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« Risposta #435 inserito:: Febbraio 22, 2012, 11:53:17 am » |
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22/2/2012 - TACCUINO Il ritorno dello scontro vecchia maniera sul welfare MARCELLO SORGI Anche se un accurato e sotterraneo lavoro diplomatico ieri per tutta la giornata ha tentato di limitarne le conseguenze, l’attacco della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia al sindacato «che difende fannulloni e ladri» non è certo un toccasana per la trattativa sul mercato del lavoro, arenata sulla secca dell’articolo 18 e sull’irrigidimento che a questo proposito è emerso negli ultimi giorni, sia da parte della Cgil che del Pd. Ora la Camusso pretende una marcia indietro della Marcegaglia da una posizione che, al di là della frase infelice che ha dato fuoco alle polveri, metteva in discussione i rapporti tra le parti sociali, proprio mentre il negoziato al tavolo del governo, dopo qualche iniziale progresso, segna il passo. La Confindustria ha cercato di chiarire, senza ovviamente smentire l’intervento della presidente, ma senza molti risultati. D’altra parte la frenata della Cgil s’intuiva anche prima dello scontro tra Camusso e Marcegaglia. E la dura polemica interna al Pd, con il responsabile economico Fassina che ha criticato l’intervista di Veltroni favorevole all’intenzione del governo di riformare il mercato del lavoro, lascia capire le preoccupazioni del centrosinistra di ritrovarsi entro marzo di fronte a una decisione di Monti nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative. Stretto tra l’impossibilità di rompere con il governo e le pressioni del sindacato, Bersani, che in un primo momento era parso deciso a non lasciarsi condizionare dalla resistenza della Cgil, adesso preme di nuovo per l’accordo e aspetta di vedere se riprenderà e quali effetti produrrà la trattativa, che al momento, tuttavia, sembra bloccata. La strategia del governo, ribadita dalla ministra del Lavoro Fornero, punta a raggiungere un’intesa sul maggior numero possibile di problemi (come ad esempio ammortizzatori sociali, formazione, apprendistato), prima di andare all’osso duro dell’articolo 18. Con questo metodo, se anche alla fine non si dovesse trovare l’accordo, l’iniziativa autonoma del governo, di cui Monti ha parlato lunedì nell’incontro con gli operatori di Borsa a Milano, avverrebbe in un quadro meno dirompente, e forse potrebbe puntare a ottenere un sofferto «si» del Pd in Parlamento. È esattamente questo che i sindacati hanno capito, e, dopo un’iniziale disponibilità, ha motivato le riserve emerse al tavolo del negoziato, che il governo proverà a rimuovere nei prossimi giorni. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9803
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« Risposta #436 inserito:: Febbraio 23, 2012, 11:28:14 am » |
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23/2/2012 - TACCUINO Il Pdl e il rischio dell'isolamento MARCELLO SORGI Il segretario Angelino Alfano minimizza e sostiene che il Pdl andrà alle prossime elezioni amministrative con il proprio simbolo e la propria bandiera, scegliendo "il migliore candidato sindaco in base alle esigenze delle singole città". Ma è proprio quest'ultimo aspetto del problema che tiene ancora il partito in uno stato d'ansia: man mano che la scadenza si avvicina, infatti, il dato che sta venendo fuori è la difficoltà del Popolo della libertà di aggregare consensi e costruire alleanze. Nelle situazioni più in vista, quelle che da Vicenza a Palermo daranno la tendenza del risultato elettorale, l'alternativa per il Pdl sta tra sostenere un candidato di altri senza presentarne uno espresso dal partito, o presentarlo sapendo che molto probabilmente non arriverà al ballottaggio. Con tutti gli aggiornamenti del caso è quel che capitò alla Democrazia cristiana nel '93 - '94, alle prime due tornate di elezioni dirette dei sindaci, in cui appunto il partito non riuscì ad eleggere alcun primo cittadino. Ma la Dc per sua natura era impreparata a correre nel maggioritario e aveva osteggiato in ogni modo la scelta di un sistema a doppio turno, com'è appunto quello dei sindaci. Mentre il Pdl è nato e cresciuto nella Seconda Repubblica e, pur avendo sempre affrontato con più sofferenza le elezioni amministrative, non s'era mai trovato in difficoltà del genere. L'appuntamento della prossima primavera trova i grandi partiti alle prese con le novità introdotte dalla cura Monti e con la dissoluzione delle precedenti alleanze, determinata dal fatto che Pd e Pdl stanno con il governo, mentre i loro alleati sono schierati all'opposizione. Così al Nord la Lega ha scelto di presentarsi da sola e minaccia in campagna elettorale di ritirarsi anche dai governi regionali di tutto il Nord, se Berlusconi continuerà a garantire il sostegno a Monti. E al Centro-Sud, grazie anche al doppio turno, il Terzo polo, in gran spolvero per il suo convinto appoggio al governo, non ha alcuna necessità di scegliere subito le alleanze e può puntare a portare al ballottaggio i propri candidati a spese, in molti casi, di quelli del Pdl. E' la ragione per cui Alfano a Palermo, la maggiore delle città in cui si voterà, ha proposto di schierare il partito fin dall'inizio a favore del candidato terzista Massimo Costa, che sarebbe favorito in un ballottaggio con Rita Borsellino, candidata, per ora soltanto alle primarie, di Bersani e di una parte del Pd. Ma anche di fronte a questa disponibilità Casini nicchia, mentre Fini è dichiaratamente contrario. Il calvario amministrativo del Pdl per adesso è solo cominciato. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9808
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« Risposta #437 inserito:: Febbraio 25, 2012, 10:58:40 pm » |
