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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288120 volte)
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« Risposta #420 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:26:10 pm »

27/1/2012 - TACCUINO

Le elezioni amministrative aprono crepe bipartisan

MARCELLO SORGI

La campagna elettorale per le amministrative si è aperta in grande anticipo con uno scontro Berlusconi-Bossi di quelli che non si vedevano da tempo. Non siamo tornati ai tempi del «Berluskaz» o «Berluskaiser», coniati dal Senatùr nella memorabile campagna del ‘94, quella in cui il centrodestra era la somma di due diverse e conflittuali alleanze di Berlusconi, al Nord con la Lega, e al Centro e al Sud con Fini e Casini. Ma poco ci manca: ieri Bossi ha definito il Cavaliere una «mezza calzetta» perché, a suo dire, non ha il coraggio di buttar giù Monti. Ed anche se l’interessato ha reagito al sanguinoso insulto in modo controllato, confermando l’appoggio al governo, se il buon giorno si vede dal mattino nelle prossime settimane se ne vedranno delle belle. Niente di particolarmente allarmante, perché, si sa, la Lega spara spara, come faceva negli ultimi tempi in cui era al governo, ma poi si scopre sempre che ha le armi caricate a salve e in ogni caso i due vecchi alleati trovano sempre il modo di far pace e curare i propri interessi. Nessuno infatti, a cominciare da Formigoni, crede che il Carroccio farà veramente cadere la giunta della Regione Lombardia se Berlusconi non ritirerà il sostegno al governo. E a ogni buon conto, il segretario del Pdl Alfano ha avvertito la Lega che se cade la Lombardia, cadono anche Piemonte e Veneto, le due regioni a guida leghista. Difficilmente però il Carroccio riuscirà a rimangiarsi anche l’annuncio che si sarebbe presentato da solo alle amministrative, a cominciare da Verona. E per questo il turno elettorale locale si preannuncia funesto per tutto il centrodestra, che di conseguenza, al di là delle rassicurazioni berlusconiane, continuerà ad avere rapporti altalenanti con il governo.

La scadenza elettorale è destinata ad aprire più di un problema anche in casa del centrosinistra. Ieri Di Pietro e Vendola, i due alleati di Bersani collocati come Bossi all’opposizione di Monti, in una conferenza stampa hanno esposto le loro ragioni e chiesto al leader del Pd di far qualcosa per rinsaldare l’alleanza, almeno sul piano locale. Ma oltre alla rumorosa Palermo (con il primo cittadino Pdl che ha gettato la spugna in anticipo sulla data del voto e almeno tre aspiranti successori di centrosinistra in corsa) sono molte le situazioni conflittuali aperte, in cui la scelta di candidati sindaci è lontana dall’essere definita, e le primarie che stanno per essere convocate non aiuteranno certo a migliorare i rapporti interni alla coalizione né a trovare soluzioni condivise.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9700
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« Risposta #421 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:48:03 pm »

20/1/2012 - TACCUINO

Dalla piazza i veri ostacoli alle riforme del governo

MARCELLO SORGI

Lo sciopero dei tassisti, confermato a oltranza anche dopo una prima intesa tra governo e sindacati delle autopubbliche, e la protesta annunciata dai benzinai, che minacciano una serrata di dieci giorni consecutivi, sono i veri ostacoli ai decreti sulle liberalizzazioni che il governo si accinge a varare oggi in consiglio dei ministri.

Rispetto alle incognite, evidenti già dopo due giorni di blocco dei taxi, e ai rischi che la protesta possa degenerare a causa dell’esasperazione di alcune frange di autisti, i distinguo manifestati ieri dalle forze politiche sulle decisioni che il governo ha messo all'ordine del giorno non sono un gran problema. Ieri soprattutto il Pdl, con il segretario Alfano, ha illustrato una serie di suggerimenti che saranno probabilmente trasformati in emendamenti durante il percorso parlamentare dei decreti. Il Pd per ora spinge Monti a proseguire sulla strada delle liberalizzazioni, ma quando si passerà alle misure per il mercato del lavoro farà sentire la sua voce, anche se al momento sembra escluso qualsiasi intervento sull’articolo 18.

Attesa dagli osservatori europei presso i quali Monti ha svolto durante tutto questo mese un'opera di convincimento, la serie di decreti che arrivano stamane in consiglio dei ministri rappresenta la conferma che il governo intende mantenere gli impegni presi in sede Ue, e considera la fase due del proprio programma indispensabile per vedere riconosciuto il ruolo italiano nelle strategie anticrisi della Ue. Con la premessa delle liberalizzazioni, al vertice europeo di fine mese l'Italia si presenterà come il Paese che forse più rapidamente, nel corso degli ultimi due mesi, ha svolto i compiti che le erano stati assegnati. E su questo Monti conta per cercare di smuovere la Germania dalla sua resistenza.

Napolitano ha concluso ieri con Lega e Idv il giro di consultazioni sulle riforme e in particolare sulla nuova legge elettorale. Le delegazioni dei due partiti si sono presentate al Quirinale senza i leader Bossi e Di Pietro, ed anche se è stato chiarito che non avevano alcun significato polemico, le assenze hanno contribuito a confermare l'incertezza diffusa sulle prospettive di una riapertura del confronto in Parlamento. Specie sulla legge elettorale, a parole tutti si dicono d'accordo e manifestano disponibilità, ma la distanza tra i vari progetti rimane ampia e tra i partiti minori si moltiplicano i dubbi sulla possibilità che esista un tacito accordo tra Pd e Pdl per tornare a votare con il Porcellum.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9671
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« Risposta #422 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:31:49 pm »

31/1/2012 - TACCUINO

Il voto spinge Pd e Pdl a "smarcarsi" dal governo

MARCELLO SORGI

Accolto molto bene a Bruxelles, dove ha avuto tempo, prima di calarsi nella trattativa, di tenere un vertice estemporaneo con Merkel e Sarkozy, e dove ha ricevuto i complimenti del capo dell'Eurogruppo Juncker, Mario Monti dovrà nuovamente fronteggiare al ritorno una serie di difficoltà interne alla sua maggioranza. La campagna elettorale per le amministrative incalza e le conseguenze cominciano a farsi sentire, in termini di timori dei partiti per la propria visibilità e per le conseguenze che i provvedimenti presi finora dal governo potrebbero avere sull'elettorato. In un modo o nell'altro i due maggiori partner della maggioranza tripartita mostrano segni di difficoltà e manifestano la necessità di prendere le distanze dal governo.

