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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 253716 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 21, 2009, 09:35:49 am »

21/6/2009
 
Le contraddizioni di un luogo simbolo
 
MARCELLO SORGI
 
Dici Sigonella, e ancora senti battere il cuore della vecchia sinistra antiamericana, per quella che sarà sempre ricordata come la più grave crisi tra Italia e Usa. Ma anche come il più forte gesto di autonomia e di difesa della sovranità nazionale mai compiuto nella storia pluridecennale di cordiale quanto diffidente collaborazione tra le due sponde dell'Atlantico.

La sera del 10 ottobre 1985 il governo italiano aveva appena tirato un sospiro di sollievo per la conclusione, tragica ma non catastrofica, del sequestro, ad opera di un commando di terroristi palestinesi dell'ala radicale dell'Olp, dell’«Achille Lauro», con a bordo centinaia di turisti italiani in viaggio in Egitto. Al termine di una difficile trattativa, condotta dal presidente del consiglio Craxi e dal ministro degli Esteri Andreotti con Arafat, i terroristi avevano riconsegnato la nave al Cairo. Ma prima di arrendersi avevano assassinato un turista americano ebreo, Leon Klinghoffer.

Il telefono di Craxi squillò pochi minuti prima di mezzanotte. All'altro capo del filo il presidente Usa Ronald Reagan, che chiedeva l'autorizzazione di lasciare atterrare nella base di Sigonella un aereo egiziano dirottato, e scortato dagli F14 dell'aviazione americana, con a bordo il commando dei terroristi e i mediatori palestinesi, Abu Abbas e Hani el Hassan, che avevano condotto la trattativa.

In pochi minuti, dopo l'atterraggio del convoglio di aerei - di cui facevano parte due C141 che dovevano servire al trasporto del commando - i militari Usa e i soldati italiani, con i carabinieri che sorvegliavano Sigonella, rischiarono di venire alle armi. Craxi ordinò di non consegnare i passeggeri dell'aereo egiziano e di difenderli da ogni eventuale attacco. La trattativa tra il comandante Steiner e il capo del controspionaggio italiano, Fulvio Martini, si concluse con il compromesso che l'aereo con i terroristi sarebbe atterrato a Ciampino. Ma una volta giunti lì, gli americani si aspettavano l'arresto dei palestinesi, che furono fatti scappare in omaggio all'impegno che era stato preso per la riconsegna della nave e il salvataggio dei passeggeri. Tutti i passeggeri, tranne Klinghoffer.

Nella stessa notte Reagan inviò a Craxi una dura lettera in cui, pur ringraziandolo formalmente della collaborazione fornita a Sigonella per l'atterraggio degli aerei Usa, lo impegnava, in attesa di una richiesta di estradizione, a custodire in carcere i terroristi che nel frattempo erano stati fatti scappare. Ne nacque una grave crisi diplomatica, e una conseguente crisi politica che portò alla caduta del governo Craxi, per l'irritazione del ministro repubblicano della Difesa Spadolini che era stato tenuto all'oscuro di tutto. Craxi si presentò alla Camera accolto dal gelo della delegazione del Pri e della parte meno filoaraba della Dc, ma anche dagli applausi dell'emiciclo di sinistra, soddisfatto della lezione data agli Usa. Fu una delle rare volte che i comunisti applaudirono il leader socialista, solitamente odiato e considerato dal segretario del Pci Berlinguer alla stregua di «un pericolo per la democrazia».

Qualche giorno dopo la crisi si risolse. Spadolini si rassegnò. Craxi andò a trovare Reagan per fare pace e concordò con lui un accordo grazie al quale fu dato il via alle «extraordinary renditions», gli scambi di prigionieri (e in qualche caso le catture) al di fuori delle normali regole procedurali per motivi di lotta al terrorismo. Abu Abbas ha finito i suoi giorni in Iraq nel 2003. Ricordare questa storia, adesso che Sigonella cambia funzione - e dopo che l'Italia, anche sotto la guida di un premier postcomunista come D'Alema, s'è impegnata nell'intervento in Kosovo, per non dire della partecipazione a tutte le guerre seguite all'attentato alle Torri Gemelle - serve solo a capire quanto siano cambiati i tempi.

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:54:24 am »

16/7/2009
 
Una mossa presidenzialista
 
 
MARCELLO SORGI
 
Accolta ufficialmente con reazioni di plauso e con promesse di correggere presto le nuove norme nel senso richiesto, la decisione del Capo dello Stato di promulgare il pacchetto sicurezza, accompagnando la firma con una lunga lettera di cinque pagine, in cui smonta accuratamente - e assai severamente - tutti i punti controversi della legge, è stata accolta piuttosto male a Palazzo Chigi e nei ministeri interessati.

Le dichiarazioni a favore di Maroni e Alfano non devono trarre in inganno: i ministri dell’Interno e della Giustizia sanno bene che la faticosa mediazione con cui alla fine il pacchetto è stato approvato - tra critiche del Vaticano e riserve interne alla maggioranza, che solo la fiducia ha potuto domare, oltre all’opposizione dura del centrosinistra - dopo la lettera del Quirinale è del tutto superata.

Nei tredici giorni in cui hanno preso in esame il testo licenziato dalle Camere, gli uffici del Colle sono arrivati alla conclusione che la legge, così com’è, risulta in molti punti inapplicabile. Solo la presenza, nel pacchetto, delle norme antimafia che inaspriscono gli strumenti a disposizione delle forze dell’ordine per il contrasto della criminalità organizzata, ha convinto il Presidente Napolitano del fatto che il rinvio alle Camere della legge potesse provocare un danno maggiore che la promulgazione critica - una novità che non mancherà di far discutere i costituzionalisti - invece ha impedito, rendendo operative le norme effettivamente utili, e affidando al governo il compito di rimettere mano a quelle malfatte.

Gli esempi più evidenti riguardano il reato di clandestinità e la disciplina delle ronde metropolitane. Napolitano osserva che, a parte la mancanza di urgenza nell’intervenire in materie così delicate, il riconoscimento della clandestinità come reato potrebbe finire con il facilitare, invece che rendere più arduo, l’ingresso dei clandestini nei nostri confini. In base al principio secondo cui nessuno può essere condannato due volte per lo stesso reato, infatti, un clandestino condannato ed espulso potrebbe rientrare nuovamente in Italia e non essere più processabile e condannabile una seconda volta.

Quanto alle ronde, il Presidente fa notare che la concessione degli spray al peperoncino come ausilio ai volontari metropolitani finirà con il legalizzare quelle che fino a questo momento erano considerate armi improprie. Se sono legali per le ronde, lo diventeranno anche che i delinquenti comuni, che potranno usarli per rapine, aggressioni e violenze, senza doverne rispondere come aggravanti dei loro reati. Ma al di là delle singole osservazioni contenute nella lettera del Capo dello Stato, quelle che saranno da valutare sono le conseguenze dell’iniziativa di Napolitano. Finora, infatti, i Presidenti della Repubblica avevano scelto, o di respingere le leggi per le ragioni previste dalla Costituzione (manifesta incostituzionalità o mancanza della copertura finanziaria), o di firmarle silenziosamente, lasciando tutt’al più trapelare riservatamente un disappunto di natura istituzionale.

Con la lettera che accompagna la firma, invece, il Presidente ha introdotto un’innovazione, coerente al suo disegno di dare al Quirinale un ruolo di direzione del processo di formazione delle decisioni politiche. E lo ha fatto tenendo presente, non solo i confini della Costituzione, ma anche la compatibilità delle leggi proposte dal governo e approvate dalla sua maggioranza con le altre istituzioni che poi dovranno applicarle. In questo senso è evidente che Napolitano abbia tenuto conto sia delle perplessità emerse in seno al Consiglio superiore della Magistratura sugli aspetti più controversi del pacchetto sicurezza, sia dello sconcerto dei giudici di pace che dovrebbero occuparsi del reato di clandestinità.

Naturalmente, una volta firmata, la legge, anche se malfatta, diverrà efficace. Berlusconi, d’intesa con i Presidenti delle Camere, che come lui sono destinatari della lettera, dovrà valutare se riaprire la discussione all’interno della sua maggioranza tra le frange più perplesse del Pdl e quelle più oltranziste della Lega, o se tirare avanti lo stesso. Ma soprattutto, dopo aver ringraziato Napolitano nei giorni scorsi per l’appoggio ricevuto nei giorni difficili che hanno preceduto il G8 dell’Aquila, il Cavaliere dovrà riflettere sulle incognite di questa nuova convivenza con l’inquilino del Colle, che, a sorpresa, ha fatto insieme una mossa politica e un passo avanti in direzione del presidenzialismo.

 
da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Agosto 22, 2009, 11:23:23 am »

22/8/2009
 
L'estate emarginata della Lega
 
 
MARCELLO SORGI
 
Sarà pure che il dibattito politico estivo, in Italia, non fa testo. Una volta, per distinguerlo da quello vero, si parlava di politici sotto l’ombrellone. Ma la discussione che s’è svolta ad agosto, a partire dalle proposte leghiste sull’uso e l’insegnamento dei dialetti e sulle gabbie salariali, per arrivare al tema, più complesso, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ha prodotto una novità. Il confronto tra le posizioni, spesso eccentriche, della Lega, e quelle degli altri partiti, non è stato alla pari. Anzi, per la prima volta dopo molto tempo, s’è formato una specie di «arco costituzionale», che andava dal Pdl al Pd, alla sinistra estrema, e s’è ritrovato compatto nel condannare le posizioni del Carroccio e collocarle ai margini del sistema. Che poi al fondo di tutto, trasparente, ci fosse il tentativo di mettere in difficoltà Berlusconi, al quale in ultima istanza spetta mediare le richieste della Lega e renderle compatibili con la politica del governo, era chiaro. Ma il meccanismo con cui questo è avvenuto è curioso, e ricorda, tanto per fare un esempio, il modo in cui per decenni, nella Prima Repubblica, veniva trattato il Msi di Almirante. Fino al tentativo, fallito e controproducente al principio degli Anni Settanta, di ottenerne lo scioglimento per ricostituzione del partito fascista.

