarne, ma poi, com’è fatto lui, si lascia andare. I rimpianti che non ci sono più riguardano la moglie Veronica, che con la sua richiesta di divorzio ha fatto esplodere lo scandalo. Ormai è una storia finita, spiega il premier, «e si tratta di decidere solo dove andrà ad abitare e che assegno dovrò versarle». I rapporti con i figli vanno bene e anche il contrasto tra Marina e Barbara, due delle tre figlie, è «smentito».

I rimorsi, che, anche quelli, Berlusconi nega di provare, sono più legati alla stagione delle pazze feste nella residenza di Palazzo Grazioli, a Roma, a Villa Certosa, in Sardegna, e al viavai di ragazze, alcune delle quali pagate, e soprattutto di una che, dopo aver passato la notte con il premier, tirò fuori un certo numero di nastri registrati da consegnare al magistrato che indagava. Berlusconi pensa ancora di aver agito in buona fede e di essere rimasto vittima, se non di un complotto, del suo innato amore per il divertimento e della sua ingenuità, che gli faceva aprire la porta di casa a persone di cui non doveva fidarsi.

Che le feste e un certo numero di frequentazioni femminili fossero anche un sistema di selezione della nuova classe politica, non lo vuole più sentir dire. Cita ad esempio le sue ministre come modello di governo. E delle candidate approdate in Europa, proprio nel fuoco dello scandalo, è pronto ad elencare meriti ed impegno nel lavoro parlamentare.

Ma adesso che non può più divertirsi come faceva prima, come passa le sue serate il Cavaliere? Davvero, come ha detto, muore dalla voglia di tornare a casa nel week-end per stare con i figli e cantare insieme al nipotino? Berlusconi prova solo per un po’ a farlo credere, poi alla domanda su come passerà il prossimo San Valentino, se la cava con una battuta: «Userò il computer per mandare messaggi a tutte le mie fidanzate».

Scherza, certo. Ma chissà se scherza veramente fino in fondo. A dibattito finito, prima che il nuovo e soffocante apparato di sicurezza lo circondi, una folla di gente, e di donne adoranti, gli si stringono attorno, per salutarlo, incoraggiarlo e chiedergli un autografo. Berlusconi vorrebbe fermarsi, non può, la scorta lo spinge verso l’uscita.

Ma prima di andare: «Lo sa che da quando son tornato single c’ho una fila...»

da lastampa.it
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« Risposta #82 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:13:24 pm »

12/2/2010 - TACCUINO

Bersani a Sanremo e se al festival andasse anche Silvio?
   
MARCELLO SORGI

Su un punto, in questo difficile avvio del 2010, la linea del Pd è ormai chiara: il Festival di Sanremo. Dopo aver difeso Morgan, il cantante escluso dalla competizione dopo aver raccontato in un'intervista che faceva uso di cocaina, il segretario del Partito democratico ha annunciato che andrà a Sanremo insieme alla figlia, perché il suo partito «va dov'è la gente e dove la gente si diverte».

Immediata la replica della Fondazione Farefuturo, vicina al presidente della Camera Gianfranco Fini, ed evidentemente preoccupata che possa assumere una connotazione di sinistra un Festival che manifestamente non lo è mai stato, tanto da riservare tiepide accoglienze ai cantautori tradizionalmente più vicini al Pd. Vasco Rossi, con la sua «Vita spericolata», non a caso arrivò penultimo nel 1983.

Ora, a parte il fatto che la classifica del Festival raramente ha coinciso con il successo di mercato delle canzoni uscite da Sanremo (e proprio Vasco Rossi lo conferma), se c'è una cosa difficile è stabilire l'orientamento politico del Festival, nato e cresciuto democristiano, come tutta la Rai, e malamente adattato alla stagione del bipolarismo, in cui la lottizzazione che era sempre possibile rintracciare all'interno della pattuglia dei vincitori s'era fatta più difficile.

Ma la polemica tra il leader di centrosinistra e la Fondazione di destra sottende un argomento più specioso: se anche Bersani si mette lo smoking e il papillon per entrare al teatro Ariston, nel tempio delle canzonette e della frivolezza nazionale, non è che poi toccherà alla destra sociale la rappresentanza dei veri valori popolari, inclusi i cantautori che non hanno mai ricevuto gli allori del Festival?

