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Autore Discussione: MARIO CALABRESI.  (Letto 72886 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Novembre 17, 2011, 04:51:44 pm »

17/11/2011
 
Giù il sipario sulla politica spettacolo
 
 
MARIO CALABRESI
 
Fotografi e giornalisti si chiedevano a vicenda chi fossero quei ministri, scrutavano le facce del nuovo governo cercando di abbinare nomi e volti in modo corretto.

La prima rivoluzione andata in onda ieri, durante il giuramento al Quirinale, è stata la fine della politica spettacolo: nessuno dei presenti era un personaggio già reso famoso dalla televisione, noto per una litigata, per le sue battute o per gesti eclatanti. Per scoprire chi sono questi ministri bisogna andare a spulciare i curriculum o cercare negli archivi. E questa è già una rivoluzione.

Naturalmente ogni stagione ha la sua rappresentazione e in tempi di crisi è indicato mostrarsi sobri e asciutti. Ma, al di là dell’immagine, la sensazione positiva che offre il governo Monti si lega a quattro parole: credibilità, crescita, coesione e ricerca.

Nel Salone delle Feste del Quirinale non c’erano mai state tante televisioni straniere e questo è il motivo per cui, anche se non ne fossimo convinti, abbiamo il dovere di essere credibili: siamo un Paese sotto osservazione che ora deve onorare con tempismo la parola data. Credibili nel taglio delle spese, credibili nei modi e nei tempi di attuazione delle riforme e credibili nella direzione che verrà data all’Italia. La sensazione positiva in questo caso viene dall’aver scelto persone che hanno idee molto chiare e approfondite sui temi di competenza, che da una vita ragionano su problemi specifici (in questo caso penso a Elsa Fornero che ha indicato con chiarezza come debbano essere corretti gli squilibri e le ingiustizie del sistema pensionistico e di tutto il nostro Stato sociale).

Se Monti ha scelto di tenere per sé il ministero dell’Economia, proponendosi come guardiano e garante dei conti, ha però voluto creare per Corrado Passera un vero ministero dello Sviluppo capace di tenere insieme anche i trasporti e le infrastrutture, perché gli investimenti non possono che puntare sulla modernizzazione delle nostre reti, quelle materiali (strade, ferrovie, energia) e quelle immateriali (nuove tecnologie, a partire dalla banda larga per avere finalmente Internet veloce, allo sviluppo verde) per creare lavoro.

La crescita però non appare possibile senza coesione, senza provare a ricostruire un tessuto sociale che tenga insieme i territori ma anche tutta la nazione, e questo è il credo più profondo del nostro presidente della Repubblica. In quest’anno di celebrazioni dell’Unità d’Italia Napolitano non ha fatto che ripetere come sia necessario far crescere il Paese in modo armonico, perché se il divario tra Nord e Sud si amplia siamo destinati tutti al declino. Per questo è stato creato un nuovo ministero, alla Coesione territoriale, a cui si va a aggiungere un dicastero per l’Integrazione: la messa in pratica del discorso del Presidente a Mario Balotelli sulla necessità di dare un’appartenenza ai nuovi italiani.

Infine la scelta di Francesco Profumo, che ha trasformato il Politecnico di Torino ed era appena approdato al Cnr, ci dice che la ricerca può tornare finalmente al centro dell’agenda del Paese.

Abbiamo bisogno di guardare avanti, di scommettere sulle energie delle nuove generazioni, di dare una possibilità qui a chi fino a oggi ha preferito emigrare.

Ci sarebbe ora da ragionare sul quadro politico e sulla possibilità che questo governo possa procedere spedito in un Parlamento che è lo stesso della settimana scorsa, così si potrebbe essere tentati dal pessimismo, ma di fronte a qualcosa che nasce si ha l’obbligo di sperare. Intanto non possiamo che registrare con stupore l’energia di un Capo dello Stato che ha impresso una tale spinta da essere riuscito a garantire all’Italia un nuovo governo in meno di una settimana.