Prendiamo, appunto, la polemica sull’uso dei dialetti e sull’eventualità di incrementarne lo studio nelle scuole. E prendiamola dal lato più leggero, la singolare proposta del ministro dell’Agricoltura Zaia di impegnare la Rai a trasmettere fiction nelle diverse lingue locali. Nelle reazioni che l’hanno seguita, Zaia - che certo avrebbe dovuto accompagnare la sua iniziativa con argomenti più consistenti, evitando di confondere i dialetti con la pretesa, a suo giudizio, propaganda della «cultura gay» - è stato trattato quasi come un appestato, uno che vorrebbe «Capri in napoletano, Montalbano in siciliano, Gente di mare in calabrese, Nebbie e delitti in emiliano, Un caso di coscienza in friulano» (Fabrizio Morri, Pd), uno che «ha confuso Ferragosto con Carnevale» (Giorgio Merlo, Pd), uno che ha detto «una fesseria» (Italo Bocchino, Pdl). E così via. C’è stata perfino una precisazione del regista Peppuccio Tornatore, che sta per presentare un film dedicato al suo paese natale Bagheria - intitolato, in dialetto, Baària -, come a dire che il fatto non deve costituire un precedente. Il siciliano di Montalbano Ora, a parte il fatto che Montalbano va in onda da anni sulla Rai con una parte dei dialoghi in siciliano, e Andrea Camilleri, lo scrittore che ha inventato e descritto in dialetto il fortunato personaggio del commissario, ha gran parte dei suoi lettori al Nord, non si capisce perché una proposta, pur singolare come quella di Zaia, non possa essere discussa, e magari accantonata, senza essere sbeffeggiata, come se venisse da un «Bru-bru», e non da un qualificato membro del governo.

Analogo ragionamento si può fare sulle gabbie salariali territoriali. Passi il fatto che la parola «gabbie» è sbagliata e non è certo la più adatta per impostare un confronto con le parti sociali. Ma c’è dubbio che le gabbie, sotto forma di flessibilità, contratti a termine, lavoro in affitto, sono state introdotte da anni in Italia, anche con il consenso dei sindacati, ed hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, a ridurre la disoccupazione, specie per i più giovani, ma anche a determinare situazioni di precarietà spesso difficili da affrontare? E se si va bene a guardare, l’articolazione di questi strumenti contrattuali flessibili non è in qualche modo «territoriale»? Non rispecchia cioè - aiutando perfino a contrastarlo - l’incerto andamento dell’economia nazionale, segnalando le aree in cui si reagisce con più prontezza alla crisi, rispetto a quelle in cui la congiuntura s’è abbattuta con conseguenze imprevedibili? E non è da qui che in autunno occorrerà ripartire per cercare, se davvero ci sarà, di agganciare la ripresa? Viene da pensare che se la proposta non fosse venuta dalla Lega, ma da uno dei nostri togati e rispettati economisti, forse avrebbe avuto più fortuna. E quando approderà su uno dei tanti tavoli di contrattazione a Palazzo Chigi, sarà gioco forza fingere, ipocritamente, che è un’altra cosa, e cambiarle nome.

Si potrebbe continuare con altri esempi. Ma prima di arrivare all’Unità d'Italia, su cui, di questo passo, è prevedibile lo scontro peggiore, c’è da capire perché oggi sta accadendo tutto questo di fronte alla Lega, un partito che esiste, ormai, da un quarto di secolo, che ha centinaia di sindaci, assessori ed amministratori, che sta al governo con una delegazione di primo piano, a cominciare dal ministro dell’Interno, e che insomma fa parte ormai stabilmente del «sistema». Si dirà che la politica della Lega in molti casi (vedi le ronde metropolitane e i problemi che stanno creando) è «anti-sistema» e incompatibile con le esigenze di una Paese democratico maturo. E per di più che la Lega ne ricava disinvoltamente consistenti vantaggi elettorali al Nord. E’ possibile, ma non basta. Di partiti «anti-sistema» che sono stati al governo, in Italia, ce n’è più d’uno, e ce ne sono anche nel centrosinistra. Senza però che questo comporti una messa al bando, o una sorta di dichiarazione di minorità, e neppure il muro che a poco a poco si cerca di costruire attorno al Carroccio, che ha portato un leader del centrosinistra come Fassino a ipotizzare sorprendentemente in Veneto una sorta di grande coalizione anti-Bossi, e che alla fine non potrà che giovare a un partito territoriale come il suo, che ormai da anni vede i suoi voti crescere a ogni elezione. I lati oscuri dell’unità d’Italia

La politica italiana, d’altra parte, è sempre stata inclusiva. Lo era negli anni migliori della Prima Repubblica, quando in Parlamento sedevano i leader della sinistra una volta chiamata «extraparlamentare», lo è rimasta ai tempi della Seconda, quando il maggioritario ha portato ad allargare le coalizioni a tutte le forze disponibili. La svolta verso i due grandi partiti a «vocazione maggioritaria», esclusivi, chiusi verso le estreme, non ha portato, come s’è visto, Berlusconi e il Pdl a risolvere i problemi interni alla loro larga maggioranza, né Veltroni, Franceschini e il Pd a rendere più competitivo il centrosinistra e a farlo tornare al governo.

In questo quadro, le celebrazioni dell’Unità d'Italia che si preparano per il 2011 diventano un banco di prova importante. Non è pensabile - e bisogna guardarsene bene - trasformarle in un’occasione di retorica nazionale come purtroppo altre volte è accaduto. Né, chiaramente, è questo l’intendimento del presidente Napolitano che ha sollecitato la definizione di un programma, e del presidente Ciampi, che presiede il comitato addetto alla ricorrenza. Si tratta di rivisitare un’epoca così lontana cogliendone insieme l’importanza, i limiti e l’evoluzione della storia di un Paese. Senza cedimenti, una volta tanto, alla solita retorica garibaldina, che serva a coprire gli ormai accertati lati oscuri del processo unitario, a cominciare dalle conseguenze della conquista militare del Sud, e dalla cancellazione, sotto l’etichetta di «banditismo», di larga parte del dissenso politico meridionale. E senza neppure nascondere le crepe, che, a un secolo e mezzo di distanza, l’unificazione mostra ancora, in un’Europa purtroppo sempre meno unita e in cui ovunque, ormai, fioriscono partiti e movimenti locali e spinte secessioniste. Già, chi ha detto che a centocinquant’anni di distanza, l’Italia non possa celebrare insieme la sua unità e il suo nuovo assetto federalista?
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 28, 2009, 11:29:38 am »

28/8/2009

Tutti cattolici se i laici non parlano
   
MARCELLO SORGI


La polemica di Bossi con i vescovi sull’immigrazione. Il distinguo laico sulla bioetica di Fini, per inciso l’unico ad ammettere chiaramente di non avere il dono della fede. Il racconto di Blair della propria conversione e quello di Chiamparino della sua attrazione per il mondo cattolico.

Nel giro di pochi giorni, una serie di eventi, solo apparentemente staccati tra loro, sono venuti a ricordarci il peso che la Chiesa e i valori di cui è portatrice hanno sulla società italiana.

Si dirà, che scoperta! Il nostro è un paese cattolico, che anche in tempi di secolarizzazione «sente» la presenza del Papa e delle Gerarchie sul proprio territorio, è abituato a trovare i parroci schierati sulle frontiere più delicate della società civile e i credenti sul crinale delle più difficili battaglie di opinione. Ma il punto è un altro: eravamo abituati, da sempre, a una ripresa politica di fine estate affidata alle feste di partito e ai primi duelli stagionali sull’agenda dei problemi lasciati irrisolti prima della pausa delle vacanze. E invece, d’improvviso, ci ritroviamo con il Meeting di Cl che diventa l’unica area riconosciuta di confronto, nella quale i leader politici si misurano a partire dai valori.

Bossi infatti, dopo l’ultima tragedia dell’immigrazione nel mare di Lampedusa, non se l’è presa con il governo o con Gheddafi per il mancato rispetto degli accordi. Ma con i vescovi. E Fini, alla Festa del Pd, dove peraltro è stato accolto calorosamente e applaudito, ha accortamente non scelto di occuparsi di post-fascismo e post-comunismo, ma del diritto della Chiesa ad intervenire in materia di bioetica. Né Blair a Rimini, al meeting di Cl, ha ripercorso l’esperienza di dieci anni di New Labour al governo del Regno Unito: ha preferito piuttosto parlare della sua conversione, quasi come un predicatore, con toni da sermone.

Sull’immigrazione, sulla sicurezza, sulla solidarietà, sulla giustizia e sul perdono, la Chiesa svolge da tempo il suo apostolato, così come sulla famiglia e sul diritto alla vita e su molti altri temi emergenti. Lo fa senza far sconti a nessuno, senza timore di ritrovarsi contro il governo o la stessa opposizione. Ma mai come adesso sono questi argomenti, questi valori, quest’agenda di punti qualificanti a definire l’azione politica in Italia.

Non è solo effetto del concetto nuovo di laicità cattolica, che s’è fatto strada negli anni del lungo papato woijtiliano, e oggi viene riaffermato con ancora più vigore da Papa Benedetto XVI. Quel concetto prevede che la fede sia al centro di ogni ambito della vita umana nella società. Che i cattolici parlino a tutti, dovunque, credenti e non credenti, che portino in ogni momento l’annuncio del Vangelo. Non è neppure conseguenza dell’ormai lontana scomparsa della Dc, il grande partito cattolico che aveva condizionato per cinquant’anni la Prima Repubblica. La logica democristiana prevedeva che i valori venissero canalizzati nella società grazie a una mediazione che tenesse sempre separato l’ambito della fede e della cura delle anime, riservato alla Chiesa, da quello, pubblico, delle istituzioni in cui i politici cattolici erano presenti. E in cui, certo, ai cattolici poteva capitare di contarsi, come accadde sul divorzio e sull’aborto negli Anni Settanta, ma il più delle volte, invece di soccombere, di cercare e trovare un compromesso.