Una questione complessa, come si vede, sulla quale gli autori della polemica invitano a meditare. Del resto, sono giorni complicati per la Rai. E non è escluso che insieme alla cancellazione dei programmi di approfondimento dalle reti pubbliche, la commissione di vigilanza debba occuparsi anche delle presenze dei leader politici nelle serate del Festival. Già: vuoi vedere che dopo Gorbaciov e Clinton (quest'ultimo solo annunciato), e dopo, modestamente, Bersani, a fare un pensierino sul Festival sarà il Cavaliere? La par condicio sarebbe rispettata anche in questo caso: a condizione che se Berlusconi canta, come faceva sulle navi tanti anni fa, e come spesso continua a fare a casa sua, per allietare i suoi ospiti, questa volta sia fuori concorso.

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« Risposta #83 inserito:: Febbraio 13, 2010, 05:33:42 pm »

10/2/2010 - TACCUINO

Pd-Udc, il sogno impossibile della legge elettorale
   
MARCELLO SORGI

Per la serie grandi ritorni in politica, da qualche giorno, a margine della trattativa per un eventuale ripristino dell’immunità parlamentare, si segnala un nuovo cantiere aperto sulla legge elettorale. Il ragionamento avanzato da Luciano Violante del Pd, e condiviso da Casini dell’Udc, è che l’immunità nella Costituzione c’era a difesa di parlamentari eletti. Poiché invece gli attuali deputati e senatori vengono praticamente nominati dai capipartito, e imposti agli elettori grazie a un meccanismo che non gli consente di scegliere, logica vuole che, prima si rimettano i cittadini in condizione di decidere, e dopo, solo dopo, si provveda ad assicurare agli eletti una maggiore salvaguardia per il mandato ricevuto dal popolo.

Chiarissimo, non fa una piega. Così com’è sicuro che fu Berlusconi, in omaggio alla sua concezione «aziendalista» e un po’ autoritaria del Parlamento, a volere una legge elettorale che gli consentisse di disegnare i gruppi parlamentari del Popolo della libertà a sua immagine e somiglianza, e ad escludere, a conferma di questo criterio, un alleato infedele come l’Udc dalla sua coalizione. Per riformare o anche solo modificare la legge, dunque, occorre che almeno una parte del Pdl - diciamo i finiani -, stufa di obbedire al Cavaliere e desiderosa di tornare ad avere un po’ d’autonomia in nome dei propri elettori, trovi a questo scopo una qualche intesa con l’opposizione. Opposizione, manco a dirlo, che dovrebbe essere unita su un progetto di riforma e pronta a condividerne i cambiamenti con quella parte della maggioranza che ci sta. Mentre Berlusconi, pur geloso della sua legge, alla fine dovrebbe abbozzare, in cambio del ritorno dell’immunità e di una definitiva sistemazione del conto aperto con la magistratura.

Qui però il discorso si complica. Ad ogni legge elettorale, si sa, corrisponde un modello di sistema. Per dire, se uno è come Berlusconi, vuole la legge che c’è. Se è come Fini, punta a una legge che porti all’elezione diretta, popolare, del premier o del Presidente della Repubblica. Ipotesi, questa, che a certe condizioni potrebbe accettare anche Bersani. Ma se uno è come Casini, e legittimamente sogna un presidente del Consiglio che forma in Parlamento la sua maggioranza e può essere sfiduciato e sostituito quasi come ai tempi della Prima Repubblica, non potrà condividere né la prima né la seconda proposta. Per questa ragione il centrosinistra e l’Udc, già nei due anni del governo Prodi, tra il 2006 e il 2008, cercarono, senza riuscirci, di mettersi d’accordo su un sistema elettorale alla tedesca. E per gli stessi motivi difficilmente ci riusciranno anche stavolta.

da lastampa.it
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« Risposta #84 inserito:: Febbraio 16, 2010, 10:39:51 am »

16/2/2010 - TACCUINO

Il Bossi pompiere frana addosso al premier
   
MARCELLO SORGI


Non sempre una frenata, anche brusca, riesce ad impedire un tamponamento. E anche ieri il doppio colpo di piede di Bossi sul pedale di arresto non ha evitato che il Senatur, finora considerato l’alleato più fedele del Cavaliere, finisse invece addosso a Berlusconi in un momento assai delicato.