Il Pdl risente della pressione giudiziaria su Berlusconi, che al momento è tornata ad essere la sua maggiore preoccupazione, e della prospettiva che il processo sul caso Mills, in cui il Cavaliere è accusato di corruzione, benché destinato alla prescrizione, possa egualmente andare a sentenza, caricando il leader del centrodestra di un ulteriore impedimento proprio nella stagione dei comizi. Ieri Berlusconi ha passato una mezza giornata in tribunale, dove erano in corso diverse udienze contemporanee dei processi in cui è imputato. Ed anche se la Corte d'appello ha dichiarato ammissibile l'istanza di ricusazione che Berlusconi ha proposto contro i giudici del processo Mills, facendo segnare un punto alla difesa dell'ex premier, l'ala dura del Pdl, la stessa che preme sul leader per spingerlo appena possibile a un disimpegno dal governo Monti, ora vorrebbe riprendere la campagna di polemiche contro i magistrati che già ebbe risultati funesti a primavera, nella corsa perduta per il Comune di Milano. Inoltre Berlusconi è in attesa della decisione della Corte costituzionale sull'eventuale spostamento al tribunale dei ministri del processo sul caso Ruby e sulle feste di Arcore.

In casa Pd si continua a discutere della riforma del mercato del lavoro. Anche l'ultima ipotesi avanzata dal governo (esclusione dell'articolo 18, che garantisce dal licenziamento, solo per i nuovi assunti) non ha entusiasmato i sindacati, e in particolare la segretaria della Cgil Camusso. Monti ha già ribadito che per fare una trattativa non bisogna avere pregiudiziali. Ma la sensazione è che anche l'incontro di domani con il ministro Fornero per proseguire la contrattazione non porterà risultati. E le conseguenze di questo stallo all'interno del centrosinistra non tarderanno a farsi sentire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9716
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« Risposta #423 inserito:: Febbraio 01, 2012, 10:00:06 am »

1/2/2012 - TACCUINO

Messaggio incalzante a tutti i partiti

MARCELLO SORGI

All’indomani delle contestazioni, a cui aveva reagito lunedì senza enfatizzarle, durante la cerimonia in cui gli veniva conferita la laurea ad honorem all’università, il presidente Napolitano, alla sua seconda giornata di visita a Bologna, ha voluto fare una messa a punto politica del momento che il Paese e il governo stanno attraversando. Dunque, pieno appoggio a Monti e all’opera di risanamento che ha messo in opera, richiamo alla necessità che il quadro dei sacrifici sia il più possibile equo, per essere meglio sopportato dai cittadini, rilancio delle riforme istituzionali, senza nascondersi che il tempo a disposizione in questa legislatura è poco. E, a sorpresa, un appello all’attuazione del federalismo fiscale, dopo le denunce fatte dalla Lega al proposito.

Il Capo dello Stato ne ha parlato come di un «dovere», dato che la riforma è stata approvata, e in questo senso ha espressamente risposto al Carroccio, che da tempo sostiene che con la nascita del governo Monti il federalismo sia stato invece abbandonato, e che perfino l’istituzione di un ministero per la coesione testimonierebbe la volontà di una decisa inversione di tendenza rispetto alla linea di politica istituzionale praticata dal governo Berlusconi.

Al contrario, il Presidente ha voluto far capire che la necessaria, prevalente attenzione del governo ai problemi economici e ai rapporti con l’Unione europea non deve in alcun modo significare la rinuncia al percorso di cambiamento istituzionale, e su questo terreno anzi i partiti dovrebbero tornare a confrontarsi seriamente. Anche perché - su questo Napolitano non ha fatto sconti - l’illusione, che di tanto in tanto si vuol diffondere, della crisi ormai in via di soluzione e della stagione dei sacrifici che volge al termine, è del tutto infondata: l’Italia ha purtroppo davanti a sé un periodo ancora abbastanza lungo di sofferenze, deve rendersi conto di aver vissuto troppo a lungo al di sopra delle proprie possibilità e dovrà abituarsi all’idea di un ridimensionamento del tenore di vita degli ultimi decenni. Senso di responsabilità, secondo il Capo dello Stato, suggerirebbe ai partiti della maggioranza che sostengono il governo di impegnarsi di più, invece di prendere le distanze al momento delle decisioni, e soprattutto di dire la verità ai propri elettori. In questo senso Napolitano è parso rivolgersi a tutti, non solo al Pdl che ieri ha deciso di rinunciare alla ripresa delle manifestazioni contro i giudici di Milano che stanno processando Berlusconi. Si vedrà oggi, alla ripresa della trattativa sul lavoro, se la campana ha suonato anche per Pd e sindacati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9721
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« Risposta #424 inserito:: Febbraio 03, 2012, 12:18:01 pm »

3/2/2012

Sui giudici malessere bipartisan

MARCELLO SORGI

Se c’era un modo originale di celebrare l'anniversario di Tangentopoli che cadrà tra pochi giorni (il 17 febbraio di vent'anni fa, con l'arresto del «mariuolo» Mario Chiesa, partiva il terremoto che avrebbe fatto cadere la Prima Repubblica), ieri alla Camera i deputati di Pdl e Lega, con l'aiuto di almeno una cinquantina di franchi tiratori degli altri gruppi, hanno superato se stessi.

Inserito a sorpresa dal Carroccio nelle votazioni della legge comunitaria, l'emendamento che mira a introdurre una responsabilità civile rafforzata per i magistrati, esposti al rischio di un' azione diretta degli imputati contro gli errori giudiziari, pur approvato, non avrà alcun effetto pratico. Ma invece provocherà conseguenze politiche rilevanti, per tre ragioni.

La prima è che in pochi giorni è la seconda volta che Pdl e Lega ricostituiscono l'asse portante della vecchia maggioranza di centrodestra. Dopo il blitz delle nomine Rai, l'alleanza che s'era spaccata con la nascita del governo tecnico sostenuto da Berlusconi e con Bossi all'opposizione, s'è riproposta nella votazione di Montecitorio con un chiaro connotato anti-Monti. Che si tratti di una libera uscita autorizzata dal Cavaliere, insofferente proprio in questi giorni per la pressione a cui è sottoposto dai magistrati di Milano, o di un voto di protesta dei parlamentari di base, che mal sopportano il sostegno riconfermato fino a mercoledì da Berlusconi in persona al governo dei sacrifici, lo si vedrà presto al Senato, quando Monti, o per conto suo il ministro Severino, dovranno chiedere al Pdl di rientrare nei ranghi e annullare con un voto opposto il testo approvato alla Camera.

