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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 252242 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Novembre 26, 2009, 10:56:19 am »

26/11/2009


Economisti e comari
   
MARCELLO SORGI


La polemica tra i ministri Brunetta e Tremonti - con il primo che accusa il secondo di essere «giurista» e non «economista», e di non aver titoli sufficienti per guidare la politica economica del paese - ricorda quella, storica, che portò ventisette anni fa alla caduta di Spadolini.

Nel novembre 1982 il ministro democristiano del Bilancio Andreatta accusò di «nazional socialismo» il Psi che con Craxi si candidava a Palazzo Chigi. Il ministro socialista delle Finanze Formica reagì duramente. Andreatta rincarò la dose, definendolo «un commercialista di Bari esperto in fallimenti». Formica replicò che Andreatta era «un professore di Cambridge, specializzato in India, che parlava come una comare». Da scherzosa che sembrava, la lite si fece seria, e portò alle dimissioni il primo presidente del Consiglio laico, dopo oltre trent’anni di governi dc.

In comune con quella vecchia storia, anche in questo caso, c’è l’aspetto delle intemperanze personali, frequenti al tavolo del Consiglio dei ministri.

E più calde, in particolare, quando si tratta di definire la dotazione finanziaria dei singoli ministeri. Da settimane il ministro dell’Economia è nel mirino dei suoi colleghi per la sua inflessibile politica di rigore, che lo porta a rifiutare ogni richiesta di spesa avanzata in occasione della legge finanziaria. Compresa, qualche settimana fa, quella di Berlusconi che gli chiedeva di tagliare l’Irap, la tassa più invisa agli imprenditori, e in prospettiva anche l’Irpef. Pur non avendola presa bene, il premier si dev’esser reso conto che lo stato dei nostri conti pubblici non consente eccezioni. E per questo, alla fine, ha difeso Tremonti anche dagli attacchi di Brunetta.

Di suo, il ministro dell’Economia, oltre al caratterino che tutti conoscono, ha un vecchio contenzioso con gli economisti, che accusa sovente di non essere stati in grado di prevedere la crisi finanziaria mondiale e in qualche caso perfino di esserne stati responsabili. Se quello di ieri è dunque solo il secondo tempo di una disputa che si trascina da mesi - al quale, tuttavia, il rimpallo di titoli accademici ha aggiunto un che di ridicolo -, la tesi di Brunetta, secondo cui basterebbe mettere un economista al ministero dell’Economia per risolvere i problemi, francamente non si capisce. A parte il fatto che seguendo questa teoria il primo a trovarsi fuori posto sarebbe lo stesso Brunetta, perché alla Funzione Pubblica, sulla sua poltrona, dovrebbe andare un amministrativista, quello di Berlusconi è tutto fuorché un governo tecnico.

Di governi tecnici, in Italia, in momenti d’emergenza, se n’è avuto più d’uno, anche con discreti risultati. Quando invece, come nel caso dell’attuale esecutivo di centrodestra, è la politica ad assegnare gli incarichi, l’esperienza conta (o dovrebbe contare) più della stretta competenza, e anche un ministro non specializzato nella materia di cui deve occuparsi (non è il caso di Tremonti) può mettere alla prova le sue capacità avvalendosi di consulenti, confrontandosi dentro e fuori il governo e in Parlamento, ascoltando, riflettendo, spiegando, incontrando le categorie interessate dai propri provvedimenti: in altre parole, adoperando l’arte del buon governo.

Tutto ciò - va ricordato - né Brunetta né Tremonti lo fanno sempre. Non a caso la ragione del loro litigio era un’altra.

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« Risposta #46 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:14:34 am »

27/11/2009

Il Cavaliere così esce dall'angolo
   
MARCELLO SORGI


Mercoledì, Consulta economica sulla legge finanziaria. Ieri, ufficio di presidenza su giustizia e immigrazione. Giorno dopo giorno, poi, polemiche tra ministri, come quelle di Brunetta e Tremonti, o tra parlamentari (Granata e Cosentino), o tra fondatori (Fini e Berlusconi). Chi vuol capire perché Berlusconi se ne è uscito ieri con un diktat che mette fuori dal Pdl chi non s’adegua alla linea decisa dalla maggioranza, basta solo che scorra le cronache delle ultime settimane.

Non solo le divisioni e gli scontri pubblici. E’ il potere assoluto del leader che sta venendo meno. Parafrasando il titolo di un film, verrebbe da rispondere: è il partito, bellezza! Perché, pure un partito sui generis come quello fondato da Berlusconi, dai e dai, dopo un po’ ha cominciato a funzionare come funzionano da sempre tutti i partiti del mondo: con la direzione, la segreteria, l’ufficio politico, i capigruppo parlamentari e, soprattutto, le correnti, il famoso bilancino delle correnti. In omaggio al quale, se un posto va a un ex Forza Italia, un altro deve per forza andare a un ex An, senza dimenticare alleati e cofondatori minori, Rotondi piuttosto che gli ex radicali o la Santanché. Non sia mai che un giorno l’altro debbano richiamare in servizio l’immortale Cencelli, autore del famoso manuale in base a cui veniva spartito il potere nell’era democristiana.

Quanto ciò possa piacere a Berlusconi si può immaginare: lui che voleva tagliare le tasse, ha dovuto obbedire a Tremonti e acconciarsi al fatto che al momento è impossibile. Lui che il “processo breve” lo farebbe per decreto, deve stare lì a concordare gli emendamenti parola per parola. Lui che a Bossi perdonerebbe tutto, anche le frasi peggiori sugli immigrati, deve invece cercare la quadra sul diritto di cittadinanza per gli extracomunitari.

Certo Berlusconi può consolarsi constatando che, malgrado tutto quello che è capitato negli ultimi mesi a lui, al suo partito e al suo governo, nei sondaggi la sua popolarità non ne risente. Prodi perdeva punti su punti a ogni sospiro di Ferrero o di Mastella, il Cavaliere no. Per la gente, insomma, per il popolo, il capo è sempre Silvio. Lo è, naturalmente, perché il premier fa di tutto per apparire inossidabile. E lo sarà, molto probabilmente, finché è in grado di mantenere i suoi impegni.

Non è detto invece che tutto resterebbe com’è, se l’opinione pubblica di centrodestra dovesse accorgersi a un certo punto che, invece di un fenomeno, ha davanti un capopartito qualsiasi.