A Roma sono giorni complicati per Palazzo Chigi, sia per l’inchiesta della magistratura di Firenze che ha preso di petto Bertolaso e i suoi più stretti collaboratori, rivelando lati oscuri della conduzione degli appalti alla Maddalena, sia per il tentativo, ormai bloccato, di sottrarre ulteriormente la Protezione civile al sistema dei controlli. Il “no” di Bossi alla trasformazione della struttura in Spa, giunto poco prima che il sottosegretario Letta annunciasse la rinuncia del governo al progetto, ha sottolineato l’isolamento del premier, che fino al giorno prima voleva farlo passare con un voto di fiducia, su un terreno su cui già si erano allineate parecchie riserve dei ministri e della componente finiana del Pdl.

Ma sono giorni molto difficili anche a Milano, dove gli scontri tra immigrati nel quartiere-ghetto di via Padova e il riesplodere di un traffico di tangenti che ha al suo centro il presidente della commissione urbanistica del Comune, il pdl Milko Pennisi, hanno messo sottosopra l’avvio della campagna elettorale per le regionali. Nulla che possa capovolgere il risultato, che tutti danno per scontato, della riconferma di Formigoni come governatore della Regione Lombardia. E tuttavia, all’ombra del Duomo, il disorientamento dell’opinione pubblica è evidente. Il mix di quella città nella città, divenuta ingovernabile, dei quattrocentomila immigrati residenti a Milano, con la scoperta che a Palazzo Marino si ripetono pari pari episodi che ricordano la Tangentopoli di diciannove anni fa, può ripercuotersi non si sa come sull’atteggiamento degli elettori di centrodestra, spingendoli verso l’astensione o comunque verso un atteggiamento più critico.

Ecco perché Bossi e Maroni insieme hanno sentito il bisogno di ridimensionare le uscite di Calderoli e del leghista radicale Salvini (quello che voleva limitare l’uso della metropolitana per gli immigrati), e togliere dal campo gli accenni ai rastrellamenti, che in questa situazione possono ulteriormente infiammare gli animi e provocare nuovi incidenti. D’improvviso la Lega scopre tutti i limiti della politica degli annunci e delle soluzioni miracolose che non funzionano, come le ronde metropolitane. E teme di aver compromesso, di fronte all’elettorato più moderato, la posta più grossa di queste elezioni: il sorpasso, al Nord, sul Pdl.

da lastampa.it
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« Risposta #85 inserito:: Febbraio 17, 2010, 09:31:55 am »

17/2/2010

Berlusconi si affida a San Guido
   
MARCELLO SORGI

Di fronte alla commissione Ambiente della Camera e davanti ai telespettatori di Ballarò, Guido Bertolaso - il capo della Protezione civile al centro dello scandalo che in pochi giorni lo ha trasformato da mito in mostro -, ieri ha scelto di difendersi.

E’ suo diritto e lo ha fatto pacatamente, senza, per intendersi, la solita giaculatoria di accuse contro i magistrati, che Berlusconi sciorina ogni qualvolta si trova coinvolto in nuove inchieste. Bertolaso ha ribadito di essersi già presentato dimissionario di fronte al governo, che invece gli ha chiesto di andare avanti. E ha aggiunto che dopo un primo momento di disorientamento, in cui aveva pensato di tirarsi da parte, adesso invece è intenzionato ad andare avanti, proprio per difendere la struttura che ha diretto per otto anni e mezzo e che è stata finora un esempio di efficienza e abnegazione ammirato in tutto il mondo.

Ma ecco, rispetto a quest’immagine e ai risultati incredibili, e non scalfiti neppure da precedenti indagini, di un lavoro che ha portato, tra l’altro, in sei mesi, i terremotati dell'Aquila di nuovo sotto un tetto, e ha liberato le strade di Napoli da cataste di rifiuti abbandonati da un anno, la lettura dei verbali d'accusa della magistratura di Firenze, e delle intercettazioni che li corredano, rappresenta un capovolgimento.

Disinvoltura come regola, tra i collaboratori di Bertolaso, alcuni dei quali suoi parenti stretti. Privilegi inspiegabili e non direttamente connessi ai compiti che svolgevano. Familiarità non proprio irreprensibili con un gruppo di imprenditori - un gruppo ristretto - cinici al punto da ridere alle spalle dei terremotati, ai loro occhi solo un affare come un altro, e prima ancora che venissero tirati fuori dalle macerie. E attorno a ciò che la magistratura ha definito un insieme «gelatinoso», una ragnatela di favori e promesse, una frequentazione assidua e pressante, specie con gli altissimi funzionari arrestati che materialmente scrivevano le gare d’appalto, e inoltre un’intimità con il sottosegretario stretta fino ai massaggi, che l’accusato rivendica solo terapeutici, e i magistrati insistono a considerare qualcosa di più.

