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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 252245 volte)
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« Risposta #585 inserito:: Novembre 04, 2013, 11:51:22 am »

Editoriali
04/11/2013

Inizia una nuova stagione

Marcello Sorgi

La toppa che domani sarà messa, in un modo o nell’altro, al caso Cancellieri, purtroppo non servirà a riportare il governo in carreggiata. 

È fin troppo chiaro infatti che il salvataggio avverrà senza che sia stata siglata una tregua tra i due principali partiti del governo di larghe intese, che nella circostanza, gravata dalla mozione di sfiducia personale presentata in entrambe le Camere dal Movimento 5 stelle, si sono mossi ciascuno per proprio conto: il Pdl difendendo la ministra, più che altro, per sottolineare la differenza di trattamento tra la telefonata della Cancellieri in aiuto di Giulia Ligresti e quella, assai diversa, di Berlusconi in difesa di Ruby Rubacuori, per la quale l’ex premier è stato condannato a sette anni. E il Pd accettando a denti stretti, e con pesanti dissensi interni, di ridare la fiducia alla Guardasigilli solo per salvare il governo. 

Ma dietro il fragile compromesso che dovrebbe portare alla chiusura del caso, già si avverte il soffio dei venti che annunciano il cambio di stagione.

La novità più importante non è la scelta maturata da Berlusconi di aprire la crisi e andare all’opposizione, con tutto o in gran parte il suo partito. 

Piuttosto, la volontà del Pd - che emerge anche tra le righe dell’intervista a Epifani che pubblichiamo - di non farsi più carico automaticamente di un esecutivo che presto potrebbe avere una maggioranza più risicata. Affidata, oltre che al centrosinistra, a quel che rimane del partito di Monti e al gruppetto di dissidenti del Pdl raccolti attorno al vicepresidente del consiglio Alfano. Siamo a questo: nel giro di un mese, già langue quella che il 2 ottobre - quando appunto i 23 senatori del centrodestra costrinsero un riluttante Berlusconi a rimangiarsi la crisi e a votare a denti stretti la fiducia - era stata salutata da Enrico Letta come un’operazione chiarificatrice, che finalmente poteva dar respiro al governo. 

 

La ragione di questa difficoltà, di cui a malincuore hanno cominciato a prendere atto gli alfaniani, e a stretto giro anche il vertice del Pd, è che con la decadenza di Berlusconi da senatore cadranno simultaneamente anche le larghe intese. Si può anche provare a governare con un’altra maggioranza: ma non sarà facile, e tutti se ne stanno accorgendo. Tra il capirlo, e l’ammetterlo apertamente, tuttavia, ne corre. Pertanto, da dopodomani, quando il caso Cancellieri sarà archiviato, la turbolenza si trasferirà sulla legge di stabilità. Da documento essenziale per rimettere a posto i dissestati conti pubblici italiani, il testo messo a punto dal ministro dell’Economia Saccomanni si trasformerà così in pochi giorni in nuova occasione di scontro, di crisi, e se possibile di scioglimento delle Camere, per andare a votare a primavera per le elezioni politiche, e non solo per le europee.

Va detto che per criticare la legge di stabilità, motivi non ne mancano. Si pensi solo al fatto che, nella formulazione attuale, il documento prevede che dopo aver saldato i debiti con il fisco mettendo mano alla tredicesima, i contribuenti italiani, a metà gennaio, dovrebbero prepararsi a un nuovo prelievo: con quali mezzi non si sa, dato che i bilanci di molte famiglie si chiuderanno in rosso e sotto l’albero di Natale si vedranno segni evidenti di austerità. Ma all’attacco della manovra di fine anno - ecco il fatto nuovo - non andrà soltanto, e con metodi da «guerriglia», il centrodestra, come già annunciato da Brunetta. Con un’altra piattaforma, ma con pari risolutezza, si muoverà anche il Pd. L’effetto di questo attacco a tenaglia potrebbe, ovviamente, essere la crisi. Ma anche no: perché le leggi di bilancio vanno sempre approvate, costi quel che costi, e i due maggiori alleati-avversari del governo potrebbero accontentarsi, al momento, di imporre un ulteriore logoramento a Enrico Letta. 

A una prospettiva del genere - difficilmente sopportabile in Europa per un Paese nelle condizioni dell’Italia - concorre anche un dettaglio che a giorni sarà concreto e sul quale occorrerebbe cominciare a riflettere. Nel giro di un mese, giorno più, giorno meno, tutti e tre i leader dei maggiori partiti - Pd, Pdl e M5s - saranno fuori dal Parlamento. Grillo lo è già: l’altro giorno s’è affacciato in tribuna, al Senato, giusto il tempo per fiutare l’aria e correre per strada a sparare contro le istituzioni. Berlusconi, con la decadenza, uscirà anche lui da Palazzo Madama. E Renzi, che si prepara a prendere la guida del Pd, in Parlamento semplicemente non c’è mai entrato. Immaginare che questo non porti conseguenze è impossibile, per non dire irrealistico. Sta per partire la prima campagna elettorale di tre leader che da Genova, da Arcore e da Firenze si contenderanno i voti di quei pochi italiani che ancora vanno alle urne attaccando Bruxelles e gli eurocrati che ogni giorno ci impongono nuove dosi di rigore, e Roma e la politica piagnona e incapace di decidere. 

Da - Editoriali
04/11/2013
http://www.lastampa.it/2013/11/04/cultura/opinioni/editoriali/inizia-una-nuova-stagione-0UvNTTUuNImH7LDYIpteDO/pagina.html 
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« Risposta #586 inserito:: Novembre 17, 2013, 06:42:24 pm »

politica
17/11/2013

Berlusconi-Alfano, il parricidio va in scena ma senza spargimento di sangue
Silvio e Angelino dopo la scissione hanno evitato attacchi diretti

Marcello Sorgi
Roma

Un terzo al governo, due terzi all’opposizione: ecco la nuova strategia di Berlusconi. E chi s’aspettava ieri dal leader del centrodestra un’intemerata contro i «traditori» - come Alfano e i suoi sono chiamati da tempo, da falchi e lealisti della rinata Forza Italia -, ha dovuto assistere tutt’al più alla ramanzina di un genitore: amareggiato, sì, ma al fondo generoso, verso il figliolo ribelle che si spera possa tornar prodigo. 

Pur prendendo atto che i rapporti tra governativi e lealisti si sono irrimediabilmente deteriorati, il Cavaliere ha raccomandato ai suoi di evitare polemiche con i «cugini» governativi, tenendo solo per sé la licenza di sfotterli, di dire che come ministri non valgano granché e hanno scelto un nome che non funziona per il loro partito. Tuttavia, sul fatto che un domani i due tronconi dell’ex-Pdl potrebbero riunificarsi, in vista di elezioni, come alleati di una coalizione, non ci piove. E quindi, per Berlusconi, va evitato un ulteriore peggioramento delle relazioni interne, e salvato invece il legame di fondo destinato a rimanere tra chi ha vissuto insieme la gran parte dell’avventura del ventennio. 

Metà marketing e metà politica, com’è sempre nei disegni dell’ex premier, il piano di Berlusconi è questo. Chi gli ha parlato nelle ore terribili che hanno accompagnato la scissione lo ha trovato a sorpresa determinato e sicuro di sé, come se appunto la spaccatura del suo partito e la conseguente rottura delle larghe intese le abbia decise con la consapevolezza che il governo non cadrà né ci saranno elezioni anticipate. Per questo Berlusconi uscirà dalla maggioranza a cuor leggero, ma non subito (probabilmente in occasione del voto sulla legge di stabilità). E andrà a fare l’opposizione, compito che considera più congeniale a una lunga campagna elettorale come quella che prepara, per il voto europeo che sta per arrivare e per quello politico che verrà nel 2015. Inoltre, temendo colpi di coda imprevedibili delle procure da cui si sente perseguitato (oltre un terzo del discorso di rifondazione di Forza Italia lo ha dedicato alla magistratura politicizzata), anche senza dichiararlo apertamente, pensa che sia più difficile arrestarlo, dopo la decadenza da senatore, come capo dell’opposizione, che non nel ruolo di alleato del governo ricoperto fin qui. 

Il primo test del Berlusconi di lotta e di governo saranno appunto le europee. Da affrontarsi con un programma anti-euro, anti-Banca centrale europea e in definitiva anti-europeista, di cui l’intervento di ieri ha fornito il primo assaggio. In questo, il Cavaliere, che ha già fiutato l’aria e studia da tempo l’avversario più temuto, intende far la concorrenza a Grillo, e se possibile riprendersi una parte dei voti di centrodestra trasmigrati al Movimento 5 stelle.

Il tema della giustizia, che da sempre costituisce un cavallo di battaglia del Cavaliere, diventerà un tormentone quotidiano dopo la decadenza. Mentre resta in sospeso quello della discesa in campo della figlia Marina, prevista in caso di impedimento generato dall’esecuzione della pena, seppure sotto forma di affidamento ai servizi sociali. Ma non è detto. Proprio perché l’appuntamento elettorale più importante, con le elezioni politiche, slitterà al 2015, Berlusconi ritiene di arrivarci avendo saldato il conto più urgente con la giustizia e potendo riacquistare la sua piena o quasi completa, ancorché provvisoria, agibilità da leader.

Se questa è a grandi linee l’agenda del Cavaliere, l’aspetto più sorprendente della giornata è stata la singolare coincidenza del progetto berlusconiano con quello che poche ore dopo ha illustrato Alfano a nome dei governativi. Intanto, la scissione che s’è compiuta nel Pdl venerdì sera si ricomporrà, seppure temporaneamente, in occasione del voto sulla decadenza, annunciato per il 27 novembre, in cui anche il «Nuovo centrodestra» si opporrà alla cacciata del Cavaliere dal Senato, schierandosi con i separati in casa di Forza Italia. E fin d’ora, pur sapendo di non poter essere accontentato, Alfano ha invitato il Pd a valutare attentamente l’ipotesi di un nuovo rinvio. Al governo, ha spiegato il vice-premier, il gruppo degli scissionisti intende restare per marcare la propria presenza in senso anti-estremista e anti-sinistra.

