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Autore Discussione: Piero OTTONE  (Letto 4653 volte)
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« inserito:: Novembre 22, 2007, 06:51:55 pm »

A BERLUSCONI.

PIERO OTTONE

Caro Silvio, memore delle nostre antiche frequentazioni, io semplice giornalista anche allora, tu agli esordi della tua straordinaria carriera, ti ho seguito con un interesse, lasciamelo dire, antropologico oltre che professionale. Sei un caso umano molto interessante. Mi sono anche permesso di darti, attraverso il tempo, qualche consiglio, mi sembrava a fin di bene. Ed eccomi ora a scrivere quest’altra lettera, forse una delle ultime, in un momento che mi sembra piuttosto drammatico. Per te e per noi.

Credo di conoscerti bene. Di fronte alle tue decisioni di questi giorni, molti osservatori della pubblica scena offrono spiegazioni razionali, e ti attribuiscono complessi disegni di architettura politica, come se tu avessi soppesato vantaggi e svantaggi di ogni singola mossa. Giusto: anche la razionalità contribuisce a spiegare il comportamento degli uomini politici in genere, il tuo in particolare. So che sei di natura piuttosto apprensivo: ricordo quando dicevi, dopo una decisione importante, di non avere dormito tutta la notte, per il timore di avere sbagliato. Ma qui la razionalità non basta non offre, di per sé, la chiave del problema. In ultima analisi, la tua è stata una decisione emotiva: oso dire che sei stato spinto da uno stato d’animo simile alla disperazione. Hai visto crollare quel mondo che avevi costruito intorno a te, e che ti aveva permesso di recitare la tua parte attraverso i continenti, con disinvoltura, da trionfatore. Hai scoperto che alcuni fedeli alleati, fino a ieri rispettosi e obbedienti, osano criticarti, dileggiarti in pubblico. Ti sfidano. All’improvviso ti sei sentito solo. E allora, col coraggio della disperazione, hai deciso di giocare l’ultima partita.

A qualcuno è venuto naturale pensare, in queste ore, ai Cento Giorni di Napoleone: un giornale ti ha presentato come Silvio Bonaparte.

Similitudine francamente un po’ eccessiva, oltre che pericolosa, perché ti induce a montarti la testa, come spesso ti è accaduto, specie negli ultimi tempi. Ma vedo in queste ultime tue decisioni l’indole del giocatore. Come tanti altri giocatori prima di te, dai Grandi della Terra al biscazziere dietro l’angolo, dopo tante giocate fortunate ti sei detto: tentiamo l’ultima, mi è sempre andata bene, mi andrà bene anche questa. Poi, infallibilmente, il destino si vendica: l’ultima va sempre male. A tua consolazione è pur vero che la tua Sant’Elena è piena di miliardi.

Ma noi? Ma l’Italia? Mi ero chiesto negli ultimi tempi come avresti gestito la fine della tua avventura nella vita pubblica, ben sapendo che la fine prima o poi viene sempre, e la tua stava avvicinandosi. Avresti architettato un. finale dignitoso, da padre della patria? O avresti preferito il crollo fra le rovine? Questa tua ultima sfida è una risposta. Ed è, per quel che riguarda la tua vicenda personale, una prova di coraggio. Ma dimostri una volta di più che dell’Italia, purtroppo, non ti importa proprio niente. Pensi solo alla tua persona, al tuo successo, alle tue vendette. Dell’Italia non ti curi. E non ti importa che le tue giravolte, le tue sceneggiate, i tuoi colpi di scena, dettati non da disegni politici ben ragionati, ma dal dispetto e dalla rabbia,potranno solamente aumentare la confusione.