Con una colata di fango così, va detto, ci vuole fegato a difendersi e a sperare di venirne a capo. Ma se Bertolaso lo fa, protestandosi innocente, e al massimo vittima di un raggiro di collaboratori infedeli che avrebbe dovuto controllare meglio, è sulla base di alcune considerazioni. La prima è che al di là della «gelatina», i rapporti da compari tra pubblici ufficiali e imprenditori, la corruzione dev’essere provata dai magistrati a cui a sorpresa, innovando rispetto a una tradizione di insulti, il sottosegretario rinnova la sua fiducia. La seconda è che alcuni dei funzionari infedeli finiti in carcere, i loro incarichi e i loro superpoteri li avevano ricevuti dal precedente governo di centrosinistra. La terza è che, messa da parte la contestata privatizzazione della Protezione civile, Bertolaso ha riconquistato la fiducia di tutte le componenti del governo, compreso Bossi che ieri gliel’ha confermata pubblicamente.

Questa condotta che rimane molto azzardata ribalta insomma pienamente l’onere della prova sulla magistratura e le impone di fare presto. Decapitare la Protezione civile - un corpo speciale, che se ha abusato delle urgenze politiche, deve pur continuare a pensare alle numerose emergenze italiane - non è una questione ordinaria. Se è necessario, va fatto, perché in un Paese normale non è ammesso che ci siano intoccabili. Ma se la prova non salta fuori, Bertolaso, che oggi è crocifisso, domani potrebbe anche risorgere.

E’ proprio questa la scommessa del sottosegretario. Ed è la stessa dell’intero governo e del presidente del Consiglio. Insieme al caso Protezione civile, Berlusconi infatti è alle prese, in questi stessi giorni, con quelli di Milano e di Firenze, che toccano un esponente locale e uno dei coordinatori nazionali del Pdl. Il clima è orrendo: in quella che fu la capitale di Tangentopoli, si parla apertamente di un ritorno in grande stile della corruzione. Con al centro, però, non il vecchio gruppo dei partiti della Prima Repubblica, ma quello, nuovo, fondato dal Cavaliere.

In questo quadro la caduta del sottosegretario e la rappresentazione della sua struttura come il perno della corruzione nazionale avrebbero chiaramente travolto l’intero governo. Per questo Berlusconi e tutto il centrodestra hanno frenato. Il Cavaliere ha costruito la sua fortuna politica, quindici anni fa, proprio sulle macerie di un sistema politico travolto dall’ondata dei processi, e oggi non può rischiare di scivolare sullo stesso terreno. E tuttavia, se la difesa di un Bertolaso ammaccato, ma ancora in piedi, è un azzardo che ha una logica, pur discutibile, quella di un partito che a due anni dalla sua nascita mostra già evidenti segni di cedimento, non è ammissibile. Berlusconi è il primo a sapere che in questo senso, se vuole rimediare a quel che è successo, dovrà fare presto delle scelte.

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« Risposta #86 inserito:: Febbraio 18, 2010, 03:05:31 pm »

18/2/2010 - TACCUINO

Normalità o urgenza per noi pari sono
   
MARCELLO SORGI

Piovuta nel bel mezzo dello scandalo della Protezione civile, e pronunciata davanti alle più alte autorità dello Stato, la relazione del pg della Corte dei conti Ristuccia, che ha denunciato un incremento del 229 per cento delle denuncie di corruzione in Italia (153 per cento in più per la concussione, reato commesso dal pubblico ufficiale), non poteva cadere in un momento più adatto. Per la prima volta, complice il clima politico di questi giorni, la liturgia dell’elencazione di dati e cifre che si svolge annualmente non è suonata fredda e rituale come tutte le precedenti. La sensazione, insomma, è che l’anno che ci siamo lasciati alle spalle, così come quello che s’è appena aperto, abbiano reso la corruzione non episodica e periferica, ma regolare. Proviamo solo a ricordare: la Campania dei rifiuti e della Sanità, l’Abruzzo, la Calabria, la Puglia, la Lombardia, l’Emilia…: scorrono davanti ai nostri occhi anche le facce degli amministratori che hanno perso il posto o che si sono protestati innocenti, salvo uscire di scena poco dopo.