E riproponendo tutti i punti programmatici finora appartenuti al Pdl, dal taglio delle tasse, alla riforma istituzionale in senso semipresidenzialista, a quella della giustizia, fin qui accantonata proprio perché ritenuta «divisiva», e per la quale gli alleati del Pd non faranno certamente gridolini di gioia. Infine, a Berlusconi che confessava di aver provato dolore nel veder allontanare Angelino, perchè lo considerava come un figlio, Alfano ha replicato che i figli a volte litigano con i padri, ma questo non deteriora certo il rapporto, né mette in discussione l’affetto familiare.

In conclusione, per essere due avversari che dovevano dichiararsi guerra a distanza, nel primo giorno dopo la scissione, Berlusconi e Alfano sono sembrati vicendevolmente fin troppo attenti a misurare le parole, a condividere più le cose che li uniscono rispetto a quelle che li dividono, a cominciare dalla decisione dell’uno di mollare il governo, e dell’altro di restarci. Ancora, a far apparire il loro divorzio come una sorta di separazione consensuale, inevitabile ma forse non definitiva, tenendo teso il filo di fondo che li lega e difficilmente si spezzerà. Così che sì, forse, tanto tuonò che piovve, e il parricidio a lungo annunciato alla fine s’è consumato. Ma il sangue che doveva scorrere alla fine non s’è visto.

http://lastampa.it/2013/11/17/italia/politica/berlusconialfano-il-parricidio-va-in-scena-ma-senza-spargimento-di-sangue-c21hv9jR5doILOkghg7K0O/pagina.html
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« Risposta #587 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:27:15 pm »

Editoriali
16/11/2013

Il primo atto del “dopo Berlusconi”
Marcello Sorgi

La rottura maturata nel partito berlusconiano, con la decisione di Alfano e dei governativi del Pdl di dar vita a gruppi parlamentari distinti dalla rinata «Forza Italia», e intitolati a un «Nuovo centrodestra italiano», avrà conseguenze politiche immediate e di prospettiva. La prima e più importante è che il governo è salvo, ha una nuova maggioranza più ristretta, ma (ci si augura) più coesa, e di fronte a sé un’opposizione più forte, in cui Berlusconi e Grillo faranno a gara ad assestare colpi a Letta e a rendergli la vita impossibile in Parlamento e nel Paese. 

Nel giorno in cui la Commissione europea ha duramente richiamato l’Italia per i conti pubblici a rischio, le incertezze della legge di stabilità e per lo spettacolo intollerabile delle Camere sepolte da migliaia di emendamenti, la svolta potrà essere salutata positivamente a Bruxelles, perché consente una ridefinizione più rapida delle scelte più difficili di politica economica, e perché Letta, da oggi, guiderà una coalizione legata a più forti convinzioni europeiste, anche se questo farà sì che parallelamente, nel campo più largo delle opposizioni, aumentino le pulsioni anti-euro, con tutto quel che comportano in vista della prossima campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo. 

La nuova maggioranza delle piccole-larghe intese (occorrerà trovare un altro modo per definirla, ma intanto questa è, dal momento che Alfano e i suoi insistono a definirsi di centrodestra) ha contorni abbastanza frastagliati e in via di definizione. Contemporaneamente alla rottura nel Pdl ieri non a caso maturava un’altra scissione in ambito montiano: il leader dell’Udc Casini e il ministro della Difesa Mauro abbandonavano il sofferente partito dell’ex presidente del Consiglio, in vista, par di capire, di accasarsi con i transfughi del Pdl o comunque di favorire un rassemblement nel centro che guarda al centrodestra. Tra i motivi di quest’altra rottura le critiche, indurite di recente, di Monti nei confronti di Letta, anche se il senatore a vita non pensa certo a passare all’opposizione.

Inoltre nel Pd che ribolle di divisioni, in vista delle primarie e della riapertura del caso Cancellieri - dopo le rivelazioni su nuove telefonate, della ministra o di suoi familiari, al fratello di Ligresti, Antonino -, quel che è accaduto nel centrodestra è di sicuro destinato a provocare conseguenze. Non solo perché negli ultimi giorni, man mano che la scadenza del voto dell’8 dicembre e dell’annunciata vittoria di Renzi si avvicina, crescono le tensioni interne e da qualche parte si è arrivati a minacciare scissioni, ma per il semplice motivo che i contorni della nuova maggioranza scaricano sul Pd il peso maggiore del sostegno al governo. Immaginare che effetto avrà questo sul sindaco di Firenze, fin qui il più tiepido sostenitore delle larghe intese, è prematuro. Ma è impossibile che possa piacergli il nuovo scenario: con il governo che tutti i giorni fa i compiti rigorosi richiesti da Bruxelles, e Berlusconi e Grillo che gli sparano addosso.

 

Per valutare bene le prospettive del nuovo quadro politico, occorrerà dunque mettere in conto anche una robusta dose di movimentismo renziano, che nell’immediato si eserciterà sulla riforma elettorale, la più urgente delle scadenze, dopo l’approvazione della legge di stabilità che a questo punto si potrebbe dare per scontata. Il paradosso è che Matteo Renzi è rimasto il solo, o quasi il solo, a sostenere il bipolarismo, anche di fronte a un panorama politico in cui i poli, con Grillo, sono diventati tre, e da ieri quattro o cinque o non si sa quanti. La maggior parte degli alleati del governo infatti puntano chiaramente a un ritorno al proporzionale puro, cioè alla legge che garantisce l’esistenza di qualsiasi partito o partitino da solo, e toglie la scelta dei governi agli elettori, che con il maggioritario l’avevano sempre avuta negli ultimi vent’anni, tranne nel 2013. Può darsi che, imprevedibilmente, Renzi, se vorrà opporsi al ritorno all’indietro, trovi sulla sua strada come inaspettato alleato proprio Berlusconi. Ma è inutile nasconderlo: il Cavaliere è ormai stanco, sta per decadere da senatore e finire ai servizi sociali, l’altro giorno s’è perfino lasciato scappare che se ne andrebbe volentieri ad Antigua. Ed è il primo a sapere che quel che è accaduto nel suo campo, contro la sua volontà, ha il sapore amaro del dopo-Berlusconi. L’uomo-simbolo del Ventennio, che resterà famoso per le sue intuizioni, non poteva immaginare che dalle ceneri della Seconda Repubblica sarebbe nato qualcosa che ricorda molto la Prima.

Da - http://lastampa.it/2013/11/16/cultura/opinioni/editoriali/il-primo-atto-del-dopo-berlusconi-Q2WOzO7Xhw3JZ8DOCu8bwL/pagina.html
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« Risposta #588 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:45:42 pm »

Editoriali
15/11/2013

Francesco alleato di Napolitano
Marcello Sorgi

Ha parlato al vecchio cuore comunista di Napolitano. E, per suo tramite, al governo e a tutta la classe dirigente schierata davanti a lui. Ha detto che la crisi della politica, l’inadeguatezza delle risposte che si stanno dando alla congiuntura economica si ripercuotono sulla parte più debole della società. Ha ricordato il suo primo viaggio a Lampedusa, portando ad esempio la solidarietà della gente comune e dei soccorritori agli immigrati che rischiano, e purtroppo spesso perdono, la vita per fuggire dalla miseria. Ha rievocato il suo intervento a Cagliari, al fianco degli operai che avevano perso il lavoro, contro il capitalismo selvaggio. E in questo senso, con il pensiero ad Assisi, ha spiegato la sua decisione di scegliere il nome del patrono d’Italia. Già a partire da questi accenni, si può capire che la visita di Papa Francesco al Quirinale non è stata affatto un appuntamento rituale. Mai prima d’ora un pontefice aveva parlato così chiaro nelle sale che un tempo appartennero a Urbano VIII e Alessandro VII. 

Così che ogni dettaglio, ogni gesto precedente, ricostruiti con cura dal Papa nel messaggio rivolto a Napolitano, hanno acquistato una luce diversa, come se Francesco avesse voluto illustrare nel modo semplice che gli è congeniale qual è e sarà la strategia del suo pontificato. Non sono cadute a caso le due omelie della settimana scorsa contro la corruzione, l’anatema mirato anche contro chi ruba per dare alla chiesa o contro il pubblico amministratore disonesto che dà pane sporco ai suoi figli. Proprio perché non poteva pronunciare queste accuse in un’occasione ufficiale, di fronte ai vertici dello Stato italiano, Francesco, riservandole per la vigilia, aveva voluto far capire come la pensa in materia.

Cosa abbia potuto convincerlo, dopo soli otto mesi, a levare parole tanto dure, non è solo l’attenta osservazione dell’Italia in cui sente di avere le proprie radici, ma forse anche la sua lunga esperienza di primate vissuto in fondo al mondo: Bergoglio è pur sempre l’arcivescovo di Buenos Aires che assistette al default argentino del 2001, e di lì, a diretto contatto con una delle crisi più recenti e più gravi, ha ricavato la convinzione che sono gli strati più deboli e marginali della società a soffrire gli effetti peggiori della recessione.
 
Di qui viene il richiamo alla classe politica e alla necessaria qualità morale della vita pubblica, che possono determinare, a seconda se esistono, il benessere o la decadenza di un Paese. Una classe dirigente che non si dimostri in grado di affrontare la crisi economica - è la convinzione del Papa - si assume la responsabilità di aumentare la sofferenza dei poveri e della parte più bisognosa della società.