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24/2/2012 - TACCUINO Tremonti scommette sul declino del Pdl MARCELLO SORGI Sull’onda del successo editoriale del suo ultimo libro, «Uscita di sicurezza», Rizzoli editore, Giulio Tremonti annuncia che andrà in giro per l'Italia per far conoscere le sue idee. Il libro è un manifesto contro le banche e la finanza che hanno schiacciato la politica e rischiano, a suo giudizio (vedi la Grecia), di imporre una sorta di «fascismo bianco», in cui il salvataggio della moneta e degli equilibri di bilancio potrebbe perfino cancellare la democrazia. Urge ritorno alla politica degli Stati e a un'Europa delle nazioni: Tremonti ricomincia da qui. Post-berlusconiano e post-bossiano, per il suo movimento, non ancora partito, Tremonti punta chiaramente su un'ipotesi opposta a quella che Veltroni nel Pd e Berlusconi per il Pdl stanno lanciando in questi giorni: la prosecuzione, cioè, anche dopo il 2013, del governo Monti, che l’ex superministro invece vede solo frutto dell'emergenza e con un orizzonte temporale limitato, che dopo le elezioni dovrà chiudersi. Dove andrebbe a collocarsi il nuovo movimento tremontiano si può solo intuire. L'uomo-chiave dei governi berlusconiani, il superministro dell'Economia, l'ideatore ante-litteram degli eurobond si è infatti ripresentato in una versione impropriamente definita «di sinistra»: anti-globalizzazione, a favore di un capitalismo più regolato e di un'economia incentivata, quando serve, dallo Stato, nel suo libro è arrivato a citare Toni Negri e manifesta una dichiarata simpatia per il presidente degli Usa Obama. Ce n'è abbastanza per capire che Tremonti scommette sul collasso di tutto l'insieme berlusconiano, non crede alla possibilità che il Pdl possa sopravvivere al tramonto del Cavaliere, né costruire il suo futuro all'ombra di una reincarnazione democristiana o della subalternità a Casini e al Terzo polo. Tutte queste cose, però, nel libro non ci sono. Si percepiscono, invece, non solo nella mente di Tremonti, ma anche nei timori del Pdl e dei suoi ex-ministri, convinti ancora che il governo Berlusconi sia caduto per i capricci del superministro. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9813
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« Risposta #438 inserito:: Febbraio 28, 2012, 05:36:38 pm » |
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28/2/2012 - TACCUINO Nostalgia bipolarista per Pd e Pdl MARCELLO SORGI Le reazioni, non ancora esaurite, alla sentenza di proscioglimento per prescrizione di Berlusconi dall'accusa di corruzione al processo Mills, per due giorni hanno fatto rivivere l'atmosfera del muro contro muro a cui il ventennio del Cavaliere ci aveva abituato e che era stata via via cancellata dall'avvento dei tecnici. Era un po' che i paladini delle due parti non scendevano in campo con tanta veemenza. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se, invece che prescritto, Berlusconi fosse uscito condannato dal tribunale di Milano, e quanto ne avrebbe risentito l'attuale governo che si regge su una tregua tra centrodestra e centrosinistra: quanto fragile s'è appena visto. Casini resta l'unico a predicare tutti i giorni che Monti e la maggioranza a tre restano la soluzione per l'oggi e per il domani. Data la portata dell'emergenza, non si può escludere che si riveli necessario anche dopo le elezioni del 2013. Ma in realtà la stanca rimessa in scena dello scontro pro o contro Berlusconi rivela, più che un'insofferenza alla camicia di forza imposta da Napolitano con il governo tecnico a Pdl e Pd, una nostalgia del bipolarismo come unico terreno di sopravvivenza di partiti che solo formalmente si confrontano sull' eventualità di una serie di riforme mirate a riqualificare la politica davanti a elettori ormai scettici, e a una sorta di disarmo equilibrato dopo la guerra dei vent'anni, per uscire dalla lunghissima e inconcludente stagione della transizione italiana. Mentre i vertici trattano, infatti, la pancia dei diversi partiti mette in conto, e in parte punta apertamente, sul fallimento di ogni tentativo di intesa e sul ritorno alle elezioni, l'anno prossimo, o con la vecchia legge Porcellum o con un sistema elettorale leggermente modificato ma sostanzialmente uguale a quello tante volte ufficialmente vituperato. Di qui appunto il risveglio delle polemiche sulla giustizia dopo la sentenza Berlusconi. E di qui il probabile affondamento di ogni tentativo riformatore del settore da parte del ministro tecnico Severino, che sta andando incontro in Parlamento a difficoltà sempre maggiori sulla legge anticorruzione. Anche il crescente discredito dei partiti nei sondaggi, che segnalano come la soglia di fiducia nelle forze politiche dei cittadini sia scesa sotto il dieci per cento, non sembra preoccupare più di tanto i sostenitori dello status quo. Ai loro occhi il bipolarismo serve anche a costringere gli elettori disillusi ad abbandonare le ubbie e a schierarsi a qualsiasi costo. Almeno al momento del voto. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9825
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« Risposta #439 inserito:: Febbraio 29, 2012, 10:00:31 am » |
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29/2/2012 - TACCUINo Ma la realtà è ancora allarmante MARCELLO SORGI Si può guardare il compromesso raggiunto dal governo sugli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni con la logica del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Troppi cedimenti alle lobbies e alle categorie più forti di parlamentari professionisti, come gli avvocati, accusa chi si aspettava più durezza da Monti. Nella normale dialettica tra governo e Parlamento è normale che un decreto subisca delle modifiche nel corso dell'iter che precede la conversione in legge, è la replica dei tecnici, che oggi porranno la fiducia per evitare un ulteriore annacquamento del testo. Su taxisti, farmacisti e avvocati, effettivamente il compromesso raggiunto sposta verso il basso l'asticella delle novità a cui adeguarsi: l'istituzione della nuova Autorità dei trasporti, che richiederà mesi, e la rinuncia ai preventivi obbligatori per i professionisti imposta dai molti deputati avvocati, sono due dei prezzi pagati al via libera per il decreto. È innegabile tuttavia che così Monti in tempi brevi porterà a casa il secondo impegnativo capitolo del suo programma, mentre le proteste dei vertici bancari contro i conti correnti gratuiti per i pensionati con i redditi più bassi indeboliscono le accuse al governo di proteggere gli interessi delle banche. Resta il fatto che man mano che i problemi economici per l'Italia si allontanano dal livello di guardia, pur restando gravi, grazie agli effetti dei primi mesi di attività del governo, e via via che le scadenze elettorali si avvicinano, aumentano le resistenze dei partiti, che non vedono l'ora di recuperare il loro ruolo, rispetto alle iniziative riformatrici dei tecnici. Valutazioni che non fanno i conti con una realtà che continua a rimanere allarmante e in cui il quadro europeo non fa purtroppo registrare mutamenti significativi (bastino solo come esempi la crescente instabilità tedesca che riduce i margini di manovra della Merkel e l'ulteriore peggioramento della situazione della Grecia). Inoltre, al di là della crisi economica che continua, il governo deve fronteggiare le altre emergenze. A cominciare da quella No-tav che non accenna a placarsi, ora che la fase degli espropri dei terreni è arrivata. Non a caso ieri, dopo un'altra giornata di blocchi stradali e scontri tra manifestanti e polizia, la preoccupata ministra dell' Interno Cancellieri ha sottolineato la necessità di muoversi con cautela, e non solo con la forza, in uno scenario, come questo, ad alto rischio. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9829