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« Risposta #47 inserito:: Novembre 28, 2009, 03:47:57 pm »

28/11/2009

Il male minore tra due vie d'uscita
   
MARCELLO SORGI


No, non è un normale intervento da arbitro, quello di ieri del Quirinale. Se il Presidente della Repubblica ha ritenuto di mettere nero su bianco i rischi dello scontro istituzionale tra governo e magistratura, vuol dire che la situazione è ormai al limite. E non solo perché per tutto il giorno, oltre ad alcune dubbiose anticipazioni di stampa, son continuate a circolare voci (smentite solo in serata da Palazzo Chigi) su un avviso di garanzia per Berlusconi, da parte delle procure che indagano sugli attentati mafiosi del 1993. Piuttosto, Napolitano deve essersi convinto che in entrambe le trincee - giudiziaria e politica - la fase dell’ammasso delle munizioni era conclusa, e ci si preparava a far fuoco.

Ora, che a questo stiano pensando i magistrati, non è dato sapere con certezza.

Ma un certo lavorio, dal momento in cui la Corte Costituzionale ha tolto a Berlusconi la protezione del lodo Alfano, è evidente.

Cosa invece sia avvenuto nel campo di Berlusconi, è fin troppo chiaro. Nel giro di pochi giorni, Berlusconi ha ribaltato il quadro che lo vedeva assediato, isolato e inerte. La novità è che lo ha fatto, diversamente da quanto tutti - amici e nemici - si aspettavano, non ribaltando il tavolo, sollevando il popolo del centrodestra, o facendo un’altra mossa a sorpresa, come fu due anni fa il famoso salto sul predellino della Mercedes a Piazza San Babila.

Al contrario, il premier s’è mosso esclusivamente sul terreno della politica, con una serie di passi cadenzati. Primo, lo studiato e paziente silenzio con cui s’è lasciato trafiggere per giorni e giorni da Fini, anche dopo aver stipulato con lui un sofferto accordo sul «processo breve», che il presidente della Camera aveva subito rimesso in discussione. Secondo, la verifica dell’alleanza con Bossi, rinsaldata oltre ogni livello di sicurezza, con la concessione della doppia candidatura alla guida di Piemonte e Veneto. Terzo, l’oneroso armistizio con Tremonti, la cui linea economica di rigore e di chiusura a ogni ipotesi di taglio delle tasse (comprese quelle dello stesso premier), e a ogni richiesta sulle dotazioni dei ministeri, è passata, con l’avallo di Berlusconi, praticamente senza eccezioni. Quarto, una volta chiusi gli steccati, stavolta prima che i buoi si dessero alla fuga, la resa dei conti interna nel Pdl.

Siamo appunto all’ormai famoso pomeriggio di giovedì, in cui il Cavaliere, al cospetto del gruppo dirigente del Popolo della Libertà, traccia una linea netta sul tavolo, per stabilire chi è dentro e chi fuori dal partito. Di riunioni così, tanto per essere chiari, non se ne vedevano dai tempi della Prima Repubblica, quando appunto i leader dei partiti di governo, messi in difficoltà dalle correnti, gettavano in campo tutto il loro peso, per misurarsi con i contestatori interni.
Così, quando Berlusconi ha messo in votazione tutti i temi più controversi, compresi quelli avanzati quotidianamente da Fini e dalla sua pattuglia di dissidenti - dal processo breve alla giustizia all’immigrazione -, e quando, alla fine dei conteggi, il suo ruolo di leader è uscito confermato da un fortissimo consenso interno, tutti i presenti hanno cominciato a chiedersi quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

La strategia berlusconiana prevede due possibilità. Se le procure dovessero veramente inquisire il premier per mafia, sulla base delle accuse dei pentiti, la reazione del centrodestra sarà durissima. Il Cavaliere non lo ha detto a voce alta, per evitare che finisse sui giornali, ma la risposta potrebbe perfino arrivare a dimissioni in massa di tutti i parlamentari di maggioranza, per far sciogliere il Parlamento e arrivare a nuove elezioni politiche. Elezioni a cui si andrebbe in uno scenario da scontro istituzionale e sull’onda di una campagna in cui Berlusconi chiederebbe voti contro la magistratura che ha attaccato il governo che gode dell’appoggio della maggioranza degli elettori.

Se invece i pm scelgono di frenare, magari solo per cercare testimonianze più convincenti di quelle emerse fin qui, il premier chiamerà la sua maggioranza in Parlamento ad approvare a passo di carica, prima il processo breve, poi la riproposizione del lodo Alfano sotto forma di legge costituzionale. Anche in questo caso l’eco di questa campagna, stavolta solo parlamentare, è destinata a ripercuotersi nella corsa per le Regionali. Che in prospettiva, sondaggi alla mano, e grazie anche al riavvicinamento con Casini, il Cavaliere vede abbastanza in discesa. Delle Regioni in mano al centrosinistra, infatti, le due del Nord, Piemonte e Liguria, stando al voto delle Europee, potrebbero passare al centrodestra. Nel Lazio, dove ancora pesa lo scandalo Marrazzo, le possibilità di accordo tra Udc e Pd sono ridotte al lumicino. In più, mentre il Pdl ha in Renata Polverini una candidata forte alla carica di governatore, il centrosinistra non ha ancora fatto la sua scelta. In Puglia, le divisioni tra l’attuale governatore Vendola e il suo aspirante successore Emiliano, spingono a favore del centrodestra. E anche la Campania è incerta: ma se il Pdl piange con Cosentino, il Pd, dopo l’era Bassolino, ha ben poco da festeggiare.

Delle due strade - lo scioglimento semirivoluzionario delle Camere, con le dimissioni di massa dei parlamentari, o il proseguimento, pur tormentato, della legislatura, in cui tuttavia le Regionali rappresenterebbero l’ultimo appuntamento elettorale previsto - è evidente che il Quirinale considera la seconda il male minore. Ed è proprio per scongiurare la prima, che ieri Napolitano è entrato in scena. Il suo messaggio era rivolto al premier, per cercare di tenerlo a freno. Ai giudici, perché si tolgano dalla testa di buttare giù il governo con un avviso di garanzia. Ma sotto sotto, anche all’opposizione, che in una situazione tragica come questa non ha ancora deciso quale ruolo giocare.