In un caso o nell'altro, la gravità della prima spaccatura della maggioranza tripartita a due mesi dalla nascita del governo rimane. E il contributo dato al partito trasversale antimagistrati dai franchi tiratori, in buona parte di centrosinistra, appesantisce il quadro d'insieme e non depone a favore della stabilità: il secondo risultato politico del voto di Montecitorio è questo. Quanto al rammarico e alla richiesta a Monti di un chiarimento da parte di Bersani, seppure in buona fede, in nessun modo sono serviti a ridimensionare l'evidente malessere che sale anche dalla pancia dell' ex-maggior partito d'opposizione.

Il terzo aspetto di questa storia è paradossale: nel 1987, cinque anni prima di Tangentopoli e di tutte le polemiche che ne sono seguite, gli italiani furono chiamati a votare per il referendum sulla responsabilità civile della magistratura. Un referendum sui giudici, più che su un aspetto della loro professionalità: conclusosi con l'inaspettato risultato di una maggioranza di cittadini schierata a favore del principio che se un magistrato sbaglia e commette un'ingiustizia deve pagare, né più né meno come il medico che a causa di un errore danneggia la salute del suo paziente o dell'ingegnere che facendo male i calcoli determina un crollo.

Dopo il voto referendario, la trasformazione di quel risultato in legge si rivelò più difficile del previsto, lasciando emergere il rischio di una limitazione dell'autonomia della magistratura garantita dalla Costituzione e di un parziale squilibrio tra i diversi poteri dello Stato. La discussione durò per anni. Le norme che ne uscirono, come altre volte per le novità introdotte dai referendum, servirono più ad annacquarle che a realizzarle. L'emendamento sconclusionato con cui ieri, dando un'ennesima prova d'anarchia, i deputati di centrodestra e Lega e i franchi tiratori di centrosinistra hanno tentato di riportare indietro le lancette dell'orologio, nasce anche da questa controversa vicenda di venticinque anni fa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9729
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« Risposta #425 inserito:: Febbraio 07, 2012, 11:07:59 pm »

6/2/2012

Il Cavaliere riapre i giochi

MARCELLO SORGI

Una novità imprevista si affaccia nel quadro politico congelato dal governo Monti: Berlusconi non sta pensando a restaurare l’asse con la Lega, ma a tentare l’accordo con il Pd su una nuova legge elettorale.

È il Cavaliere stesso a dirlo in un colloquio con Libero , mentre dal Giornale Giuliano Ferrara gli suggerisce di trattare a tutto campo, mettendo in conto anche la possibilità di una sistema maggioritario a doppio turno come quello francese. Le conseguenze di una simile riforma sarebbero di capovolgimento della tendenza considerata al momento più diffusa: mentre infatti in molti sono disposti a scommettere che la conclusione della legislatura segnerà, con o senza la riforma, la fine dell’assetto bipolare che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, da un accordo PdlPd, sia il bipolarismo, sia i due partiti maggiori, uscirebbero molto rafforzati. Che poi Berlusconi sia disposto a spendersi fino in fondo per limitare le prospettive del Terzo polo e che il Pd sia in grado di mettere da parte una volta e per tutte l’antiberlusconismo pregiudiziale che, a parte la Bicamerale, lo ha sempre caratterizzato, per trattare con il Cavaliere, è ancora tutto da vedere.

Prove di intelligenza con il nemico sono in corso da un po’ al Senato e alla Camera. Ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La ragione di queste difficoltà è presto detta: i partiti italiani da tempo non sono più in grado di trattare in modo pragmatico su singole issues, come avviene in tutte le democrazie occidentali, senza rimettere in discussione il resto. Per fare solo un esempio recente, in Inghilterra dopo le ultime elezioni politiche che non avevano sancito nessun vincitore, i conservatori di Cameron e i lib-dem di Clegg hanno formato un governo di coalizione basato anche sull’impegno reciproco di riformare il sistema uninominale maggioritario secco, che non sembrava più garantire l’alternanza tra laburisti e tories. Sottoposta a referendum, questa eventualità è stata scartata dagli elettori, senza che poi per questo si aprisse una crisi di governo. Una cosa del genere da noi sarebbe impensabile: e la vera ragione per cui la Lega minaccia di far cadere la giunta della Regione Lombardia in questi giorni, non è tanto il sostegno dato a Monti da Berlusconi mentre il Carroccio passava all’opposizione. Ma appunto il rischio, inaccettabile per Bossi, che all’ombra di questo governo Berlusconi trovi un’intesa con il Pd per cambiare la legge elettorale.

I referendum elettorali bocciati il mese scorso dalla Corte Costituzionale avrebbero potuto costringere tutti a una trattativa più serrata, essendo scontato che se fossero stati ammessi la maggioranza degli elettori avrebbe votato a favore dell’abrogazione dell’attuale contestatissimo Porcellum. Adesso invece i partiti si trovano nella scomoda posizione di temere, ciascuno per conto suo, che gli altri si mettano d’accordo a proprio discapito. Di qui la riapertura di un gioco in cui ognuno ha almeno due possibilità di scelta. E infatti, assodato che Berlusconi, per chiudere con il Pd, dovrebbe apertamente rompere con la Lega, la stessa cosa vale per i rapporti tra Bersani e Casini. Al Senato infatti (dove, sia detto per inciso, giacciono una quarantina di diverse proposte di riforma elettorale) l’ala veltroniana che fa capo a Morando, Tonini e Ceccanti ha un discorso aperto con il vicecapogruppo del Pdl Quagliariello. Obiettivo: salvare a qualsiasi costo il bipolarismo, per non consentire il propugnato (dai terzisti) ritorno a una riedizione del centrismo democristiano. Mentre alla Camera Violante (non più parlamentare, ma ancora autorevolmente in campo su questa materia), Franceschini e Bressa trattano più volentieri con Casini su un sistema di tipo tedesco o spagnolo (proporzionale ma anche bipolare), valutando in questo caso, non solo le regole elettorali, ma anche la possibilità di un alleanza tra Terzo polo e centrosinistra per il prossimo governo. Inoltre Franceschini ha avanzato la proposta cosiddetta «del proporzionale per una volta sola»: eleggere proporzionalmente, senza alcuna limitazione come ai tempi della Prima Repubblica, un Parlamento costituente che si incarichi una volta e per tutte della riforma della Costituzione, rinviando a subito dopo la gara, con regole elettorali da stabilirsi, per chi dovrà governare il Paese.

C’è dunque una complicata antologia di proposte, di fronte alla quale non c’è dubbio che la proposta di Berlusconi sposti in avanti la discussione. Se davvero, come dice, il Cavaliere non si sente più vincolato all’asse con Bossi (che d’altra parte ripete la stessa cosa), e se è disposto a trattare senza pregiudiziali con il Pd, approfittando del comune sostegno al governo Monti che lo pone in una posizione meno antagonistica rispetto a Bersani, la riforma, da improbabile che era, diventa possibile. E non perché i due maggiori partiti debbano farla necessariamente nel loro interesse e contro quello di tutti gli altri, a cominciare dal Terzo polo. Ma al contrario perché, se Pdl e Pd sono in campo, e prendono in considerazione un accordo diretto, anche gli altri devono necessariamente darsi una mossa.