In nome di questo metodo, di questa pratica di laicità, De Gasperi negli Anni Cinquanta non volle contribuire a Roma alla nascita di una lista di cattolici imposta dal Vaticano. Fu un rifiuto clamoroso, storico. E sulla base di questa stessa impostazione, negli Anni Novanta, Scalfaro, l’ultimo presidente della Repubblica democristiano, in visita, appena eletto, in Vaticano, ribadì a Papa Giovanni Paolo II che il compito dei cattolici impegnati in politica era di ascoltare la Chiesa, ma poi di tradurne in pratica l’insegnamento secondo le contingenze politiche e in piena libertà. Una libertà che, naturalmente, poteva prevedere momenti di riavvicinamento, ma anche di dialettica, e richiedeva, da parte della Gerarchia, il rispetto dei diversi ambiti e delle conclusioni a cui il confronto politico doveva arrivare.

C’è una certa differenza tra quell’epoca, ormai lontana, e questa attuale, in cui può accadere che la Chiesa, legittimamente, contesti una sentenza del Tar che esclude gli insegnanti di religione dagli scrutini scolastici, e il ministro dell’istruzione Gelmini, a nome del governo. senta il bisogno di presentare in poche ore ricorso al Consiglio di Stato. Va da sé che la Chiesa è libera di dire ciò che vuole su qualsiasi aspetto della vita pubblica e dell’evoluzione della società italiana. Il problema non è, o non è più, l’ingerenza della Chiesa in politica. Ma di chi la subisce perché non ha buoni argomenti per confrontarsi. L’afasia dei laici, in quest’ambito, è l’altra faccia della voce dei cattolici, che, nel tempo mediocre della nostra politica, s’è fatta più forte.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 08, 2009, 07:13:24 pm »

8/9/2009 (7:19)

Casini e la lunga marcia verso il Pdl
   
Per le regionali tratterà sui singoli casi, ma ora l'Udc serve al governo

MARCELLO SORGI
ROMA


L’Udc di nuovo nel centrodestra e Casini al governo con Berlusconi, il Pdl e la Lega. Al di là di ogni reticenza ufficiale, è questa l’ipotesi a cui si sta lavorando, all’ombra della trattativa appena cominciata sulle regionali (e soprattutto sulle sette Regioni in cui i cattolici sono indispensabili per vincere). Espulso alla vigilia delle politiche del 2008 dalla coalizione di cui era stato nel 1994 uno dei fondatori, dopo un anno e mezzo di navigazione solitaria, e di inedita «opposizione di centro», l’ex presidente della Camera è già seduto, come convitato di pietra, al tavolo che ogni lunedì viene apparecchiato ad Arcore per il Cavaliere e il Senatùr.

Per rientrare in gioco, al furbo Pier è servito certo tener duro, tirare per la propria strada senza cedere alle lusinghe che gli venivano da Pdl e Pd, trattare democristianamente volta per volta, caso per caso, con tutti, per piazzare localmente i propri assessori, mentre a Roma restava sguarnito di poltrone ministeriali. Adesso, per dirla con Bossi, tocca a Berlusconi «trovare la quadra», ma la posta in gioco è talmente alta che nessuno degli alleati farà più di tanto le bizze: con il ritorno dell’Udc nella coalizione, infatti, la vittoria del centrodestra alle regionali è praticamente assicurata, ed in molte delle amministrazioni in cui il centrosinistra aveva prevalso poche settimane fa grazie ad appoggi estemporanei del partito di Casini, è destinata ad aprirsi una fase di instabilità.

In attesa che l’accordo si concretizzi, Pier naturalmente si muove con estrema prudenza, alla sua maniera. Ieri un’intervista a «Famiglia cristiana», in cui tra dire e non dire, e senza risparmiare frecciate anche dure al Cavaliere, si ripropone come interlocutore affidabile, in un momento in cui, malgrado le rassicurazioni ufficiali, i rapporti fra il centrodestra e il mondo cattolico sono al minimo storico. Inoltre, a quanto si dice, Casini non è rimasto estraneo, proprio nei giorni della tempesta, neppure alla presa di distanza di Fini dall’attacco a Boffo. Che prelude chiaramente a un ritorno all’asse tra i due, già forte durante la prima legislatura di governo del Cavaliere. E venerdì prossimo, in questo quadro, diventerà nevralgico l’appuntamento con il partito a Chianciano, luogo di mille nostalgie democristiane, e dell’epoca della Prima Repubblica in cui nella ridente località termale si decidevano i destini congressuali della Balena Bianca, e a seguire quelli, politici ed economici, nazionali.

Non c’è dubbio che gli esiti del caso Boffo, con le dimissioni del direttore dell’Avvenire e il risentimento che hanno provocato tra i cattolici, hanno funzionato da acceleratore del processo di riavvicinamento tra il leader dell’Udc e il centrodestra. Il vulnus, la ferita, com’era stata definita, s’era aperta molto prima, a maggio 2008, all’atto della nascita dell’esecutivo Pdl-Lega, che anche in alcuni ambienti di Curia era stato definito, con enfasi, «il primo governo senza cattolici della storia della Repubblica». Da allora in poi - e soprattutto dopo il deludente risultato del Pdl alle europee - il lavoro dei «pontieri» non s’era mai interrotto, ma Casini, in pubblico e in privato, a chi lo sollecitava a fare il primo passo, aveva sempre risposto che prevedeva un periodo piuttosto lungo di opposizione, e che solo il mutare delle condizioni politiche avrebbe potuto portare a riconsiderare il quadro politico. È stata proprio quest’impostazione, dal punto di vista dei voti, a rivelarsi vincente in tutti i passaggi elettorali degli ultimi diciotto mesi, e a consentire oggi all’Udc di sedere al tavolo delle trattative in posizione di forza.

Obbligata in pratica, e spinta dalle difficoltà in cui Berlusconi s’è trovato negli ultimi mesi, la strada dell’accordo - è chiaro a tutti - è comunque in salita, anche se la scadenza delle regionali preme ed ha per il presidente del Consiglio un’importanza pari a quella delle politiche (nella precedente legislatura, il magro risultato del 2005 determinò un avvitamento della coalizione, e la sconfitta, sia pure di un soffio, del 2006).

Casini però non ha fretta, perché è convinto che il Cavaliere non ha voglia di rischiare ed è obiettivamente motivato a cercare di venirgli incontro. Berlusconi ne parla da tempo con i suoi, ma è consapevole di doversi muovere con circospezione, passo passo, sottobraccio a Bossi e sapendo che la Lega, via via che la trattativa andrà avanti, alzerà il prezzo dell’intesa per le tre grandi Regioni del Nord. Quanto a Fini e Tremonti, dai loro rispettivi posti di osservazione, hanno messo in conto che il ritorno in scena di Pier rafforza sì il centrodestra, ma modifica, e non di poco, gli scenari per la successione di Berlusconi, quando sarà il momento: Casini torna anche come possibile candidato premier che nel futuro ha molte carte da spendere.

Infine, alla svolta, ormai annunciata, e che si prepara, dovrà guardare con attenzione anche uno dei tre candidati alla guida del Pd: il favorito Bersani, che sull’abbandono della linea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria, e sul recupero della politica delle alleanze di centrosinistra, più larghe, fino a includere l’Udc, aveva costruito la sua corsa alla segreteria. E ora, alla vigilia del congresso, deve ripartire da capo.

da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Settembre 11, 2009, 11:06:14 am »

11/9/2009

Il Cavaliere la testa e la pancia
   
MARCELLO SORGI


A differenza di quanti, ed erano molti, aspettavano il discorso di Fini a Gubbio come un preavviso della sua uscita dal Pdl - e magari, a dispetto perfino delle stesse parole pronunciate, l'hanno considerato tale - l'idea che il presidente della Camera, per via delle posizioni che ha preso di recente, e ieri ha ribadito con esplicita ruvidità, si prepari a lasciare il partito che ha fondato insieme a Berlusconi, va detto chiaro: è fuori dalla realtà.

Lasciamo stare lo «stillicidio» (come lui stesso lo ha definito) di maldicenze, gossip, boatos che hanno accompagnato tutte le prese di posizione di Fini, accusato di volta in volta di essere impazzito, di esser diventato un «compagno travestito» o di aspirare al ruolo di Capo dello Stato. Sono giudizi impietosi e irrispettosi verso uno dei due maggiori leader del partito neonato, che nuocciono all'insieme dell'immagine del Pdl.

Ma, si sa, la politica italiana non è avvezza alle buone maniere. Al dunque, Fini ha chiesto di poter discutere e di fare della discussione, del dibattito interno sulle questioni aperte - come avviene in tutti i normali partiti democratici del mondo - il metodo attraverso il quale elaborare posizioni condivise. Mettendo in conto - questo non lo ha detto, ma è facile desumerlo dall'insieme del suo intervento - perfino di poter restare in minoranza su temi come il biotestamento o la cittadinanza agli immigrati, su cui di recente s'è spinto in avanti, e rispetto ai quali la sensibilità del Pdl e dei suoi elettori potrebbe anche rivelarsi meno avanzata.