Ora che il governo c’è, il premier non sottovaluti l’attesa degli italiani per un segnale forte e chiaro: i primi tagli devono essere indirizzati verso le spese e i privilegi della politica, esempio virtuoso che renderebbe accettabile tutto il resto.

Con le professionalità messe in campo un primo passo fuori dalla palude è già stato fatto, tanto che il direttore di un giornale straniero mi ha chiamato mentre chiudevo questo pezzo per dirmi che aveva visto le immagini del giuramento: «Sembrate un altro Paese rispetto a quello della settimana scorsa, siete sempre capaci di stupirci, ma questa volta in positivo». Per una volta ho tirato il fiato.

Ps: La positiva sensazione di asciuttezza di Monti e del suo governo verrà certamente apprezzata dai nostri lettori e da molti italiani che da tempo desideravano un serio amministratore e non più un dispensatore di sogni, ma per noi giornalisti verrà una stagione di traversata del deserto: «Ci siamo dati la consegna del silenzio» hanno già risposto cortesi molti nuovi ministri, gettando nello sconforto la redazione. Ogni problema però è un’occasione, servirà anche a noi a ripensare il modo di fare informazione, sempre che tra una settimana l’aria dei Palazzi non faccia cambiare costumi anche ai nuovi inquilini.

 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9444
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« Risposta #76 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:24:03 pm »

27/11/2011

Il buon giornalismo sa valutare le notizie

MARIO CALABRESI

Siamo ancora necessari, ma il mondo fuori è completamente cambiato: i cittadini e i lettori non sono più passivi ma vogliono sapere tutto e su tutto vogliono intervenire», il direttore di El País ha vissuto in prima persona la grande tempesta e ora cerca di tracciare il profilo del nuovo mondo dell’informazione. A un anno esatto dall’esplosione del fenomeno Wikileaks sono andato a trovare Javier Moreno a Madrid per ragionare su cosa è successo ai giornali e ai loro lettori, su cosa è successo dal giorno in cui Assange gli consegnò una chiavetta contenente 250 mila documenti riservati, provenienti da 274 ambasciate americane. El Paìs selezionò un gruppo di giornalisti e li mise al lavoro giorno e notte, nel segreto più totale («ordinai a tutti - mi racconta - di non riferire a nessuno cosa stavano facendo, di non parlarne nemmeno agli amici più fidati, nemmeno ai mariti o alle mogli») per scoprire cosa ci fosse di valido in quelle centinaia di migliaia di dispacci diplomatici.

Il fatto che Assange, dopo aver messo in rete per anni milioni di documenti, si fosse deciso a consegnarli in anticipo a quattro quotidiani (tre europei e uno americano) e a un settimanale fu la dimostrazione del valore del metodo di analisi tradizionale, del fatto che il giornalismo mantiene intatta la sua missione. Di fronte a una tale massa di informazioni indistinte il lettore è destinato ad affogare e così tutto si perde nel mare della rete, senza riuscire a fare rumore e a provocare reazioni. Il lavoro giornalistico è stato invece capace di selezionare ciò che era degno di nota, che messo nel giusto contesto poteva servire a raccontare qualcosa di inedito e a scuotere il potere. Certo chi pensava che il giornalismo tradizionale sarebbe caduto sotto l’offensiva dei nuovi modi di comunicare, blog, social network e tonnellate di documenti diffusi in rete, ha preso un grande abbaglio, perché nessuno ha ancora mostrato di avere la capacità di trovare notizie e diffonderle come i mezzi di comunicazione tradizionali. «È vero - concorda Moreno - la nostra capacità di sintesi e analisi è ancora vincente ma fuori c’è tutto un mondo che non controlliamo più: il lettore grazie alla tecnologia vuole vedere ancora più a fondo e sapere sempre di più. Così a molta gente i giornali appaiono antichi, superati, troppo lenti e con meccanismi opachi».