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« Risposta #48 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:16:01 am »

2/12/2009

Il lungo addio
   
MARCELLO SORGI


L’ennesimo incidente di percorso tra Fini e Berlusconi non è importante solo per le frasi, non destinate ad essere rese pubbliche, uscite dalla bocca del presidente della Camera e registrate da un microfono indiscreto. Ma anche, e forse soprattutto, per il tono con cui, in confidenza, sono state pronunciate.

A parte l’anticipazione, quasi un mese prima (la registrazione è del 6 novembre), che le dichiarazioni che il pentito Gaspare Spatuzza renderà il 4 dicembre saranno «una bomba atomica» (Fini dunque per quella data era già al corrente del tenore delle future rivelazioni del mafioso), e necessitano quindi di «un riscontro» da fare «con scrupolo», e a parte la conferma del dissenso con il Cavaliere, che «confonde la leadership con la monarchia assoluta» e interpreta il consenso elettorale come «una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi autorità di garanzia e di controllo», Fini, anche privatamente, non parla più come «cofondatore» del Pdl, ma come uno che sente di non aver più nulla da condividere con Berlusconi e con il partito nato dalla fusione dell’ex An con Forza Italia.

E se è chiaro che il presidente della Camera considera quell’esperienza come se ormai non gli appartenesse, più difficile è capire quale ruolo Fini si riservi per il futuro.

Del resto non era questo l’oggetto della conversazione occasionale con il procuratore Trifuoggi, tra l’altro anche lui non tenero verso il premier, che accusa, nientemeno, di voler fare «l’imperatore romano». L’unica previsione realistica è che Fini pensi ormai a sé stesso solo come al presidente della Camera, cioè una di quelle autorità di garanzia, che hanno tra i propri doveri quello di richiamare il premier al rispetto delle regole e dei diversi ruoli istituzionali, ma ai cui interventi il presidente del Consiglio non si sente in alcun modo sottoposto, perché si ritiene comunque protetto. E li giudica, tutt’al più, come un fastidio, in forza della singolare concezione del proprio ruolo e del massiccio consenso popolare su cui può contare.

Se ne ricava che tutti gli incontri, i tentativi di mediazione, le salite e le discese da un Palazzo all’altro dei pacieri di tutte le parti, sia quelli avvenuti, sia quelli in preparazione, devono a questo punto essere valutati inutili, se non addirittura controproducenti. E di conseguenza, siccome Fini alla Camera non è solo, ma anzi coagula una discreta pattuglia di dissidenti, sono anche da considerare a rischio i prossimi appuntamenti a Montecitorio del governo, malgrado la larga maggioranza di cui ancora può godere. Si sa, in politica mai dire mai. Ma la storia dell’alleanza tra Gianfranco e Silvio, che quindici anni fa ha aperto la strada del governo alla destra, e di colpo ha cambiato la storia politica del Paese, stavolta sembra proprio finita.

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Dicembre 08, 2009, 09:48:53 am »

8/12/2009

Sullo sfondo la mediazione possibile col Pd
   
MARCELLO SORGI


Questa volta il Fini di giornata è stato ingiustamente amplificato da tv e siti abituati a leggere quotidianamente, nelle parole del Presidente della Camera, dissensi e prese di distanza dalle posizioni del centrodestra. La distinzione tra reati (punibili con ammenda) e delitti connessi all’immigrazione, per i quali appunto i due anni previsti dalla riforma del «processo breve» potrebbero risultare insufficienti, è assolutamente logica, e non a caso una nota del Pdl l’ha sostanzialmente accolta in serata, invitando in modo implicito la Lega a fare lo stesso.

Ma se Fini - che già un mese fa, dal giorno dopo l’accordo con Berlusconi, aveva contestato la pretesa (da parte leghista) esclusione degli immigrati dalla riforma in discussione in Parlamento, dopo la bocciatura del lodo Alfano - ieri ha ritenuto di tornarci su, una ragione dev’esserci. Forse, come molti negli ultimi giorni, anche il Presidente della Camera s’è convinto che il «processo breve», se pure sarà approvato senza modifiche al Senato, non riuscirà dopo a passare alla Camera con la stessa formulazione. Anzi, al minimo, subirà qualche emendamento, e di conseguenza dovrà tornare a Palazzo Madama.

E’ anche possibile che, se non proprio Berlusconi, i consiglieri più prudenti del premier in questi giorni stiano valutando la convenienza di un iter così lento e farraginoso rispetto a un eventuale cambio di provvedimento, che potrebbe ricevere dal Pd alla Camera una forma di opposizione meno rigida di quella praticata finora anche al Senato. Le posizioni più recenti del partito di Bersani vanno in questa direzione. E anche se, dopo molte contestazioni interne, è stata smentita l’intervista al Corriere della Sera in cui il vicesegretario Letta riconosceva al presidente del Consiglio la legittimità a difendersi «dal» oltre che «nel» processo, il desiderio di una svolta in materia di giustizia emerge chiaro dal nuovo gruppo dirigente democratico.

Le rivelazioni del pentito di mafia Spatuzza e la manifestazione di sabato per il «No Berlusconi-day», pur avendo animato il dibattito interno al maggior partito del centrosinistra, non sembrano aver finora provocato alcun ripensamento, anche se la svolta per ora non c’è stata e non è neppure chiaramente annunciata. Ma nel caso in cui dovesse arrivare durante il passaggio del «processo breve» a Montecitorio, Fini, per coglierla e pilotarla alla Camera - con una mediazione che alla fine converrebbe anche a Berlusconi -, di sicuro è il più adatto.

E a quanto ha fatto capire ieri, è anche pronto.

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« Risposta #50 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:43:18 pm »

11/12/2009

Rincorsa pericolosa
   
MARCELLO SORGI


E’ inutile girarci attorno: quello di Berlusconi ieri a Bonn, al congresso del Ppe, è stato un discorso di rottura, di un leader che sta prendendo la rincorsa per andare ad elezioni anticipate e che a questo punto conta solo sull’appoggio del popolo - del «suo» popolo - per uscire dalle difficoltà. Un piano esposto in un tono che il Presidente della Repubblica, anche lui nel mirino del premier, ha definito «violento», e che ha lasciato stupiti parte dei delegati europei cattolici moderati che erano lì ad ascoltarlo.

Ad evitare equivoci e a neutralizzare l’efficacia - ormai scarsa - degli unguenti e dei brodini che i più prudenti collaboratori del Cavaliere si affrettano a spargere e a distribuire da mesi, per lenire i bruciori provocati dalle sue ultime uscite, Berlusconi stesso, interrogato poco dopo il suo intervento, a proposito delle reazioni durissime che aveva provocato a Roma, da Fini all’opposizione fino al Quirinale, ha risposto che non aveva «niente da chiarire».