Se Fini ha fatto un discorso del genere, e soprattutto se non ha cercato la rottura, è certamente perché non è convinto - come invece da qualche parte gli viene attribuito - che Berlusconi e il suo governo siano al capolinea, e la legislatura si prepari a una svolta o alla fine. Non si capisce, quindi, come ipotesi siffatte possano affacciarsi, e farsi strada fino a diventare parole d'ordine o incubi di politici anche di una certa importanza. E non è chiaro neppure come possano trovar credito nella cerchia più vicina al premier, o addirittura essergli attribuite, come se appunto Berlusconi vedesse il baratro di fronte a sé e fosse pronto a tutto - ma proprio a tutto - pur di non precipitarci dentro.

In realtà l'errore di Berlusconi è proprio l'opposto. Cioè convincersi, o essersi autoconvinto, che tutti i problemi che ha davanti siano inesistenti, se confrontati al suo invincibile consenso da parte degli elettori. E, di conseguenza, rivolgersi ai cittadini per mobilitarli ogni giorno contro i suoi nemici: i giornali, i comunisti, l'opposizione, gli avversari interni della sua maggioranza che vogliono approfittare delle sue difficoltà. Di questo passo il Cavaliere punta, martedì 15, a officiare da protagonista la consegna delle prime case ai terremotati dell'Aquila, a rispondere ancora una volta «con i fatti», e con la logica dell'«uomo del fare», alle critiche che gli sono state rivolte, e ad archiviarle una volta e per tutte insieme con un'estate da dimenticare e con gli attacchi della stampa nemica, nazionale e straniera.

Per paradossale o ultra-semplificata che sembri, questa è purtroppo la strategia che emerge quotidianamente dalle parole del presidente del Consiglio. Ma allo stesso modo non è detto che sia la strada giusta per rilanciare il suo esecutivo, che, oltre a tutte quelle che ha in comune con gli altri governi del mondo alle prese con la crisi economica globale, ha dovuto fronteggiare le conseguenze dei problemi personali, di comportamento e familiari, del premier.

Nasce di qui il logoramento che in soli diciotto mesi la coalizione di centrodestra ha accumulato, e che ha fatto apparire il governo in declino. Ma dal declino alla fine, ancora, ce ne corre. In altri termini, Berlusconi a questo punto può rendersi responsabile della sua rovina - una rovina comunque assai lenta, non essendoci all'orizzonte alternative realistiche. E può verosimilmente recuperare, avviando la fase 2 del suo governo e indirizzandosi verso una prospettiva di legislatura.

Né più né meno è quel che il Cavaliere aveva fatto a metà del suo secondo percorso (2001-2006) a Palazzo Chigi, quando, memore dell'assalto riservatogli nel primo (1994), rivelò a sorpresa insospettabili dosi di pazienza e di negoziazione. Così, l'uomo che era stato capace di conquistare Palazzo Chigi in tre mesi - e di perderlo in soli otto! - fu capace di piegarsi alle più odiate liturgie di coalizione. Di attraversare verifiche, rimpasti e crisi pilotate di governo, sacramentando e insieme redistribuendo quote di potere, ed alternando il volto dell'arme a sorrisi compiacenti verso alleati-avversari ed amici-nemici. E dimostrare che, quando vuole, sa fare politica come e meglio di tanti altri.

Anche stavolta - se crede, è in tempo per riuscirci - Berlusconi può riconoscere che quelle di Fini, se non tutte per l'oggi, sono buone idee per la destra di domani: una destra più moderata e composta, meno rivoluzionaria, come sarà giusto nel prossimo futuro. Allo stesso modo il Cavaliere sa bene che l'assenza dei cattolici dal governo non ha migliorato, anzi ha reso più problematici, i rapporti con il mondo cattolico, e che non può sperare di ricostruirli da solo, né soltanto stringendosi alla Gerarchia. Non c'è niente di male a riconoscere che scaricare Casini dalla maggioranza s'è rivelato una mossa «di pancia», avventata e poco accorta. E, subito dopo, verificare se esiste la possibilità di una ripresa seria di collaborazione con l'Udc, che non potrà più essere subalterna, ma anzi competitiva, come avviene del resto con la Lega.

Infine, Berlusconi ha già detto varie volte, anche in campagna elettorale, che considera questo il suo ultimo giro alla guida del governo. A 73 anni, e con gli acciacchi di cui si lamenta, scherzosamente, di tanto in tanto, è legittimo credere che non ci abbia ripensato. Ma anche questo punto, data la situazione, va chiarito. Per cominciare a discutere, senza urgenza, quando verrà il momento, dopo quasi un ventennio ma in tempo, della successione.

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:45:53 pm »

28/9/2009


Ora Angela farà come la Thatcher
   
I prossimi compagni di governo chiedono politiche più drastiche. E a molti elettori non piace la sua elasticità da democristiana


MARCELLO SORGI

Merkel modello Thatcher. Fino a due giorni fa, dirlo era impensabile. Le due, si sa, non si sono mai amate e «Angie» s’era lasciata scappare una volta che non dimentica che Margaret fu tra i contrari alla Germania riunificata. Adesso, invece, dopo il voto di ieri, dovrà ripensarci.

Per tre ragioni. La Cancelliera è uscita confermata, il suo successo personale è servito a tamponare la flessione dell’alleanza Cdu-Csu, la Grande coalizione è finita travolgendo la Spd, ma le incognite del nuovo governo da formare sono tante. E il trionfatore di questa tornata, il leader liberale Guido Wester-welle, dopo undici anni all’opposizione, si prepara a sedersi al tavolo delle trattative con idee molto precise.

Le stesse che lo hanno portato alla vittoria. Delle tre partite aperte nella mezz’ora in cui i risultati hanno cambiato il volto politico della Germania, quella della Cancelliera si presenta indubbiamente come la più complicata. Angela Merkel aveva impostato la campagna elettorale nel suo stile, sfuggendo democristianamente alle domande più insidiose, tiepida verso l’obiettivo dichiarato di una nuova coalizione con i liberali, e in realtà aperta a ogni ipotesi, senza escludere neppure di continuare con la Spd o accordarsi con i Verdi, premiati anche loro dalla scossa elettorale.

Ma a sorpresa, il pragmatismo, l’arte del rinvio, la ricerca continua di un minimo comune denominatore, e insomma quelle che si erano rivelate le doti personali più apprezzate della Cancelliera, non hanno più trovato il gradimento sperato. Non è piaciuta l’immagine della Merkel che andava d’accordo con il suo vice Steinmeier al punto da sembrare, anche lei, socialdemocratica. L’appoggio avuto dagli alleati sull’aumento delle tasse e sulle politiche di risanamento economico, una scelta obbligata, pagata in massima parte dalla Spd, ha dato inaspettatamente a una parte degli elettori democristiani più tradizionali la sensazione di un cedimento. A mediazioni eccessive e a politiche sociali troppo spinte e lontane dalla tradizione Cdu-Csu (come ad esempio i congedi per maternità concessi anche agli uomini). A una mancanza del tradizionale rigore tedesco nell’amministrazione, che ha finito col pesare sui conti dello Stato. E a una smodata logica dell’emergenza. Sul caso Opel, per fare un esempio, non solo il ministro dell’Economia zu Guttemberg, ma gran parte degli elettori, avevano delle riserve. Piuttosto che aiuti di Stato, avrebbero preferito maggior rispetto delle regole di mercato. Anche a costo dell’insolvenza e della possibile liquidazione dell’azienda.

E’ tutto ciò che rende problematica l’annunciata, e ormai prossima, collaborazione tra Merkel e liberali nel futuro governo nero-giallo. Westerwelle - che ieri ai festeggiamenti è arrivato non a caso con il suo maestro Hans Dietrich Genscher, ministro liberale degli Esteri con Helmut Kohl - ha vinto le elezioni, oltre che per abilità personale e capacità di comunicazione, sfoggiate in tutta la campagna, su un classico programma liberista. Meno tasse, alzare la soglia di reddito per l’esenzione totale dal fisco a ottomila euro. Stipendi al lordo, il più possibile vicini al netto. Più merito e meno salario minimo (una bandiera che la Spd si vantava di aver piantato sulla schiena della Cancelliera). Drastica riduzione dei sussidi di disoccupazione (se paghiamo la gente per stare a casa, è stato uno dei cavalli di battaglia di Guido, come possiamo chiedere a chi va a lavorare di impegnarsi di più?). E poi, ancora: scuole più dure, più formative, più legate a criteri di selezione, con un aumento degli investimenti statali per istruzione e ricerca fino al 10% del pil (oggi sono al tre). Insomma, un programma molto tagliato e molto connotato, sulla base del quale Westerwelle ha offerto a Merkel un’alleanza di governo esclusiva e una maggioranza delimitata, chiusa cioè ad altre possibili intese, come appunto con i Verdi. Se Angela, per usare un’antica metafora di Fanfani, pensava di diluire il vino di Guido, troppo forte, con l’acqua fresca degli ecologisti, quest’opzione è esclusa in partenza. E d’altra parte non si vede come potrebbero democristiani e liberali, che hanno in comune la posizione a favore del mantenimento delle centrali nucleari almeno fino a che la ricerca sulle energie alternative darà risultati concreti (cioè, per un lasso di tempo indefinito), accordarsi con i Verdi, che già al tempo della loro alleanza con Schroeder sottoscrissero con la Spd un accordo per la progressiva chiusura delle diciassette centrali tedesche ancora attive entro il 2021.

L’identità del nuovo governo è dunque ancora tutta da definire. E’ chiaro solo che dovrà essere molto diversa da quella della Grande Coalizione appena bocciata. Anche se una svolta liberista potrebbe rendere per la Merkel più complicata del previsto la gestione di un autunno che s’annuncia assai caldo, per l’esaurirsi degli effetti dei provvedimenti anticrisi (a cominciare dalla settimana cortissima, grazie alla quale sono stati evitati migliaia di licenziamenti) e per le probabili reazioni delle aziende a una mancata, benché annunciata, ripresa economica. In questo quadro si giocherà anche il nuovo ruolo della sinistra tedesca, che torna tutta insieme all’opposizione, e ci torna con rapporti di forza assai mutati al suo interno.