Confermando così che la tua avventura pubblica è stata, per il nostro paese, un immane disastro.

da repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 23, 2014, 05:27:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 10, 2009, 05:18:00 pm »

Da La Repubblica del 03/06/2003

La lunga storia d‘assalti alla libertà di stampa

di Piero Ottone


POTERE politico, libertà di stampa: è guerra continua, in tutto il mondo. Ma in altri paesi la guerra si combatte con i guanti, cioè con civiltà. Da noi un po’ meno. Il metodo è sempre uguale. Il potere politico chiede di cambiare il direttore; se la proprietà del giornale rifiuta di cambiario, il potere politico cerca di cambiare la proprietà. Così accadde (anno 1953) alla Gazzetta del Popolo, giornale in cui ero entrato nel 1945. Direttore era Massimo Caputo, un uomo che non prendeva ordini da nessuno. Proprietaria della Gazzetta era la Sip, società dell’Iri. I democristiani chiedevano il licenziamento di Caputo. Poiché la Sip rifiutava di licenziarlo, i democristiani costrinsero la Sip a vendere il giornale a Teresio Guglielmone, senatore del loro partito, che quando non svolgeva attività politica produceva biscotti. Così Caputo fu licenziato sui due piedi, e io (con altri sette) presentai le dimissioni: primo episodio, per quanto mi riguarda, di una lunga serie, ogni tanto dovevo fare le valigie e trasferirmi. Comprati e venduti, secondo la celebre definizione dei giornalisti coniata da Giampaolo Pansa. Ma a tanti non piace.

Il Corriere della Sera, la testata più prestigiosa, è sempre stato oggetto di brame. Luigi Albertini, il giornalista che aveva fatto grande il giornale, fu costretto a andarsene perché così volle Mussolini. Negli anni della dittatura tutte le decisioni sulla linea della stampa, fino al titolo di apertura in prima pagina, erano prese dal partito fascista, che aveva risolto il problema in modo radicale: sceglieva (e licenziava) i direttori, senza neanche chiedere permesso ai proprietari. Caduto il fascismo, ricominciarono gli intrighi. Ma finché la posizione finanziaria del giornale rimase solida, gli editori (i Crespi, una delle grandi famiglie di Milano) furono padroni in casa loro.

Se sceglievano direttori, diciamo così, moderati, lo facevano perché erano moderati essi stessi. Mario Missiroli affermava che il direttore del Corriere, per definizione, non poteva avere rapporti meno che buoni col presidente della Repubblica, e i Crespi gravemente assentivano. Nel 1946 sostituirono Mario Borsa, fior di galantuomo, grande giornalista, che era stato indicato alla fine della guerra dal Comitato di liberazione; ma Borsa, oltre che ai democristiani, non piaceva neanche a loro.
All’inizio degli anni Settanta accaddero tuttavia due fatti nuovi, indipendenti uno dall’altro. La nuova generazione dei Crespi scelse una direzione (la mia) che proprio moderata, nel senso di conservatrice, non era. Allo stesso tempo, in un’Italia scossa dall’autunno caldo, affiorarono per i giornali, compreso il gruppo del Corriere, le difficoltà finanziarie, i bilanci in rosso. Il potere politico vide pertanto la possibilità di controllare, attraverso potentati economici bene allineati, la propietà del primo giornale d’Italia. Si scatenò la guerra. La prima fase fu dominata da Eugenio Cefis, alleato di Amintore Fanfani, che era ormai il democristiano più potente, e inseguiva chi sa quali obiettivi, forse la repubblica presidenziale, forse un po’ di gollismo. Ma Cefis, ex comandante partigiano, poi numero due di Enrico Mattei all’Eni, poi presidente della Montedison, si occupava in quei mesi di giornali, credo, più che di chimica; chi sa, forse il De Gaulle italiano pensava di esserlo lui. Il governo intanto, lungi dal lenire le difficoltà finanziarie della stampa, le aggravava. I Crespi furono costretti a vendere. Gianni Agnelli, l’imprenditore privato più forte, tentò un fugace soccorso: dopo pochi mesi fu costretto a sgomberare il terreno anche lui. Cefis (attraverso la casa editrice dei Rizzoli) vinse la partita. -
Le acque, tuttavia, non si calmarono: Cefis uscì di scena, i Rizzoli fallirono, la P2 diventò di fatto la padrona del giornale coi capitali del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, che fallì a sua volta, e finì sotto un ponte del Tamigi. E intanto comparve sulla scena un nuovo personaggio politico, Bettino Craxi; e come Fanfani aveva agito per tramite di Cefis, Craxi disponeva a piacimento di un altro potentato economico, quello di Silvio Berlusconi. L’azione si sviluppò ora su due fronti. A Craxi, anima bella, non sarebbe dispiaciuto il controllo del Corriere: mise insieme una curiosa cordata, in cui spiccavano gli stilisti, per tentarne l’acquisto, mentre Rino Formica, ministro delle Finanze, socialista anche lui, minacciava di rappresaglie ogni eventuale concorrente. Ma intanto era sorta Repubblica, e a Craxi Repubblica dava fastidio, in quel periodo, più del Corriere. Seguirono le spericolate operazioni di cui si discute ora, per il sospetto di corruzione di alcuni giudici, nelle aule giudiziarie: Berlusconi mise le mani sulla Mondadori, attraverso la Mondadori cercò di mettere le mani su Repubblica ed Espresso, disposto a tutto pur di offrire a Craxi la testa di Eugenio Scalfari su un piatto d’argento. Anche l’operazione Sme, altro argomento dibattuto nelle aule giudiziarie, deve essere vista probabilmente in questo quadro. Il disegno, per fortuna, riuscì solo a metà.