Chi di noi - in questo caso parlo della categoria dei giornalisti - sottovalutasse il cambiamento (a partire proprio dall’atteggiamento diffidente e problematico dell’opinione pubblica nei confronti non solo del potere ma anche dell’informazione) è destinato a una lenta ma inesorabile estinzione. La rete e il moltiplicarsi delle informazioni che trasporta hanno modificato non solo la quantità di notizie che riceviamo ma anche la percezione con la quale le riceviamo: «Nei lettori - sottolinea il direttore del País - c’è sempre il sospetto che si nasconda qualcosa. Noi pensiamo di controllare il potere ma decine di migliaia di internauti controllano noi, assimilandoci all’establishment. È una relazione proficua ma anche tesa». Molti giovani, aggiungo io, non ci considerano cani da guardia del potere (il ruolo che la tradizione ci aveva assegnato) ma parte integrante del potere, una costola di questo. Eppure più del 90 per cento delle notizie, delle rivelazioni e degli scandali (il dato emerge dalla più seria ricerca mai fatta sull’argomento da parte del Pew Research Center di Washington) che oggi si possono leggere in rete sono venute a galla grazie al lavoro del giornalismo tradizionale.

«Una delle incomprensioni e il principale motivo della diffidenza - ne è convinto Moreno - nasce di fronte alla richiesta dei lettori di pubblicare tutto. Per esempio noi abbiamo avuto pressioni fortissime affinché pubblicassimo integralmente, sul nostro sito, tutti i 34 mila documenti riguardanti la Spagna. Ma io ho detto di no, che non volevo: avremmo creato un pericoloso precedente e saremmo venuti meno al nostro ruolo. Un giornale si definisce per quello che pubblica e per quello che non pubblica, se scaricasse tonnellate di documenti in rete allora abdicherebbe alla sua funzione». D’altronde gli ricordo il motto del New York Times «All the news that’s fit to print», tutte le notizie che vale la pena pubblicare, dove la parola chiave è «vale la pena». Non si pubblica qualunque cosa che si riceve, ma ciò che si ritiene portatore di valore, che serve a capire un fatto a svelare una storia. «Il giornalismo è decidere e scegliere - conclude - ma oggi il lettore vuole partecipare e dobbiamo imparare a metterci al suo stesso livello, ad ascoltarlo e a discuterci. Viviamo in un mondo completamente diverso e dobbiamo essere capaci di starci dentro, in tempo reale, ma senza perdere la nostra capacità di scelta».

Anche il potere dovrebbe riflettere sulla forza di questo cambiamento, sulla richiesta di trasparenza che arriva dai cittadini di tutto il mondo, e dovrebbe capire che al Cairo come a Milano o New York grandi cambiamenti sono spinti dalle tecnologie e dalla voglia di cambiare i rapporti di forza. I governi potrebbero essere tentati di dire che dopo una tempesta di notizie tutto è tornato come prima, in fin dei conti il sito allora più citato del mondo è ormai quasi silente, il suo fondatore è stato reso inoffensivo e aspetta un’estradizione, e le diplomazie (anche se un po’ malconce) hanno reso più sicuri e controllati i loro modi di comunicare. L’osservatore più superficiale o distratto potrebbe così pensare - commettendo un drammatico sbaglio - che 12 mesi dopo il mondo ha espulso le eresie e che il potere, in ogni sua forma, ha ristabilito i suoi codici. Invece come abbiamo visto, chiunque abbia sottovalutato la forza del cambiamento è stato spazzato via. Un anno dopo ci siamo chiesti però cosa abbia davvero significato Wikileaks, quali conseguenze abbiano avuto le sue rivelazioni e cosa sia cambiato. Per questo abbiamo pensato a questo inserto, per fare un po’ d’ordine nel grande rumore di fondo, per tirare i fili del discorso e per aiutarvi a capire, perché questo è ancora il dovere del nostro mestiere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9488
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 25, 2011, 11:28:39 am »

24/12/2011

2012, dato per morto potrebbe stupirci

MARIO CALABRESI

Il 2012 è un anno che nasce con lo strano destino di essere già stato giudicato: sarà nero. Nessuno sembra disposto a dargli un minimo di fiducia, una possibilità e nemmeno a sperare in un momento di luce. Tutti, anche quelli che in passato si professavano ottimisti, hanno già preso le distanze dai prossimi dodici mesi e mettono le mani avanti: «Meglio non aspettarsi niente» e passano direttamente a parlare del 2013.