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« Risposta #440 inserito:: Marzo 01, 2012, 10:55:57 am » |
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1/3/2012 - TACCUINO "No Tav", svolta "tecnica" dalla trattativa alla fermezza MARCELLO SORGI La svolta dal «dialogo» alla «fermezza assoluta» contro i «No Tav», annunciata ieri dalla ministra dell'Interno Cancellieri, non è stata determinata solo dall’aggravarsi della tensione tra forze dell’ordine e manifestanti sulle strade bloccate della Val di Susa. Piuttosto segnala un autentico ripensamento del governo rispetto alla prudenza iniziale adoperata di fronte alle manifestazioni e alle violenze delle frange più estreme del movimento che si oppone al passaggio all’Alta velocità in territorio piemontese. Ieri il Comando generale dell'Arma dei Carabinieri ha voluto dare un encomio solenne al militare offeso dalle provocazioni di un «No Tav» filmate da una telecamera del Corriere Tv». Immagini diffuse da tutti i telegiornali, che rivelano le sopraffazioni, da una parte, e dall'altra la pazienza e la professionalità dei responsabili della sicurezza, a cui è affidato il controllo del territorio dov'è concentrato il movimento e il recupero delle strade bloccate dalle barricate. In un primo momento, dopo l'infortunio in cui era rimasto coinvolto il leader della protesta salito su un traliccio dell'alta tensione, la valutazione era stata che l'emozione sollevata dall'incidente aveva probabilmente contribuito a scaldare gli animi dei manifestanti, che si sperava potessero in seguito placarsi. Niente di tutto ciò. Ieri la nuova aggressione all'operatore dell'agenzia televisiva che aveva prodotto il filmato per il «Corriere Tv» ha confermato che i violenti non hanno alcuna intenzione di mollare. Parlare di dialogo con quello che sta succedendo, a questo punto, è difficile e può apparire fuori dalla realtà. Di qui, si capisce, la svolta del governo verso la linea dura, che ha portato alla rimozione dei blocchi stradali e allo sgombero forzato dei manifestanti, molti dei quali hanno dovuto essere sollevati di peso dal suolo stradale su cui avevano formato barriere umane. Va da sé che i rischi veri cominciano adesso, visto che il movimento, finora, dopo qualche arretramento tattico, è sempre tornato sul campo il giorno dopo. In Val di Susa la fase degli espropri dei terreni destinati ai nuovi cantieri è appena cominciata con la recinzione delle aree previste. Successivamente si passerà alla presa di possesso da parte dello Stato, ed è in quella fase che il pericolo degli scontri e i tentativi di riconquistare posizioni e impedire l'avvio dei lavori si farà più forte. Preso finora soprattutto dai problemi economici, il governo comincia così a fare i conti con questa nuova emergenza, alla quale, forse, non era del tutto preparato. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9833
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« Risposta #441 inserito:: Marzo 02, 2012, 10:53:01 am » |
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2/3/2012 - TACCUINO Il Cavaliere torna in campo e scompiglia le file del Pd MARCELLO SORGI Mario Monti ha appena fatto in tempo, mercoledì, a dire che se il suo governo riuscirà a raggiungere i propri obiettivi non gli sarà chiesto di proseguire anche dopo il 2013: un modo elegante per far capire che i partiti lo aiutano fino a un certo punto a fare quel che è necessario e ad attuare il programma per cui è stato chiamato. Ed ecco Berlusconi di nuovo in campo, ieri, a obiettare che nel 2013 la formula della larga coalizione di Pdl, Pd e Terzo polo potrebbe rafforzarsi e continuare con l'ingresso nel governo di ministri politici dei tre partiti e con l'obiettivo di realizzare (o completare) il programma delle riforme più urgenti, dalla giustizia al fisco all'architettura istituzionale. Mossa del tutto imprevista, visto che il leader del Pdl aveva annunciato che si sarebbe tenuto alla larga dalla campagna elettorale per le amministrative, non volendo mettere la faccia su una possibile sconfitta. E tuttavia logica, visto che salta del tutto l'appuntamento con le urne di maggio, per proiettarsi direttamente sulla partita grossa delle politiche dell’anno venturo, a cui tutti i partiti guardano con l'intenzione di chiudere insieme la parentesi del governo tecnico e la lunga epoca berlusconiana. Il Cavaliere, al contrario, con congruo anticipo, conferma che non ha intenzione di farsi da parte e punta a mettere in imbarazzo il Pd. Bersani non ha potuto far altro - dando ascolto alle molte voci interne che si levano dal suo partito per escludere un prolungamento dell’attuale governo - che rispondere: un esecutivo fondato su un'alleanza pienamente politica e con ministri provenienti dai partiti della maggioranza per il Pd non esiste. Una dichiarazione secca, mirata a non indebolire Monti proprio nel momento più delicato del negoziato sul mercato del lavoro. Così, per capire cosa ha spinto il Cavaliere alla sua inattesa uscita, non restano che due possibilità: una, più probabile, che l'abbia fatta proprio per mettere in difficoltà il Pd. L'altra, da non scartare, che abbia capito che il Pd non può vivere senza il suo innato antiberlusconismo e abbia provato di conseguenza a stuzzicarlo. Nell’un caso o nell’altro, Berlusconi è riuscito a scaldare una campagna elettorale fin qui addormentata dalla «cura Monti» e dalla rottura delle due coalizioni che si trovano simmetricamente metà al governo e metà all'opposizione. Con quali conseguenze, non ci sarà molto da attendere per vederlo. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9836