E aveva detto quel che aveva detto perché «stanco delle ipocrisie. Tutto qui».

Non siamo insomma di fronte all’ennesima «uscita di pancia» di un uomo che ci ha abituato da sempre a un linguaggio fuori dalla politica, quando non antipolitico (ieri tra l’altro ha parlato di sé come di uno «con le palle»). Semmai lo è stato, il Cavaliere non è più uno sprovveduto: è in carriera da quindici anni e sa benissimo quel che fa. Se ha scelto Bonn, e la platea del Ppe, per alzare la mira contro la Corte Costituzionale, i magistrati e gli ultimi tre Presidenti della Repubblica, è perché è consapevole che con questi argomenti e con questi obiettivi, la legislatura già avvitata su se stessa andrà verso un precipizio, e nessun accordo sarà possibile per salvarla. Né con la parte della sua maggioranza più vicina al presidente della Camera, giustamente convinto che le riforme, e soprattutto quella della giustizia, non debbano alterare l’equilibrio costituzionale tra i diversi poteri. Né tanto meno con quella parte dell’opposizione, che faticosamente, e d’intesa con Napolitano, stava valutando proprio in questi giorni la possibilità di un’intesa, magari provvisoria, per por fine alla guerra che s’è aperta dopo la cancellazione del lodo Alfano da parte della Consulta.

Per chi ancora nutriva qualche dubbio, ora è chiaro che di queste mediazioni, compromessi, accordi ipotizzati e sudati a costo di buona volontà e reciproche rinunce dei diversi interlocutori, a Berlusconi non importa niente. Non gli servono. L’Italia com’è, e il suo sistema istituzionale che funziona normalmente, in cui appunto chi vince le elezioni governa, porta in Parlamento per farle approvare le leggi che fanno oggetto del suo programma, ma se poi sbaglia, o forza, o comunque fa qualcosa che non è previsto dalla Costituzione, incappa nella rete degli organi di garanzia, per Berlusconi non assomigliano per niente a ciò che ha promesso ai suoi elettori. Dunque, sono da cambiare. Con le buone o con le cattive, con chi ci sta e contro tutti quelli che non ci stanno. Tra i quali ultimi, per inciso, il Cavaliere annovera i magistrati che da anni cercano vanamente - anche se talvolta in maniera persecutoria - di processarlo, e che per questo vanno assimilati a tutti gli altri suoi avversari «comunisti», presenti e nascosti, a suo giudizio, nelle pieghe dei poteri e dell’establishment nazionali.

Dal discorso di Bonn - pronunciato non a caso all’estero, per smentire il ritratto dell’Italia che a dispetto del Cavaliere i media stranieri fanno circolare in tutto il mondo - è lecito ricavare anche di che tenore sarà la prossima campagna elettorale del premier. Con al fianco Bossi, l’unico alleato che considera fidato e che ieri s’è affrettato, da solo, a schierarsi con lui, Berlusconi, ottenuto lo scioglimento delle Camere anche grazie al sostegno della Lega, con cui la trattativa preelettorale è molto avanti, si rivolgerà agli elettori con uno schema molto semplice. Non starà neppure a perdere tempo per sminuire le accuse che si porta sul collo o alleggerire il peso delle vicende personali che hanno macchiato la sua immagine. Dirà più o meno così: come sono io lo sapete, ma se non volete che tornino «quelli», votatemi anche stavolta.

Un giudizio di Dio. Voglia il Cielo che un Paese ridotto com’è riesca a evitare anche questa prova. O a sopportarla, con le ultime risorse, se davvero ci si arriverà.

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« Risposta #51 inserito:: Dicembre 12, 2009, 08:43:18 pm »

12/12/2009 - TACCUINO

Crisi e urne i due enigmi del Cavaliere
   
MARCELLO SORGI


Berlusconi ieri ha negato di volere le elezioni, non perché non le voglia, ma perché non sa come arrivarci. Una delle cose più complicate, in Italia, infatti è ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere. Nella Prima Repubblica c’era una sorta di regola non scritta: premesso che le elezioni anticipate dovevano essere considerate ufficialmente come un trauma assoluto, da accompagnare con lamenti, rimorsi e giuramenti di non farvi più ricorso, quando Dc e Pci, vale a dire i maggiori partiti di governo e opposizione, si mettevano d’accordo, lo scioglimento era fatto. Il Capo dello Stato, cui formalmente competeva la decisione, si limitava a registrarlo come un notaio. Anche questa regola, che aveva funzionato nel 1972, ’76, ’79 e ’83, come tutto, a un certo punto andò in tilt. Nel 1987, per ottenere le elezioni, la Dc dovette addirittura votare contro un suo governo. Nel ’94 le elezioni le decise praticamente Occhetto da solo, gli altri leader erano impicciati con Tangentopoli. Fu uno dei suoi più tragici errori, che aprì la strada a Berlusconi. Il quale, dopo il ribaltone, le avrebbe rivolute subito. Scalfaro riuscì a temporeggiare per un anno ancora, e si andò al voto nel ’96. Per dieci anni, fino al 2006, l’andamento delle legislature, malgrado la confusione politica imperante, tornò a essere, diciamo così, regolare.

Ma nel 2008 la caduta del cagionevole governo Prodi rese di nuovo necessario lo scioglimento anticipato. Non che il Capo dello Stato non avesse tentato di evitarlo: ma si trattò, più che altro, di una formalità: il presidente del Senato Marini, formalmente incaricato, fece un giro di consultazioni e tornò sconfortato al Quirinale per dimettersi. Ora i bookmakers di Montecitorio, malgrado le smentite berlusconiane, e in mancanza di regole e precedenti validi, si pongono qualche domanda. Pur essendoci un asse di ferro tra Berlusconi e Bossi, se la sentono, i due, di questi tempi, di aprire una «crisi pilotata»? E se gli scappa di mano? E se invece la aprono, Napolitano che fa? Chiama Schifani, il quale sarebbe anche più rapido di Marini a gettare la spugna? O chiama Fini e provoca una mezza rivoluzione nel Pdl? O chiama Letta, l’unico che godrebbe del necessario appoggio bipartisan per portare la nave fuori dalle secche? E Letta, in questo caso, come si comporterebbe? Sono questioni alle quali non è facile dare una risposta. Il guaio è che in queste ore le stesse domande se le sta facendo anche Berlusconi.

da lastampa.it
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« Risposta #52 inserito:: Dicembre 15, 2009, 04:03:48 pm »

15/12/2009

Ora Silvio è meno isolato
   
MARCELLO SORGI


Si discuterà ancora a lungo se l’aggressione di domenica a Berlusconi debba essere considerata il gesto di un folle, che il padre ha pietosamente definito «neurolabile», o il frutto avvelenato del degrado del clima politico negli ultimi mesi. Magari si è trattato di entrambe le cose, anche se il governo, logicamente, tende a sottolineare il secondo aspetto, mentre l’opposizione non insiste sul primo.