Socialdemocratici e sinistra radicale, insieme, fanno oggi molto meno dei voti che al momento della sua vittoria nel 1998 faceva da sola la Spd guidata da Schroeder. Dietro la calma ostentata ieri nelle dichiarazioni ufficiali, che parlavano di amara sconfitta, Steinmeier e Muentefering sanno di aver portato a casa il peggior risultato della storia del loro partito, mentre Lafontaine e Gysi festeggiano quello migliore della Linke. Quasi due milioni di elettori socialdemocratici si sono astenuti. Più di un altro milione si sono spostati sulla Linke. Un’alleanza tra le due sinistre, che fin qui l’avevano esclusa, sarebbe stata comprensibile, e in qualche modo auspicabile, con una Spd battuta, sì, ma ancora forte, e una Linke contenuta nel dieci per cento, più o meno la percentuale che tocca a tutte le opposizioni radicali in Europa.

Con questi numeri sarebbe stato realistico il progetto di un’evoluzione di tutta la sinistra nel suo complesso, guidata dalla parte riformista, e accompagnata da una trasformazione di quella estrema, nel quadro di una collaborazione che già esiste, tra i due tronconi, in molte amministrazioni locali, a cominciare da quella di Berlino. Ma al contrario, ora diventano concreti, da una parte, il rischio di un inseguimento gridaiolo, sull’onda dell’inasprimento della situazione sociale e delle proteste che hanno fatto crescere la Linke, e dall’altra gli effetti imprevedibili della «Ostalgie», il sentimento irrazionale di rimpianto che s’affaccia, e ha fatto sentire il suo peso, nelle urne, nel territorio e nelle pieghe della ex-Germania comunista.

Tutto è più chiaro, così, tutto è più scandito, dopo quattro anni in cui, all’interno della Grande Coalizione, le cose tendevano troppo a mescolarsi. Ma detto questo, non è affatto sicuro che la Germania, da ieri, sia diventata più stabile.

da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:47:48 am »

8/10/2009

Oltre ogni limite
   
MARCELLO SORGI


Silvio Berlusconi ha pieno diritto di annunciare che andrà avanti, anche dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il lodo Alfano e aperto la strada alla ripresa dei processi penali che lo vedono imputato. Quel che invece non può dire, come ha detto ieri, purtroppo, a caldo dopo la sentenza, è che la Corte ha deciso così «perché è di sinistra» e fa parte di uno schieramento che vuole soggiogare il Paese.

In questa che definisce «una minoranza», composta, sono parole sue, dal «settantadue per cento della stampa» e dai «comici che prendono in giro il governo», Berlusconi ha incredibilmente inserito il Capo dello Stato: alzando così a un livello insopportabile lo scontro istituzionale, e dimenticando che Napolitano aveva firmato il testo del ministro di Giustizia Alfano, proprio in base al verdetto con cui la Consulta aveva chiesto prima una serie di aggiustamenti per il precedente lodo Schifani.

Stavolta invece la Corte ha scelto una via più chiara: cassata la legge ordinaria, contingente e rappezzata sul testo del vecchio lodo, già sottoposto del resto a questione di costituzionalità, è come se avesse suggerito di ricorrere a una nuova legge costituzionale, per eliminare alla radice i problemi fin qui rivelatisi insolubili. Per un governo che poggia su una larga maggioranza, vanta una forte capacità «di fare» e nell’altra legislatura in cui era stato al potere era riuscito a cambiare quasi metà della Costituzione, non dovrebbe essere difficile, in tempi ragionevoli, realizzare un simile obiettivo. Né temibile affrontare il referendum confermativo previsto dall’articolo 138, che seguirà. Un referendum, è vero, che fu negativo per le riforme costituzionali introdotte dal centrodestra tra il 2001 e il 2006, ma stavolta si risolverebbe in un plebiscito su Berlusconi. E come tale potrebbe contare sul favore popolare, che ogni giorno il premier misura nei sondaggi e non si stanca di ricordare.

Anche senza conoscere le motivazioni di principio della Corte, si può provare a ragionare su alcuni dati concreti, che probabilmente non saranno stati estranei al ragionamento dei giudici della Consulta. Benché convinto di essere vittima di una persecuzione, Berlusconi infatti è arrivato a governare con fino ad 11 processi pendenti sulla sua testa. Ha sopportato condanne poi trasformatesi in assoluzioni, s’è salvato talvolta con le prescrizioni. E tutto ciò non gli ha impedito di vincere o perdere le elezioni, e tornare per la terza volta a Palazzo Chigi, a prescindere dalla pressione giudiziaria che si addensava su di lui, e in qualche caso avvalendosene anche come strumento di propaganda. Anche adesso, per spiacevole che sia visto il tenore delle accuse, quello che lo attende a Milano non è un patibolo. È un normale procedimento, che sarà celebrato da un collegio diverso da quello che ha posto la questione di costituzionalità ed andrà incontro a un termine di prescrizione nel febbraio del prossimo anno.

Inoltre, a riproporre in Parlamento la questione dell’immunità in generale, e non solo di quella che lo interessa, il premier potrebbe pure avere qualche sorpresa, se non da tutta, da settori dell’opposizione. L’immunità, si sa, era già prevista dalla Costituzione all’articolo 68. Ma ciò che i nostri Padri costituenti avevano inserito nel testo della Carta, a garanzia della libertà e della sicurezza della politica, fu modificato frettolosamente dai loro successori sull’onda di Tangentopoli e della cosiddetta «rivoluzione italiana».

Da allora in poi, e sono sedici anni, l’equilibrio tra i poteri (governo, Parlamento, magistratura) è cambiato. Si è passati dalla protezione assoluta di cui (grazie anche a frequenti amnistie che si concedevano) godevano parlamentari e uomini di governo nella Prima Repubblica, ad una minima, spesso insignificante, di cui i politici debbono oggi vergognarsi e alla quale si risolvono a rinunciare frequentemente, sotto la spinta di una gogna pubblica senza regole o limiti.

Non è un mistero che una situazione del genere non comprenda il solo Berlusconi, né il suo schieramento in particolare e neppure solo i parlamentari. Piuttosto, ormai, l’insieme della politica nel suo complesso, in un sistema in cui moltissimi, eletti o no, cittadini semplici o eccellenti, sono accusati, inquisiti, intercettati, ma si dimettono, o non si dimettono, dai loro incarichi pubblici, in pratica solo quando gli va, e sempre indipendentemente da processi, condanne e assoluzioni. Problemi come questi, non a caso, hanno riguardato in passato, tra gli altri, anche Prodi e D’Alema. Che hanno reagito con una diversa varietà di reazioni, ma con più rispetto per la magistratura e senza fare casi personali.

Certo era troppo aspettarsi che la Corte Costituzionale, occupandosi del caso dell’imputato pubblico numero uno Silvio Berlusconi, affrontasse anche una questione che la politica, fin qui, nei lunghi anni della transizione italiana, ha provato inutilmente a risolvere, e di fronte alla quale forse s’è arresa. Ma non c’è dubbio che il problema rimane.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:24:48 am »

11/10/2009

D'Alema gioca d'anticipo e lancia l'antiberlusconismo per le primarie
   
MARCELLO SORGI


Dalla togliattiana svolta di Salerno del 1944, che servì a riconoscere la legittimità della monarchia e del governo Badoglio, il Pci, Pds, Ds e ora Pd, ci ha abituato a repentini cambi di rotta, brusche accostate e improvvise virate. Per questo, non può stupire l’intervista al Riformista con cui ieri Massimo D’Alema, il «líder Máximo» che tra l’altro vanta grande esperienza marinara, ha chiesto le dimissioni di Berlusconi, a soli tre giorni dalle prime reazioni del suo partito alla sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, mirate a dire che il presidente del Consiglio poteva e doveva andare avanti, purché tornasse a mostrare il rispetto dovuto al Capo dello Stato, e si rassegnasse ad affrontare i processi penali che lo aspettano, senza attaccare la magistratura.

Ieri invece, alla vigilia della Convenzione democratica di oggi, che dovrà prendere atto dei risultati precongressuali favorevoli al cambio di segreteria a favore di Pierluigi Bersani, e nello stesso indire le primarie in cui il segretario uscente Dario Franceschini proverà a prendersi la rivincita, D’Alema se n’è uscito con un attacco frontale al premier e al suo partito. Ha ricordato che «Berlusconi non è perseguito per reati politici o perché è un leader politico», ma «per reati comuni». Ha aggiunto che «in un Paese democratico un leader che si trova in queste condizioni viene sostituito». E ha concluso che se questo non avviene è perché «il partito di Berlusconi è “suo” in senso proprietario».

Posizioni durissime, eppure logiche, in bocca a uno dei maggiori esponenti dell’opposizione. Ma non si capisce perché soltanto martedì pomeriggio, i dirigenti del Pd, uno dopo l’altro, si alternassero ai microfoni dei telegiornali, per concedere a Berlusconi, pur tornato ad essere un normale inquisito, di andare avanti.

La spiegazione di questo cambio di linea è legata agli sviluppi della situazione interna del Pd. D’Alema, e come lui Franceschini, Fassino e tutti gli altri che hanno preso la parola dopo la sentenza della Consulta, sanno benissimo che Berlusconi non si dimetterà certo perché glielo chiede il Pd. Ed è per questo che, accortamente, hanno evitato di chiederglielo martedì. Un ragionamento del genere, ancorché non condivisibile fino in fondo, è abbastanza comprensibile per iscritti e militanti del Pd, tutti più o meno professionisti della politica, che ne conoscono i limiti e le arguzie necessarie.