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« Risposta #442 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:23:18 pm » |
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7/3/2012 - TACCUINO Carroccio in picchiata e in totale isolamento MARCELLO SORGI A meno di due mesi dal voto amministrativo, lo scandalo milanese si abbatte su una Lega in piena crisi e in totale isolamento, specie dopo le ultime infelici uscite di Bossi su Monti che al Nord rischierebbe la vita. Le vicende giudiziarie hanno sempre avuto un peso particolare su un elettorato, come quello leghista, manettaro e antiromano, anche se negli anni l'atteggiamento del leader del Carroccio verso la magistratura è diventato via via più critico. Ma se solo si riflette sull'ultima fase della collaborazione con Berlusconi, sull'appoggio dato dai parlamentari della Lega alle leggi "ad personam" e nelle votazioni sulle autorizzazioni a procedere e all'arresto per gli esponenti del Pdl coinvolti in indagini, il rumore di fondo della pancia leghista nell'ultimo anno è sempre stato in crescendo. Altri tempi: dopo tre anni al governo (più i cinque della legislatura 2001-2006), la Lega vive con evidente difficoltà il ritorno all'opposizione e il progressivo deterioramento dei rapporti con il Pdl. Alla nascita del governo Monti sembrava che il filo dell'alleanza, su cui tra l'altro si reggono le giunte delle tre principali regioni del Nord, potesse ancora reggere e sopravvivere a quella che il Pdl per primo presentava come una parentesi. Poi, man mano che i tecnici e la maggioranza tripartita hanno messo radici, con Berlusconi che parla apertamente di un proseguimento dell'esperienza anche dopo le elezioni del 2013, il solco tra i due partiti è divenuto più profondo, fino agli ultimi giorni in cui Bossi da una parte e Alfano dall'altra hanno parlato apertamente di fine dell'alleanza, che pure a fasi alterne durava da quasi vent'anni. Tra le file del Carroccio, al di là delle prese di posizione ufficiali di Bossi e degli ex ministri, cresce la preoccupazione. I sondaggi, confortanti nel primo periodo di opposizione, cominciano a rivelare un' emorragia di voti, legata al consenso crescente che anche nell'elettorato nordista il governo si sta guadagnando con la sua opera di risanamento. Inoltre Berlusconi, inattivo in tutta la prima fase dopo la nascita del governo, da due settimane s'è rimesso in attività. Come è spesso accaduto, nessuno è in grado di valutare quali saranno gli effetti dell'imprevedibile campagna che il Cavaliere ha intrapreso a favore di Monti e di se stesso. Ma se la Lega puntava a pescare nel disorientamento degli elettori berlusconiani, conseguente alla caduta del governo di centrodestra, adesso dovrà mettere in conto che anche questo sarà più difficile. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9854
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« Risposta #443 inserito:: Marzo 08, 2012, 04:54:11 pm » |
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8/3/2012 Il rischio paralisi del governo MARCELLO SORGI E’ inutile nasconderlo o tentare di minimizzarlo: la cancellazione del vertice di ieri tra Monti e i segretari di Pdl, Pd e Terzo polo, dopo il rifiuto di Angelino Alfano a prendervi parte, segna la prima aperta rottura della maggioranza che sostiene il governo. E le rassicurazioni venute un po’ da tutte le parti - a cominciare ovviamente dal presidente del Consiglio, per dire che s’è trattato di un incidente passeggero, già praticamente risolto, e l’incontro a Palazzo Chigi potrà tenersi tranquillamente la prossima settimana -, rischiano di accantonare, senza risolverle, le questioni che hanno generato il corto circuito. A cominciare dal problema di fondo, affacciatosi ieri da destra come in precedenza era emerso da sinistra: il governo Monti è pienamente titolato ad occuparsi della crisi generale del Paese, affrontando anche temi nevralgici come la giustizia, la sicurezza, le telecomunicazioni, la Rai, o deve prudentemente tenersene lontano per evitare divisioni, limitandosi all’emergenza economica? Rivolta ieri ad Alfano o ad altri esponenti del Pdl, questa domanda avrebbe avuto molto probabilmente la seconda risposta. Ma l’insofferenza emersa anche con toni sgradevoli da parte di parlamentari della destra nei confronti della ministra Severino, alberga parallelamente in molti ambiti del centrosinistra verso la Fornero e a margine della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro, non a caso bloccata da due settimane. In particolare, i nervi scoperti del partito berlusconiano si erano già elettrizzati nei giorni scorsi, quando la trattativa sulla nuova legge anticorruzione era entrata nel vivo, e in particolare quando la stessa Severino ne aveva parlato con Bersani e Casini, prima del vertice della discordia. Di qui l’irritazione di Alfano, che temeva un accordo tra il ministro e i due partners della maggioranza alle sue spalle, e la conseguente decisione di far saltare l’appuntamento con Monti in attesa di un chiarimento. Il cui onere, va da sé, adesso è destinato a ricadere interamente sul presidente del Consiglio, mentre la Severino ha dovuto incassare, senza neppure reagire, le accuse immotivate di aver tentato un accordo alle spalle del centrodestra. Che il nervosismo diventi ogni giorno più forte all’interno del Pdl, è evidente. Basta solo considerare l’altro appuntamento saltato ieri all’ultimo momento, di Berlusconi con Bruno Vespa a «Porta a porta»: un ripensamento, si dice, consigliato da molte autorevoli voci del partito, già colpito dall’uscita (poi smentita) della scorsa settimana, in cui il Cavaliere aveva rimesso in discussione la leadership di Alfano. In difficoltà per la rottura dell’alleanza con la Lega e costretto ad affrontare le elezioni amministrative in solitudine, con il concreto rischio di una sconfitta annunciata, il Pdl in quest’ultimo periodo è sottoposto a una continua doccia fredda da parte del suo fondatore. A cosa punti Berlusconi, come sempre nessuno lo sa: ma dopo un paio di mesi di silenzio, digerita l’estromissione dal governo, il Cavaliere un giorno sì e l’altro pure lascia capire di essere insoddisfatto del suo partito, del nome Pdl che vuol cambiare perché gli ricorda il recente infausto passato, e del modo ai suoi occhi burocratico con cui il Pdl si sta avviando al