Da questo punto di vista, il sistema francese a doppio turno, da sempre scartato in Italia, vuoi, a suo tempo, per le riserve democristiane, vuoi, più di recente per i timori della destra (entrambe ritenevano che la scelta secca incoraggiasse di più la maggioranza di elettori moderati a manifestarsi), da implausibile che era, è destinato a diventare almeno un buon argomento di discussione. Nel primo turno, infatti, contiene un buon tasso di proporzionale (tutti o quasi tutti i partiti possono presentarsi e le intese locali diventano necessarie per un’equilibrata rappresentanza parlamentare). Nel secondo turno costringe ad alleanze trasparenti, che difficilmente possono essere capovolte con il trasformismo o soggette al ribaltonismo.

Una cura possibile per le più recenti e insidiose malattie italiane, che nell’ultima legislatura, non va dimenticato, sono riuscite ad atterrare anche una maggioranza fortissima come quella (ex) di Berlusconi. Il cui impegno diretto nella trattativa, tuttavia, non è detto serva a sbloccare la discussione. La politica italiana, si sa, a volte preferisce convivere con i suoi mali. O peggio ancora, sopravvivere grazie ad essi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9741
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« Risposta #426 inserito:: Febbraio 07, 2012, 11:26:57 pm »

7/2/2012 - TACCUINO

L'asse Pdl-Lega e i dubbi di Bersani sulle riforme

MARCELLO SORGI

Dopo l'iniziativa di Berlusconi sulla legge elettorale, la serie di incontri che oggi il Pdl avvia proprio sul tema della riforma servirà, se non altro, a capire se esiste la possibilità di avviare una trattativa concreta su una materia così delicata, o se invece, come altre volte, il negoziato è destinato ad arenarsi di fronte a pregiudiziali politiche.

Che nel Pdl Berlusconi, e non solo lui, pensi che all' ombra della maggioranza tripartita che sostiene il governo Monti i rapporti con il Pd, improntati per molti anni a una contrapposizione frontale, possano segnare un'evoluzione in positivo, è ormai chiaro. Ed effettivamente, nella consuetudine ormai accettata dei vertici a tre di Alfano, Bersani e Casini, il clima è improntato a un sano pragmatismo, che ha consentito finora al governo di superare anche ostacoli molto difficili.

Che invece sulla base di questo il Pd sia disposto a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti di Berlusconi non è affatto sicuro. Per varie ragioni: innanzitutto è forte ancora all'interno del principale partito di centrosinistra l'antiberlusconismo, che è servito in tutti questi anni ai Democratici a cementare, pur senza risolverle, molte rilevanti divisioni interne. Il superamento di Berlusconi e del berlusconismo da parte del Pdl è insomma la condizione per avviare rapporti politici "normali" con il centrodestra: e sotto questo profilo a Bersani non dà alcuna rassicurazione l'atteggiamento del Cavaliere, che un giorno annuncia al Financial Times che ha deciso di ritirarsi dalla prima linea, e il giorno dopo torna in campo da leader per proporre un accordo a tutto campo.

Inoltre - e lo si vedrà dopo l'incontro con la delegazione della Lega - il leader del Pd non crede fino in fondo alla crisi di rapporti tra Pdl e Carroccio; nè vede, all' interno della Lega, segnali convincenti di disponibilità, per esempio da parte dei maroniani, a voler battere la strada di alleanze differenti fuori da quella decennale con il centrodestra. Berlusconi e Bossi, in altre parole, a giudizio dei Democratici, possono anche arrivare alle soglie di una rottura. Salvo poi decidere di far saltare il governo e tornare alle urne con la vecchia alleanza. Un'analisi del genere tiene ovviamente conto di interessi di parte, in nome dell'antiberlusconismo rifiuta di riconoscere a Berlusconi il ruolo di interlocutore politico, e di conseguenza non lascia molte speranze al prosieguo della trattativa sulla legge elettorale. Tuttavia, a sentire molte voci che si levano anche dall' interno del Pdl, non è affatto lontana dalla realtà.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9748
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« Risposta #427 inserito:: Febbraio 08, 2012, 12:05:57 pm »

8/2/2012 - TACCUINO

Nuove spine sulla strada di Monti

MARCELLO SORGI

Il nuovo rinvio a giudizio di Berlusconi, che porta a quattro (caso Mills, fondi neri Mediaset, caso Ruby e adesso anche intercettazioni contro Fassino) il numero dei processi aperti a Milano contemporaneamente contro di lui, avrà certamente conseguenze politiche, su due diversi piani.

Il primo è il confronto sulla giustizia dopo il voto a sorpresa dell'emendamento leghista alla legge comunitaria che ha introdotto una rafforzata responsabilità civile personale per i magistrati. La settimana scorsa, subito dopo l'incidente, il Pd aveva chiesto che si ponesse rimedio al più presto all'incidente con una decisione opposta del Senato. Ma la trattativa in materia s'è rivelata immediatamente più complicata del previsto per la contrarietà del centrodestra a cancellare del tutto il principio introdotto. È prevedibile che dopo quanto deciso ieri dal gup milanese la posizione di Berlusconi in merito si rafforzi, rendendo ancora più difficile la ricerca di un accordo all'interno della maggioranza tripartita che sostiene il governo. Il Cavaliere è in attesa della decisione della Corte d'Appello sulla sua richiesta di ricusazione dei giudici del processo Mills e della sentenza della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sul caso Ruby, che potrebbe concludersi con uno spostamento del processo dal Tribunale di Milano a quello dei ministri. Anche questi due responsi condizioneranno la sua strategia per i prossimi mesi.

La seconda conseguenza di tutto ciò riguarda Monti. Il tentativo del presidente del consiglio di circoscrivere l'attività del governo all'emergenza economica per non farsi carico di tutto il contenzioso pregresso dei partiti si sta rivelando via via impossibile. Man mano che si avvicinano le elezioni amministrative la politica tende a riavere il sopravvento e i partiti non sembrano in grado di riprendere un filo di collaborazione tenendo il governo al riparo dalle loro tensioni.