Come tutti quelli che non hanno niente da perdere perché sono già stati dati per persi, il 2012 potrebbe riservarci invece delle sorprese e stupirci. Prima di tutto perché in un anno che parte dichiaratamente all’insegna delle difficoltà saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive. Lo dovrà fare l’Europa, spinta dai debiti, dalle pressioni dei mercati e dalla concorrenza asfissiante dei giganti che le stanno crescendo intorno. Lo dovrà fare l’Italia, a partire dalla sua classe dirigente e politica a cui nessuno sembra più disposto a perdonare i vizi storici dell’eterno rinvio, del privilegio e dello spreco. Lo dovremo fare noi cittadini che, messi di fronte all’impossibilità di continuare a vivere e a consumare come abbiamo fatto negli ultimi trent’anni, dovremo finalmente scegliere. Quando ci si trova di fronte ad un muro o si pensa di aver toccato il fondo è quello il momento di mettere da parte la paura e scegliere una strada per provare a uscire. Sapendo con chiarezza che stare fermi e mettersi in difesa non significherà conservare la posizione ma scivolare irrimediabilmente ancora più in basso.

Scegliere significa alzare lo sguardo dalle polemiche quotidiane e ricominciare a immaginare un futuro, significa capire che per investire su qualcosa che vale bisogna saper rinunciare a qualcos’altro che sembrava scontato. Scegliere significa smettere di tenere i propri figli protetti e al caldo ma insegnargli a avere di nuovo fame, a guardare lontano. Anche il resto del mondo sarà chiamato a scegliere, come vi raccontiamo in questo inserto che propone le migliori analisi del settimanale The Economist. Lo faranno gli americani, i francesi e i russi che dovranno decidere se cambiare gli inquilini di Casa Bianca, Eliseo e Cremlino, e lo faranno i cittadini di un Egitto che non sappiamo in che direzione andrà, come tutto ciò che resta delle primavere arabe.

La premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi ci racconta che questo sarà l’anno della ricerca di un nuovo equilibrio, in un mondo che - lo potete leggere nelle pagine dei commenti - è spinto verso modelli economici più consapevoli e rivaluta concetti come rispetto e frugalità. Ma sarà anche un anno di sfide olimpiche e di scoperte scientifiche, di matrimoni e di neonati soprattutto nel Paese più popoloso del mondo, la Cina, che considera l’anno del Drago il più fortunato per ricchezza e potere, quello in cui è ideale mettere al mondo un figlio. La citazione migliore per un anno delle scelte è di Albert Einstein: «Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9585
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« Risposta #78 inserito:: Aprile 04, 2012, 05:02:48 pm »

Politica

04/04/2012 - IL BILANCIO DEL LUNGO VIAGGIO IN ANSIA, LE RIFORME, I RAPPORTI CON LA MAGGIORANZA, GLI SCENARI

Monti: "Grande Coalizione nel 2013? E' possibile, la guarderò da fuori"

Il presidente del Consiglio spinge sulle riforme: «Importante non perdere il momentum»

Mario Calabresi
Roma

L’Italia deve diventare un Paese «prevedibile». Per Mario Monti, appena rientrato dal lungo viaggio asiatico, questa è la chiave della nostra ripresa e del recupero di credibilità. Essere prevedibili non è solitamente considerato un complimento ma, per l’uomo che ha fatto della normalità una bandiera, proprio di questo abbiamo bisogno per attrarre investimenti e capitali.
La scrivania di Monti a Palazzo Chigi è coperta di dossier economici e da tutte le classifiche esistenti sulla competitività: la sua missione è quella di cambiare la nostra immagine nel mondo. Per questo ripartirà già questo fine settimana, non prima però di aver portato al Quirinale il testo del disegno di legge sul lavoro, che non potrà «discostarsi significativamente» da quello varato. Il premier, che indossa una cravatta rossa, appare sereno e spera di farcela in tempi brevi.