congresso. Un congresso, appunto, classico, alla maniera dei partiti di un tempo, con tessere, delegati, e votazioni: indispensabili, se vuole diventare adulta, per una formazione nata quattro anni fa sul predellino di una Mercedes, ma chiaramente aborrite dal fondatore, che teme un’involuzione della sua creatura. In un clima come questo, la legge anticorruzione, come l’ipotesi di riformare la governance della Rai, pur necessarie e all’ordine del giorno, in Parlamento o per il maturare di scadenze, sono diventate una sorta di campo minato per il governo, e tra il governo e il partito di Berlusconi. Né più né meno come era accaduto due settimane fa tra Monti, Bersani e i sindacati sull’articolo 18, tema tra l’altro più spinoso perché in nessun caso potrà essere accantonato. Dopo lo sprint iniziale della riforma delle pensioni e del decreto «Salva-Italia», era abbastanza prevedibile che con l’approssimarsi delle amministrative e man mano che anche le politiche del 2013 si avvicinano, il governo dei tecnici sarebbe andato incontro a una navigazione più incerta. I tempi della politica, si sa, raramente coincidono con la velocità e la necessità delle decisioni e con l’efficacia delle soluzioni. Quando il rinvio serve a trovare un accordo, passi: ma la ricerca di un compromesso non può andare all’infinito. Inaccettabile sarebbe, non solo per l’Italia, ma per l’Europa che ha i suoi occhi puntati su di noi, se Monti - tra l’altro il Monti a cui Berlusconi per primo augura continuamente lunga vita -, a soli quattro mesi dal suo insediamento, dovesse essere ridotto dai veti dei partiti a una condizione di paralisi. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9856
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« Risposta #444 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:21:33 am » |
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9/3/2012 - TACCUINO E il Pdl terrà alta la guardia sul governo MARCELLO SORGI Mario Monti avrebbe volentieri festeggiato il calo dello spread sui titoli italiani per la prima volta sotto quota 300, se a guastargli la festa non fosse arrivata la lettera di quarantacinque senatori del Pdl decisi a far pagare al ministro Riccardi il conto salato di una mozione di sfiducia individuale. Motivo: ancora la frase sfuggita a Riccardi sullo «schifo» provato per le manovre politiche tese a rendere più difficile la vita del governo. Battuta infelice, per la quale Riccardi aveva dovuto scusarsi, specie in una giornata come mercoledì, in cui la tensione politica interna alla maggioranza era salita a livelli di guardia dopo la decisione di Alfano di far saltare il vertice di maggioranza con Monti. Ma evidentemente le scuse non sono bastate ai senatori del Pdl. Monti è corso in prima persona ai ripari con una dichiarazione in cui, sottolineando le buone notizie economiche, si augurava di non dover constatare una crescita «dello spread politico tra i partiti». Ma anche se difficilmente la mozione di sfiducia anti-Riccardi sarà presentata, dopo che Gasparri, capogruppo Pdl al Senato, s’è impegnato a parlare con i firmatari della lettera, l’episodio dimostra che da parte del centrodestra l’intenzione è di tenere la guardia alta nei confronti del governo, almeno fino a un completo chiarimento sui problemi aperti, dalla giustizia alla Rai, che dovrebbe arrivare nel vertice riconvocato per la prossima settimana. A campagna elettorale per le amministrative ormai aperta, il Pdl confida insomma di poter ricavare vantaggi da un atteggiamento meno acquiescente con l’esecutivo dei tecnici, ma non ha alcuna intenzione di mettere seriamente in difficoltà Monti. Tra l’altro, bloccare del tutto la legge anticorruzione, proprio mentre le inchieste sugli episodi di malaffare si moltiplicano, potrebbe rivelarsi controproducente rispetto ai settori dell’opinione pubblica più sensibili al vento crescente dell’antipolitica. Per il secondo giorno consecutivo ieri lo stato maggiore della Lega è rimasto riunito a Milano per esaminare gli sviluppi del caso Boni, decidendo alla fine di una lunga discussione di far quadrato attorno al vicepresidente del consiglio regionale inquisito. Sorprese potrebbero venire anche per il Pd dal caso Lusi: in un’intervista a «Servizio pubblico» l’ex tesoriere della Margherita ha detto che dalle indagini su di lui potrebbe uscire materiale sufficiente «a far saltare tutto il centrosinistra». da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9863
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« Risposta #445 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:41:42 am » |
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6/3/2012 - PRIMARIE, CAOS PD La Terza Repubblica nasce zoppa MARCELLO SORGI Alle primarie di Genova in cui le due candidate del suo partito erano uscite battute da quello di Vendola, Pierluigi Bersani aveva reagito proponendo che il Pd negli appuntamenti successivi si presentasse con un solo candidato, e non più con diversi, per evitare di disperdere voti e concentrare nella competizione tutta la propria forza. Non si capisce quindi cosa lo abbia convinto ad affrontare poco dopo quelle di Palermo con tre candidati, andando incontro in poche settimane a una ben più grave seconda sconfitta. Inutile cercare scuse, o dire che c’erano già impegni presi; proprio facendo tesoro di Genova, c’era sicuramente modo di rivederli. La verità è che anche stavolta Bersani non era in grado di imporre la sua opinione a un partito recalcitrante e diviso. Le primarie infatti costituiscono ovunque una grande prova di democrazia e di apertura alla società. Ma non sono uguali dappertutto. In America, tanto per fare l’esempio più importante, sono primarie di partito. Se Obama, Hillary Clinton e Edwards nel 2008 avessero aperto a tutto il mondo della sinistra americana, il leader dei consumatori Ralph Nader avrebbe avuto la possibilità di giocare la sua partita, e perfino di vincerla: ma non è accaduto. Le primarie aperte, o di coalizione, o all’italiana, sono certamente più seducenti: votano i cittadini e non solo gli iscritti, tutti possono candidarsi, ma il risultato diventa imprevedibile, proprio com’è accaduto a Palermo e a Genova, e prima ancora a Milano, Napoli e Cagliari nel 2011. In tutti questi casi Bersani è sembrato uno che puntava un numero alla roulette, affidandosi alla sorte. Se è andata così, tuttavia, la ragione è