E ORA siamo giunti al caso De Bortoli, il direttore dimissionario del Corriere della Sera. Costretto a dimettersi, perché inviso al presidente del Consiglio, che certo è in grado di esercitare pressioni sui proprietari attuali? Non conosco, se non per sentito dire, i retroscena. So per certo che Ferruccio De Bortoli ha fatto in questi anni un ottimo giornale, e aveva un buon rapporto (lo dimostrano i fatti di cronaca) con la redazione. Antiberlusconiano? Non mi pare. A partire dalle ultime elezioni egli si è trovato di fronte un governo, diremo così, piuttosto anomalo, con tanti problemi giudiziari. Mi pare che abbia assunto, fin dall’inizio, un atteggiamento filosofico: questo è il governo che gli italiani si sono scelti, vediamo che cosa sa fare. Poi ha scoperto che tutto ha un limite, certe iniziative, certi comportamenti gridano vendetta. Il troppo stroppia. Qualche volta il suo giudizio è stato severo. Se a causa di tali giudizi è stato messo nelle condizioni di andarsene, non lo so. Penso solo che gli eventi di questi giorni si inseriscono, in un modo o nell’altro, in una lunga storia.

da archiviostampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 23, 2014, 05:21:33 pm »

Testimone del tempo: Piero, così hai cambiato il giornalismo italiano

Esce "Novanta", il memoir di Ottone sull'avventura nella sua professione.

Ecco la prefazione di Scalfari

di EUGENIO SCALFARI
   
Un giorno dello scorso novembre  -  il mio libro L'amore, la sfida, il destino era appena uscito  -  ricevetti una telefonata da Piero Ottone. Ci conosciamo da oltre quarant'anni, e da più di trentacinque siamo diventati amici. Era esattamente il 1977, quando Piero capì che nella proprietà del Corriere della Sera che lui dirigeva da cinque anni stavano accadendo mutamenti preoccupanti e si dimise. Te lo ricordi, Piero?

Da allora l'amicizia s'è rinforzata, abbiamo lavorato insieme, lui alla Mondadori alla guida di Mario Formenton ed io alla direzione di Repubblica che per il cinquanta per cento era appunto di proprietà della Mondadori e per l'altra metà del nostro gruppo dell'Espresso; e per anni insieme fino alla famosa guerra di Segrate contro Berlusconi che aveva dato la scalata alla Mondadori. Poi quella guerra finì, Repubblica fu messa in salvo e Piero cominciò a collaborare al nostro giornale e tuttora scrive articoli di politica, di costume, di cultura.

Gli avevo ovviamente mandato il mio libro aspettandone un giudizio che sapevo sarebbe stato imparziale, positivo se gli fosse piaciuto, negativo nel caso contrario e comunque critico nel senso alto del termine. Lui, infatti, appena letto mi telefonò.