L'intervista di Bersani a Repubblica dà prova di questo. Il leader del Pd non si spinge a mettere in discussione l'appoggio del suo partito a Monti, ma lo subordina alla soluzione di tutti i problemi aperti, dalla giustizia, appunto, alla Rai, e naturalmente al negoziato sul mercato del lavoro e sull'articolo 18. Ed anche se per la prima volta Bersani sembra sganciarsi dalla posizione della Cgil, che potrebbe alla fine non firmare l'accordo, è chiaro che l'atteggiamento del Pd dipenderà anche dal modo in cui il governo affronterà le altre due questioni, dimostrando di essere in grado di imporre al Pdl una soluzione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9751
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« Risposta #428 inserito:: Febbraio 09, 2012, 10:31:06 am »

9/2/2012 - TACCUINO

Così parte la campagna per corteggiare i centristi

MARCELLO SORGI

Al di là delle diverse soluzioni all’esame dei tecnici, il primo giro di incontri sulla nuova legge elettorale, che dovrebbe sostituire il Porcellum prima delle prossime elezioni, s’è concluso in modo interlocutorio ma svelando un cambio di strategia dei due maggiori partiti: conseguenza, è lecito dedurre, della recente e tormentata collaborazione nella maggioranza che sostiene il governo Monti. Sia il Pdl, che per iniziativa di Berlusconi ha promosso la trattativa, sia il Pd, scelto come primo interlocutore, pensano che l’assetto da scegliere per presentarsi alle prossime elezioni sia quello di coalizioni spostate verso il centro, e non appesantite da alleanze con le estreme (Lega, Sinistra radicale e Di Pietro): Pdl e Terzo polo per il centrodestra, Pd e Terzo polo per il centrosinistra.

Se ne ricava che Alfano e Bersani hanno una comune convenienza nel riuscire a far passare una legge elettorale che salvi il bipolarismo e convinca/costringa Casini a scegliere con chi allearsi prima del voto, mentre il leader dell’Udc difenderà fino all’ultimo la sua esigenza di tenersi le mani libere e spostare il più possibile in avanti, a ridosso della data delle elezioni, e meglio ancora, dal suo punto di vista, dopo, il momento della scelta. Casini inoltre non esclude che la grande coalizione possa dover durare oltre il 2013.

Non essendo realistico un accordo in tempi brevi, vista la prossima scadenza delle amministrative, le elezioni nei Comuni e nelle Province della prossima primavera si trasformeranno in una straordinaria campagna di corteggiamento dell’Udc, e in qualche caso del Terzo polo, che in numerose realtà locali è già alleato con il centrodestra, e che il Pd cercherà di spostare verso il centrosinistra, se non altro per valutare gli effetti del lento ma costante avvicinamento tra Bersani e Casini nell’ultimo anno. Subito dopo il voto, risultati alla mano, si aprirà il confronto vero, che potrebbe concludersi con il varo della nuova legge elettorale, dato che Pdl e Pd ci hanno messo la faccia, ma potrebbe anche concludersi con un fallimento, visto che i partiti minori si stanno attrezzando, sentendosi minacciati dall’ipotesi di un accordo tra i due maggiori.

Casini ha sufficiente esperienza politica per non lasciarsi intenerire dal contemporaneo e simmetrico corteggiamento di Alfano e Bersani. Ma sbaglierebbe a sottovalutarne le intenzioni, non solo in materia elettorale. Pur di non morire democristiani, infatti, Pdl e Pd sono pronti a stipulare un patto a due.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9755
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« Risposta #429 inserito:: Febbraio 14, 2012, 12:48:53 pm »

14/2/2012

L'errore di non ascoltare gli elettori

MARCELLO SORGI

Dopo quelle di Milano e Cagliari nel 2011, la terza sconfitta del Pd alle primarie di Genova ha aperto una discussione nel partito che va oltre l'amarezza del momento. Siccome anche stavolta a vincere è stato il candidato di Vendola, Marco Doria, si confrontano due interpretazioni. Una, per così dire più tecnica, è del segretario Pierluigi Bersani, dispiaciuto, ovviamente, ma convinto che finché il Pd consentirà alle sue diverse anime di presentare più candidati - com'è accaduto a Genova, dove la sindaca uscente Marta Vincenzi si contrapponeva alla parlamentare Roberta Pinotti -, dovrà mettere in conto, disperdendo i voti, di andare incontro a rovesci: cioè, in altre parole, di essersela cercata, la sconfitta. L'altra, più politica, è dell'ex segretario della Cgil ed ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, secondo cui il Pd ha perso nuovamente perché non riesce a incarnare la richiesta di cambiamento proveniente dal suo elettorato.

A dire la verità nessuna delle due spiegazioni è convincente, proprio perché Genova non è un caso isolato e il ragionamento dovrebbe necessariamente ripartire dai precedenti. Le passate affermazioni di Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che strapparono la guida delle due città al centrodestra, erano state salutate dal Pd come vittorie, ma anche come campanello d'allarme di un' ondata di antipolitica sottovalutata dai partiti.

Da tutti i partiti, non solo da quelli che erano usciti battuti. A Milano e a Cagliari, di conseguenza, pur sedendo al tavolo dei vincitori, il Pd doveva fare i conti con la propria crisi. Confermata tra l'altro, sia detto senza voler infierire, dal fatto che a Napoli a diventare sindaco era stato il candidato di Di Pietro, Luigi De Magistris, mentre il prefetto democratico Mario Morcone era rimasto escluso dal ballottaggio. E a Bologna, la capitale storica della sinistra italiana, il partito era sì riuscito a riconquistare il Comune - malgrado uno scandalo sentimental-amministrativo che aveva investito la giunta -, ma a stento. E la lista di Beppe Grillo toccava inaspettatamente il dieci per cento.

La sconfitta di Genova conferma che le difficoltà di rapporto tra il Pd e il suo elettorato non sono affatto superate. Anzi resistono immutate, a prescindere dalla collocazione del partito (l'anno scorso all'opposizione contro il governo Berlusconi, quest' anno in maggioranza con Monti), dal mutamento complessivo del quadro politico e da quel che è stato fatto, o non fatto, per affrontarle. Sbaglierebbe tuttavia Bersani, o qualsiasi altro membro della nomenklatura democratica, ad accontentarsi di trovare radici locali e motivazioni contingenti del problema, si tratti della recente alluvione genovese che ricevette una risposta inadeguata da parte dell'amministrazione, o dei sacrifici che anche con i voti del Pd Monti ha dovuto imporre agli italiani.

La questione è diversa e riguarda appunto quell'ondata di antipolitica che un anno fa i partiti avevano colto in ritardo, promettendo però di affrontarla con un cambiamento di pelle e venendo incontro alle reazioni, non sempre motivate, dei loro elettori. In un anno, appunto, niente è stato fatto, né dal Pd né dagli altri. Non c'è stato neppure un accenno di autoriforma. E contrariamente a quel che molti militanti democratici si aspettavano, il Pd proprio in questi ultimi giorni è apparso come il perno di un progetto di riforma elettorale proporzionale che punta a ridare pieni poteri ai partiti nella formazione dei governi, togliendo ai cittadini il diritto di sceglierseli.