politica, perché il Pd non ha ancora deciso con chi governare, se in futuro gli si ripresenterà l’occasione ed evita finché può di fare una scelta. Alle ultime elezioni politiche del 2008 (ma allora era Veltroni a decidere) scelse come alleati Di Pietro e Pannella, lasciando fuori Vendola e gli altri partitini della sinistra radicale. Da novembre dell’anno scorso sostiene Monti in Parlamento insieme con Terzo polo e Pdl, ma mentre corteggia Casini, rifiuta, ricambiato, l’idea di un’alleanza politica con Berlusconi e Alfano. Intanto anche Di Pietro, dopo Vendola, è finito all’opposizione. A questo punto, l’idea di tenere tutto insieme, da Casini a Vendola, non sta in piedi. Di accettare già adesso (dopo non si sa) la prospettiva di prolungare l’esperienza del governo a larga maggioranza, per Bersani non se ne parla. Ma neppure di sbilanciarsi sulla coalizione con cui puntare alla guida del Paese. Figurarsi, in questa situazione, come andrebbero a finire le eventuali primarie per il candidato premier del centrosinistra, seppure qualche mese fa il leader del Pd, almeno nei sondaggi, era indicato come possibile vincitore. Da più parti si continua a sostenere che simili interrogativi tra poco non avranno più ragion d’essere perché la Seconda Repubblica e l’epoca bipolare in cui erano i cittadini a scegliere i governi nelle urne sta per finire. La Grande Riforma tante volte annunciata - e sulla quale però Pd, Pdl e Terzo polo avrebbero ormai raggiunto l’accordo - porterebbe un ritorno al sistema elettorale proporzionale. Nel nuovo (vecchio) assetto che si prepara, i partiti dovrebbero correre nuovamente ciascuno per conto suo, senza più dichiarare preventivamente le alleanze, e solo successivamente trattare in Parlamento per il governo. I governi, verrebbe da dire, pensando a quanti si facevano e disfacevano con tal metodo ai tempi della Prima Repubblica. Ma anche ammesso che sia questa la prospettiva, per tornare alla partitocrazia servirebbero partiti un po’ meglio in arnese. La vicenda del Pd in questo senso è simbolica, non solo dell’epilogo a cui è giunta in breve tempo la parabola della fusione delle due maggiori forze del centrosinistra, ma più in generale della crisi della forma partito nella democrazia italiana. Nato nel 2007 da una spinta convergente, del personale politico ex democristiano ed ex comunista in periferia, e degli ex giovani leader al centro, il partito è stato divorato dagli appetiti e dalle spartizioni locali, al punto che in Sicilia non correvano tre candidati del Pd, ma tre avversari di tre sottospecie dello stesso: ectoplasmi, mutazioni genetiche, mostri assemblati contro natura con trapianti di pezzi diversi. Costruiti esclusivamente per combattersi e uniti soltanto nel rifiutare qualsiasi indicazione politica nazionale, oggi di Bersani come ieri di Veltroni. Tal che la prima dichiarazione del vincitore di Palermo, Fabrizio Ferrandelli, è stata: «Di qui comincia la liberazione!». Così la primavera di Genova e Palermo del Pd ricorda e in qualche modo ripercorre quella di Milano, Roma e Napoli del Pdl nel 2010, quando l’allora «partito del presidente», con Berlusconi al governo, grazie alle risse interne fu addirittura capace di non riuscire a presentare le liste nella capitale. Dove possa arrivare una Terza Repubblica che nasca su queste basi, è difficile dirlo. Ma bisognerebbe pensarci per tempo. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9849
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« Risposta #446 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:29:49 pm » |
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20/3/2012 - TACCUINO Ma i partiti già guardano al dopo MARCELLO SORGI Anche se i bookmakers fino all'ultimo restano cauti, l'annuncio da parte della Fiom dello sciopero di due ore in vista della conclusione della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro è stato interpretato come una reazione preventiva alla possibilità che alla fine all'accordo si arrivi, e ci si arrivi anche con la firma della segretaria della Cgil Camusso, come ieri, nella giornata di vigilia, s'è augurato Monti. Il presidente del consiglio s'è riservato un intervento finale, per superare le ultime resistenze, ma il ministro Fornero ha ribadito che comunque il governo deciderà e che il tempo limite della decisione è fissato prima della partenza di Monti per l'Asia nel fine settimana. È evidente che la conclusione del vertice di maggioranza di giovedì scorso, in cui i tre segretari della maggioranza si sono impegnati a sostenere la riforma del governo in Parlamento e a spingere le parti sociali all'accordo, ha influito. La posizione della Marcegaglia, presidente di Confindustria, che si appresta a passare la mano al suo successore, è considerata tattica, viste le circostanze, dal governo. Più caute sono le valutazioni sui sindacati, che ieri in un lungo vertice hanno cercato invano una posizione comune. Politicamente, il quadro è più chiaro: Bersani tende a far apparire che è rassegnato all'intesa obtorto collo, in realtà non vede l'ora di superare il problema per dedicarsi agli altri argomenti toccati nel vertice di maggioranza. Sulla giustizia - e in particolare sulla trasformazione del reato di concussione - c'è un interesse congiunto dei partiti, e non solo di Berlusconi, che condividono un numero crescente di inchieste e di indagati di cui cercano di liberarsi prima della campagna elettorale del 2013. Non siamo al colpo di spugna, ma poco ci manca: la rimodulazione di gran parte dei processi, che si renderà necessaria con l'introduzione delle nuove figure di reato, cancellerà o sposterà verso la prescrizione gran parte delle cause aperte. Dopo di ciò resta la Rai, sulla quale il centrodestra sta alzando le barricate, e su cui invece Casini s'è avvicinato al segretario del Pd: se infatti al vertice s'è deciso che non devono più esserci materie intoccabili per il governo, è inevitabile che Bersani torni alla carica, puntando non solo al ricambio dei vertici della tv di Stato, ma anche a una ridefinizione della governance, al minimo con un potenziamento dei poteri del direttore generale. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9903
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« Risposta #447 inserito:: Marzo 21, 2012, 05:06:53 pm » |