A ben guardare questo è già un primo risultato del brutto imprevisto che ha costretto tutta o quasi (con l’eccezione di Di Pietro) la classe politica a fare i conti con la realtà di cui avevano perso il controllo. Tra Quirinale e Palazzo Chigi, tra governo e opposizione, tra partner della stessa coalizione, da mesi tutti i più importanti canali di comunicazione istituzionale erano ostruiti. La solidarietà a Berlusconi dopo l’aggressione almeno è stata l’occasione per riattivarli.

La telefonata di Napolitano al premier, le visite di Fini e soprattutto di Bersani al San Raffaele, oltre, naturalmente, alle loro chiare parole sull’inaccettabilità della violenza, in un Paese che ha conosciuto la tragedia del terrorismo, sono servite a riannodare una tela di relazioni personali che da tempo sembrava definitivamente sfilacciata. Il peregrinaggio di mezzo governo, del fido Bossi e di delegazioni a vario livello del Popolo della libertà, al capezzale del presidente ferito, hanno fatto il resto. Così, per la prima volta dopo molti mesi, Berlusconi non è apparso più isolato, o circondato da una sorta di cintura di protezione politica come accadeva nell’ultimo periodo.

Naturalmente ciò non muta la natura dei problemi, a cominciare da quelli della giustizia, che hanno subito ieri un surriscaldamento, per restare in tema di clima, con il parere di incostituzionalità del «processo breve» approvato a maggioranza dal Consiglio superiore della magistratura. Si tratta, è bene ricordarlo, di un parere non vincolante per il Parlamento che sta per legiferare sulla materia.
Ma solo il clima di perdurante emozione per l’aggressione di domenica ha impedito ieri che contribuisse a innescare nuovi scontri.

In sé, la ripresa di relazioni personali tra soggetti istituzionali che da settimane non si parlavano non ha un valore politico preciso.
Ma il riavvicinamento tra persone che stanno ai vertici dello Stato può favorire forse un’intesa anche minima tra leader finora schierati su sponde opposte. Per fare cosa, è ancora presto per dirlo. Per il momento basterebbe che fosse condivisa la volontà di trovare la strada per portare il Paese fuori dall’angolo in cui è finito.

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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 16, 2009, 03:13:02 pm »

16/12/2009


La nuova chance del Cavaliere
   
MARCELLO SORGI


Dal suo letto di sofferenza, Silvio Berlusconi ha fatto ieri una mossa ragionevole: il suo messaggio rassicurante («l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio»), in una giornata in cui il dibattito parlamentare alla Camera sull’aggressione di domenica aveva avuto un esito sconfortante, ha riempito il vuoto politico che la ripresa di insulti e attacchi di tutti contro tutti non poteva colmare. Certo è davvero preoccupante che il tempo della riflessione su quanto è accaduto e della solidarietà con il presidente del consiglio che ne è stato vittima sia durato appena lo spazio di ventiquattro ore. Gli inviti ad abbassare i toni e a raffreddare il clima, ripetuti anche ieri dal Capo dello Stato, hanno ritrovato purtroppo una platea di sordi. La confusione avrebbe certo preso di nuovo il sopravvento, se appunto il premier non si fosse deciso a prendere, per quanto può, l’iniziativa.

Al di là del contenuto elementare del messaggio, che non tocca nessuna delle questioni aperte, e perfino deteriorate, com’è accaduto al «processo breve» dopo il parere negativo del Csm, Berlusconi ha inteso mostrarsi consapevole del fatto che, ancor di più dopo l’aggressione che ha subito, tocca a lui entrare nel merito del da farsi. Sollecitato, in questo, dall’intervento di Bersani a Montecitorio, in cui il leader del Pd ha invitato ad abbandonare la lunga e ormai inutile discussione sul clima politico deteriorato che starebbe alla base di quanto è successo, per tornare al vivo del confronto politico.

Bersani in altre parole ha detto – e Berlusconi lo ha capito benissimo – che lui e il suo partito, a pagare i conti di Di Pietro e del fronte politico-mediatico antiberlusconiano accusati dal capogruppo del Pdl Cicchitto nell’aula della Camera, non ci stanno. Se il premier e il governo ritengono che la riapertura dei canali di comunicazione a tutti i livelli, avvenuta in conseguenza della drammatica domenica di Milano, possa essere utilizzata per cercare di interloquire politicamente, e magari trovare una soluzione diversa da quelle che fin qui stentano, al problema dei processi di Berlusconi e più in prospettiva a quello delle riforme, si accomodino. Bersani – e non solo lui – aspettano di sapere se ci sono nuove proposte, e giudicarle. Se invece il centrodestra proverà ad usare l’aggressione a Berlusconi solo per fare campagna elettorale, il Pd reagirà duramente. La parola, a questo punto, torna al Cavaliere. Che ha davanti a sé una grossa occasione e, da come s’è comportato ieri, sembra volerne approfittare in positivo. Che poi ci riesca veramente, è un altro discorso.

da lastampa.it
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 17, 2009, 09:27:49 am »

17/12/2009

Il premier stringe i tempi: sente che la sua assenza comincia già a pesare
   
MARCELLO SORGI


Ha voglia il professor Zangrillo, che ha in cura il premier dopo l'aggressione di domenica e ieri ne ha rinviato a oggi l'uscita dall'ospedale, a dire che Berlusconi dovrà osservare un periodo di convalescenza, stando lontano da impegni pubblici e rallentando i ritmi frenetici della sua vita lavorativa. Aveva appena finito di spiegare al suo illustre infermo che non potrà presenziare al prossimo Consiglio dei ministri, che dovrà rinunciare alla tradizionale conferenza di fine anno e alla notte di Natale con i terremotati dell'Aquila, e quello, che non sa stare fermo, eludendo la sorveglianza, ha telefonato all'ufficio di presidenza del Pdl per dire la sua sulle candidature alle regionali in via di definizione.