Lei è appena tornato dall’Asia, dopo essere stato negli Stati Uniti e nelle maggiori capitali europee, che percezione ha trovato dei cambiamenti dell’Italia?
«La cosa che mi ha colpito di più è stata proprio l'intensità di questa percezione e la sua diffusione, in qualche modo me l'aspettavo da quando le cose hanno cominciato a girare bene, ma non che interlocutori come il presidente cinese, il primo ministro indiano o quello pakistano fossero così informati sulla nostra azione di contenimento del disavanzo e sulla velocità con cui abbiamo approvato la prima parte delle riforme. C'è la chiara sensazione che l'Italia possa fare la differenza ai fini della salute finanziaria dell’Eurozona».

Ci sono state critiche per la lunghezza del suo viaggio in Asia.
«In Italia ho sentito dire che la Cina è la fonte di tutti i problemi, ma queste reazioni mi sembrano non solo sottovalutare l'importanza che ha oggi, ma anche quanto sia utile per l'Italia. Ho fatto questo viaggio sia perché credo che l'attenzione verso questi Paesi sia nei nostri interessi, sia per abituare gli italiani a considerare questi Paesi cruciali per la crescita economica e a non ragionare più soltanto in ottica di decisioni europee. E' tempo di cambiare i giudizi che diamo un po’ superficialmente e in base ai vecchi tabù. Non mi riferisco qui alla questione dei diritti umani, che è estremamente seria e che ho sollevato con gli interlocutori cinesi, ma al fatto che consideriamo i cinesi dei pubblici disturbatori di un mondo del passato che crediamo esista ancora e del quale siamo convinti di fare tuttora parte».

In questo mondo nuovo e in evoluzione cosa ci manca per essere competitivi e attrarre investimenti stranieri?
«Direi che ci manca una coltivazione sistematica e di lungo periodo dell’immagine del Paese. Non tanto in senso superficiale quanto nel fare in modo che i principali Paesi investitori e le loro imprese possano capire come ragiona l'Italia e considerino quindi prevedibile e stabile la sua politica economica nel tempo. Questo richiede un’opera pedagogica sia all’esterno sia all’interno: è importante che le élite economico-politiche internazionali sentano che l'Italia è un’entità comprensibile, prevedibile e che, pur con le sue particolarità, è come uno di loro».

Ma cosa dobbiamo fare nel concreto?
«Per creare un ambiente favorevole agli investimenti ci sono ancora progressi da fare sulla sicurezza e sulla lotta alla criminalità, motivo per cui domani andrò a Napoli e prossimamente a Palermo. Ci sono poi l'alleggerimento della burocrazia, la tempestività della giustizia per le imprese e una carenza di infrastrutture e c’è l’aspetto cruciale della prevedibilità delle regole».

Lei insiste molto su questo concetto di prevedibilità, cosa significa?
«Le confesso che quando alla fine di dicembre abbiamo visto scattare, per un automatismo delle convenzioni, oltre ai tanti aumenti da noi determinati per esigenze di bilancio, anche quello abbastanza cospicuo dei pedaggi autostradali, abbiamo avuto la tentazione di bloccarli o di differirli. Ma quella sarebbe stata una modifica di contratti in essere e sarebbe stato un argomento in più per dire che gli italiani sono quelli che cambiano le carte in tavola. Se vogliamo invece avere investimenti dobbiamo essere prevedibili».