Il giudizio fu positivo, mi parlò del capitolo che più di tutti gli era piaciuto, mi chiese alcuni chiarimenti sulla struttura letteraria che era alquanto nuova rispetto ai molti libri precedenti e poi aggiunse: "Quello che più mi ha interessato è l'inizio del tuo libro, che hai intitolato Prologo, dove racconti come si è formata la tua visione della vita durante l'età che definisci fatata dell'adolescenza e poi che cosa ti accadde dopo e come si formò il tuo carattere, la tua coscienza e insomma la tua vita. Anch'io sto scrivendo un libro, molto diverso dal tuo; ma anche il mio comincerà con un Prologo. Vorrei che tu lo leggessi; non il libro che ho già scritto ma leggerai quando tra qualche mese sarà nelle librerie, ma il mio Prologo, e vorrei che tu mi dicessi che cosa ne pensi".

Ebbene, l'ho letto il suo Prologo, mi è molto piaciuto, è scritto benissimo con quello stile piano che si fa leggere senza fatica ma che comunica alcune verità profonde sulle quali il lettore è indotto a riflettere. Contiene però, quel suo Prologo, un giudizio su se stesso che in alcune parti non condivido, e proprio di quelle omissioni voglio parlare. Lo so che dipendono dal suo modo di pensarsi, non si tratta di finta umiltà ma di una convinzione mite e modesta dell'opera sua e della sua presenza e il suo ruolo nella storia del giornalismo italiano. Una presenza che durò a lungo ma un ruolo che durò poco, cinque anni, ma che ebbe un rilievo storico portando la diffusione del giornale a livelli mai raggiunti prima, riunì il meglio dell'intelligenza d'allora e cambiò la collocazione tradizionale di una delle più importanti testate italiane ed europee.

Piero si definisce nelle pagine di introduzione "uno spettatore", avrebbe potuto dire almeno un testimone del tempo, ma evidentemente quest'espressione gli sembrava troppo ridondante. Infatti scrive così: "Questo mestiere sembra fatto apposta per me. Osservo con curiosità quel che succede, non aspiro in alcun modo a far succedere cose diverse. L'animo dello spettatore, insomma: non quello del protagonista".

Ebbene, caro Piero, tu ti vedi certamente così soggettivamente, dal tuo punto di vista. Ma oggettivamente ti sbagli. L'ho già detto prima, ma adesso te lo dimostro.

Tu sei stato il primo della grande stampa italiana allora esistente a dimostrare con le inchieste, le notizie, gli articoli, insomma col tuo modo di fare il giornale, che i comunisti non avevano la coda.

Allora erano ancora in molti a pensarlo, e non solo persone sprovvedute o succubi d'una propaganda politica, ma anche dominate da un pregiudizio rispetto ad un partito legato ancora a doppio filo con Mosca, con il Cominform, con lo stalinismo, senza cogliere i primi segnali di un mutamento sociale, politico e soprattutto culturale.

Qualche segnale in quel senso c'era già stato sulla Stampa, l'altro grande giornale di prestigio nazionale durante la direzione di Giulio De Benedetti; segnali ancor più chiari li aveva manifestati il settimanale l'Espresso, ma il Corriere era un'altra cosa, rappresentava l'intero circuito mediatico del paese in un periodo in cui la televisione non aveva ancora la potenza di fuoco che raggiunse negli anni seguenti, e politicamente era molto legato alla Democrazia cristiana.

Il Pci era chiuso in una sorta di ghetto, per decisione dei suoi avversari ma anche per decisione propria. I suoi dirigenti battevano sul tasto della "diversità comunista", diversità morale ma soprattutto ideologica. Nel ghetto ci volevano stare, sognavano la rivoluzione proletaria che naturalmente sarebbe venuta ma non si sapeva né quando né come; "adda venì Baffone", cioè Stalin, era lo slogan che teneva insieme le masse e quindi era diventato una parola d'ordine da non lasciar cadere.