Forse Bersani e i suoi hanno pensato che l'onda lunga della caduta di Berlusconi si sarebbe risolta naturalmente in vantaggio per loro, coprendo le carenze di un'opera di rinnovamento promessa e rinviata. Forse, sbagliando, hanno ritenuto che bastassero le primarie per rianimare gli elettori e restituirgli l'illusione di contare. Invece, come dimostra la scarsissima partecipazione alle primarie di Genova, l'errore di valutazione non poteva essere più grosso. E l'ostacolo maggiore che il partito s'è trovato ad affrontare non è stato tanto il voto di protesta, ma l'indifferenza del suo elettorato.

In questo senso, va detto, Genova parla anche al Pdl, e non solo al Pd. Da qualche tempo infatti la parola primarie ha cominciato a far capolino anche nel centrodestra, come esempio di buona volontà per abbandonare la gestione cesarista di Berlusconi e abbracciare le regole normali dei partiti democratici. Ma alla prova pratica, il nuovo metodo non è stato all'altezza dei propositi. Roberto Formigoni, governatore della Lombardia nonché avversario giurato del segretario Angelino Alfano, ha proposto di candidare alle primarie il ministro tecnico Corrado Passera. Alfano ha replicato che Passera, per candidarsi, deve iscriversi al partito, sapendo che non può farlo. Ne è nata una polemica: e s'è capito che anche in questo caso le primarie del dopo-Berlusconi saranno gestite dalle correnti del Pdl. Con quale entusiasmo degli abbacchiati elettori di centrodestra, è facile immaginare.

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« Risposta #430 inserito:: Febbraio 15, 2012, 04:54:51 pm »

15/2/2012

Processo Ruby l'ultimo round giudici-cavaliere

MARCELLO SORGI

La sentenza con cui la Corte Costituzionale ha negato a Berlusconi lo spostamento al Tribunale dei ministri del processo sul «caso Ruby» e le feste di Arcore con le «olgettine» apre la strada alla partita finale tra l’ex presidente del Consiglio e i magistrati di Milano. Uno scontro prevedibilmente durissimo, tenuto in sordina, negli ultimi tempi, dopo il voto sorprendente con cui il Cavaliere ottenne dalla sua maggioranza alla Camera di certificare la sua versione dei fatti. E’ la storia incredibile della notte in cui aveva telefonato alla Questura di Milano per ottenere il rilascio della ragazza marocchina, considerata, non una minorenne che prima di compiere diciott’anni aveva partecipato a un festino con altre ragazze nella sua villa, ma nientemeno una nipote un po’ sventata dell'ex presidente egiziano Mubarak, da liberare per evitare un incidente internazionale.

Che poi quella ragazza - sedicente nipote di tanto zio, e in grado di ingannare il presidente del Consiglio fino a convincerlo ad agire nel pieno dei suoi poteri per farla rilasciare - abbia raccontato di aver partecipato a una serata in cui ragazze seminude ballavano e facevano il gioco del trenino, e di aver subìto avances sessuali, è un dettaglio che nella decisione della Camera inspiegabilmente non ha avuto peso. Ma che i giudici della Corte Costituzionale, con la loro sentenza, hanno voluto rimettere a posto, stabilendo che il processo già cominciato a Milano continui di fronte al suo giudice naturale.

Berlusconi dunque non potrà più difendersi con la sua personalissima ragion di Stato e dovrà rispondere dell’abuso dei suoi poteri e di sfruttamento della prostituzione, le accuse che più di tutta la sua lunghissima vicenda giudiziaria gli hanno nociuto, anche sul piano internazionale, negli ultimi mesi in cui era a capo del governo. Ma quello che era solo alle prime battute, e adesso, con il via libera dei giudici della Consulta, sta per entrare nel vivo, può diventare un processo imprevedibile. Perché c’è una grande differenza, è inutile nasconderlo, tra il Berlusconi presidente del Consiglio e quello di adesso. La rievocazione di vicende ormai note, la descrizione di dettagli disgustosi, l’andirivieni di escort, prostitute professioniste e ragazze di ogni dove che si accusano a vicenda, in un’aula aperta al pubblico e davanti a un leader ormai sul viale del tramonto, a un uomo anziano, solo e malinconico, preda delle sue debolezze, potrebbe avere perfino l’effetto opposto. Rivelando alla fine che Berlusconi, in molti casi, non solo in questo, è stato anche vittima di se stesso. Che forse capiva o intuiva la spregiudicatezza di quelli e quelle che lo hanno raggirato, ma s’è lasciato andare lo stesso. Questo potrà forse ridimensionarne, non certo cancellarne del tutto le colpe. Che per fortuna, adesso che Berlusconi ha lasciato Palazzo Chigi, sono solo sue e dei giudici che dovranno giudicarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9774
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« Risposta #431 inserito:: Febbraio 16, 2012, 04:05:18 pm »

10/2/2012 - TACCUINO

Sul dopo "Porcellum" il Pd sfida il Cavaliere

MARCELLO SORGI

L’arrivo sul tavolo di Berlusconi di una proposta scritta di riforma della legge elettorale firmata Violante ha imposto alla discussione che ha impegnato tutti i partiti (tranne Di Pietro) in questa settimana un imprevisto segno di concretezza. Finora infatti non si era arrivati più in là di un impegno generico. Adesso, invece, scripta manent: vuol dire che, come si era intuito fin dall’inizio, il Pd sta al gioco e vuole andare fino in fondo nel confronto con il Pdl: pazienza se qualcuno nel partito mugugnerà in nome dell’indimenticato antiberlusconismo.

Il fatto poi che il Cavaliere abbia subito voluto sottoporre al vertice del suo partito il testo inviato da Violante sta a significare che anche il Pdl vuole condurre la trattativa senza ripensamenti e senza lasciarsi condizionare da veti e pregiudiziali. D'altra parte la proposta Violante - bipolare e proporzionale, in grado di garantire una rappresentanza, sia pure simbolica, ai partiti più piccoli, concentrando però la sfida tra i due maggiori - è concepita in modo da portare il negoziato su un piano pragmatico e concreto.
Il Pd abbandona ufficialmente il maggioritario a doppio turno, per lunghissimo tempo la sua bandiera, e mette giù un'ipotesi flessibile, che tenta di contemperare le esigenze più diverse, e soprattutto che riconduce a un meccanismo proporzionale l'assegnazione dei seggi e di un eventuale premio di maggioranza. In questo senso l'ultima versione del Pd è un pefetto mix di sistema spagnolo e tedesco.
Con l’obiettivo di limitare fortemente la possibilità di garantire uno spazio sicuro al Terzo polo e a una prospettiva centrista. Lo schema Violante infatti prevede che Casini a un certo punto scelga tra centrosinistra e centrodestra.