Sia i medici che lo stanno seguendo, sia i collaboratori che si tengono in contatto con lui, a cominciare dal sottosegretario Bonaiuti, fisso a Milano al San Raffaele, e da Gianni Letta, che coordina a Roma in prima persona l'attività del governo, sanno che Berlusconi scalpita, che vorrebbe a qualsiasi costo accorciare i tempi per il ritorno in campo, che si preoccupa di apparire in forma al più presto, anche se ha ancora la faccia gonfia e dovrà sopportare un piccolo intervento per rimettere a posto i denti che la statuetta lanciata dal suo aggressore gli ha fratturato.

Tutta questa impazienza, a parte l'irrequietezza, come dire, costituzionale di Berlusconi, nasce dalla consapevolezza che se l'attacco che ha subito, con l'ondata di solidarietà che è seguita, s'è alla fine trasformato in un vantaggio politico, in un momento in cui il suo isolamento personale e le difficoltà del governo erano evidenti, l'idea di un premier acciaccato, che fatica a riprendersi, si risolverebbe in un danno d'immagine per uno come lui, che, nel bene e nel male, è abituato a scandire con le sue iniziative la vita politica del Paese.

Già ieri, al terzo giorno di assenza del Cavaliere dalla vita pubblica, s'era avvertito un certo rallentamento. La fiducia sulla finanziaria era passata, ma non con una votazione non brillantissima. Lo strascico di polemiche determinate dalla reazione di Fini a questa decisione del governo aveva avuto una coda polemica, legata all'ipotesi, rinviata e sostituita con l'annuncio di un disegno di legge, di un decreto per bloccare i siti Internet che inneggiano alla violenza.

Di qui l'intervento telefonico di Berlusconi al vertice del Pdl. Con due obiettivi: dimostrare che il partito è unito e in grado di risolvere anche problemi delicati come quello delle candidature. Ma soprattutto, che per decidere ha bisogno del capo, anche se malconcio.

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« Risposta #55 inserito:: Dicembre 18, 2009, 04:38:14 pm »

18/12/2009

La vera svolta è tutta interna al centro-destra
   
MARCELLO SORGI


No, non deve affatto ingannare, il tono zuccheroso con cui un Berlusconi ancora incerottato ha accompagnato la sua uscita dall’ospedale e l’offerta di dialogo a Casini e Bersani, leader dell’opposizione che ha detto di aver sentito vicini in questi giorni, a differenza di altri (Di Pietro) che incitano alla violenza.

Già mercoledì sera - partecipando al telefono al vertice del Pdl, che pure in sua assenza si teneva a casa sua, e che ha varato gran parte delle candidature per le regionali e un comunicato con l’offerta di un “patto democratico” rivolta alla parte meno estrema dell’opposizione – il premier aveva capito che in questo momento, con la questione giustizia ancora tutta aperta, il “processo breve” e il “legittimo impedimento” in cottura al Senato e alla Camera, è difficile aspettarsi collaborazione dai suoi avversari. Qualcosa verrà, magari, da Casini, che sulla giustizia aveva già fatto un’apertura nel suo incontro a due con il Cavaliere. Ma solo qualcosa. E la risposta fredda di Bersani ieri è già un’anticipazione del “non possumus” del Pd. In ogni caso, già solo un confronto meno avvelenato in Parlamento, sarebbe un risultato.

In realtà la svolta maturata in occasione dell’aggressione al presidente del consiglio è tutta interna al Pdl. Dopo la visita di Fini al San Raffaele e nel clima di solidarietà che lo circondava, Berlusconi s’è reso conto che politicamente l’impressione destata dalla drammatica domenica milanese poteva essere spesa meglio all’interno del centrodestra, piuttosto che in un’ impossibile, al momento, riapertura di dialogo con l’opposizione. Con una maggioranza pacificata (almeno per un po’) e con un Fini accontentato da una linea più moderata del Pdl, che tiene conto anche di molte delle riserve espresse dal presidente della Camera negli ultimi tempi, il Cavaliere può provare ad affrontare il passaggio più delicato della ripresa politica dopo le Feste: appunto, la giustizia, e al suo interno la protezione dai processi per il premier caduta dopo la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano.

La mano tesa verso Bersani e Casini (quest’ultimo, non va dimenticato, alla vigilia dell’aggressione in un’intervista alla Stampa s’era offerto di guidare una coalizione “repubblicana” con il centrosinistra in caso di elezioni), tuttavia, rimane. Come espediente tattico per evitare che l’Udc, nelle regioni più contendibili, tipo Lazio e Puglia, finisca alleata del Pd. O come alibi da spendere di qui a poco, nel caso, purtroppo probabile, di una ripresa delle ostilità.

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« Risposta #56 inserito:: Dicembre 19, 2009, 11:37:41 am »

19/12/2009

Il cuore di un maestro
   
MARCELLO SORGI


Yes, I know, listen my friend...»: dal suo gabbiotto in redazione, la voce arrivava tonante. Igor parlava insieme arabo e inglese.
Aveva l’accento yankee di tanti della sua generazione che avevano conosciuto gli americani durante la guerra. Nei giorni della crisi di Sigonella e dei due missili lanciati da Gheddafi su Lampedusa, era uno spettacolo vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.

Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito non si sa come a far stampare sui suoi documenti. Aveva un metabolismo mediterraneo, gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa. Personaggio da film, era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata.
In Vietnam mentre la moglie adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio: il telegramma per avvertirlo lo raggiunse quando il piccolo Federico era già tornato a casa. E poi in Cile, a Cuba, a Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea. Allora le missioni duravano mesi, la tv quasi non c’era, gli articoli si mandavano col telegrafo e cominciavano con il fatidico distico «dal nostro inviato speciale». In quell’aggettivo c’era un che di avventura, di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all'ultimo dei cronisti di essere, chissà, un giorno, come il leggendario Igor Man.

A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava orgoglioso il lungo medagliere di foto dei suoi intervistati. Accanto a Che Guevara, ad Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato, raro privilegio, a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il the bolliva lento tutto il giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi un po'dappertutto.

