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Autore Discussione: TOMMASO CERNO- L'ambiguità padana. Nonostante gli scandali Formigoni e Galan...  (Letto 2449 volte)
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« inserito:: Ottobre 28, 2017, 06:08:04 pm »

L'ambiguità padana

Nonostante gli scandali Formigoni e Galan, resiste la mitologia della destra efficiente

Di TOMMASO CERNO
26 ottobre 2017

C’è un lato oscuro, un maleficio che aleggia su quel lembo di terra a Nord-Est dell’Italia dove è tornato a soffiare il vento della destra. Un’ambiguità tutta padana, un fantasma che si aggira nelle stanze impolverate che furono la Casa delle libertà, ma non spaventa gli abitanti del maniero, non viene notato, è incapace di intimorire quel popolo che anzi si muove in massa per ribadire il primato politico ed economico della Padania di Salvini e Berlusconi nell’Italia della grande crisi.

Non si spiega, storia e dati alla mano, questa mitologia del buongoverno di centrodestra. Una favola propinata al Paese, che ha spinto la sinistra a darsi alla ritirata, varando una legge elettorale che, di fatto, favorirà il ritorno nel Nord delle insegne del centrodestra, spaccando l’Italia in due e relegando il Pd fuori dai confini della parte più ricca e produttiva del Paese, che Matteo Renzi aveva promesso di infatuare.

Proprio lassù Lega e Forza Italia crescono invece ogni giorno nei sondaggi. E basta passare al bar per tastare con mano lo tsunami elettorale di colore verde e azzurro che sta per abbattersi sulla Padania: dalla Brianza alle foci dell’Isonzo.

Così in Padania l’inganno si fa voto. E Silvio Berlusconi corre al galoppo verso il 2018 alleato con quel Matteo Salvini che, pur fra ultimatum e litigi furibondi sui giornali, in televisione e in Parlamento, strizza l’occhio a un elettorato che non riconosce diversità sostanziali fra Lega Nord e Forza Italia. Si tratta di litigi che incuriosiscono politologi e sondaggisti, ma che non sfiorano il cuore politico del popolo a Nord-Est. Lassù si può fare, il Cavaliere lo ricorda bene, perché conosce l’indole di quelle terre. Sa che la promessa di un modello di governo simile a quello che ha conquistato Lombardia e Veneto dal 1994 in avanti non avrebbe rivali. Soprattutto con una legge elettorale che consenta al centrodestra di fare cartello e presentarsi unito.

A guardarsi un po’ in giro sembra che abbia ragione lui. Basti pensare che da queste parti nemmeno Beppe Grillo, con il suo bavaglio sugli occhi, in piazza del Pantheon, in parata contro la fiducia posta dal governo Gentiloni sulla legge elettorale è davvero passato all’incasso. Non sfondano i Cinque stelle nella Padania del grande inganno. Né sfonda la tiepida simpatia del popolo di Silvio per il fu Matteo Renzi, non certo quello di adesso, tutto voglia di Palazzo Chigi e vendette a sinistra, ma quel Renzi rottamatore della prima ora che per qualche mese solleticò la pancia degli elettori del Nord-Est. Ora è tutto finito. La sua fama è evaporata, archiviata come anticaglia politica, anzi si è rovesciata in astio.

L’emblema di questa metamorfosi è proprio Ettore Rosato, il diligente capogruppo del Pd alla Camera, natali triestini e cuore democristiano. Rosato è uno che fa politica da quando portava i calzoncini corti ed è colui che dà il nome alla riforma elettorale, al voto in Senato fra caos e proteste. Nemmeno il padre della riforma ha il coraggio di candidarsi con la propria riforma. Perché sa che il Nord-Est lo caccerà. E così spera di fuggire da Trieste, luogo dove — stando al suo Rosatellum che dovrebbe garantire ai cittadini di poter scegliere il loro deputato — i sondaggi dicono che vinceranno i berlusconiani doc.

Eppure le cronache ci dicono che quel modello di governo che il centrodestra rivendica è figlio di due decenni di imbrogli, cricche e potere familistico. La cronaca ce lo ricorda ogni giorno. Ma lassù nessuno pare sentirlo. Roberto Formigoni che fu il padre padrone della Lombardia fino ad aspirare alla poltrona di premier è stato rispedito a processo. Le accuse sono le solite: cene di lusso e vacanze pagate al cattolicissimo membro dei Memores Domini ciellini il quale, sussurrano maligni gli ex compagni di partito, avendo fatto voto di povertà, evidentemente spendeva soldi altrui, come dice la prima condanna dopo l’inchiesta sulla Fondazione Maugeri.

Scendendo verso Est, la musica non cambia. Lungo la vecchia ferrovia che porta a Venezia per poi spingersi fino sul Golfo di Trieste s’è rifugiato Giancarlo Galan, il Doge decaduto, l’uomo più potente della Serenissima, laico e liberale fu colui che pontificò per quasi vent’anni onestà e sviluppo in una delle terre più ricche d’Europa, un posto dove le fabbrichette intorno a Vicenza facevano il Pil della Grecia, gestendo invece potere e malaffare dal Canal Grande. Roba che, in un altro posto d’Europa, avrebbe ipotecato la vittoria del centrosinistra per una generazione ma che, lassù, al contrario, ha consolidato la classe dirigente e trasferito il potere nelle mani di successori che, pur estranei ai fatti, avevano condiviso e sposato quel patto politico.

Significa che la sinistra non ha saputo toccare le corde di quel pezzo di Italia, quel lembo di ricchezza nella crisi da cui poteva ripartire un progetto riformista capace di scaldare il Nord deluso dalla caduta, neppure troppo onorevole, del Cavaliere.

Non è così. Nemmeno oggi che le cene al caminetto di Arcore fra Silvio e il Senatùr, con il cuoco Michele e i manicaretti rigorosamente senza aglio, non ci sono più. L’inganno padano continua e al governo torneranno loro, prosecutori di un modello di sviluppo che porta con sé una macchia, un peccato originale che il Pd non è stato capace di far emergere. Anzi, di cui è vittima sacrificale: il centrodestra ha già riconquistato grandi città, a partire dalla difficilissima Trieste nel feudo di Debora Serracchiani, e s’è preso le roccaforti rosse come Monfalcone.

Ma ora punta dritto alla tripletta, dopo la Lombardia e il Veneto di Maroni e Zaia, cercando di imporre anche alle regionali del Friuli Venezia Giulia un candidato della Lega Nord, il giovane capogruppo padano Massimiliano Fedriga. Spinto dalla crisi della pasionaria piddina Debora le cui riforme (sanità ed enti locali) non riescono a fermare il vento in poppa del Carroccio, spinto anche dal referendum sull’autonomia, una consultazione che da queste parti odora più di schei, di soldi, che di modello catalano. Senza che a Roma possano fare molto per fermarlo.

© Riproduzione riservata 26 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/26/news/l_ambiguita_padana-179353360/?ref=fbpr
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