L’elenco fornito dalla magistratura di controllo vede in testa alla graduatoria delle denunce la Toscana, seguita da Lombardia, Puglia e Sicilia: ma è inutile cercare in questo una “hit parade” del peggio o del meno peggio. Spesso la corruzione emerge di più dove l’apparato pubblico è meno corrotto e dove le malversazioni, costituendo un’eccezione, vengono denunciate con maggiore facilità. E ovviamente altrettanto spesso la criminalità organizzata, con le sue minacce, funziona da freno alle denunce.

Impressionante è poi la lista delle cause della corruzione fornita dalla Corte dei conti: carenze di programmazione, eccessiva frammentazione dei centri decisionali, dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere pubbliche, per colpa, insieme – verrebbe da dire per complicità -, delle amministrazioni appaltatrici e delle imprese appaltanti, inadeguatezza dei controlli tecnici e amministrativi.

Parola più, parola meno, sono le stesse ragioni che hanno portato i governi negli ultimi anni a preferire la logica delle emergenze e delle urgenze a quella delle procedure ordinarie, e che hanno fatto a poco a poco della Protezione civile lo strumento dei “miracoli” e il braccio operativo della Presidenza del consiglio per riuscire a realizzare i propri impegni e fare bella figura. Ora che anche Bertolaso e la sua formidabile squadra sono sotto accusa, non si sa più in chi sperare: la corruzione cresce inevitabilmente, sia che si seguano le regole normali, sia che si cerchi di semplificarle, quando non di aggirarle.

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« Risposta #87 inserito:: Febbraio 22, 2010, 09:39:09 am »

22/2/2010

La corruzione è uguale per tutti
   
MARCELLO SORGI


Sulla corruzione, nessuno ha le carte in regola. È un’amara constatazione, a diciott’anni dall’inchiesta di Mani pulite che azzerò la Prima Repubblica, ma corrisponde purtroppo alla realtà.

Non le hanno Berlusconi e il Popolo della libertà. E questo al di là dei processi che riguardano personalmente, e contro cui si sta battendo, il premier. Si vede bene dalla difficoltà che il Cavaliere ha a definire - lui che ama molto le cose chiare e aborre le fumisterie della politica - una norma comprensibile, e applicabile da subito, alle liste di candidati per le elezioni regionali che stanno per essere presentate. «Non ci sarà nessun personaggio che sarà compromesso in maniera certa», ha detto e ripetuto anche ieri il presidente del Consiglio.

Ma da quel futuro («sarà»), e da quel giro di parole che segue («compromesso in maniera certa»), emerge tutta la contraddizione del voler accontentare, insieme, gli elettori che nei sondaggi manifestano il proprio disorientamento dopo lo scandalo che ha investito Bertolaso, e i ras locali che ormai controllano saldamente il territorio anche nel centrodestra, senza i quali il Pdl non si sente in grado di affrontare le urne del 28 marzo.

Non a caso, da quando ha cominciato la sua campagna anticorruzione, Berlusconi in pochi giorni ha dovuto respingere, oltre alle dimissioni del capo della Protezione civile, anche quelle del più discusso sottosegretario Nicola Cosentino, per i cui presunti rapporti con la camorra era stato chiesto l’arresto.

Non hanno le carte in regola, purtroppo, neppure Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro. A Napoli come a Firenze o Bologna, a Pescara come a Bari e a Reggio Calabria, la campana ha suonato anche per loro, rivelando un sistema simile a quello che descrivono le più recenti intercettazioni sugli appalti della Maddalena. Connivenze tra pubblici amministratori e imprenditori, più simili ad avventurieri che a gente con vera competenza. Scambi di favori. Familismo, compensi in natura, prestazioni sessuali. Anche quando le inchieste giudiziarie, alla fine, hanno potuto accertare molto meno di quello che all’inizio si poteva intuire, l’esistenza di un sistema di complicità, comparaggi, particolarità è uscita sempre confermata.