Inoltre, anche se la soglia di sbarramento è ipotizzata a stadi diversi, proprio per consentire a tutti, anche ai più piccoli, di presentarsi e concorrere, un partito come la Lega, con il suo potenziale dieci per cento che gli assegnano i sondaggi, potrebbe gareggiare tranquillamente con i più forti e restare decisivo nella formazione dei governi. E tuttavia, come dimostra l'ostruzionismo del Carroccio ieri contro l'approvazione del decreto svuotacarceri, Bossi non se ne dà per inteso. E con lui Di Pietro, il cui futuro elettorale, e la possibilità di tornare alleato del Pd, si prospetterebbero più incerti. E ancora, Vendola, che nel 2013 si gioca la partita di riportare in Parlamento la sinistra radicale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9759
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« Risposta #432 inserito:: Febbraio 16, 2012, 04:06:27 pm »

16/2/2012 - TACCUINO

Il paradosso del possibile "disaccordo condiviso"

MARCELLO SORGI

L’approdo sulla prima pagina dell'International Herald Tribune della storia del giovane precario italiano Luca Nicotra, dottorato di ricerca e lunga serie di contratti a termine alle spalle, come simbolo dell'Italia che «affronta la fine del lavoro a vita», conferma la distanza tra il modo in cui Monti viene percepito in Europa e la realtà di una trattativa sul lavoro che fa solo piccoli passi avanti, ma senza ancora risolvere il problema centrale della riforma dell'articolo 18.

Tutti i protagonisti della trattativa si sono posizionati in modo da fare il massimo sforzo per l'accordo, ma riservandosi anche una via d'uscita se alla fine non ci sarà. L'intenzione, confermata da Monti, di procedere comunque a una trasformazione della flessibilità in uscita dal lavoro, ridimensionando le garanzie fornite dalla legge in caso di licenziamento, si accompagna alla cautela della ministra Fornero, che ha accettato di procedere a rilento e con il ruolino di marcia imposto dai sindacati. Dunque, come ha chiesto la segretaria della Cgil Susanna Camusso, prima discussione su tutte le tematiche sensibili in materia di lavoro, come ad esempio la formazione, l'apprendistato e gli ammortizzatori sociali; e solo in un secondo momento, di conseguenza, confronto sull'osso duro dell'articolo 18.

Con un metodo come questo, se ci sarà intesa, ciascuno potrà dire di aver portato a casa un compromesso accettabile. E se invece non si troverà l'accordo, il governo potrà prendere egualmente le sue decisioni, senza rinnegare i risultati conseguiti nella prima parte della trattativa, e sapendo di poter contare su una reazione delle parti sociali dura, ma sopportabile. Questo perché difficilmente, su un terreno così delicato, i sindacati potrebbero muoversi in ordine sparso, o come altre volte dare per scontato il dissenso della Cgil senza tentare di recuperarlo. A quel punto, piuttosto che firmare un accordo separato, l'ipotesi di una sorta di disaccordo condiviso potrebbe alla fine risultare più praticabile. Mentre resta da escludere, per il governo, la possibilità che alla fine la parte più controversa del negoziato venga stralciata.

A Monti resterebbe il problema di far votare in Parlamento la riforma del mercato del lavoro, facendola digerire alla sua maggioranza e in particolare al Pd, finora molto attento ai movimenti della Cgil. Bersani in una recente intervista ha detto che è disposto ad accettare la conclusione della trattativa, schierandosi ovviamente per l'accordo, ma lasciando intendere che non lo dà per scontato, e anche che non intende impiccarsi a un eventuale «no» della Cgil.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9781
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« Risposta #433 inserito:: Febbraio 17, 2012, 05:07:46 pm »

17/2/2012 - TACCUINO

Per i forzisti la difficoltà di essere normali

MARCELLO SORGI

Anche se alcuni dei casi emersi (come quello di Salerno) non sono affatto trascurabili, e denotano, come ha denunciato l'ex ministro Frattini in un'intervista al «Riformista», una sorta di malattia sistemica del Pdl, la vicenda delle tessere false contro cui è duramente intervenuto ieri Alfano, svela difficoltà maggiori del previsto del partito di Berlusconi a trasformarsi in un'organizzazione «normale», in parte assimilabile alle altre figlie o nipoti di quel che resta della Prima Repubblica, e in grado di salvare, non si sa come, quel che rimane della sua giovane storia e tradizione e del piglio rivoluzionario delle origini.

Certo, nella storia delle tessere comperate e vendute, sembra di rivedere un po' della vecchia Dc. Ma il Pdl, nato nella famosa domenica del predellino da uno scatto di Berlusconi, malgrado le promesse di omologarsi, è stato ed è rimasto fino all'estate scorsa il «partito del presidente», in cui perfino la lottizzazione del vertice e dei coordinatori tra ex Forza Italia e ex An, formalmente improntata alla regola del 70/30, obbediva alle scelte dirette del fondatore. Che infatti, anche nel momento di maggior crisi, alla vigilia della caduta del suo governo, ha potuto proporre e fare approvare per acclamazione il segretario designato Alfano.

Era tuttavia già chiaro da tempo che in vista della caduta le correnti nel partito stessero già organizzandosi, e in alcuni casi (vedi la vicenda della mancata presentazione della lista a Roma alle regionali) puntando pure a prevalere sulla volontà del Cavaliere e del gruppo dirigente, o a dissolverla con le loro lotte intestine. La nomina di Alfano fu voluta, non solo per rilanciare con un leader giovane un partito uscito con le ossa rotte dalle elezioni locali, ma anche come baluardo ai potentati locali che rischiavano di avere la meglio.