Se non avesse affrontato, com’era ovvio, i problemi delle famiglie, si potrebbe dire che siamo di fronte a un completo cambiamento dei temi del confronto tra Stato e Chiesa: almeno di quello a cui ci aveva abituato la lunga predicazione di Giovanni Paolo II e il breve ma intenso interregno di Benedetto XVI. Dalla bioetica, dalle questioni dell’inizio e della fine della vita, dalla contestazione di divorzio, aborto, coppie di fatto e inseminazione artificiale, a una brusca virata sul sociale, sulle ferite di una società alle prese con problemi economici gravissimi, le fabbriche chiuse, il lavoro perduto, i giovani a spasso, la pensione che non arriva o non basta. È su questo terreno che il Papa cerca un ruolo per la sua Chiesa nella società secolarizzata e tenta un nuovo tipo di rapporto con la classe dirigente italiana: non più basata sull’aderenza di una legislazione - che necessariamente divide la politica - ai cosiddetti principi non negoziabili (che tali, tuttavia, rimangono). Ma, piuttosto, indirizzata all’effettiva capacità di assolvere al proprio ruolo e di incidere su una realtà sempre più degradata.

Non ci sarebbe neppure bisogno di dire, tanto è scontato, che un approccio del genere ha trovato nel Capo dello Stato un interlocutore molto attento. Il Presidente della Repubblica che ha accettato la rielezione solo come sfida al cambiamento di una politica ammalata, che non si stanca di denunciare il clima sterile e avvelenato del confronto tra i partiti, e ha minacciato di rinunciare al mandato e dimettersi se gli obiettivi che si è dato non si realizzeranno, non poteva che accogliere con sincero entusiasmo il messaggio del Papa. Dopo le molte delusioni e i tanti giorni di amarezza, vissuti in pubblico, per la piega negativa e inconcludente che hanno preso le cose, Napolitano non potrà mai dire apertamente di aver trovato un inaspettato alleato. Ma certo, nelle parole di Francesco, ha avvertito un sincero incoraggiamento a non perdersi d’animo e a proseguire sulla sua strada. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/15/cultura/opinioni/editoriali/francesco-alleato-di-napolitano-oriulwsEu6GssIv31SiW6H/pagina.html
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« Risposta #589 inserito:: Novembre 21, 2013, 11:37:25 am »

Editoriali
21/11/2013

La tempesta per il governo non è finita
Marcello Sorgi


Pagato a carissimo prezzo, agli occhi dell’opinione pubblica, il salvataggio della Cancellieri, e appresso a lei del governo, che non avrebbe retto alle sue dimissioni, non è servito purtroppo a ridare un po’ di stabilità a Letta e al suo sofferente esecutivo. A giudicare dal tenore del dibattito di ieri alla Camera, anzi, dopo la rottura del centrodestra maturata nel fine settimana, il virus corrosivo della divisione adesso ha di nuovo aggredito il centrosinistra. 

L’idea che con la nascita di una destra di governo, alternativa a quella populista e berlusconiana che si accinge a passare all’opposizione, la maggioranza sarebbe subito diventata più omogenea e più forte, al momento è ancora lontana dalla realtà. Le due destre infatti marciano divise per colpire unite. E soprattutto quella di governo, il Nuovo Centrodestra che avrebbe dovuto incassare il salvataggio della Cancellieri come una propria vittoria, sembra in primo luogo preoccupato di non apparire subalterno al premier e al suo partito. Di qui attacchi simmetrici a Renzi, trattato da avversario, non come possibile nuovo alleato dei prossimi mesi, e additato, per propri interessi congressuali, come vero responsabile della messa in stato d’accusa della Guardasigilli.

Nel centrosinistra inoltre il voto di ieri lascia uno strascico di polemiche e un forte desiderio di rivincite che non tarderanno a manifestarsi. Bastava guardare i visi lunghi dei parlamentari del Pd, che hanno votato per pura disciplina la fiducia alla ministra, o ascoltare l’intervento alla Camera del segretario Epifani - concluso con un invito alla Cancellieri ad adoperarsi per fugare le ombre rimaste sul suo comportamento nei confronti dei Ligresti -, per capire che quello a cui si è assistito a Montecitorio è solo il primo tempo di una partita, che necessariamente si concluderà con le primarie dell’8 dicembre e l’annunciata ascesa del sindaco di Firenze alla segreteria del Pd. Si vedranno allora, dicono tutti, le vere intenzioni del nuovo leader. Ma se anche Renzi all’inizio avesse pensato di stare a guardare, anche per non dar ragione a tutti quelli che si aspettano che alla prima occasione faccia cadere il governo, ciò che è accaduto tra martedì e ieri - con la decisione di Letta di «metterci la faccia», malgrado il sindaco, e prossimo segretario, lo avesse invitato a fare esattamente il contrario, e con dalemiani e bersaniani che giravano per il Transatlantico facendo il gesto «tiè!» -, non costituisce certo un invito al futuro leader a porgere l’altra guancia. 

Si dirà che forse era troppo presto, per aspettarsi un rasserenamento della tempesta continua in cui il governo è costretto a navigare fin quasi dalla sua nascita. Ed è vero. Tra qualche giorno, quando le due destre si divideranno sul voto per la legge di stabilità, e quando Berlusconi, dichiarato decaduto, sarà fuori dal Parlamento, il nuovo quadro politico fondato sull’asse tra Letta e Alfano, a cui si deve il salvataggio della Cancellieri, e sulla prosecuzione del governo fino al 2015, dovrebbe prendere corpo e consistenza. E a quel punto si capirà quale dei due nuovi poli della politica italiana sarà più forte, tra quello dei due «dioscuri» di Palazzo Chigi, su cui vigila il Quirinale, e quello movimentista di Renzi, che guarda più alla società civile e alla competizione con Berlusconi e Grillo, che non alle responsabilità istituzionali del partito che si accinge a guidare. Ma intanto, nelle due settimane e mezza che allineano, una dopo l’altra, le tre scadenze dell’approvazione della legge di stabilità, del voto sulla decadenza di Berlusconi e delle primarie del Pd, conviene tenersi pronti a continuare a ballare: perché la tempesta non è affatto finita e il governo dovrà ancora navigare alla cappa. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/21/cultura/opinioni/editoriali/la-tempesta-per-il-governo-non-finita-F5cnPnL61Mdsn4v0qZP29N/pagina.html
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« Risposta #590 inserito:: Novembre 21, 2013, 11:40:42 am »

Editoriali
04/11/2013

Inizia una nuova stagione
Marcello Sorgi

La toppa che domani sarà messa, in un modo o nell’altro, al caso Cancellieri, purtroppo non servirà a riportare il governo in carreggiata. 

È fin troppo chiaro infatti che il salvataggio avverrà senza che sia stata siglata una tregua tra i due principali partiti del governo di larghe intese, che nella circostanza, gravata dalla mozione di sfiducia personale presentata in entrambe le Camere dal Movimento 5 stelle, si sono mossi ciascuno per proprio conto: il Pdl difendendo la ministra, più che altro, per sottolineare la differenza di trattamento tra la telefonata della Cancellieri in aiuto di Giulia Ligresti e quella, assai diversa, di Berlusconi in difesa di Ruby Rubacuori, per la quale l’ex premier è stato condannato a sette anni. E il Pd accettando a denti stretti, e con pesanti dissensi interni, di ridare la fiducia alla Guardasigilli solo per salvare il governo. 

Ma dietro il fragile compromesso che dovrebbe portare alla chiusura del caso, già si avverte il soffio dei venti che annunciano il cambio di stagione.

La novità più importante non è la scelta maturata da Berlusconi di aprire la crisi e andare all’opposizione, con tutto o in gran parte il suo partito. 

Piuttosto, la volontà del Pd - che emerge anche tra le righe dell’intervista a Epifani che pubblichiamo - di non farsi più carico automaticamente di un esecutivo che presto potrebbe avere una maggioranza più risicata. Affidata, oltre che al centrosinistra, a quel che rimane del partito di Monti e al gruppetto di dissidenti del Pdl raccolti attorno al vicepresidente del consiglio Alfano. Siamo a questo: nel giro di un mese, già langue quella che il 2 ottobre - quando appunto i 23 senatori del centrodestra costrinsero un riluttante Berlusconi a rimangiarsi la crisi e a votare a denti stretti la fiducia - era stata salutata da Enrico Letta come un’operazione chiarificatrice, che finalmente poteva dar respiro al governo. 

La ragione di questa difficoltà, di cui a malincuore hanno cominciato a prendere atto gli alfaniani, e a stretto giro anche il vertice del Pd, è che con la decadenza di Berlusconi da senatore cadranno simultaneamente anche le larghe intese. Si può anche provare a governare con un’altra maggioranza: ma non sarà facile, e tutti se ne stanno accorgendo. Tra il capirlo, e l’ammetterlo apertamente, tuttavia, ne corre. Pertanto, da dopodomani, quando il caso Cancellieri sarà archiviato, la turbolenza si trasferirà sulla legge di stabilità. Da documento essenziale per rimettere a posto i dissestati conti pubblici italiani, il testo messo a punto dal ministro dell’Economia Saccomanni si trasformerà così in pochi giorni in nuova occasione di scontro, di crisi, e se possibile di scioglimento delle Camere, per andare a votare a primavera per le elezioni politiche, e non solo per le europee.

Va detto che per criticare la legge di stabilità, motivi non ne mancano. Si pensi solo al fatto che, nella formulazione attuale, il documento prevede che dopo aver saldato i debiti con il fisco mettendo mano alla tredicesima, i contribuenti italiani, a metà gennaio, dovrebbero prepararsi a un nuovo prelievo: con quali mezzi non si sa, dato che i bilanci di molte famiglie si chiuderanno in rosso e sotto l’albero di Natale si vedranno segni evidenti di austerità. Ma all’attacco della manovra di fine anno - ecco il fatto nuovo - non andrà soltanto, e con metodi da «guerriglia», il centrodestra, come già annunciato da Brunetta. Con un’altra piattaforma, ma con pari risolutezza, si muoverà anche il Pd. L’effetto di questo attacco a tenaglia potrebbe, ovviamente, essere la crisi. Ma anche no: perché le leggi di bilancio vanno sempre approvate, costi quel che costi, e i due maggiori alleati-avversari del governo potrebbero accontentarsi, al momento, di imporre un ulteriore logoramento a Enrico Letta. 