Lei sembra usare i viaggi come termometro della sua azione di governo.
«Oltre all’Asia per me è stato molto significativo il viaggio a Belgrado dove ho incontrato parecchi imprenditori italiani che si sono stabiliti anche in Serbia, come ha fatto da ultimo la Fiat, e mi sono chiesto se la loro sia o no una delocalizzazione perversa. Perché non sia perversa bisogna poterla vedere come una internazionalizzazione di imprese che mantengono il loro baricentro in Italia. Ma se le condizioni di accoglienza in Italia non sono competitive e attraenti allora gli imprenditori non ci penseranno troppo prima di spostarsi del tutto all’estero. Il caso della Serbia mostra che la battaglia per rendere più attraente l'Italia come luogo di produzione è una battaglia importante sia per attrarre investimenti all'estero sia per far sì che una buona parte degli investimenti delle nostre imprese avvenga in Italia. E questo naturalmente ci riporta al mercato del lavoro».

Questo ci riporta al centro del dibattito italiano, Bersani chiede di vedere cambiamenti alla riforma del lavoro, fino a che punto possiamo aspettarceli?
«Io credo che dovremmo cercare tutti di ragionare meno in termini brevi per essere capaci di orientarci al medio-lungo periodo, soprattutto quando si ragiona di politiche pubbliche. Non si può fare la quotazione oraria delle probabilità che una riforma vada in porto, purtroppo o per fortuna la natura, le persone, i documenti, le carte e le idee hanno dei tempi di evoluzione e di maturazione. È curioso che l’altroieri, mentre volavo sui cieli dell’Asia, o forse proprio per quello..., c’era ottimismo sulla possibilità di un accordo sulla riforma del mercato del lavoro e poi invece ieri meno».

Che tipo di modifiche è disposto ad apportare?
«Il disegno di legge che è in corso di finalizzazione da parte del governo non si discosterà significativamente da quanto è stato tratteggiato nel documento che varammo al Consiglio dei ministri».

Quando sarà sottoposto al capo dello Stato?
«Al più presto».

In che tempi pensa possa essere approvato?
«Molto rilevanti per l’impatto complessivo della riforma non sono soltanto i suoi contenuti ma anche la velocità con la quale il Parlamento svolgerà il suo doveroso e attento esame. Se, anche senza il decreto legge, i tempi saranno rapidi allora questo gioverà molto e servirà a mostrare all'Italia e al resto del mondo che il processo di riforme non ha subito un momento di arresto. È importante non perdere il “momentum”».

Cosa chiederà ai leader politici nei suoi incontri?
«Nelle prossime ore cercheremo di avere un alto grado di consenso delle tre principali forze politiche in modo da avere la fondata attesa di un percorso rapido e non tale da mutare la fisionomia del disegno di legge».

Ma come è possibile conciliare l’alto grado di consenso con la scelta di non modificare significativamente il disegno di legge?
«Noi consideriamo esaurita la fase di consultazione con le parti sociali, sappiamo che ogni partito ha il suo retroterra in termini di parti sociali e di culture, ma penso che ogni leader dovrà esercitare capacità di leadership, senza aspettare che il cento per cento del suo mondo di riferimento sia d'accordo con lui. Ma quando parlo di alto grado di consenso mi riferisco al rapporto tra i tre partiti e il governo, un accordo per dare una fiduciosa speranza che il percorso sia abbastanza scorrevole, pur tenendo conto che di mezzo ci sono le elezioni amministrative e che questo non semplifica né il calendario né la serenità dei lavori».

Pensa che questo obiettivo potrà essere raggiunto?
«Se riusciremo in questo, facendo appello ancora una volta a quel notevole grado di responsabilità di cui hanno dato prova i partiti che ci sostengono, allora non solo avremo portato a casa in tempi ragionevoli la quarta e cruciale riforma ma lanceremo un ulteriore segnale di fiducia anche all’estero. E questo significherebbe che l'Italia sta davvero cambiando, al di là di questo particolare e breve governo».