Con molti anni di anticipo, Man aveva capito che dalla sponda orientale a noi più vicina la polveriera islamica stava incubando dentro e attorno a un Occidente del tutto impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del '91 in cui l'Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano Cocciolone, ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo. Toccò a Man raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni. E ogni articolo si concludeva con una «sura», una massima del Corano.

In quel periodo Igor veniva sempre a lavorare alla redazione romana. Arrivava verso l’una, freschissimo, elegante nella sua camicia candida, le frezze bianche sulla capigliatura corvina ravviate all'indietro e un'allure di profumo esotico che si lasciava alle spalle. L’incarnato scuro, la pelle sempre abbronzata già al primo sole primaverile, tradivano la sua origine catanese. I piccoli occhi verdi, alti su due zigomi sporgenti, svelavano la sua metà asiatica, ereditata dalla madre russa. Mentre il talento del grande giornalista trasudava dallo sguardo mobile, dalla battuta pronta, dal gusto dei dettagli, scovati tra le pieghe di un articolo o in un'immagine di tg. Per molti di noi, Man è stato un maestro, oltre che un amico affettuoso. Memorabile era il suo modo di trasmettere i vecchi trucchi artigiani del mestiere, come quando spiegava che in un’intervista difficile, con poco tempo a disposizione, era inutile bombardare l’intervistato con una raffica di domande. Meglio puntare al cuore, che alla testa. Scegliere, sulla sua scrivania, un oggetto, una foto, una cosa di nessuna importanza, ma che magari, notati con finta sorpresa, potessero ammorbidire il clima dell’incontro.

Era anche generoso, pronto a fare qualsiasi cosa necessaria al giornale. Quando morì Edoardo Agnelli, lui ch’era stato sempre vicino
all’Avvocato, si offrì di scriverne il ritratto. Scoprimmo così che quel ragazzo che aveva scelto di concludere tragicamente un’esistenza tormentata, per qualche tempo si era interessato alle filosofie orientali, e aveva trovato in Man un sostegno e un interlocutore.

Quella volta Igor scrisse, non un articolo, ma una bellissima lettera ai genitori di Edoardo. Per confortarli, nel giorno più difficile della vita.

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« Risposta #57 inserito:: Dicembre 21, 2009, 10:40:38 am »

21/12/2009

Convenzione il sogno di fine anno
   
MARCELLO SORGI

Dalle pieghe del tormentato dibattito sulla Grande Riforma, ripreso dopo l’aggressione a Berlusconi, nel tentativo di dare uno sbocco agli appelli per un miglioramento del clima politico, è tornata ad affacciarsi l'idea di una Convenzione, o di un’Assemblea Costituente, a cui affidare il compito di discutere e approvare i cambiamenti della Costituzione. Necessari e finora invocati da tutti, ma mai realizzati, malgrado i numerosi tentativi degli ultimi anni.

Di assemblea hanno scritto, in una lettera aperta al Presidente emerito della Repubblica Cossiga, alcuni membri del vecchio gruppo dirigente socialista come, tra gli altri, Formica, Martelli e De Michelis. Di convenzione, o in alternativa del ritorno a una Bicamerale come quella presieduta a suo tempo da D’Alema, hanno parlato il ministro dell’Economia Tremonti con il Corriere della Sera e il ministro degli Esteri Frattini con La Stampa.

Sia all’interno della maggioranza, dopo i primi colloqui ad Arcore tra un Berlusconi convalescente, membri autorevoli del governo e i vertici di Pdl e Lega, sia nel maggior partito d’opposizione, la svolta è maturata in pochi giorni, dopo il drammatico pomeriggio di domenica scorsa. Nel Pd sono stati Bersani e D’Alema a insistere, anche se, per contrastare le forti riserve interne di Veltroni e Franceschini a una qualsivoglia apertura al Cavaliere, i leader del Pd avvertono fin d'ora che non si presteranno ad intese che riguardino «leggi ad personam» e salvacondotti giudiziari per il premier, di cui, se vorrà, dovrà farsi carico il centrodestra. Sul resto invece, il Pd dice esplicitamente che si potrà discutere, ed eventualmente collaborare.

Tal che la discussione non è più sul «se fare» le riforme, ma sul «come» farle. E per questo, ci si interroga se sia meglio affrontarle all’interno del Parlamento, com’è avvenuto, purtroppo senza successo, tutte le altre volte. O se invece non sia più opportuno creare un nuovo organismo. Il quale, al di là dei nomi e dei poteri da affidargli (una sorta di super ufficio studi che rimandi le decisioni finali alle Camere, o un nuovo, temporaneo, ramo parlamentare, in grado di decidere da solo?), sarebbe comunque un organo politico. Con una rappresentanza proporzionale di tutti i partiti, senza schieramenti precostituiti come il centrodestra e il centrosinistra, ma anzi con l’obiettivo di far confrontare, e magari votare insieme, ove possibile, forze politiche diverse a seconda dei temi in discussione e delle diverse sensibilità. In questo modo verrebbe recuperato lo spirito e il metodo della Costituente di oltre sessant’anni fa.

Appartata e in qualche modo liberata dalla durezza del confronto politico quotidiano, che continuerebbe a svolgersi nelle altre due, questa terza Camera avrebbe il vantaggio, se non altro, di poter lavorare più tranquillamente. I partiti potrebbero anche scegliere di convogliarvi un drappello di qualificati giuristi, e non perché quelli attualmente in servizio tra Montecitorio e Palazzo Madama non siano tali, ma proprio in omaggio a quel che accadde nell’Assemblea del 1946-’47. La Costituzione italiana, infatti, fu certo l’incontro delle tre grandi culture politiche - cattolica, socialista e liberale - del Novecento. Ma fu anche, per i tempi in cui fu scritta, un esempio di saggezza giuridica, grazie al lavoro di esperti come Calamandrei, Mortati e Crisafulli, che si avvalevano di giovani consulenti come Giannini e del meglio che usciva allora (e potrebbe venir fuori anche adesso) dalle università italiane.

Inoltre, l’elezione proporzionale, senza sbarramenti di alcun tipo - come si addice a un organismo che dovrebbe assicurare la più larga rappresentanza possibile, dovendo riscrivere regole che riguardano tutti -, consentirebbe di mettere a confronto - evitando ulteriori tensioni tra società civile e Parlamento e con una piena reciproca legittimazione -, tutte, ma proprio tutte, le posizioni politiche esistenti in materia costituzionale, dal presidenzialismo più radicale all’assemblearismo più estremo.