A una prospettiva del genere - difficilmente sopportabile in Europa per un Paese nelle condizioni dell’Italia - concorre anche un dettaglio che a giorni sarà concreto e sul quale occorrerebbe cominciare a riflettere. Nel giro di un mese, giorno più, giorno meno, tutti e tre i leader dei maggiori partiti - Pd, Pdl e M5s - saranno fuori dal Parlamento. Grillo lo è già: l’altro giorno s’è affacciato in tribuna, al Senato, giusto il tempo per fiutare l’aria e correre per strada a sparare contro le istituzioni. Berlusconi, con la decadenza, uscirà anche lui da Palazzo Madama. E Renzi, che si prepara a prendere la guida del Pd, in Parlamento semplicemente non c’è mai entrato. Immaginare che questo non porti conseguenze è impossibile, per non dire irrealistico. Sta per partire la prima campagna elettorale di tre leader che da Genova, da Arcore e da Firenze si contenderanno i voti di quei pochi italiani che ancora vanno alle urne attaccando Bruxelles e gli eurocrati che ogni giorno ci impongono nuove dosi di rigore, e Roma e la politica piagnona e incapace di decidere. 

http://www.lastampa.it/2013/11/04/cultura/opinioni/editoriali/inizia-una-nuova-stagione-0UvNTTUuNImH7LDYIpteDO/pagina.html
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« Risposta #591 inserito:: Novembre 22, 2013, 07:58:35 pm »

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21/11/2013

La tempesta per il governo non è finita
Marcello Sorgi

Pagato a carissimo prezzo, agli occhi dell’opinione pubblica, il salvataggio della Cancellieri, e appresso a lei del governo, che non avrebbe retto alle sue dimissioni, non è servito purtroppo a ridare un po’ di stabilità a Letta e al suo sofferente esecutivo. A giudicare dal tenore del dibattito di ieri alla Camera, anzi, dopo la rottura del centrodestra maturata nel fine settimana, il virus corrosivo della divisione adesso ha di nuovo aggredito il centrosinistra. 


L’idea che con la nascita di una destra di governo, alternativa a quella populista e berlusconiana che si accinge a passare all’opposizione, la maggioranza sarebbe subito diventata più omogenea e più forte, al momento è ancora lontana dalla realtà. Le due destre infatti marciano divise per colpire unite. E soprattutto quella di governo, il Nuovo Centrodestra che avrebbe dovuto incassare il salvataggio della Cancellieri come una propria vittoria, sembra in primo luogo preoccupato di non apparire subalterno al premier e al suo partito. Di qui attacchi simmetrici a Renzi, trattato da avversario, non come possibile nuovo alleato dei prossimi mesi, e additato, per propri interessi congressuali, come vero responsabile della messa in stato d’accusa della Guardasigilli.
 

Nel centrosinistra inoltre il voto di ieri lascia uno strascico di polemiche e un forte desiderio di rivincite che non tarderanno a manifestarsi. Bastava guardare i visi lunghi dei parlamentari del Pd, che hanno votato per pura disciplina la fiducia alla ministra, o ascoltare l’intervento alla Camera del segretario Epifani - concluso con un invito alla Cancellieri ad adoperarsi per fugare le ombre rimaste sul suo comportamento nei confronti dei Ligresti -, per capire che quello a cui si è assistito a Montecitorio è solo il primo tempo di una partita, che necessariamente si concluderà con le primarie dell’8 dicembre e l’annunciata ascesa del sindaco di Firenze alla segreteria del Pd. Si vedranno allora, dicono tutti, le vere intenzioni del nuovo leader. Ma se anche Renzi all’inizio avesse pensato di stare a guardare, anche per non dar ragione a tutti quelli che si aspettano che alla prima occasione faccia cadere il governo, ciò che è accaduto tra martedì e ieri - con la decisione di Letta di «metterci la faccia», malgrado il sindaco, e prossimo segretario, lo avesse invitato a fare esattamente il contrario, e con dalemiani e bersaniani che giravano per il Transatlantico facendo il gesto «tiè!» -, non costituisce certo un invito al futuro leader a porgere l’altra guancia. 
 

Si dirà che forse era troppo presto, per aspettarsi un rasserenamento della tempesta continua in cui il governo è costretto a navigare fin quasi dalla sua nascita. Ed è vero. Tra qualche giorno, quando le due destre si divideranno sul voto per la legge di stabilità, e quando Berlusconi, dichiarato decaduto, sarà fuori dal Parlamento, il nuovo quadro politico fondato sull’asse tra Letta e Alfano, a cui si deve il salvataggio della Cancellieri, e sulla prosecuzione del governo fino al 2015, dovrebbe prendere corpo e consistenza.
E a quel punto si capirà quale dei due nuovi poli della politica italiana sarà più forte, tra quello dei due «dioscuri» di Palazzo Chigi, su cui vigila il Quirinale, e quello movimentista di Renzi, che guarda più alla società civile e alla competizione con Berlusconi e Grillo, che non alle responsabilità istituzionali del partito che si accinge a guidare. Ma intanto, nelle due settimane e mezza che allineano, una dopo l’altra, le tre scadenze dell’approvazione della legge di stabilità, del voto sulla decadenza di Berlusconi e delle primarie del Pd, conviene tenersi pronti a continuare a ballare: perché la tempesta non è affatto finita e il governo dovrà ancora navigare alla cappa. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/21/cultura/opinioni/editoriali/la-tempesta-per-il-governo-non-finita-F5cnPnL61Mdsn4v0qZP29N/pagina.html
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« Risposta #592 inserito:: Novembre 29, 2013, 06:50:44 pm »

Editoriali
28/11/2013

L’addio che è mancato
Marcello Sorgi

Non è affatto scontato, come ieri al contrario erano in molti a sostenere, che il voto per la decadenza di Berlusconi da senatore corrisponda alla sua fine politica. E tuttavia, la sua esclusione dal Parlamento, la condanna definitiva per frode fiscale, e quelle che tra poco lo saranno per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile, oltre ai processi appena aperti per compravendita di parlamentari e corruzione di testimoni, mettono il Cavaliere in condizioni precarie. 

Inoltre, hanno il loro peso l’età ormai avanzata e il normale logoramento di vent’anni in politica. Se non è proprio la fine, è chiaramente l’inizio di un declino che potrebbe essere rapido e ripido.

Ma anche prima di assistere alla conclusione del suo ciclo, occorre farsi la domanda che in Italia è difficile porre per qualsiasi uomo politico, ma per il leader del centrodestra diventa improponibile. E cioè: Berlusconi è stato o no l’uomo-simbolo della Seconda Repubblica, che con la sua improvvisa e imprevedibile discesa in campo, la legittimazione a sorpresa di Fini e della destra estrema fino a quel momento emarginata, e di Bossi e della Lega come forza di governo, ha introdotto il bipolarismo in Italia e per la prima volta ha reso possibile che gli elettori scegliessero i governi o li mandassero a casa, tal che per due volte il centrodestra e il centrosinistra si sono alternati alla guida del Paese?

E prima ancora, Berlusconi è stato o no l’imprenditore innovativo che con il talento, gli animal spirits e le male arti di molti altri esponenti della sua categoria, ha introdotto in Italia la tv commerciale e ha contribuito a una modernizzazione e a un mutamento culturale del Paese paragonabile solo a quello della Rai dei primi Anni Cinquanta e Sessanta? 

Oppure - ecco il centro del problema - Berlusconi è stato solo uno spregiudicato corruttore, della politica, del costume, della vita pubblica, un personaggio privo di qualsiasi fondamento di etica, di senso delle istituzioni, di consapevolezza del bene comune, uno che insomma ha badato sempre e solo agli affari suoi? 

In attesa che gli storici - ma ci vorrà del tempo - sciolgano questo dilemma, si potrà osservare che quella che oggi concerne Berlusconi è una questione che in passato ha riguardato quasi tutta la classe dirigente della Prima Repubblica e buona parte di quella della Seconda. Da Tangentopoli in poi, infatti, leader e premier italiani incappati nelle maglie della giustizia sono stati archiviati con l’infamia di essere, o essere stati, dei criminali. Non politici responsabili, occasionalmente o prevalentemente, di attività illegali, ma delinquenti tout-court. E se per Craxi, dieci anni dopo la scomparsa, è dovuto intervenire il Presidente della Repubblica Napolitano, per ristabilire la verità storica e affermare che, al di là di singoli fatti giudicati nei processi, il leader socialista era stato un politico di prima grandezza, capace di imporre una spinta innovatrice a un Paese anchilosato, e se per Andreotti, malgrado la mezza assoluzione e la mezza condanna, legata alla prescrizione, dalle accuse di mafia, nessuno s’è sognato, al momento della morte, di considerarlo un boss della criminalità organizzata, è esattamente l’opposto il destino riservato a Berlusconi. Di non poter, in sostanza, essere in alcun modo disgiunto, e anzi di essere sopraffatto, dal peso della sua biografia giudiziaria rispetto a quella politica, di non poter assistere, nell’ora del tramonto, a una serena valutazione dei risultati, degli errori e dei meriti (qualcuno ce ne sarà pure) della sua vita pubblica.

È per questo motivo che Berlusconi avrebbe fatto meglio a presentarsi al Senato - come Craxi appunto fece alla Camera - e pronunciare il suo ultimo intervento, invece di arringare la folla infreddolita di via del Plebiscito e disertare l’aula di Palazzo Madama. Avrebbe potuto dimettersi, un minuto prima di farsi cacciare via dai suoi avversari, dicendo con franchezza: io almeno ho provato a cambiare, su alcune delle cose che volevo fare, anche senza ammetterlo, molti di voi eravate d’accordo, ma piuttosto che darvi la soddisfazione di farmi fuori grazie a un infortunio giudiziario, me ne vado. Una conclusione del genere, impossibile conoscendo il personaggio, lo avrebbe fatto uscire di scena da statista. Invece, per non passare alla storia come un pregiudicato, e tentare impropriamente di cancellare l’onta della condanna con il voto dei cittadini, Berlusconi ha scelto di combattere fino allo stremo la sua ultima, disperata, battaglia. E così, la Seconda Repubblica finisce esattamente come la Prima.