Ma i dirigenti del Pd, divisi in tre squadre diverse, che si fronteggeranno tra poco nella votazione finale, sanno anche bene che, un conto sono i militanti, e un altro il «popolo delle primarie». Un «popolo» molto più radicalmente ed esplicitamente antiberlusconiano, che voterà, il prossimo 25 ottobre, insieme con la testa e con la pancia, misurando la credibilità dei candidati quasi soltanto dal tasso di odio che saranno in grado di esprimere contro il Cavaliere.

Ecco perché, oggi, alla Convenzione democratica, tre candidati assai diversi tra loro, come Bersani, Franceschini e Marino, daranno vita a una nobile gara di antiberlusconismo, tutta rivolta al popolo di elettori e simpatizzanti che tra due settimane entrerà nei gazebo delle primarie. E perché, intuendo tutto questo, D’Alema, che conosce i suoi polli, s’è schierato prima del tempo.

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Ottobre 17, 2009, 10:10:25 am »

17/10/2009

E' finita l'era delle leggi ad personam
   
MARCELLO SORGI


Le schermaglie iniziali, che hanno accompagnato ieri il ritorno in scena della Grande Riforma, non devono trarre in inganno. Silvio Berlusconi non ha «preso un pugno in faccia» dall'opposizione, come pure ha lamentato. E se avesse adoperato un linguaggio più attento, vista la delicatezza della materia, invece dei soliti attacchi ai «Pm rossi», forse qualcuno dei «no» iniziali che ha ricevuto si sarebbe trasformato in un «ni». Anche perché, era forse troppo in questo momento aspettarsi una risposta chiara dal Pd, il partito a cui era principalmente rivolta la proposta del premier di riaprire il dialogo sui cambiamenti della Costituzione. Tutto sarà più chiaro da domenica 25, quando il nome del leader dei Democratici uscirà dalle urne delle primarie.

Ma anche prima, una valutazione sommaria della svolta si può fare. Se Berlusconi s'è risolto a tornare sul cammino impervio delle riforme costituzionali, vuol dire che i suoi alleati gli hanno fatto capire che non è più tempo di «leggi ad personam». Pur vituperata, ancora una volta, dal Cavaliere, la Corte Costituzionale, con la sentenza sul lodo Alfano, ha chiuso l'epoca delle scorciatoie tramite cui Berlusconi tentava di sottrarsi ai suoi giudici.

E questo non è male. Ora, sul piano politico, il premier potrà contare su una solidarietà piena del centrodestra. Tranne Di Pietro, nessuno o quasi dall'opposizione gli chiederà di dimettersi. Ma dovrà rassegnarsi ad affrontare i processi.

Quanto alla possibilità che, dopo tutti i fallimenti del passato, la Grande Riforma stavolta arrivi al traguardo, le probabilità - va detto - non sono molte, ma vale sempre la pena tentare. E' stato il presidente Napolitano, commemorando Norberto Bobbio a Torino, a dire che «essere fedeli alla Costituzione, non vuol dire considerarla intoccabile». Ed anche se Berlusconi, nel riproporre le riforme, ha usato un tono sbagliato, badando più alla sostanza che gli interessa, e meno al metodo «costituzionale», Fini, autorevolmente, e Calderoli sulla base della sua diretta esperienza, hanno cercato di convincere l'opposizione che si tratta di un'offerta seria.

A questo punto c'è insomma la possibilità di tornare a discutere, e a votare, se si trova l'accordo, con una maggioranza più ampia di quella che sorregge il governo, una serie di riforme condivise. A cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla differenziazione delle funzioni tra Camera e Senato e dal riequilibrio dei poteri tra governo e Parlamento: temi su cui inaspettatamente, da diverse parti e in diverse occasioni, sono piovuti consensi imprevisti, sui quali si potrebbe tentare di costruire convergenze, com'è già avvenuto nell'attuale legislatura in materia di federalismo fiscale.

Fatto questo - e si tratta già di un pacchetto molto importante - si dovrebbe mettere mano alla riforma della giustizia: inutile nasconderlo, è un terreno minato su cui governi di centrodestra e di centrosinistra sono già saltati per aria o hanno dovuto rassegnarsi a riforme minime, talvolta sbagliate, se non inutili.

Il paradosso è che nei due campi, a destra e a sinistra, esistono due partiti riformatori trasversali, che per il solo fatto di essere stati battuti in passato dagli opposti partiti dei giudici, si prenderebbero volentieri una rivincita. Ma proprio adesso, con Berlusconi di nuovo sotto processo, e un pezzo di opinione pubblica schierata col pezzo di magistratura che si dichiara minacciata, è assai difficile per l'opposizione - pur convinta, come ha detto ieri la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, che la giustizia non funzioni -, dare una mano a risolvere il problema. Sul resto, invece, è legittimo aspettarsi sorprese, perché il Pd, superate le angosce congressuali, non ha interesse a lasciare la palma del cambiamento solo in mano al centrodestra.

Ciò significa che dopo tante speranze e tante terribili delusioni, sta finalmente arrivando il momento buono per la Grande Riforma? Davvero è presto per dirlo. E ripensando a come affondò la Bicamerale, non si può che essere prudenti. Su molte delle novità da introdurre, compreso il presidenzialismo, che oggi appare un tabù, dodici anni fa era stato trovato un accordo che franò proprio sulla giustizia, quando Berlusconi si accorse che non avrebbe incassato il ridimensionamento delle procure a cui già allora aspirava.

Tutto sembrava fatto - e poi a sorpresa tutto finì - quando, davanti alla famosa crostata di casa Letta, il Cavaliere e D'Alema si strinsero la mano. Ma se tre giorni fa se la sono stretta di nuovo, una ragione dev'esserci.

da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:29:35 am »

22/10/2009

Il solito copione
   
MARCELLO SORGI


Da Milano a Napoli - sì, di nuovo Napoli, ma senza dimenticare Bari, l’Abruzzo e la Calabria -, la grande Idra continua a divorare se stessa, e l’ondata di scandali nati dall’intreccio tra amministrazioni e imprenditorie locali non accenna a fermarsi. Dalla prima inchiesta campana, che rivelò l’anno scorso una sorta di svolta manageriale nella corruzione - con cervelli e snodi ormai fuori dei partiti, soggetti a meccanismi perfezionati e lontani da qualsiasi logica politica -, il sistema pare ormai essersi diffuso dappertutto, al Nord al Centro e al Sud, con caratteristiche simili e funzionamento purtroppo collaudato. Siamo in pratica a una «napoletanizzazione» dell’Italia: ovunque i filoni del malaffare sono la sanità e la gestione ecologica (si fa per dire) dei rifiuti, ma è soprattutto nel primo, che muove localmente masse di danaro superiori a quelle amministrate direttamente dal governo nazionale, che la malversazione si fa industria.

C’è ormai una specie di copione che prevede come protagonista un imprenditore ricco o arricchito, che è insieme appaltatore e appaltante, cioè partecipa alle gare ed è in grado di determinare la composizione della commissione che ne deciderà le sorti, e a seguire, ovviamente, la scelta di dirigenti e funzionari chiamati a realizzare i progetti, i necessari pacchetti di assunzioni, gli acquisti di macchinari, le verifiche, i collaudi e tutto quel che ci vuole.

Che poi, com’è successo in Campania, un singolo filone d’inchiesta riveli che un partito, o un ex partito che ha la sua roccaforte in un’area ristretta, come quello di Mastella, possa tenere sotto controllo nel suo territorio un intero settore ospedaliero - dal meccanismo clientelare delle assunzioni, alle promozioni di complici e comprimari, alle rimozioni di quelli che non ci stanno -, conferma, anziché smentire, la mutazione genetica che la macchina della corruzione ha subito in periferia. Dietro gli elenchi di «segnalatori» e «segnalati», di minacce mirate a far mollare i dipendenti onesti, di valutazioni e ordinazioni mutevoli secondo convenienza, e non secondo necessità, non c’è più il deprecato metodo della lottizzazione, su cui il potere a qualsiasi livello s’era retto per decenni. Non c’è neppure logica, né equilibrio, né altra regola che non quella della prepotenza e del profitto illegale, di cui è perfino intuibile che solo una minima parte è destinata alle necessità della politica.

Solo così si spiega come accanto al nome del maggiore fruitore politico (o «utilizzatore finale», per usare una definizione più recente), oggi Mastella, domani chissà chi, tracce grandi e piccole di benefici indirizzati ad altri leader, o ministri, o assessori, assicurino il pieno coinvolgimento di tutti o quasi tutti, destra e sinistra, maggioranza e opposizione, esponenti locali e nazionali. Come appunto a Bari, dove l’imprenditore Tarantini avviluppa nelle sue spire prima la giunta regionale di centrosinistra e poi, nientemeno, il presidente del Consiglio e leader del centrodestra. O a Napoli, dove si comincia con gli assessori della Iervolino e si finisce con Mastella, i Verdi, alcuni stretti collaboratori di Bassolino, i vertici dell’ex Forza Italia in cui è in corso da tempo una resa dei conti interna, e perfino il figlio di Di Pietro. O ancora a Milano, dove l’imprenditore che ha in mano il sistema può permettersi il lusso di gestire (e incastrare!) il potente capo della segreteria del ministro Bondi, semplicemente mettendogli tra le mani le chiavi di una Porsche.