E le risposte, anche in casa del centrosinistra, non sono mai state univoche. Hai voglia a dire: noi i nostri li facciamo dimettere subito! Si dimettono quando l’ondata di discredito che li ha investiti è arrivata a livelli di guardia, ma soprattutto quando non hanno sufficiente potere interno per rifiutarsi. Si sono dimessi, senza o quasi una parola di solidarietà, il presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e quello della Regione Lazio Piero Marrazzo, il sindaco di Bologna Del Bono, gli assessori fedifraghi nella giunta regionale pugliese. Ma non si sono dimessi il governatore della Campania Antonio Bassolino (al posto del quale, con l’appoggio anche di Di Pietro, è stato candidato il sindaco inquisito di Salerno Vincenzo De Luca), né quello della Puglia Nichi Vendola, né il sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino.

Non hanno le carte in regola neanche i magistrati. A parte il fatto che, come ha rivelato la recente relazione della Corte dei conti che ha quantificato l’incremento della corruzione al 229 per cento - dicasi 229 per cento! - ci sono giudici accusati di essere corrotti anche al più alto livello delle toghe, da una Procura come quella di Firenze, che ha tenuto sotto intercettazione i suoi indagati per oltre due anni - dicasi più di due anni! -, ci si aspetterebbe che fosse in grado di fornire prove inconfutabili alle proprie accuse, e non che aspetti di ottenerle con le confessioni degli imputati.

Se il problema era sapere che la politica italiana, a qualsiasi livello, è tornata ad essere un sistema «gelatinoso», con tutta la riconoscenza per la magistratura che ha impegnato tante energie a cercare di dimostrarlo, grazie, lo sapevamo già. C’è una ragione strutturale di tutto ciò, che i principali leader finora faticavano ad ammettere, ma che adesso non riescono più a nascondere. Quando anche un partito come il Pdl - nato da un’originale intuizione di Berlusconi, «fulminato» sul predellino di San Babila, e dalla fusione dell’ex Forza Italia con l’ex-An - si ritrova avvermato da correnti trasversali e locali, che rappresentano interessi obliqui e si fanno quotidianamente una lotta senza quartiere, la corruzione è la logica conseguenza di un modello come questo. Vale per Berlusconi e per Bersani, presto varrà anche per Di Pietro e per gli altri. A questo punto non è più nemmeno necessario chiedersi se stiamo assistendo a un ritorno di Tangentopoli. Se i partiti «nuovi» della Seconda Repubblica funzionano esattamente come quelli «vecchi» della Prima, il punto d’approdo non potrà che essere lo stesso del 1993. Così è finita la rivoluzione italiana e la lunga transizione senza sbocco. Invece di cambiare, siamo tornati al punto di prima.

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MARCELLO SORGI


Sulla corruzione, nessuno ha le carte in regola. È un’amara constatazione, a diciott’anni dall’inchiesta di Mani pulite che azzerò la Prima Repubblica, ma corrisponde purtroppo alla realtà.

Non le hanno Berlusconi e il Popolo della libertà. E questo al di là dei processi che riguardano personalmente, e contro cui si sta battendo, il premier. Si vede bene dalla difficoltà che il Cavaliere ha a definire - lui che ama molto le cose chiare e aborre le fumisterie della politica - una norma comprensibile, e applicabile da subito, alle liste di candidati per le elezioni regionali che stanno per essere presentate. «Non ci sarà nessun personaggio che sarà compromesso in maniera certa», ha detto e ripetuto anche ieri il presidente del Consiglio.

Ma da quel futuro («sarà»), e da quel giro di parole che segue («compromesso in maniera certa»), emerge tutta la contraddizione del voler accontentare, insieme, gli elettori che nei sondaggi manifestano il proprio disorientamento dopo lo scandalo che ha investito Bertolaso, e i ras locali che ormai controllano saldamente il territorio anche nel centrodestra, senza i quali il Pdl non si sente in grado di affrontare le urne del 28 marzo.

Non a caso, da quando ha cominciato la sua campagna anticorruzione, Berlusconi in pochi giorni ha dovuto respingere, oltre alle dimissioni del capo della Protezione civile, anche quelle del più discusso sottosegretario Nicola Cosentino, per i cui presunti rapporti con la camorra era stato chiesto l’arresto.