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Cultura 09/03/2011 - Rossi Doria, in Italia il riformismo è un'utopia Fu tra i fondatori del Partito d'Azione. Una biografia spiega l'attualità del suo pensieroMARCELLO SORGI Manlio Rossi Doria (1905-1988) è stata una singolare figura di intellettuale, economista e politico. Prima comunista poi tra i fondatori del Partito d’Azione non ha mai smesso il suo impegno meridionalista Simone Misiani ne ha curato la biografia per Rubettino Oltre a colmare un vuoto inspiegabile, a distanza di molti anni dalla scomparsa, la biografia di Manlio Rossi Doria (Simone Misiani, Manlio Rossi Doria un riformatore del Novecento, pagg. 722, euro 30, Rubbettino Editore), intellettuale, meridionalista, tra i fondatori del Partito d'Azione, tenta di dare una spiegazione alla difficoltà, per non dire l’impossibilità, del riformismo e dei riformisti in Italia. Prendendo a modello non solo un uomo, ma un’intera generazione di uomini e donne rilevanti, che trovandosi ad attraversare in qualità di antifascisti clandestini, e poi di protagonisti della politica, il passaggio tra la fine del fascismo e della guerra e la nascita della Repubblica, tentarono inutilmente di radicare nella nuova Italia un processo riformatore, rivelatosi, purtroppo, alla lunga e al di là della serietà delle loro intenzioni, impraticabile. In questo senso sono illuminanti sia i materiali di prima mano - documenti, lettere, bibliografia mai riordinati prima d’ora - sia i capitoli centrali del libro, ambientati nei terribili quarantacinque giorni a cavallo tra il 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo che mise in minoranza Mussolini e l’8 settembre dell’armistizio con gli Angloamericani e della fuga del re Vittorio Emanuele III, della sua famiglia e del governo Badoglio da Roma. In una minuziosa ricostruzione che vede Rossi Doria entrare e uscire di galera, a Regina Coeli, insieme con i capi dell’antifascismo clandestino Pertini e Saragat da poco tornati dall’estero, l’avventura del Partito d’Azione si consuma nello scontro tra la sua anima massimalista, guidata da Emilio Lussu, e quella riformista di Ugo La Malfa, divise praticamente su tutto: il rapporto con socialisti e comunisti, la possibilità di collaborare con la monarchia, l’urgenza più o meno forte di insediare al governo il Comitato di Liberazione Nazionale e, più sullo sfondo, le prospettive di una situazione che da qualunque parte la si guardi appare «rivoluzionaria», con il Paese spaccato a metà, il territorio ancora occupato in parte dai tedeschi, che controllano Roma, e in parte da inglesi e americani, che stentano in un primo tempo a cacciare le truppe di Hitler, mentre il duce, liberato dalla sua prigione, è riuscito con l'appoggio nazista a rialzarsi e a fondare la Repubblica di Salò. È in questo contesto che l’anima riformista del Pd’A finirà con il prevalere, ma anche con il restare schiacciata dall’asse tra i tre maggiori partiti saliti al potere dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica. La discussione che si sviluppa all’interno del gruppo - oltre a La Malfa, Lussu e Rossi Doria, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Franco Venturi, Leo Valiani, Giorgio Agosti, Carlo Levi, per citare solo i maggiori e annotare la forte presenza torinese tra i fondatori - è molto intellettuale. Le due anime, la radicale e la moderata, si sentono egualmente rivoluzionarie, ma hanno due modi diversi di intendere i loro compiti. In Lussu si avvertono le radici «sardiste» e il passato comunista. La Malfa e Rossi Doria pensano per l’Italia, piuttosto che a una continuazione della Resistenza armata, a una sorta di New Deal americano, con contadini e operai alleati in un grande partito di massa che gestisca la modernizzazione del Paese. E l’illusione di poter creare un largo consenso popolare su una prospettiva del genere dovrà presto fare i conti con l’approccio più ideologico e conservatore di socialisti e comunisti alleati nel Fronte Popolare. Simone Misiani traccia di Rossi Doria un profilo da intellettuale e politico inquieto e anticonformista - nato in una famiglia borghese, figlio di un medico di tradizioni laico-massoniche -, all’inizio comunista, ma allontanatosi presto dalla sua prima esperienza malgrado i rapporti stretti con Giorgio Amendola, che invano cercherà a lungo di farlo rientrare nelle file del Pci. Dal ’48 in poi, dopo l’esperienza azionista, Rossi Doria come meridionalista sarà impegnato nell’opera di trasformazione dell’agricoltura del Sud sfociata nella riforma agraria. E per i successivi trent’anni, dai Cinquanta agli Ottanta, sarà protagonista critico ma molto rispettato della vita del Partito socialista, partecipando alla stagione riformatrice del primo centrosinistra ma denunciandone al contempo i limiti e i troppi compromessi e restando sempre molto vicino a La Malfa. L’eredità politica e culturale di Rossi Doria, raccolta nelle memorie, in centinaia di articoli e lettere e in un prezioso archivio a cui Misiani ha dedicato anni di studi, riguarda ormai più che le sue originali proposte riformatrici, legate al suo tempo, la critica dell’inadeguatezza delle classi dirigenti e dell’incapacità delle sinistre di costruire nel Novecento un autentico grande partito riformatore di massa. La lettura di questa biografia e delle considerazioni che accompagnano la vita di questo grande intellettuale e politico può aiutare a riflettere sui limiti e gli errori in cui il centrosinistra continua a dibattersi anche oggi. da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/392400/
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« Risposta #448 inserito:: Marzo 22, 2012, 12:25:01 pm » |