E’ necessario un nuovo vertice con i partiti di maggioranza su questi temi?
«Vertici ce ne sono stati e ce ne saranno, il fatto che mi incontri con i tre leader di partito non deve essere considerato un segnale di emergenza, è assolutamente naturale».

In questa intervista ha sottolineato come il mondo chieda all’Italia di essere «prevedibile» e insieme ha parlato di governo breve, anche lei sa che il grande interrogativo è proprio legato a questa incertezza su cosa succederà tra un anno. Chi garantisce che questi comportamenti virtuosi non verranno abbandonati?
«La garanzia non la può dare nessuno. Io però sono fiducioso che questo avverrà perché se questi partiti hanno avuto la capacità di intesa e di trovare un terreno comune pur senza avere il beneficio del protagonismo diretto, allora anche in una nuova fase di governi politici, in cui si assumeranno in prima persona la responsabilità di governare con i loro leader, l'interesse al buon esito sarà ancora maggiore».

Ma in che quadro politico immagina tutto ciò?
«Se la situazione del Paese lo richiederà ancora, allora immagino che saranno anche disposti a mettere a frutto l’acquisita capacità di dialogo tra loro per pensare a soluzioni larghe, a grandi coalizioni. Penso a quelle formule che in passato venivano auspicate ma subito fatte oggetto di sorriso benevolo, in quanto dichiaratamente impossibili, ma che proprio l'esperienza attuale mostra come possibili. Già in un’intervista a La Stampa nel 2005 avevo detto che ci sarebbe voluta una grande coalizione per fare le riforme: mi attirai solo critiche o giudizi di irrealizzabilità ma alla fine mi pare che proprio questo sia successo».

Lei insiste anche sulla necessità di cambi culturali nel Paese.
«In questa fase abbiamo visto come reagiscono gli italiani a sentirsi dire, anche con linguaggio schietto, che occorre fare certe cose che pesano. Per cui ogni volta che penso ai cambiamenti nella società e nella politica mi convinco ancor di più che i comportamenti virtuosi non saranno abbandonati. E sarà bello guardare tutto questo dal di fuori».

La Commissione europea, in un documento circolato a margine dell’Eurogruppo riportato ieri da «La Stampa» e dal «Financial Times», sostiene anche che gli sforzi dell’Italia «potrebbero essere minacciati da un profilo di bassa crescita e tassi di interesse relativamente alti» tanto che il suo governo «deve essere pronto a prendere eventuali altre iniziative di bilancio».
«Abbiamo assunto tutte le misure per centrare gli obiettivi e ci siamo anche presi dei margini di sicurezza che consentirebbero il risultato del bilancio in pareggio anche con ipotesi più sfavorevoli di quelle previste a dicembre. Prima di tutto non abbiamo calcolato nessun provento dalla lotta all’evasione, che pure abbiamo molto potenziato, e poi abbiamo tenuto un'ipotesi di tassi di interesse sul debito pubblico per tutto il 2012 al livello di fine novembre (il 7 per cento sui titolo decennali), un'ipotesi che si è rivelata, almeno per ora, effettivamente pessimistica.
«Abbiamo un obiettivo molto ambizioso ma ci siamo lasciati dei margini e per questo non crediamo proprio che un eventuale andamento più negativo dell’economia reale imponga una nuova manovra».

Ma perché l’Italia deve avere un obiettivo così impegnativo?
«Non ho scelto io l'obiettivo del bilancio in pareggio nel 2013 ma è stato stabilito dal presidente Berlusconi, durante la scorsa tumultuosa estate, per dare il senso dell’intensità dell’impegno dell’Italia. Quando sono arrivato qui ero ben consapevole che era un obiettivo più ambizioso di quello di gran parte dei Paesi europei, ma abbiamo valutato che non sarebbe stato opportuno rimetterlo in discussione, pena una perdita di credibilità».

Lo spread lo guarda spesso?
«Sì, sì, ma meno di altri. Nei vari incontri avuti con la signora Merkel mi sono sentito dire che negli ultimi dieci minuti c'era stato un miglioramento…».