Non hanno le carte in regola, purtroppo, neppure Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro. A Napoli come a Firenze o Bologna, a Pescara come a Bari e a Reggio Calabria, la campana ha suonato anche per loro, rivelando un sistema simile a quello che descrivono le più recenti intercettazioni sugli appalti della Maddalena. Connivenze tra pubblici amministratori e imprenditori, più simili ad avventurieri che a gente con vera competenza. Scambi di favori. Familismo, compensi in natura, prestazioni sessuali. Anche quando le inchieste giudiziarie, alla fine, hanno potuto accertare molto meno di quello che all’inizio si poteva intuire, l’esistenza di un sistema di complicità, comparaggi, particolarità è uscita sempre confermata.

E le risposte, anche in casa del centrosinistra, non sono mai state univoche. Hai voglia a dire: noi i nostri li facciamo dimettere subito! Si dimettono quando l’ondata di discredito che li ha investiti è arrivata a livelli di guardia, ma soprattutto quando non hanno sufficiente potere interno per rifiutarsi. Si sono dimessi, senza o quasi una parola di solidarietà, il presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e quello della Regione Lazio Piero Marrazzo, il sindaco di Bologna Del Bono, gli assessori fedifraghi nella giunta regionale pugliese. Ma non si sono dimessi il governatore della Campania Antonio Bassolino (al posto del quale, con l’appoggio anche di Di Pietro, è stato candidato il sindaco inquisito di Salerno Vincenzo De Luca), né quello della Puglia Nichi Vendola, né il sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino.

Non hanno le carte in regola neanche i magistrati. A parte il fatto che, come ha rivelato la recente relazione della Corte dei conti che ha quantificato l’incremento della corruzione al 229 per cento - dicasi 229 per cento! - ci sono giudici accusati di essere corrotti anche al più alto livello delle toghe, da una Procura come quella di Firenze, che ha tenuto sotto intercettazione i suoi indagati per oltre due anni - dicasi più di due anni! -, ci si aspetterebbe che fosse in grado di fornire prove inconfutabili alle proprie accuse, e non che aspetti di ottenerle con le confessioni degli imputati.

Se il problema era sapere che la politica italiana, a qualsiasi livello, è tornata ad essere un sistema «gelatinoso», con tutta la riconoscenza per la magistratura che ha impegnato tante energie a cercare di dimostrarlo, grazie, lo sapevamo già. C’è una ragione strutturale di tutto ciò, che i principali leader finora faticavano ad ammettere, ma che adesso non riescono più a nascondere. Quando anche un partito come il Pdl - nato da un’originale intuizione di Berlusconi, «fulminato» sul predellino di San Babila, e dalla fusione dell’ex Forza Italia con l’ex-An - si ritrova avvermato da correnti trasversali e locali, che rappresentano interessi obliqui e si fanno quotidianamente una lotta senza quartiere, la corruzione è la logica conseguenza di un modello come questo. Vale per Berlusconi e per Bersani, presto varrà anche per Di Pietro e per gli altri. A questo punto non è più nemmeno necessario chiedersi se stiamo assistendo a un ritorno di Tangentopoli. Se i partiti «nuovi» della Seconda Repubblica funzionano esattamente come quelli «vecchi» della Prima, il punto d’approdo non potrà che essere lo stesso del 1993. Così è finita la rivoluzione italiana e la lunga transizione senza sbocco. Invece di cambiare, siamo tornati al punto di prima.

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« Risposta #88 inserito:: Febbraio 23, 2010, 03:02:38 pm »

23/2/2010 - TACCUINO

Il paradosso Emma alleata-avversaria
   
MARCELLO SORGI


Lo sciopero della sete proclamato da Emma Bonino, contro le difficoltà burocratiche per la raccolta delle firme necessarie per la presentazione delle liste, mette in luce la contraddizione che ha accompagnato fin dall’inizio l’alleanza tra il Pd e la Rosa nel pugno e, almeno inizialmente, la candidatura dell’ex commissario europeo alla presidenza della Regione Lazio.

All’interno del Pd la scelta di Emma non è stata vista bene da tutti. C’erano le riserve dei cattolici convinti che la connotazione iperlaica della leader radicale avrebbe creato forti riserve nell’elettorato cattolico, molto presente a Roma, e nelle gerarchie vaticane che nella regione da sempre spostano voti.

C’erano le resistenze di una parte della minoranza interna, uscita battuta al congresso e protesa a mettere in difficoltà la segreteria Bersani al suo primo appuntamento elettorale. C’erano infine le diffuse richieste di avviare anche nel Lazio le primarie, che Bersani ha invece preferito evitare proprio per non indebolire una candidata che non aveva praticamente concorrenti.