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/cultura/opinioni/editoriali/laddio-che-mancato-Elba9wsyxO7BjC7A1IldUL/pagina.html
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« Risposta #593 inserito:: Dicembre 03, 2013, 04:27:23 pm »

Editoriali
03/12/2013

Ora la verifica ma il calvario non è finito
Marcello Sorgi

Non saranno affatto una passeggiata la fine delle larghe intese e l’avvio della fase nuova, che dovrebbe prendere corpo dopo il dibattito e il voto di fiducia della prossima settimana. Il comunicato quasi a doppia firma, uscito dal Quirinale dopo un’ora di colloquio tra Napolitano e Letta, conferma che c’è una perfetta unità di vedute tra i due presidenti. Ma la lunga vigilia che ha preceduto il varo della verifica formale, in Parlamento, della maggioranza ristretta, ha già fatto capire che il calvario del governo non è finito.

Non è un mistero, infatti, che Letta, e in un primo momento anche Napolitano, puntassero a evitare lo stress di un altro passaggio parlamentare nel bel mezzo dell’interminabile discussione sulla legge di stabilità, tra l’altro ancora in corso e con la grana infinita dell’Imu che stenta a chiudersi. D’altra parte, il governo aveva dimostrato di avere la maggioranza al Senato, cioè nella Camera dai numeri più incerti, anche dopo la decisione di Berlusconi di passare all’opposizione. 

Ufficialmente perché insoddisfatto dei contenuti della manovra di fine anno, di fatto come reazione al voto del Pd in favore della sua decadenza. Ma l’atteggiamento intransigente di Forza Italia, reso esplicito da una delegazione salita a questo scopo al Quirinale, ha convinto Napolitano dell’impossibilità di evitare la liturgia della verifica. La scelta del Presidente della Repubblica è racchiusa tutta in quella parola - «discontinuità» - inserita nel comunicato di ieri sera e subito sottolineata con soddisfazione dai due capigruppo di Forza Italia Brunetta e Romani. Era quel che volevano i berlusconiani, per dimostrare che la rottura è seria e le conseguenze non stanno affatto trascurabili.

Per capire di che tenore sarà l’epoca successiva alle larghe intese, però, non occorrerà aspettare la prossima settimana. Basta già guardare quel che sta accadendo in questi primi giorni di sperimentazione dopo il cambiamento del quadro politico. Le due destre, nate dalla scissione del Pdl e presentate dal Cavaliere come se fossero rimaste apparentate, sono invece entrate in una fase di guerriglia, in cui praticamente ogni giorno Alfano e il suo Nuovo centrodestra sono sottoposti a un fuoco di fila di tutta la pattuglia berlusconiana, che tende a raffigurarli deboli e sottomessi al centrosinistra. Alfano, per reagire a queste polemiche, pesanti da sopportare per un partito che sta ridefinendo i confini della propria offerta politica, deve necessariamente aggiustare il tiro su Letta e il Pd: cosicché adesso scricchiola, per la prima volta, il famoso asse tra i dioscuri di Palazzo Chigi - il premier e il suo vice - che fin qui erano stati i due principali pilastri del governo. Inoltre, non appena Alfano ha alzato la testa, invocando, prima della verifica, la definizione di un vero e proprio «contratto di governo», stile Merkel, con il Pd, Renzi, che si comporta già da segretario, con una delle sue battute caustiche («Voi siete trenta e noi trecento») gli ha sparato addosso, per fargli capire come intende i rapporti di forza nel governo di qui a venire.

Sarà pur vero, come sostiene Letta, che anche questo fa parte della campagna per le primarie che si conclude domenica. E sarà ovvio, per Renzi, che puntava non da adesso a spostare verso di sé una parte dei voti del centrodestra, che la scissione del Pdl in due tronconi e la nascita di due destre, una più centrista e governativa e l’altra più radicale, non giovano certo ai suoi propositi, specie in vista delle elezioni europee.

Ma insomma, anche senza drammatizzare - non ce n’è affatto bisogno -, chi pensava che la fine delle larghe intese, non foss’altro per stanchezza, dopo sei mesi di risse, potesse coincidere con una tregua - e magari con l’approvazione di qualcuna delle riforme più urgenti, a partire dalla legge elettorale su cui oggi si pronuncerà la Corte Costituzionale - purtroppo dovrà ricredersi. La guerra continua.

DA - http://www.lastampa.it/2013/12/03/cultura/opinioni/editoriali/ora-la-verifica-ma-il-calvario-non-finito-5KHAiqLC5ey36Hfh8DziHJ/pagina.html
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« Risposta #594 inserito:: Dicembre 18, 2013, 06:07:07 pm »

Editoriali
18/12/2013

Il progetto del segretario marziano
Marcello Sorgi

I primi giorni di Matteo Renzi a Roma - dopo l’elezione plebiscitaria a leader del Pd, sull’onda di primarie che hanno coinvolto quasi tre milioni di cittadini - ricordano il famoso racconto di Ennio Flaiano, «Un marziano a Roma». Atterrato all’improvviso a Villa Borghese, il marziano veniva ricevuto al Quirinale e in Vaticano, coinvolto in faticose kermesse di incontri politico-cultural-mondani, e addirittura commercializzato, con visite a pagamento alla sua astronave. 

Ma alla fine, su di lui, scendeva il velo dell’indifferenza, la vita nella Capitale riprendeva il suo andazzo, e il povero marziano cominciava a pensare di tornarsene su Marte. 

L’accoglienza riservata al giovane segretario del maggior partito italiano, in effetti, ricorda abbastanza quella fatta al protagonista dell’apologo. Si guarda a come va vestito, ai suoi modi spicci, chi saluta e chi no. E già si mormora sulla dosata permanenza a Roma e sulla manifesta insofferenza alle liturgie istituzionali: tanto che quasi nasceva un caso lunedì pomeriggio, quando Renzi ha lasciato il Quirinale, appena finito il discorso di auguri del Presidente della Repubblica, senza neppure rilasciare una dichiarazione, e solo una successiva telefonata tra i due, resa pubblica proprio per fugare voci maliziose, ha impedito che si continuasse ad almanaccare sui loro difficili rapporti.

Agli occhi di una città millenaria che ha sempre digerito tutti i nuovi arrivati, dai barbari ai leghisti, e con qualche difficoltà in più sta provando a metabolizzare anche i grillini, Renzi insomma si presenta come un uomo che resiste all’integrazione, che si vanta di «non sopportare i buffet», e si muove a bella posta senza il minimo rispetto per il contesto in cui ha assunto repentinamente un ruolo chiave. Che poi il nuovo leader possa pure divertirsi, per restare nella metafora, a fare il marziano, sono in molti a sospettarlo, a cominciare dalla ex nomenklatura del suo partito, da lui cancellata di colpo. Ma sul suo progetto, ormai noto da anni e ripetuto in varie lingue negli ultimi mesi, almeno all’apparenza nessuno s’interroga. Come fosse un’utopia irrealizzabile in un paese con le caratteristiche dell’Italia, a cui il segretario-marziano presto o tardi dovrà rinunciare.

Naturalmente Renzi non la pensa affatto così. È un uomo che punta alla guida del governo, considera legittimo il suo obiettivo, dichiarato da tempo e che oggi non si può far finta di ignorare. Chi gli è stato vicino dall’inizio della sua carriera politica spiega che il sindaco ha sempre avuto chiaro il percorso che doveva portarlo da Firenze a Palazzo Chigi, è convinto di aver rispettato tutte le regole e non aver sbagliato una mossa fin qui. Il milione e ottocentomila voti raccolti l’8 dicembre, le primarie che sarebbe pronto a ripetere, se il partito glielo chiedesse e ci fosse uno sfidante, a suo giudizio rappresentano la legittimazione popolare e la regola per competere. È su questa base che Renzi vuol essere riconosciuto dall’insieme del sistema politico, anche da chi lo snobbava, considerandolo al massimo una tempesta passeggera.

 

Un’impostazione del genere, però, si porta dietro alcune conseguenze e qualche inevitabile conflitto. Se ciò che fa la differenza è la spinta dal basso, se ne ricava che Letta e Alfano, i dioscuri e il loro governo, per Renzi sono più o meno abusivi. Passi per una fase transitoria, purché ci siano risultati visibili. Ma al più presto, per il segretario del Pd, si deve tornare alla normalità democratica. Inoltre, se potevano avere una giustificazione le larghe intese, soluzione d’emergenza comune a tutti i paesi europei in cui dalle urne non è uscita una maggioranza, le piccole, cioè l’accordo tra il Pd e quello che spregiativamente Renzi si ostina a chiamare «il partito di Giovanardi», ai suoi occhi non ne hanno alcuna. Il segretario non riesce a immaginare, esaurita la legge di stabilità, cosa potrà fare il governo da gennaio in avanti. Teme un «balbettamento» senza sbocchi pratici. E intanto preme per una rapida approvazione parlamentare della legge elettorale, costruita trattando a tutto campo anche con Berlusconi e Grillo. Fatta quella, senza urgenza ma anche con una scadenza chiara, legata alla (in)capacità dell’esecutivo di fare le cose, non dovrebbero più esserci ostacoli per tornare a votare: ovviamente per le politiche, dato che Renzi non ama particolarmente la prospettiva di un voto per le europee, dopo una forsennata campagna anti-euro di tutte le opposizioni, a cui fatalmente il Pd non potrebbe unirsi, dovendone tuttavia sopportare gli effetti.