Quel che invece si capisce meno, a questo punto, è come possa la politica - il governo soprattutto, ma anche qualche settore dell’opposizione - avviarsi al rinnovo di gran parte delle amministrazioni locali previsto in primavera mettendo in cantiere, nel contempo, una riforma della giustizia che per il momento in cui viene proposta, prima ancora che per i contenuti, s’annuncia assai intempestiva. Che la macchina giudiziaria non funzioni e necessiti di un cambiamento, e che il protagonismo di certi procuratori sia intollerabile, non c’è dubbio. Ma è davvero incomprensibile che invece di prendersela con gli imprenditori, o sedicenti tali, che li hanno espropriati, appaltandosi in nome di interessi esclusivi gran parte del loro potere, i politici, anche in questo momento, pensino a regolare i conti con i magistrati. La politica, prima della giustizia, dovrebbe pensare urgentemente a riformare se stessa.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 28, 2009, 08:20:12 am »

28/10/2009

Tra i due litiganti il terzo gode
   
MARCELLO SORGI


Preceduta da una nuova visita ad Arcore (la seconda in tre giorni) di Bossi a Berlusconi, la soluzione, si fa per dire, della lite in famiglia tra il premier e Tremonti ha svelato il vero ruolo del leader leghista nel centrodestra. Più che mediatore tra le due personalità più forti del Pdl, Bossi infatti è apparso nei panni dell’incantatore. Azionando meccanicamente, e alternativamente, uno verso l'altro, il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia, il Senatur è riuscito a ottenere quel che voleva e ad evitare ciò che non voleva, mentre i due, dopo lo scontro, hanno dovuto rinunciare a gran parte delle loro reciproche pretese.

Berlusconi puntava al taglio dell’Irap, la tassa più invisa agli imprenditori, ma ha dovuto rassegnarsi a rinviarlo. Quanto a Tremonti, che mirava alla promozione a vicepresidente del Consiglio e alla competenza esclusiva sulla politica economica del governo, ha finito con l’accontentarsi di un incarico di partito. In un partito, per di più, in cui l’unico ruolo che conta veramente è quello del Cavaliere. Bossi invece ha centrato in pieno gli obiettivi che si era assegnato in questa partita. Ha portato a casa la candidatura leghista per il futuro governatore del Veneto, e un’analoga promessa per il Piemonte. Ora, che Berlusconi e Tremonti non si rendano conto di essere stati giocati dal loro alleato, non è proprio credibile. Il Senatur è abile, ha sempre la battuta pronta, come quando ha detto di Marrazzo che il suo è «un peccato di pantalone», ma anche il premier e il ministro non sono degli sprovveduti.

È possibile, ad esempio, che Tremonti - sentendosi stretto a causa delle polemiche snocciolate da mezzo governo e mezzo Pdl nei suoi confronti, per la politica di rigore su cui è imperniata la finanziaria, che lo porta a scontentare tutte le richieste di spesa avanzate dai ministri -, si sia messo d’accordo con il suo amico Bossi per mettere in scena il drammone in cui venivano perfino ventilate le sue dimissioni.

Sembra quasi di vederli, i due: andiamo da Berlusconi e gli diciamo che questa storia dei soldi al Sud deve finire una volta e per tutte, altrimenti mi dimetto! No, diciamogli che deve nominarti vicepresidente con la delega per l’economia, così nessun ministro si potrà più permettere di insolentirti. E se Berlusconi non ci sta? Se non ci sta, vediamo dove possiamo arrivare.

Magari è fantapolitica, magari no. Se davvero fosse andata così, si sarebbe trattato di una tattica furba per tirar fuori dall’angolo in cui si trovava il ministro dell’Economia. Ma mentre è sicuro, tra le pieghe della trattativa, che Bossi sia riuscito a mettersi in tasca quel che gli serviva, resta da capire cosa ci avrebbe guadagnato Tremonti. Che tra l’altro, da domani o al massimo da dopodomani, tornerà nel mirino dei suoi avversari interni al centrodestra.

E se invece fossero stati Berlusconi e Bossi ad accordarsi sottobanco, per riportare all’ordine il ministro dell’Economia che faceva le bizze? Anche questa non è da escludere, si può perfino immaginare come sia andata. Pare proprio di sentirli: Umberto, spiegalo tu a Giulio che non può comportarsi come se a comandare fosse lui. Io ho bisogno del taglio dell’Irap perché ho preso un impegno con gli elettori. Silvio, cercherò di parlargli, ma se i soldi non ci sono non c’è niente da fare. E poi lo sai che da tempo Tremonti si aspetta una promozione. Non se ne parla proprio, ci mancherebbe! E va bene, Silvio, proverò a convincere Giulio ad aspettare ancora. Ma sul resto, promettimi, devi venirgli incontro.

Se davvero fosse andata così, si sarebbe trattato di un escamotage per riaprire il dialogo ormai chiuso tra il premier e il suo ministro più importante. E tuttavia anche in questo caso, mentre è chiara la convenienza di Bossi, non si vede quale sarebbe stato il vantaggio di Berlusconi a firmare una tregua abborracciata, che lo costringe all’immobilismo.

Così alla fine la cosa più probabile è che entrambi, Berlusconi e Tremonti, si siano accordati con Bossi. O abbiano tentato di farlo, credendo di esserci riusciti. Senza accorgersi, anche stavolta, di essersi fatti incantare dall’incantatore.

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:49:10 am »

13/11/2009

Berlusconi da solo nell'arena
   
MARCELLO SORGI


La partenza - anzi, la falsa partenza - del disegno di legge sul processo breve in Senato, non lascia presagire niente di buono.
Se doveva essere il modo per rimettere il governo in carreggiata, la maggioranza d’accordo e l’opposizione in condizione di riaprire un confronto non pregiudiziale, non ci siamo. Dentro e fuori il Parlamento, la situazione è diventata mefitica.

Visto il testo presentato a Palazzo Madama, con un punto non concordato, e molto probabilmente richiesto dalla Lega (l’inclusione dell’immigrazione clandestina tra i reati di grave allarme sociale, come mafia e terrorismo), Gianfranco Fini, per bocca della presidente della commissione giustizia della Camera Giulia Buongiorno, ha reso noto il suo alt. L’opposizione, per mano della presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro, ha sprezzantemente gettato per aria lo stampato del provvedimento, definito «devastante», intanto, dal sindacato dei magistrati Anm.

Di Pietro ha addirittura annunciato un referendum, prima ancora che sia approvata la legge. Il cui iter, a discussione non ancora cominciata, si annuncia già assai tormentato.

Berlusconi avrà pure avuto le sue ragioni, o forse non avrà avuto alternative - dopo la sentenza della Corte Costituzionale che annullando il lodo Alfano lo aveva privato dello scudo per i processi -, ma certo la decisione di trovare comunque un espediente per proteggersi, in attesa di una riforma complessiva, mirata al riequilibrio dei rapporti tra potere politico e giudiziario, si sta rivelando molto rischiosa. Non è una sfida e neppure una scommessa: la posta in gioco, in altre parole, non è la caduta di un governo che al momento non ha alternative. Ma il braccio di ferro interno alla maggioranza in sé e per sé. E questo gioco è diventato così logorante da portare al limite la tenuta del sistema.

L’immagine che viene in mente, guardando a quel che sta accadendo, è quella di una corrida. Al centro dell’arena c’è il toro - Berlusconi - che naturalmente non ha alcuna intenzione di farsi «matare». Tutt’attorno, una folla di «bandoleros» di ogni contrada, categoria e colore, che lo tormentano, e cercano di fiaccarlo, attaccandogli alla schiena le «banderillas». Nervoso, sofferente, con le narici che schiumano rabbia, il toro si aggira correndo, in attesa del torero che cercherà di «matarlo», sempre che lui non riesca a incornarlo. Il pubblico, sugli spalti, fa la «ola», con la ferocia dei momenti crudeli. Ma - ecco la sorpresa! - mentre tutti lo aspettano, il torero non spunta. E la corrida, non potendo cominciare, non si sa proprio come andrà a finire.

Non è neppure fondamentale conoscere il destino del provvedimento, che ha rivelato fin da subito limiti enormi e possibili conseguenze disastrose in termini di cancellazione di processi molto importanti. Tanto, alla fine, dopo un percorso estenuante, diventerà legge. Basta solo paragonare la velocità e l’assenza di discussioni con cui fu approvato il «lodo Alfano» all’inizio della legislatura, con l’attuale, faticoso, «stop and go» di trattative preliminari - vertici, premesse e conclusioni, firme, cancellature e ripensamenti -, che hanno accompagnato la fase preparatoria.

Per varare il «processo breve», se è davvero questo che vogliono, la stanno facendo fin troppo lunga. E se nel centrodestra, malgrado la marea montante, continuano a prendere tempo, una ragione ci deve pur essere. Che si aspettassero un’accoglienza diversa da parte dell’opposizione, o maggior collaborazione da parte della magistratura, è impensabile. Così come era imprevedibile - ancorché qualcuno ci avesse sperato - che Berlusconi, sconfitto dalla sentenza della Consulta, si rassegnasse a farsi processare dai giudici che tutti i giorni definisce «toghe rosse».

Le difficoltà di questi giorni si spiegano in un altro modo: anche se è duro ammetterlo, lo scudo antiprocessi per il premier era parte vincolante del patto di maggioranza del centrodestra: diversamente non sarebbe stato il primo punto all’ordine del giorno della legislatura alle Camere e una delle prime leggi approvate. Da allora ad oggi, è evidente, il clima è mutato. Gli oppositori interni del centrodestra potrebbero avere molte buone ragioni per non rinnovare quel patto, o almeno per imporne un rinnovo non automatico. Ma per non fare solo i «bandoleros» della corrida che ha paralizzato il governo, dovrebbero dirlo chiaramente. Insomma se il torero non si trova, e se il toro resta in campo, una via d’uscita va individuata. Che Berlusconi torni a governare, come può e finché può, potrebbe essere il male minore.

da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:07:45 am »

18/11/2009
 
Ma il vero bersaglio è un altro
 
MARCELLO SORGI
 
La crisi del centrodestra, che si trascinava da settimane, da ieri s’è di molto aggravata. Da politica che era, è diventata istituzionale, con il presidente del Senato che invoca le elezioni anticipate come antidoto al logoramento della maggioranza, e accusa, pur senza nominarlo, il presidente della Camera, di essere responsabile di questo stesso logoramento, che impedisce al governo di rispettare gli impegni assunti con gli elettori.