Dopo la rinuncia del presidente della Provincia di Roma Zingaretti, non c’era praticamente nessuno disposto a cimentarsi con la difficile eredità di Piero Marrazzo, uscito di scena in conseguenza dello scandalo dei trans. Inoltre, per Bersani, la candidatura della Bonino aveva il pregio di una forte discontinuità: di qui il sostegno che ha deciso di assicurarle.

Ma se è riuscito a far digerire al partito Emma come candidato governatore, Bersani ha avuto fin troppe difficoltà a spiegare che l’accordo per il Lazio non esclude che i radicali si presentino autonomamente – e sostanzialmente in contrapposizione al Pd – in altre regioni. La legge elettorale per le regionali infatti, avendo una soglia di sbarramento quasi inesistente, spinge tutti i partiti a rientrare in gara per poi rimettere in gioco voti che, diversamente dalle politiche, in questo caso non andranno perduti.

Di qui la battaglia delle firme, anzi fino all’ultima firma. Teoricamente la raccolta dovrebbe essere agevolata dal personale dei Comuni, che reagisce spesso neghittosamente, e sostenuta da una campagna di informazione che finora la Rai ha trascurato. Il termine per la presentazione delle firme scade alla fine della settimana. E neppure nei Comuni amministrati dal Pd, denuncia Bonino, il Pr ha trovato grande collaborazione. Alleati a Roma per la corsa alla Regione, i radicali si ritrovano dappertutto trattati come avversari dal centrosinistra.

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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 24, 2010, 05:41:44 pm »

24/2/2010 - TACCUINO

Il Quirinale e la nevrosi del Palazzo    


MARCELLO SORGI

Chiedetelo ad altri», a chi lo spingeva, ieri, a margine del convegno di Confindustria, a dire la sua sulla corruzione, il Capo dello Stato ha risposto con questa battuta. E siccome era di buonumore, anche con un sorriso, che per tutto il giorno, insieme con la risposta sibillina che Napolitano aveva dato, nei corridoi parlamentari sono stati al centro di ogni possibile illazione.

Prima, immancabile, interpretazione: ce l'aveva con Berlusconi e con il centrodestra, anche ieri lambiti dall'inchiesta per riciclaggio che ha investito il senatore Di Girolamo, e ovviamente sempre meno credibili quando parlano, proprio in questo periodo, di una prossima campagna anticorruzione del governo.

Seconda, più arzigogolata, lettura: se l'è presa con tutti, anche con i suoi, perché giudica mediocre il modo in cui negli stessi giorni maggioranza e opposizione si rinfacciano casi di corruzione. E mentre schierano inquisiti per il prossimo appuntamento elettorale del 28 marzo, continuano a promettere inutilmente che le loro liste saranno linde di bucato, come se appunto gli elettori non conoscessero le facce e i curricula di molti di quelli che già fanno capolino dai maxi-poster. Affissi tra l'altro, spesso, anche abusivamente, sui muri delle città.

Naturalmente non esiste prova alcuna che il presidente Napolitano intendesse dare questi o altri giudizi su quanto sta accadendo.
La prudenza del Capo dello Stato è rinomata, così come la sua abitudine a parlare «per atti», cioè ad esprimere le sue convinzioni formalmente, nei casi in cui è chiamato per dovere d'ufficio a farlo. Se la legge sul legittimo impedimento, di cui ieri è stato riavviato l'iter per ottenerne l'approvazione in tempi brevissimi, o le future norme anticorruzione rinviate dall'ultimo Consiglio dei ministri, e che dovrebbero essere varate nel prossimo, o ancora il pacchetto di riforme della giustizia che il ministro Alfano ha riassunto in una recente intervista alla Stampa, non dovessero incontrare il gradimento del Quirinale, il Presidente esprimerà il suo dissenso, come ha fatto altre volte, nelle forme che gli sono proprie.

Per il momento, invece, al confuso dibattito sulla corruzione e sul ritorno di Tangentopoli, Napolitano non intende prendere parte. Gli esercizi di introspezione psicologica su una sua mancata risposta, o su un semplice sorriso, segnalano tuttavia la nevrosi che ormai attraversa il Palazzo. Agitato dall'incubo, in gran parte irrazionale, della crisi, o peggio di un crollo, della Seconda Repubblica simile a quello della Prima, e incapace di contrastarlo.

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