Resta da dire del rapporto con Napolitano. Diversamente dalla vulgata romana, che tende a presentarlo in aperta contrapposizione con il Capo dello Stato, Renzi sa di doverci costruire un’intesa. Non lo hanno particolarmente interessato le rassicurazioni sul fatto che il Presidente ha fiducia nelle nuove generazioni: non a caso ha affidato a un quarantenne la guida del governo e ha nominato una cinquantenne senatrice a vita. La verità è che Renzi pensa che l’Italia possa uscire dall’angolo in cui s’è cacciata solo facendo un balzo in avanti e interpreta così la spinta degli elettori delle primarie. Ecco perché vuol sapere da Napolitano se è disposto ad aprirgli la strada, o se considera il passo che Renzi vuol compiere, e per il quale si sente legittimato, rischioso per l’Italia e l’anticamera di un salto nel buio.

Da - http://lastampa.it/2013/12/18/cultura/opinioni/editoriali/il-progetto-del-segretario-marziano-wkMLs153QHkeYyQFlyhoKM/pagina.html
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« Risposta #595 inserito:: Gennaio 02, 2014, 02:57:08 pm »

Editoriali
02/01/2014

Operazione credibilità
Marcello Sorgi

Se avesse dovuto pronunciare ieri, e non ieri l’altro, il suo messaggio televisivo, Napolitano avrebbe forse aggiunto alle sette storie di italiani oppressi dalla crisi economica, scelte per il suo discorso, l’ottava.

Cioè la decisione del governo indiano - attesa ma purtroppo confermata, così da segnare negativamente l’inizio dell’anno -, di annullare il contratto da 560 milioni di euro con Finmeccanica per la fornitura di dodici elicotteri Agusta Westland. 

Non fosse che per la sfortunata coincidenza temporale, non ci sarebbe alcun punto di contatto tra la grave, ancorché prevista, notizia che arriva da New Delhi e gli sfoghi a cui il Capo dello Stato dal Colle ha voluto dar voce, del piccolo imprenditore che ha chiuso l’azienda, dell’esodato, del quarantenne che ha perso il lavoro e non lo ritroverà, della laureata disoccupata, dell’agricoltore che tira la cinghia, dell’impiegato pubblico che deve scegliere tra far la spesa e pagare le tasse, dell’anziano che ricorda l’epoca della ricostruzione e si domanda perché sia perduto, speriamo non definitivamente, l’entusiasmo e la voglia di fare di quegli anni. 

Effettivamente niente può collegare la perdita di una grande commessa internazionale con le vicende della gente comune: se non un aspetto, che pur impropriamente le accomuna. Malgrado tutti gli sforzi che il governo ha messo in atto, e malgrado la timida inversione di tendenza dei dati macroeconomici della crisi, l’Italia e la sua classe dirigente infatti non riescono da tempo a godere, né della fiducia interna degli italiani, né di quella di partners e osservatori internazionali.

Non basta la buona fede dei singoli, si tratti del premier Letta o di alcuni dei suoi ministri; e neppure l’ansia di rinnovamento di Renzi, il più giovane leader affacciatosi sulla scena da molti anni. Né serve separare la parte propagandistica, dal legittimo diritto di critica e di denuncia delle opposizioni. La sensazione diffusa rimane quella di una barca che naviga nell’incertezza, senza accorgersi di una falla che rischia di portarla a fondo. Un Paese consapevole di quelle poche cose, delle due o tre riforme che basterebbero a rimetterlo in carreggiata. Ma che tuttavia non riesce a realizzarle, e invece di superarlo continua a girare attorno all’ostacolo.

È questo sentimento, che Il Presidente coglie quotidianamente nel contatto con i cittadini - un rapporto, sia detto per inciso, che a giudicare dai dati d’ascolto del messaggio a reti unificate non ha affatto risentito della campagna di boicottaggio lanciata da parte di centrodestra e Lega. E che ha voluto esplicitare scegliendo, tra le molte missive che riceve, sette lettere particolarmente significative. Così, per la prima volta, il discorso di auguri del Presidente agli italiani s’è trasformato nel messaggio dei cittadini alla classe politica, con un portavoce d’eccezione impersonato da Napolitano.

Sarebbe significativo, certo, che se non proprio nella prima settimana dell’anno, ma magari nel primo mese, governo e Parlamento fossero in grado di affrontare almeno una delle questioni poste dalla gente che scrive al Quirinale. Per dire, una volta e per tutte, il problema degli esodati. Oppure, almeno in tendenza, quello dell’accesso al lavoro dei giovani disoccupati. O ancora quello della riduzione, non simbolica ma effettiva, del carico fiscale a carico delle classi meno abbienti. Purtroppo non c’è da illudersi: anche se da domani, ci si può scommettere, fioccheranno promesse pubbliche di ogni tipo e in qualsiasi ambito, finché il sistema italiano rimane bloccato non ci sono grandi possibilità che una soluzione, anche una soltanto, sia trovata.

In sintesi, è ciò che Napolitano ha riconosciuto nella seconda parte del suo discorso, ripercorrendo con evidente amarezza gli otto mesi trascorsi dalla sua rielezione: chiesta, come ha ricordato, da un arco larghissimo di forze politiche e votata dalle Camere riunite con una maggioranza di oltre il 72 per cento, ma accompagnata purtroppo fin qui dall’inutile rete di veti reciproci degli stessi che l’avevano voluta, da un nulla di fatto in materia di riforme e dall’incapacità di realizzare quel che si deve e si sa che è necessario.

È in questo quadro sconfortante che il Presidente ha rinnovato il suo appello: a concordare e approvare al più presto la riforma elettorale, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il Porcellum; ad avviare, almeno avviare, il processo delle riforme istituzionali, dato che i tempi di una legislatura nata morta come l’attuale non consentiranno di portarle a termine; e insomma a ritrovare uno straccio d’intesa, che consenta ai partiti di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e ricostruire un minimo di credibilità di fronte agli elettori.

Ancora una volta Napolitano ha legato a quest’obiettivo il suo impegno e quel che resta del suo mandato. Un mandato breve, come ha confermato, ma non tale da vedersi imporre scadenze da campagne «ridicole», così le ha definite, come quelle degli ultimi mesi di Grillo e Berlusconi, dichiaratamente mirate a intimidirlo. Senza conoscere, e senza valutare, l’incognita del carattere dell’inquilino del Quirinale, e della sua testardaggine nel voler portare l’Italia fuori dalla crisi in cui s’è impantanata.

Da - http://lastampa.it/2014/01/02/cultura/opinioni/editoriali/operazione-credibilit-JUTYRmT3lguqJfvZoj3PvO/pagina.html
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« Risposta #596 inserito:: Gennaio 08, 2014, 10:22:08 pm »

Editoriali
07/01/2014

Lo strano bivio del Pd
Marcello Sorgi

Sospesa temporaneamente - e opportunamente - per l’ondata di commozione che ha accompagnato il malore di Bersani, la polemica tra Fassina e Renzi è tutt’altro che risolta. 

In discussione, infatti, non è il rapporto personale tra i due esponenti della nuova generazione del Pd, schierati su sponde opposte anche alle primarie. Piuttosto, quello tra il Pd e il governo: una turbolenza da tempo nell’aria, sotto forma di sorda opposizione alle larghe intese, manifestatasi anche prima, nei giorni terribili dell’affossamento, ad opera dei franchi tiratori, delle candidature di Marini e Prodi alla presidenza della Repubblica. E che il passaggio di Berlusconi all’opposizione e l’arrivo di Renzi alla guida del Pd hanno oltremodo aggravato, fino a farne il tormento quotidiano del premier Letta e una questione che la direzione del partito, convocata per il 16, dovrà in qualche modo dirimere.

È abbastanza illusoria, va detto, l’idea di venirne fuori calmierando il movimentismo del nuovo segretario e convincendolo a rispettare le regole (quali regole, poi?) della politica romana, contro cui manifestamente morde il freno. Perché anche qui, non si tratta dell’amicizia o meno tra il leader e il presidente del Consiglio, o del rispetto, che per altro non ha mai fatto mancare, al Capo dello Stato. Il punto è un altro: l’elezione del nuovo segretario del Pd da parte di una base di circa tre milioni di cittadini, che lo ha plebiscitato nel nuovo ruolo con il sessanta per cento dei voti, ha riproposto, anche a chi se n’era dimenticato, la caratteristica tipica della Seconda Repubblica, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi vent’anni. E cioè il rapporto diretto tra i cittadini elettori e la scelta dei governi, prima, e adesso anche del segretario del maggior partito di governo. 

Fino alle elezioni del 2013 - con la brusca eccezione dell’ultimo, imprevedibile risultato che ha suddiviso il campo politico in tre, e non in due, schieramenti - il meccanismo aveva più o meno funzionato, per governi che poi, però, per varie ragioni, non erano riusciti a governare. Nel 1994, nel 2001 e nel 2008, vincitore e premier del centrodestra era stato Berlusconi. Nel 1996 e nel 2006 era toccato a Prodi e al centrosinistra.

I guai sono cominciati quando il Cavaliere, per incapacità di tenere insieme la sua larga maggioranza, di affrontare la crisi economica (o a sentir lui anche per un complotto consumato ai suoi danni), nel 2011 è stato costretto a mollare. E diversamente da quanto era accaduto nel 2008, alla caduta del governo Prodi, il presidente Napolitano, considerata la gravità della situazione, e per evitare nuove elezioni, ha preferito insediare Monti e il suo esecutivo tecnico sostenuto da una larghissima maggioranza, con centrosinistra e centrodestra alleati.