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21/3/2012 La sincerità dei partiti alla prova MARCELLO SORGI Diciamo la verità, almeno il pietoso tentativo di mascherare il fallimento della trattativa sul mercato del lavoro, governo e parti sociali potevano risparmiarselo. Una rottura è una rottura, come un divorzio è un divorzio e non c’è nessuna gentilezza formale, nessun rinvio dell’ultima ora e nessun verbale, come quello che ieri è sortito dal tavolo di Palazzo Chigi, che possa edulcorare la sostanza, la realtà dell’accaduto. Alla fine l’accordo non c’è stato ed è molto difficile che possa essere trovato nelle prossime quarantotto ore. Davanti a Monti (e a Napolitano, che ancora in mattinata aveva insistito, spronando tutte le parti a uno sforzo di generosità), l’Italia dei molti interessi, delle convenienze particolari, delle resistenze corporative, ha mostrato tutte le sue sfaccettature, le rughe profonde che le attraversano il volto, la stanchezza di muscoli anchilosati che non consentono più scatti in avanti. Invano fino all’ultimo osservatori qualificati cercavano nella storia vicina e lontana di altri negoziati politici e sindacali un precedente che potesse servire a sperare in un’intesa. No, non è andata come nel San Valentino della notte dei tempi del 1984 e del braccio di ferro tra Craxi e Berlinguer, sfociato nel decreto del governo a guida socialista e in un’insanabile spaccatura a sinistra. E neppure come finì nel ’93, quando per concludere l’accordo che doveva salvare l’Italia da una crisi economica pur meno grave di quella attuale, l’allora segretario della Cgil Bruno Trentin firmò contro il suo stesso sindacato e poi si dimise. Stavolta invece ha prevalso la freddezza, o se si vuole l’incomunicabilità: la battaglia vera ciascuno l’ha combattuta nel suo campo, due ore di sciopero della Fiom sono bastate a trainare tutta la Cgil verso l’indisponibilità e gli slogan propagandistici contro «il governo dei licenziamenti facili»; Cisl e Uil, in passato più autonome, in conclusione hanno indugiato. Anche sul fronte imprenditoriale è accaduto qualcosa di simile: Rete Imprese ha fatto quattro conti, alla maniera svelta dei «padroncini» che rappresenta, e ha innescato la marcia indietro. Ed Emma Marcegaglia, la presidente di Confindustria alla fine di un quadriennio non proprio brillante, non aspettava altro per tirarsi da parte. A Monti e Fornero, dopo un mese e mezzo di illusioni e di inutile trattativa con interlocutori distanti, non è rimasto che stilare il verbale delle divergenze e rassegnarsi all’estremo rinvio. Dopo di che, il governo ha confermato che prenderà le sue decisioni entro sabato, prima della partenza del presidente del Consiglio per l’Asia. Ma è inutile nascondersi che di queste decisioni peserà più il modo con cui saranno prese e comunicate al Parlamento, che non il dettaglio dei contenuti. Infatti se davvero Monti vorrà tener fede ai suoi ripetuti annunci che la riforma del mercato del lavoro (e al suo interno quella dell’articolo 18) sarebbe stata fatta comunque, con o senza l’accordo delle parti sociali, non gli resta che la strada del decreto: quella degli esordi positivi del suo governo, usata per riformare le pensioni e introdurre le liberalizzazioni. Se invece, come si sentiva dire ieri man mano che la speranza dell’accordo tramontava, la scelta sarà quella del disegno di legge o di una legge delega, cioè di un testo che impiegherà alcuni mesi prima di essere seriamente preso in considerazione dalle Camere, si dirà che abbiamo scherzato. E si vedrà, ciò che è più importante, se erano sinceri gli inviti ad andare avanti, rivolti a sorpresa, dopo frequenti esitazioni e frenate, dai partiti della maggioranza al governo; o se più semplicemente Alfano, Bersani e Casini, nel vertice di giovedì scorso, avevano mandato Monti a sbattere contro il muro della concertazione fallita, per poter riprendere senza intralci la campagna elettorale e fargli capire chi comanda ancora in Italia. A dispetto dell’Italia. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9908
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« Risposta #449 inserito:: Marzo 22, 2012, 03:23:12 pm » |
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22/3/2012 - TACCUINO Premier più forte in Europa Meno in patria MARCELLO SORGI Pdl a favore, Pd contro, Terzo polo al centro, nel ruolo di mediatore. All'indomani dello strappo sull'articolo 18 la maggioranza a tre rammendata a fatica nel vertice di solo una settimana fa appare più che mai divisa. Scontato per tutti che il nuovo vertice di oggi a Palazzo Chigi non dovrebbe portare grandi novità, l'attenzione si sposta sul Parlamento, dove il testo della riforma e il verbale finale della trattativa dovrebbero arrivare la prossima settimana, e sul Paese, dato che la Camusso, ieri, dopo la rottura di martedì con il governo, ha annunciato ben sedici ore di sciopero e un'eccezionale mobilitazione all' insegna dello slogan "contro i licenziamenti facili". Le difficoltà maggiori sono per il Pd. Come hanno spiegato Bersani, D'Alema e Rosi Bindi, la scelta di Monti di procedere lo stesso anche in mancanza di un accordo pieno contraddice l'impegno che il presidente del consiglio avrebbe assunto nel vertice di maggioranza di giovedì scorso. Ma che il premier si sia esplicitamente impegnato in questo senso è difficile crederlo, visto che in varie occasioni nelle ultime settimane aveva preannunciato ciò che poi ha fatto. La riforma del lavoro, d'altra parte, era contenuta nella famosa lettera della Bce all'Italia del 4 agosto 2011, al pari della riforma delle pensioni e della necessità di garantire il pareggio di bilancio. Era indispensabile che, assolti i primi due compiti (bilancio e pensioni) il governo garantisse anche l'attuazione del terzo (lavoro), il più difficile. Di qui appunto, diversamente dalle pensioni, riformate per decreto, la decisione di tentare la concertazione con le parti sociali. E davanti a uno stallo, martedì sera, l'accelerata che ha portato allo strappo. Monti ha agito nella convinzione di contare su un solido appoggio dei partiti della sua maggioranza, verificato solo cinque giorni prima, e sulla disponibilità dei sindacati, Cgil compresa, a una sorta di "disaccordo concordato", cioè a condividere anche non interamente la riforma, distinguendo tuttavia le parti accettabili da quelle non condivise e lasciando il governo alla fine libero di decidere e di prendersi le sue responsabilità. L'irrigidimento della Cgil e la durissima reazione annunciata dalla Camusso non erano state messe in conto; almeno non in queste dimensioni. Così è innegabile che nel giro di poche ore il quadro sia molto cambiato: paradossalmente, Monti, con l'annuncio della riforma, s'è rafforzato sul piano internazionale e agli occhi dell'Europa. Ma si prepara ad affrontare un difficile iter parlamentare in un clima pessimo, e indebolito dal fatto che un gran pezzo della sua maggioranza è entrato in fibrillazione. I cento voti in meno sulla fiducia sulle liberalizzazioni sono già un primo segno. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9913
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