L'opera di bonifica, se c'è stata, è andata avanti in silenzio, fino alla vigilia congressuale. Ma lo scontro adesso è riesploso, soprattutto al Sud, dove il tramonto di Berlusconi ha messo in discussione anche il potere dei raiss di periferia, e dove la ventilata stagione di ritorno al proporzionale rende indispensabile conquistare le posizioni di comando per poi avere mano libera nei giochi successivi. Da questo punto di vista Alfano non ha scelta: in un partito che si avvia per la prima volta ad abbandonare il cesarismo delle origini per avventurarsi nell'ignoto del suo futuro postberlusconiano, un compromesso con le correnti, per il segretario, sarebbe già rischioso al congresso. Ma, siglato prima, potrebbe addirittura risultare letale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9785
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« Risposta #434 inserito:: Febbraio 21, 2012, 12:18:35 pm »

20/2/2012

La cura Monti e il malessere dei partiti

MARCELLO SORGI

Proverbiale e convenzionale quanto si vuole, la scadenza dei primi cento giorni di governo nella prossima settimana non sarà affatto un’occasione rituale. Non perché già sia tempo di bilanci, tutt’altro. Ma perché, è quasi inutile ripeterlo, quello di Monti è un esecutivo diverso da tutti i precedenti del vasto catalogo di formule ed espedienti sperimentati in oltre sessant’anni. E dopo il Berlusconi I del 1994, per non andare troppo indietro nel tempo, è senz’altro quello che ha portato il maggior tasso di discontinuità con il passato, quasi che con Monti sia morta la Seconda Repubblica e sia cominciata, o stia per partire, la Terza.

Sull’importanza delle novità introdotte fin qui, non c’è dubbio. Basti solo pensare al punto in cui eravamo poco più di tre mesi fa: dopo la rottura della maggioranza di centrodestra, a soli due anni e mezzo dalle elezioni, la legislatura si era avvitata su se stessa e il governo del Cavaliere boccheggiava, appeso a un’esigua manciata di voti negoziati uno per uno con i transfughi di diversi partiti, dall’Udc di Casini all’Idv di Di Pietro, senza riuscire a realizzare né il proprio programma, né le necessarie scelte di rigore imposte dalla crisi dell’euro. In una guerriglia quotidiana di tutti contro tutti Berlusconi versus Tremonti, o Bossi, o addirittura Scilipoti e Romano, quando non vittima delle faide intestine del suo stesso partito - il governo era paralizzato dai suoi problemi più che dalla durezza dell’opposizione.

L’agonia di un intero anno e la crescente incapacità di far fronte all’emergenza economica avevano posto l’Italia in una posizione simile, se non più grave, di quella dei Paesi europei «sorvegliati speciali» e «a rischio default»: la minaccia di vedere il nostro Paese «finire come la Grecia» era ormai all’ordine del giorno dei frequenti vertici dell’Unione a Bruxelles. Inoltre, in una cornice come questa, un’incredibile prorompente follia faceva sì che, sullo sfondo di una generale impotenza, politici di ogni partito e ogni grado si scontrassero tutte le sere in tv, dando la sensazione dell’irrimediabile divisione della classe dirigente e del suo senso di irresponsabilità.

Cento giorni dopo il quadro è talmente cambiato che il ricordo della gran confusione italiana sembra ormai perduto in un tempo lontano, molto più lungo di quello trascorso realmente. La «cura Monti» si è caratterizzata dal primo giorno per il completo capovolgimento di cattive e consolidate abitudini e il ricorso all’innovazione: zero propaganda, competenza, obiettivi e strumenti chiari, un pacchetto di riforme indispensabili per essere riabilitati in Europa. E poco importa nel senso che Monti non ha mai dato segno di curarsene - che queste stesse riforme siano state descritte «di destra» o «di sinistra» dagli stessi partiti che sostengono il governo. Il presidente del Consiglio s’è mosso allo stesso modo, sia quando si trovava ad affrontare le resistenze di Bersani e del Pd sulle pensioni, sia quando emergevano quelle berlusconiane e del Pdl sugli inasprimenti fiscali e sul ritorno dell’Ici sulla prima casa. Monti ha saputo alternare l’urgenza dei decreti «salva-Italia» e «cresci-Italia», con la pazienza adoperata con i sindacati sull’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro, e la prudenza usata, al termine di una lunga istruttoria, per dire «no» alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020. La credibilità riconquistata dall’Italia in Europa e nel mondo è frutto di questo metodo e di queste decisioni.

Sarebbe però un grave errore considerare tutto ciò effetto della «tecnicità» di un esecutivo che, diversamente da quelli politici, non deve rispondere agli elettori. Anche se questo è un vantaggio innegabile, specie quando si tratta di imporre sacrifici ai cittadini, la più grande sorpresa di Monti consiste nell’inattesa trasformazione politica sua e del suo governo. Un governo che fa le riforme che i suoi predecessori avevano solo enunciato e su cui avevano visto frantumarsi le loro opposte maggioranze. Un governo che è in grado di ridefinire sul piano della chiarezza e del rispetto reciproco le sue relazioni internazionali, si tratti dell’Europa, degli Usa o del delicato contenzioso sull’Ici con il Vaticano. Un governo che discute con sindacati e Confindustria, tratta quando può e quando è necessario, ma alla fine, con o senza accordo al tavolo delle parti sociali, decide entro le scadenze.

A malincuore, è di questo che hanno preso atto i leader dei partiti, di maggioranza e di opposizione. I primi, imbarazzati dal trovarsi a collaborare dopo un ventennio di dure contrapposizioni, all' inizio lo facevano in modo carbonaro, incontrandosi di nascosto e passando da entrate secondarie. Ma hanno finito col rendersi conto che hanno solo da guadagnare a offrire un sostegno aperto e leale a chi è in grado di realizzare le riforme che loro non erano stati in grado di fare. E i secondi, subito lanciati all’assalto e convinti che il «no» ai sacrifici li avrebbe resi più popolari tra le fasce deboli dell’elettorato, hanno dovuto pian piano modulare la loro azione di contrasto, rassegnandosi a interloquire, e in qualche caso condividere, le iniziative del governo.

In prospettiva quel che resta da capire, se come sembra l’orizzonte temporale di Monti è destinato ad allungarsi, non solo alle elezioni del 2013, ma anche oltre, è quali potrebbero essere le conseguenze della nuova fase per i partiti terremotati dall’avvento dei tecnici. Se si considera che il rapporto con l’opinione pubblica era già fortemente compromesso prima ancora dell’arrivo di Monti, non si può escludere che di qui a un anno l’attuale classe politica sia da rottamare in blocco. D’altra parte, se Berlusconi non perde occasione per ripetere che ha deciso di passare la mano, vuol dire che in questo senso affiorano dubbi, non solo nella mente del Cavaliere, fondatore e uomo simbolo della Seconda Repubblica, ma in tutta la prima fila dei leader di questa lunga stagione al tramonto. Sta a loro rassegnarsi a farsi da parte, o provare a riaccreditarsi. Tentativo difficile, ma non necessariamente impossibile, anche se ad alto costo. Si tratta di capire, infatti, che, lungi dal rappresentare un problema, Monti, per la politica italiana grande ammalata, può rivelarsi una vera opportunità.

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