Che dovesse trattarsi di una parentesi, non c’erano dubbi. L’indicazione per un nuovo governo politico, di lì a poco, sarebbe dovuta sortire dalle urne elettorali del 2013. Invece per la prima volta dopo vent’anni questo non è accaduto. Con le esorbitanti conseguenze degli ultimi mesi: il tentativo fallito, di Bersani, di mettere insieme un governo di centrosinistra alleandosi con il Movimento 5 stelle; il disastro della mancata elezione presidenziale; la conseguente, ancorché eccezionale, rielezione di Napolitano, chiesta, da destra e sinistra, da un larghissimo schieramento di forze che tentavano così di arginare la loro impotenza. Una rielezione subordinata, all’atto stesso della sua accettazione, dal candidato riluttante a succedere a se stesso, all’impegno degli stessi partiti che l’avevano voluta, di varare in tempi brevissimi un programma di riforme, per affrontare la crisi di sistema in cui l’Italia era caduta. Si trattava di scegliere, appunto, tra il modello di democrazia diretta, necessariamente da aggiornare dato il suo esaurimento, in cui sono i cittadini a scegliersi i governi, e quando cadono a sostituirli con una nuova tornata elettorale. O un altro diverso modello, tra quelli delle maggiori democrazie europee, inevitabilmente da adattare all’eterna specialità italiana. In questo quadro il governo Letta, sostenuto da un’altra maggioranza di larghe intese, doveva costituire una nuova eccezione, a garanzia di un processo riformatore e di una collaborazione politica - che tutti si auguravano brevi - tra schieramenti politici opposti che sarebbero tornati a contendersi la guida del Paese.

Quel che è seguito è stato purtroppo un ennesimo nulla di fatto. Il Pdl, di fronte alla condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione e alla conseguente, seppure combattuta, decadenza da senatore, s’è diviso tra una maggioranza che ha preferito ritirare l’appoggio al governo, andando all’opposizione con il leader storico e rifondando Forza Italia, e una minoranza guidata da Alfano, che ha alzato le insegne del Nuovo centrodestra e ha deciso di mantenere il sostegno a Letta. Mentre il Pd, dopo le dimissioni di Bersani, ha puntato a risolvere i propri problemi interni con la scelta delle primarie e l’elezione popolare nel nuovo segretario. Quanto al processo della Grande Riforma, su cui tra molti sussulti la legislatura s’era avviata, è evidente che la fine delle larghe intese ne ha condizionato le prospettive e aumentato le difficoltà. Tal che lo stesso Capo dello Stato, nel suo messaggio di Capodanno, ha consigliato di concentrarsi sulla legge elettorale, indispensabile dopo la cancellazione del Porcellum operata nel frattempo dalla Corte Costituzionale.

 Così l’Italia ancora una volta è ferma davanti al bivio della sua interminabile transizione: deve decidere se e come salvare la Seconda Repubblica morente, mantenendone gli elementi di democrazia diretta e riducendone le lungaggini parlamentari che s’è portata in eredità dalla Prima, o trovare un’altra strada per la Terza. Allo stesso bivio è fermo il Pd: che con Renzi ha fatto scegliere al popolo il proprio leader, ben sapendo che dopo l’8 dicembre le gerarchie di partito avrebbero contato meno. Ma un mese dopo, con Fassina (e non solo con lui), comincia incredibilmente a pentirsene.

Da - http://lastampa.it/2014/01/07/cultura/opinioni/editoriali/lo-strano-bivio-del-pd-Og7glJLryVGpjgdoGZ6xSM/pagina.html
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« Risposta #597 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:49:17 am »

Cultura
08/01/2014

Norberto Bobbio, dieci anni dopo
Il dovere della verità anche se scomoda
Il grande filosofo moriva il 9 gennaio 2004.


Il ricordo di Marcello Sorgi.

Marcello Sorgi


Aveva l’espressione austera e corrucciata del filosofo e la severità del professore stampata in viso, Norberto Bobbio. Nella casa di via Sacchi, accolti dalla signora Valeria, e dal suo modo speciale di far reagire il marito all’umor nero del tramonto, si entrava col timore di rompere il silenzio della meditazione. Bobbio passava il suo tempo nello studio, curvo su un tavolino traballante carico di libri e illuminato da una lampada fioca.

La morte si è dimenticata di me!», esordiva, sollevando il capo nella penombra. Ma era un vezzo. Subito dopo, la stanchezza, il peso della vecchiaia, la sensazione di sentirsi fuori posto, in un mondo che non gli apparteneva più, lasciavano spazio alla curiosità, al gusto della conversazione, ai lampi di intelligenza e a un sorriso avaro, concesso con parsimonia da uno consapevole di non aver più ragioni per gioire.

Era uscito da questa sofferenza uno dei suoi ultimi libri, il De senectute che gli era valso la strana amicizia tardiva con Gianni Agnelli. Anche l’Avvocato, di tanto in tanto, andava a trovarlo: cosa potesse unire due uomini così diversi, a cui era toccata in sorte la nomina a senatori a vita, nessuno lo ha mai saputo. Forse, appunto, era la torinesità e il sentirsi parte di un’epoca che stava scomparendo. Quanto a me, prima di frequentarlo a Torino, da editorialista e nume tutelare di questo giornale, lo avevo conosciuto a Roma nel ’92, nei giorni in cui, a dispetto di se stesso, era diventato il candidato alla Presidenza della Repubblica dell’«altra» Italia. Lui ovviamente non voleva crederci, resisteva, anche quando, camminando a piccoli passi con me che lo accompagnavo dal suo albergo al Pantheon verso Montecitorio, la gente lo fermava per stringergli la mano, o tifava per lui - Forza professore! -, manifestandogli così, alla romana, una simpatia spontanea.

Alla vigilia della caduta della Prima Repubblica, mentre i partiti morenti non riuscivano a trovare un nome per il Quirinale, Bobbio, a sorpresa, si era trasformato nel candidato della società civile, che solo un anno prima, con il referendum elettorale, aveva dato una forte spallata al sistema. La sinistra spingeva a suo favore, cresceva a sorpresa, per lui, il consenso, anche tra i deputati e i senatori chiusi nel Palazzo e costretti a due votazioni al giorno, in odio ad altri candidati di peso da trombare, come Andreotti e Forlani, o nel vano tentativo di ricostruire credibilità di fronte all’elettorato preso, già allora, da un’ondata di antipolitica. Dopo nove giorni (le Camere erano riunite in permanenza dal 13 maggio), una mattina Bobbio, prendendo una camicia da un cassetto nella sua stanza d’albergo, sbattè la testa su un soffitto spiovente e si ferì. Fine della corsa e sollievo del candidato riluttante, che poteva tornarsene a casa e ai suoi studi.

Di quest’avventura in cui si era trovato quasi senza rendersene conto, il professore aveva conservato un ricordo indelebile: nel settembre del ’98, appena arrivato a Torino come direttore della Stampa, ricevetti una sua lettera nella quale, anche a distanza di tempo, ripercorreva quelle giornate trascorse insieme e tratteggiava tutte le sensazioni contrastanti che aveva provato, insieme con gli interrogativi che l’esperienza gli aveva lasciato, ai quali invano aveva cercato di dare risposta.

Di lì in poi i nostri appuntamenti divennero settimanali: si andava in delegazione, con Alberto Papuzzi, che aveva da poco ultimato la sua biografia, e con Cesare Martinetti, che dirigeva le pagine culturali della Stampa. Qualche volta sì, qualche altra no, non c’era una regola, si tornava con l’abbozzo di un articolo, che Bobbio ci avrebbe mandato il giorno dopo, con piccole, preziose, correzioni a mano, di cui si preoccupava al telefono: «Era tutto chiaro? Occorre rileggerlo?».

Fu in una di questa circostanze, divenute abbastanza rituali nella vita del giornale, che ci trovammo a gestire un’altra emergenza, assai lontana da quella del Quirinale. Benché dissuaso dal giro più stretto dei suoi amici e della sua accademia, Bobbio, il 12 novembre ’99, aveva accettato di rilasciare un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco del Foglio. Era un pezzo esplosivo, in cui per la prima volta parlava di quella parte del suo passato, legata agli inizi della carriera universitaria. Come se volesse liberarsi di un segreto imbarazzante custodito con vergogna troppo a lungo, Bobbio ricostruiva i tempi della «doppiezza», in cui era stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». Si rifiutava di accettare la lettura storica del suo intervistatore, secondo il quale tutti o quasi gli intellettuali italiani avevano condiviso un percorso del genere, ma per citare ad esempio il suo maestro, Gioele Solari, o il suo amico Leo Valiani, e per far risaltare il coraggio di chi non si era arreso, finiva col ribadire le proprie responsabilità.

Dopo la pubblicazione dell’intervista si scatenò un putiferio. Bobbio essendo il maggiore intellettuale azionista, e uno dei più rispettati maître-à-penser della sinistra, lo sconcerto, nel suo campo, era evidente. Su Repubblica Gad Lerner scrisse che era stato attirato in una «trappola». Nel giro più stretto degli amici torinesi, qualcuno gli suggeriva di smentire il testo di Buttafuoco, che invece aveva riletto e approvato parola per parola.

Anche per noi della Stampa il momento era complicato. C’era da capire perché il nostro più importante collaboratore, il custode delle radici culturali del giornale, avesse scelto un altro quotidiano per fare le sue rivelazioni. E soprattutto c’era da trovare la forza di chiamarlo, proprio mentre l’ondata di reazioni mediatiche e politiche rompeva la quiete di via Sacchi. Toccò a me il compito. Gli telefonai per informarlo che avremmo pubblicato un’intervista di Alessandro Galante Garrone, l’altro grande azionista di Torino e come lui editorialista della Stampa, che, contrariamente a chi ne aveva criticato l’imprudenza, gli offriva solidarietà. Inoltre, da storico, rilevava il fatto che la tessera fascista fosse obbligatoria per i professori universitari, e solo quattordici, in tutto il corpo docente nazionale, si fossero rifiutati di prenderla. Gli domandai perché avesse scelto Il Foglio, e non La Stampa, per fare la sua confessione; mi rispose candidamente che noi non gliel’avevamo chiesta. Insistetti, per sapere se intendesse dare un seguito alle polemiche. Ci pensò su, ma replicò soltanto: «Mi lasci riflettere». La mattina dopo, senza preavviso, mandò un articolo limpido, in cui spiegava di non essere stato vittima di alcun tranello e di aver avvertito un autentico desiderio di liberarsi del peso che lo aveva oppresso per tanti anni. Concordammo il titolo: «Io e il fascismo, lasciatemi dire».