Ghetto o giardino zoologico, dove dietro le sbarre la gente comune vedeva strani animali e quasi tutti con la coda. La rivoluzione d'Ungheria del '56 aveva dato una scossa potente alle sbarre del ghetto; quella di Dubcek a Praga ancora di più e aveva anche manifestato fortemente la visione politica nuova del gruppo dirigente del Pci. Il Sessantotto aveva coinvolto i licei e le università di tutta Italia, l'immaginazione al potere era stato uno slogan rivoluzionario, ma quella che veniva definita la maggioranza silenziosa non era stata neppure scalfita da queste novità, anzi era diventata ancor più retriva e pronta perfino ad alimentare tentazioni antidemocratiche, sette segrete, servizi di sicurezza deviati, come si diceva con linguaggio criptico e minaccioso.
Non voglio fare qui una storia che è stata già ampiamente esaminata da centinaia di libri e migliaia di articoli. Dico solo che non a caso tu fosti scelto a dirigere il Corriere dalla parte progressista della borghesia milanese (Giulia Maria Crespi per l'esattezza) che non era affatto rappresentativa di quel ceto sociale. Era un'eccezione; prudente, misurata, non certo incline al radicalismo delle posizioni ed anche rispettosa delle tendenze del giornale che aveva avuto in Albertini la sua bandiera nei primi venticinque anni del secolo scorso. Ma un'eccezione che avrebbe oggettivamente dimostrato che i comunisti non avevano la coda o almeno non l'avevano più.

Questo fu il tuo Corriere dal 1972 al '77 e io lo so bene perché Repubblica fu fondata nel '76 ed ebbe fin dall'inizio l'obiettivo di diventare il primo giornale italiano raggiungendo e scavalcando il Corriere. "Hai scelto il momento sbagliato", mi fu detto da molti amici e colleghi. "Proprio adesso che il Corriere si è spostato a sinistra, ti sarà assai difficile inseguirlo con successo".

Ricordo che tu stesso me lo dicesti durante una telefonata amichevole che mi facesti sette od otto mesi dopo l'uscita di Repubblica. Vendevamo fin dall'inizio settantamila copie, era molto per un giornale nuovo ma non sufficiente, e questa cifra iniziale era bloccata e tale rimase fino al '78. In quell'anno ci fu il rapimento di Moro e tu  -  per altre ragioni  -  te n'eri già andato dal Corriere; ma questi due fatti avvenuti quasi contemporaneamente misero in moto la diffusione del nostro giornale che sei anni dopo raggiunse il Corriere e lo sorpassò.

Nella tua telefonata che ho sopra ricordato tu mi consigliasti di sospendere le pubblicazioni. "Lasci", mi dicesti, "nel momento migliore. La vendita attuale del tuo giornale è più che rispettabile e dimostra le tue capacità, ma economicamente non basta, quindi questo è il momento di smetterla, dammi retta, lo dico per te, il Corriere non ha minimamente risentito della vostra uscita, siamo ai massimi della nostra diffusione".

Era vero, ma io non la pensavo affatto in quel modo. Ti ringraziai del consiglio e ti presi anche un po' in giro. Ricordo queste cose per dire che, opinioni tue e mie a parte, oggettivamente tu avevi ragione, il Corriere non sentiva la concorrenza di Repubblica, la scissione di Montanelli e la nascita del Giornale vi avevano intaccato poco. Avevate perso copie a destra ma ne avevate conquistate altre al centrosinistra. Nel frattempo Pasolini era diventato il tuo collaboratore principale e attaccava ogni settimana il Palazzo (fu proprio lui a inventare quella parola per definire il Potere), la tua terza pagina ospitava il meglio dell'intellighenzia italiana, a cominciare da Citati. Quando Pasolini morì tragicamente al suo posto chiamasti Calvino che per certi aspetti era molto più efficace di Pasolini ed io te lo invidiai molto perché ero suo amico fin dai banchi del liceo, ma non potevo certo pensare che sarebbe venuto in un giornale come quello da me fondato ma ancora confinato in un pubblico molto limitato.

Tu hai scritto nel tuo Prologo che non ti sei mai proposto di cambiare la società con il tuo lavoro di giornalista e col tuo carattere di spettatore. Ti ho detto che non condivido il tuo giudizio, che è sbagliato, e spero d'avertelo dimostrato.
 
© Riproduzione riservata 20 marzo 2014
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