Stavolta l’abituale soavità del senatore Schifani non è bastata ad addolcire la sostanza, durissima, del suo intervento, e la sorpresa generale con cui è stato accolto. Infatti, anche se come tutto finisce di tanto in tanto nel frullatore del dibattito politico quotidiano, la materia dello scioglimento delle Camere è di stretta competenza del Capo dello Stato ed è solitamente tabù per i presidenti delle Assemblee.

Ai quali tocca semmai maggiore prudenza, legata alla necessità di rappresentare la volontà di tutti i parlamentari, e non solo delle maggioranze che li hanno eletti, quando il momento di decidere la fine della legislatura si presenta veramente. La Costituzione (articolo 88) stabilisce che il Presidente della Repubblica decreti lo scioglimento, «sentiti i presidenti delle Camere»: ed è ovvio che il loro convincimento vada espresso solo tra i muri del Quirinale...

Ecco perché l’iniziativa di Schifani, oltre a costituire una novità assoluta, è del tutto irrituale. Che negli ultimi anni, e nell’epoca del maggioritario, i ruoli dei presidenti delle Camere abbiano subito una drastica trasformazione, non ci sono dubbi. E altrettanto, che Fini abbia spesso esorbitato, muovendosi in modo assai personale e non riuscendo a spogliarsi del suo abito di leader politico, come avrebbe richiesto il fatto di ricoprire la terza carica dello Stato. Ma proprio per questo, ci si sarebbe aspettato dalla seconda carica un di più di compostezza, di riservatezza istituzionale, di silenzio, da contrapporre al confuso vociare in cui il presidente della Camera s’era fatto risucchiare.

Non c’è neppure bisogno di ricordare che, sebbene formalmente sullo stesso piano, il presidente del Senato siede in realtà su un gradino un filino più alto del suo dirimpettaio di Montecitorio. E’ a lui, infatti, che tocca il delicato compito di supplenza in caso di assenza o di impedimento del Capo dello Stato. Ed è ancora a lui - anche se non c’è nulla che lo imponga - che il Quirinale si rivolge per primo in caso di crisi, se si richiede un mandato esplorativo o un ulteriore tentativo di chiarimento. Inoltre, non è dato al presidente del Senato (e neppure a quello della Camera per la verità) esprimere valutazioni politiche che non derivino da dirette e formali constatazioni dell’andamento dei lavori parlamentari.

E insomma, quando Schifani parla di mancanza di compattezza della maggioranza, viene da chiedersi in base a cosa lo faccia, dal momento che in Senato il governo ha potuto fin qui procedere abbastanza tranquillamente, superando difficoltà e incognite che si presentano normalmente nella vita parlamentare, e portando lo stesso presidente a esprimere, anche di recente, il proprio compiacimento.

Schifani, poi, s’è dichiarato insoddisfatto della scarsa produttività di riforme da parte del Parlamento. Ma non è in Senato che per la prima volta s’è verificata la convergenza tra maggioranza e opposizione sul federalismo fiscale? E non è il Senato che è stato scelto, dopo la caduta del lodo Alfano - nell’ora più difficile dei rapporti tra politica e giustizia, e tra governo e magistratura -, per avviare il percorso del disegno di legge sul «processo breve»?

Davvero non si capisce cosa abbia spinto Schifani a un così brusco cambio di rotta. Stando a voci mediocri che circolavano nei corridoi parlamentari, l’uscita della seconda carica dello Stato sarebbe dovuta a un diktat di Berlusconi: che tace, non potendo parlare in prima persona, per non certificare la dissoluzione della sua maggioranza. Insinuazioni che hanno dell’incredibile, conoscendo il geloso attaccamento del presidente del Senato alla propria autonomia.

No, c’è da scommetterci: dietro Schifani c’è solo Schifani. E se ha deciso di rompere la corteccia istituzionale che lo ha vincolato finora, e compiere un gesto così grave, non è stato certo solo per lanciare un avvertimento al suo irrequieto vicino di Montecitorio. C’è dell’altro e c’è di più: rompendo il riserbo sulle elezioni anticipate, Schifani ha alzato la mira su Napolitano.
 
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 21, 2009, 09:08:28 am »

21/11/2009

Il sasso in bocca
   
MARCELLO SORGI


Un antico e terribile rituale mafioso voleva che per far tacere chi aveva cominciato a parlare - tradendo il dovere del silenzio che è alla base del patto omertoso -, oltre a ucciderlo, lo si doveva lasciare con un sasso in bocca: segno insieme di vendetta e di monito, per altri che, sciogliendo la loro lingua, avrebbero saputo a cosa andavano incontro. Qualcosa del genere è accaduto ieri, nella Roma politica e terminale dell’autunno 2009, al transessuale Brenda. Dopo due mesi di illuminazione mediatica dovuta al suo coinvolgimento nel «caso Marrazzo», dopo una strana rapina ad opera di un gruppo di romeni, parte in fuga con il suo telefonino, parte menati da altri trans e finiti in ospedale, Brenda è stata soffocata in uno scantinato di via Due Ponti, un quartiere periferico di nuova prostituzione, frequentato non soltanto dall’ex governatore del Lazio, e non da soli politici, ovviamente. Il sasso in bocca, nel caso di Brenda, erano le memorie elettroniche del cellulare e del suo computer, annegato nel lavandino del miniappartamento dato alle fiamme, che non potranno più parlare. Dei tre trans entrati in scena dopo l’esplosione del «caso Marrazzo», Natalie, la più affezionata, era quella che aveva messo in guardia l’ex governatore dal pericolo dello scandalo.

Michelle, che con Brenda lo aveva incontrato due volte, era già scappata a Parigi, sentendo brutta aria. Brenda, la terza, era quella che più esplicitamente aveva detto che nel giro di prostituzione brasiliano, Marrazzo era solo uno dei più assidui, tra i politici frequentatori. S’era anche divertita a fare qualche allusione, accennando a un fantomatico «Chiappe d’oro», dietro il cui soprannome, nientemeno, si sarebbe celato un ministro. Così, senza accorgersene, o forse essendosene accorta troppo tardi, Brenda aveva firmato la sua condanna a morte. Ora qualcuno dice - e moltissimi pensano - che i mandanti dell’assassinio di Brenda siano da ricercare proprio tra quei politici che, nel timore di essere scoperti e fare la fine dell’ex governatore, avrebbero fatto di tutto, perfino armato la mano dei killer, pur di chiuderle la bocca. E’ possibile, diranno le indagini se questa è un’ipotesi da approfondire. Così come è probabile che Brenda sia stata fatta tacere, non per quel che aveva detto o si preparava a dire, ma per aver cominciato a maneggiare di testa sua rivelazioni e sospetti il cui mercato, abilmente orchestrato, doveva servire ad avvelenare la prossima campagna elettorale. Una strana coincidenza vuole che l’assassinio di Brenda coincida con le rivelazioni, a ventisei anni di distanza, sul sequestro di Emanuela Orlandi, e con i ricordi di quest’altra incredibile vicenda romana, sospesa tra il Vaticano e il potere democristiano del tempo, la malavita della Banda della Magliana che ha intanto ispirato un film e una fiction tv, e poi spie, ricatti, servizi deviati e altri tipici ingredienti del lungo crepuscolo della Prima Repubblica.

Lì una povera ragazza di quindici anni di cui i parenti sperano ancora di rivedere il sorriso, qui l’enorme e sgraziato cadavere del trans, a segnare, in epoche così lontane e diverse, i sinistri rintocchi, il rantolo affannoso e il battito spento del cuore della Capitale. Eppure, seppure la storia di Roma è da sempre scandita da scandali e misteri inconfessabili, ci dev’essere una ragione per cui il calendario politico-sessuale di quest’ultimo anno - da Noemi a Brenda - sembra aver segnato il punto di non ritorno. A fare la differenza non è l’assassinio o l’aspetto «noir» del potere, a cavallo tra il Palazzo e la malavita. Il cadavere, infatti, c’era già nello scandalo Montesi di mezzo secolo fa, con la scoperta, sorprendente per i tempi, sulla spiaggia di Capocotta, del corpo nudo di una donna morta dopo un’orgia. Non è il sesso che, in un modo o nell’altro, ha accompagnato la vita politica del Paese, arrivando a lambire il Quirinale degli Anni Cinquanta, e via via Palazzo Chigi, i ministeri, il Parlamento, fino il laticlavio dei senatori a vita. Non sono neppure i trans, ormai entrati con tutti gli onori nella vita pubblica, con una recente, ancorché non duratura, rappresentanza parlamentare, una star del Grande Fratello e gli spot di un nuovo canale satellitare della Rai.

A ben guardare, la diversità sta in questo. I politici del passato - e dei passati scandali -, benché colti a loro volta in un momento di debolezza, restavano fino in fondo politici. La loro vita, le loro giornate e gran parte delle loro nottate erano occupate da riunioni, incontri, attese e da quell’attività, impalpabile, a volte incomprensibile, che attiene al governo della cosa pubblica. Un lavoro che, al dunque, produceva risultati. Magari sbagliati, ma li produceva. I politici di adesso invece sono troppo impegnati a dimostrare che non c’entrano nulla con la politica, che tra l’altro disprezzano. Cosa facciano tutto il giorno - a parte ricoprirsi di insulti in diretta tv - non si capisce. La politica italiana è immobile. A ogni annuncio, segue immancabile la smentita. Le due immagini simbolo dell’«annus horribilis» che sta per finire, sono il grande materassone a tre piazze che entra trionfalmente a Palazzo Grazioli, nella casa romana di Berlusconi, e Marrazzo in mutande, filmato mentre scongiura i suoi carnefici di non rovinarlo.

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