Dieci anni dopo la sua scomparsa, ci sarebbero tanti altri episodi da narrare, di un uomo straordinario come Bobbio. Ma questi due racchiudono le principali caratteristiche del personaggio: la schiettezza tutta torinese, la sincerità, il distacco tipico di una grande cultura, e soprattutto il gusto della verità: anche quella, scomoda, che volle rivelare di sé.

Da - http://lastampa.it/2014/01/08/cultura/norberto-bobbio-dieci-anni-dopo-il-dovere-della-verit-anche-se-scomoda-r87IpV7vb4hkfrlUs9ADjN/pagina.html
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« Risposta #598 inserito:: Gennaio 16, 2014, 04:15:24 pm »

Editoriali
16/01/2014

L’incredibile ritorno del Cavaliere
Marcello Sorgi

Qualche anno fa, parlando di ben altri personaggi come Fanfani e Andreotti, si sarebbe detto: rieccolo! La grande sorpresa del nuovo anno appena cominciato, infatti, è il ritorno di Berlusconi. Condannato definitivamente ad agosto 2013 dalla Cassazione, espulso dal Senato a novembre per effetto della decadenza prevista dalla legge Severino, e in attesa di sapere se dovrà scontare la pena agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, il Cavaliere è stato riportato in scena, nientemeno, da Renzi, che ieri ha reso esplicito, alla sua maniera spiccia, quel che da giorni era nell’aria: l’intenzione, cioè, di chiudere con il leader di Forza Italia un accordo sulla nuova legge elettorale. 

Certo, ci vuole coraggio. Chi si ricorda come andò a finire 16 anni fa, all’epoca della Bicamerale, la lunga trattativa tra D’Alema e Berlusconi – conclusa con il famoso «patto della crostata» siglato a casa di Gianni Letta e smentito il giorno dopo in Parlamento dallo stesso Cavaliere –, non può non vedere un azzardo eccessivo nel percorso scelto dal giovane segretario del Pd.

La minoranza del partito, tra l’altro con in testa dalemiani e bersaniani, è in subbuglio. L’antiberlusconismo, sopito per la progressiva emarginazione del Cavaliere, improvvisamente s’è risvegliato. La direzione di oggi, convocata ad appena un mese dalle primarie che hanno incoronato il sindaco di Firenze, potrebbe riservare qualche sorpresa, con il Pd pronto a dividersi come ha fatto in tutti i frangenti importanti di questa tormentata legislatura, a cominciare dall’assalto dei franchi tiratori nelle votazioni per la Presidenza della Repubblica.

Ma Renzi non sembra affatto turbato dai mugugni interni del suo partito, né disposto a cambiare idea, privilegiando prima un accordo interno alla maggioranza che sostiene il governo, e solo successivamente la trattativa con Forza Italia. A suo giudizio non basta mettersi d’accordo con Alfano, che in caso contrario minaccia la crisi di governo, e dopo di lui con Monti e Casini. Conti alla mano, il sindaco di Firenze spiega che la maggioranza di governo, al Senato, può contare solo su sette voti di vantaggio: otto senatori dissidenti basterebbero ad affossarla. Di qui l’insistenza sulla necessità di assicurarsi anche l’appoggio del Cavaliere.


Ma le ragioni vere che spingono Renzi ad accelerare, anche a rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, come capitò a suo tempo a D’Alema, sono due. La prima, sembra incredibile, è che il segretario sente più aria di fregatura dalle parti di Palazzo Chigi, che non da quelle di Palazzo Grazioli. Lo ha detto chiaramente che lui e Letta non si prendono e il presidente del Consiglio non si fida. Inoltre, avendo scommesso sulla sua capacità di realizzare le riforme, a partire proprio da quella elettorale, non può permettersi di fallire al primo esordio.

La seconda è che il Berlusconi di oggi non è quello di ieri, e nei panni in cui si trova dovrebbe pensarci quattro volte prima di portare in giro Renzi, per buttarlo fuori strada all’ultima curva. Ridotto com’è ridotto, il Cavaliere in sostanza ha davanti l’ultima vera occasione di rientrare al centro del gioco, persa la quale, il suo destino politico e quello giudiziario non potrebbero che coincidere.

Resta da capire se una strategia come questa, specie se messa in pratica con il metodo e alla velocità di Renzi, porterà alla crisi di governo, perché Alfano e gli altri partners di Letta non accetteranno di farsi scavalcare, o se invece alla fine produrrà una nuova legge maggioritaria e bipolare e un riordino delle forze politiche, magari con la riunificazione dei due tronconi separati del centrodestra e con l’archiviazione conclusiva di ogni ipotesi centrista. Nell’un caso e nell’altro, va detto, il rischio di elezioni anticipate torna ad essere alto. Anche per questo nei prossimi giorni sarebbe utile, necessario, forse perfino indispensabile capire cosa davvero passa per la testa di Berlusconi. In altre parole: Cavaliere, se ci sei, batti un colpo!

Da - http://www.lastampa.it/2014/01/16/cultura/opinioni/editoriali/lincredibile-ritorno-del-cavaliere-iWn4rlgCTEqrKXp4XqktjJ/pagina.html
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« Risposta #599 inserito:: Gennaio 24, 2014, 06:00:56 pm »

Editoriali
23/01/2014

L’ultima chance anche per Letta

Marcello Sorgi

Il caos che ieri ha accompagnato la presentazione del testo della riforma elettorale non deve necessariamente impressionare. Era prevedibile e in qualche modo logico che una legge nata da un accordo che avrebbe dovuto cancellare, e solo successivamente s’è risolto a ridimensionare, i partiti minori, generasse una reazione così forte degli stessi.

Il fronte del No che ha accolto con una levata di scudi l’inizio dell’iter parlamentare della riforma si presenta pertanto variegato, ma anche accomunato dallo spirito di sopravvivenza. Questo, e solo questo, ha potuto riunire Monti e Casini, ormai separati da tempo, con Bossi e Vendola, due leader che a malapena si salutano quando si incontrano alla Camera. Che poi l’inedita alleanza possa attirare nelle sue file, come qualcuno si spinge a dire nei corridoi di Montecitorio, anche D’Alema e la minoranza dalemian-bersanian-cuperliana del Pd e il Nuovo centrodestra di Alfano, è tutto da vedere. Sarebbe una sorpresa non di poco conto, per una ragione molto semplice: mentre infatti il primo gruppo di oppositori appartiene alla schiera di quelli che sono stati colti di sorpresa dall’accordo tra Renzi e Berlusconi, il secondo fa parte di diritto dei partiti che hanno partecipato alla trattativa e siglato l’accordo.

Per tutti era fin troppo chiaro che l’intesa siglata tra il leader del maggior partito di governo e quello del maggior partito d’opposizione aveva come primo obiettivo sbloccare il percorso riformatore dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum; e come secondo, dare al governo una prospettiva meno incerta di quella attuale e un orizzonte di almeno un anno per poter lavorare in tranquillità. La prima e la seconda parte dell’accordo sono state esplicite, pubbliche e trasparenti fin dal primo momento. Berlusconi non aveva ancora girato l’angolo della sede del Pd al Nazareno, sabato scorso, che Renzi le illustrava soddisfatto in una conferenza stampa.

Se quelle a cui si è assistito ieri per l’intera giornata non fossero ragionevoli difficoltà da affrontare e risolvere, senza stravolgere l’impianto della riforma, e dovessero invece rivelarsi come fuoco di sbarramento o come inizio di una manovra ostruzionistica, simili a quelle a cui si assistette al Senato nell’ultima parte della precedente legislatura e nella prima parte di questa, le conseguenze diventerebbero gravi. Perché, è evidente, se vacilla o s’impantana la prima parte dell’accordo, cade immediatamente anche la seconda, come Renzi ha ripetuto dal primo momento. E l’obiettivo del premier Letta di chiudere rapidamente la trattativa sul patto di governo e andare al più presto a illustrarlo in Europa andrebbe necessariamente incontro a forti difficoltà.

L’idea che il Parlamento non possa introdurre alcuna modifica a un testo blindato, ovviamente, è irreale. Ma lo è altrettanto l’ipotesi di smontare pezzo per pezzo il nuovo sistema elettorale a colpi di emendamenti votati da maggioranze parlamentari occasionali e trasversali, che finirebbero per snaturarne l’impianto. Il quale impianto, lo hanno detto espressamente i due maggiori contraenti dell’accordo, punta a ricostruire il bipolarismo messo in crisi dagli ultimi risultati elettorali e dall’irruzione in Parlamento del Movimento 5 Stelle. In nome di quest’obiettivo ognuno ha ottenuto e ha dovuto rinunciare a qualcosa: Berlusconi ha accettato il doppio turno, che non gli era mai piaciuto, e ha avuto l’innalzamento della soglia di sbarramento al 5 per cento. Renzi ha messo da parte le preferenze, ma ha portato a casa il sì, non solo alla riforma elettorale, ma anche a quelle istituzionali. Alfano ha incassato la cancellazione del sistema spagnolo, che tendeva a ridurre il quadro a due soli partiti, e insieme a Letta ha ricevuto assicurazioni sulle prospettive del governo.

Dubbi, riserve, mugugni sono emersi un po’ da tutte le parti, e principalmente nel Pd, come s’è visto a conclusione della direzione terminata con le dimissioni del presidente Gianni Cuperlo. Ma da qui a rimettere in discussione la riforma, ce ne corre. Ci sono tutti gli elementi per chiarire, approfondire, limare, senza cercare di capovolgerlo, un testo di legge che non riguarda solo la materia elettorale, ma anche un’occasione, forse l’ultima, di uscire dall’inerzia di una transizione infinita a cui l’Italia è condannata da vent’anni.

Da - http://lastampa.it/2014/01/23/cultura/opinioni/editoriali/lultima-chance-anche-per-letta-ZIP0J6pQ1l7BpuPNBRyThL/pagina.html
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