Sono solo alcune delle ragioni che porterebbero a preferire l’ipotesi della Convenzione, o dell’Assemblea Costituente, rispetto a una nuova Bicamerale, nella quale, più o meno come un decennio fa, i limiti della confusione tra il contingente politico di tutti i giorni e l’ampio orizzonte delle decisioni da prendere, si riproporrebbero pari pari. Ma a guardar bene, purtroppo, sono anche i motivi per cui la Convenzione o l’Assemblea, senza un grande sforzo di buona volontà, difficilmente vedranno la luce.

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« Risposta #58 inserito:: Dicembre 23, 2009, 03:07:21 pm »

23/12/2009 - TACCUINO

Il Cavaliere e il sorriso come strategia, ora fa battute anche sulla statuina
   
MARCELLO SORGI


Sotto il grande cerotto che gli copre il viso, Silvio Berlusconi è tornato a sorridere. La notizia, chiamiamola così, esce dalla lunga processione di amici e collaboratori che in questi giorni è andato a trovarlo ad Arcore. La depressione, l'abbattimento seguiti all'aggressione con la statuetta, se li è già buttati alle spalle. Freme per tornare al lavoro. E nell'attesa ha ripreso a raccontare barzellette, per mettere di buonumore tutti quelli che gli compaiono davanti con facce da circostanza.

La prima storiella è un classico. Berlusconi arriva in Paradiso e Dio, come segno di riguardo, lo porta a fare un giro, che dura più del previsto. Alla fine, Dio spiega: A Berlusconi è piaciuto molto quel che gli ho fatto vedere, ma abbiamo convenuto che è ora di dare una rinfrescata. Faremo Paradiso 2! Solo, non ho capito ancora perché io dovrei fare il vicepresidente.
La seconda è una battuta. Lo sai che a Milano non si trovano più le statuette del Duomo? E sai perché? Te le tirano dietro!.

La terza è una storia vera, di uno dei giorni più difficili del 2009 che va a finire e che in questi giorni di convalescenza ricorrono nelle conversazioni di Arcore. Il giorno che uscirono sui giornali le rivelazioni, anche dettagliate, della notte di Patrizia D'Addario a Palazzo Grazioli, Berlusconi aveva un appuntamento riservato in Vaticano con un altissimo cardinale di Curia. Lì per lì, imbarazzato, fu tentato di non andare. Ma gli spiegarono che sarebbe stato peggio. Così decise di presentarsi. In ascensore era nervoso, tormentava il pacco con il regalo per Sua Eminenza. Quando le porte si aprirono, e il cardinale era lì ad aspettarlo: «Mi sono già confessato!», esclamò il Cavaliere, tenendo il pacco davanti alla faccia e simulando un rossore improvviso.

Per un leader normale, due storielle e una storia come questa non avrebbero, in sé, alcun valore politico. L'allegria, il cattivo umore, possono incidere nella vita di qualsiasi persona, ma non cambiano i contorni dei problemi. Una volta, ad esempio, fu chiesto a Berlinguer, alla fine di una delle rarissime interviste che il leader comunista concedeva: ma lei non ride mai? La risposta fu gelida e insieme spiritosa: «Perché, c'è qualcosa da ridere?».

Per Berlusconi, invece, vale il contrario. Tutto quel che fa, e se non proprio, quasi tutto, lo fa per divertirsi. Se è tornato a sorridere - e solo lui sa come - vuol dire che s'è convinto che la partita può ancora girare a suo favore.

da lastampa.it
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« Risposta #59 inserito:: Dicembre 29, 2009, 11:07:34 am »

29/12/2009 - TACCIUNO
 
Radio, telefono, e-mail.

Il Cavaliere incerottato non molla la ribalta
 
 
MARCELLO SORGI
 
Da qualche giorno la convalescenza che lo costringerà a casa almeno fino al 7 gennaio ha spinto Berlusconi a un nuovo tipo di comunicazione: come e più dei momenti in cui è normalmente in servizio come premier, il Cavaliere fa sentire la sua voce via radio, via mail, via telefono. Chiama, invia messaggi a manifestazioni e circoli di sostenitori, e se proprio non si tratta di comunicazioni riservate - come la telefonata che ha ristabilito i rapporti con il presidente Napolitano, di cui comunque ha dato notizia - fa in modo che la sua voce venga amplificata e trasmessa nel tg.

I suoi concetti sono più o meno gli stessi, tutti i giorni: l'odio da sconfiggere, gli attizzatori da mettere a posto, le centrali della disinformazione da mettere a tacere, le riforme da fare al più presto, per onorare il patto con gli elettori, le promesse già mantenute, come le case, «dotate di tutti i comfort» in cui i terremotati d'Abruzzo hanno potuto trascorrere il Natale.

Perché allora Berlusconi si ostina a ripeterle, anche in giornate di Feste e vacanze in cui la gente è generalmente distratta? Per due motivi, si può immaginare. Il primo è che il Cavaliere ha legato da sempre la sua attività politica alla percezione della sua presenza e insieme alla sua fisicità. Quando ha deciso di tacere per qualche giorno, lo ha fatto a ragion veduta, e in qualche caso per dimostrare che in sua assenza crescono confusione e polemiche. Anche se i medici gli hanno imposto un riposo forzato, per rimettersi dai postumi della statuetta che lo ha colpito sul viso, Berlusconi vuole insomma far sapere che lui sta a casa ma lavora lo stesso anche incerottato, e l'aggressione del 13 dicembre, se lo ha ferito, non lo ha certamente fiaccato.

Il secondo motivo è più politico. Berlusconi sa bene che la solidarietà e la disponibilità manifestategli in occasione dell'attacco subito a Milano sono destinate ad affievolirsi e ritrarsi alla ripresa politica, quando si tratterà di entrare nel merito delle riforme, e di affrontare il problema della giustizia che ha contribuito non poco, nei mesi seguiti all'annullamento del loro Alfano da parte della Corte costituzionale, al deterioramento del clima politico. Con i messaggi che quotidianamente sta mandando in giro, è come se il Cavaliere mettesse le mani avanti, per contrastare le prossime riserve dell'opposizione e di parte della sua maggioranza. In altre parole, è come se dicesse fin d'ora: «Io ero pronto, ci credevo, ci stavo. Poi sono loro che hanno cambiato idea».
 
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