Sotto che soglia siamo al sicuro?
«Si potrebbe dire zero, ma è meglio guardarsi dalle affermazioni temerarie. Sono giudizi relativi, l'importante è che lo spread con il bund continui a scendere».

Non la preoccupa un Paese che non cresce?
«Abbiamo lavorato per evitare la soluzione peggiore: le misure prese stanno avendo e avranno un effetto recessivo ma che va comparato con lo scenario greco, non con uno scenario di crescita che non era dato. Abbiamo evitato di finire come la Grecia, ora i provvedimenti di crescita richiedono più tempo. Mi rendo conto che sarebbe bello avere un maggiore tasso di crescita economica, non solo per il benessere dei cittadini italiani e per avere più occupazione ma anche perché questo renderebbe il nostro mercato interno più appetibile per le imprese straniere. Questo siamo convinti che verrà, grazie alle riforme, ma non è purtroppo una cosa realizzabile nel brevissimo periodo, dove semmai avremo effetti opposti dovuti alle misure di contenimento del disavanzo».

La disoccupazione aumenta, soprattutto quella giovanile, e c’è un effetto di calo dei consumi dettato dall’aumento delle tasse e dall’inflazione, quando si vedranno gli effetti positivi delle manovre?
«La crescita in Italia è da 12 anni almeno pari alla metà di quella dell’eurozona: ho spesso elogiato l’attenzione prestata dal governo precedente alla tutela dei conti pubblici ma ho anche criticato la tardiva presa di consapevolezza, dopo una lunga sottovalutazione del problema, dell’inadeguatezza della crescita italiana. Per lungo tempo non sono state fatte le riforme strutturali necessarie e tutto quello che riguardava le liberalizzazioni veniva ritenuto impossibile o poco realistico a meno che si modificasse l'articolo 41 della Costituzione. Per inciso, noi ne abbiamo fatte molte ma la Costituzione non l'abbiamo toccata. Ciò che abbiamo cercato di fare è stato conseguire gli obiettivi di consolidamento mettendo però dosi di rispetto della crescita e con la riforma delle pensioni abbiamo tolto un elemento di squilibrio grave e di lungo termine».

Non c'è niente che si può fare nel breve periodo?
«Certo non possiamo disinteressarci degli aspetti sociali di sofferenza e per questo stiamo pensando a degli interventi, ma i margini sono effettivamente ristretti e saranno molto selettivi perché non sono più possibili iniezioni di spesa pubblica in disavanzo. È però vero che la riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico dà un po’ di respiro e che se riprendono afflussi di capitali finanziari e investimenti industriali dall’estero tutto questo comincerà a avere effetti e cambierà non solo la situazione ma anche il vissuto psicologico».

Intanto assistiamo anche a fatti terribili come i suicidi di imprenditori e artigiani.
«Sono cose drammatiche, anche in Grecia i suicidi sono molto aumentati, l’unica risposta adeguata e seria che possiamo dare è quella di risanare e rilanciare il Paese».

Da chi si sente più sostenuto nell’azione di governo?
«Sinceramente molto più di quanto immaginassi dai governi esteri, ma sostanzialmente dai due estremi: dall’opinione internazionale e da coloro che sulla carta avrebbero dovuto essere i più sofferenti, cioè i tre leader della maggioranza».

Com'è il rapporto con Silvio Berlusconi?
«Superata una fase iniziale di normale adattamento a una situazione nuova, il mio predecessore ha manifestato un importante e continuo sostegno. Sulle grandi questioni internazionali lo tengo informato e partecipe e gli chiedo suggerimenti».

Qual è stato il momento personale più positivo di questi mesi?
«È stato un momento non negativo: quando sono andato in Parlamento per la prima volta a presentare il programma e ho visto che reggevo a questa situazione per me totalmente nuova, allora ho capito che, pur da estraneo, avrei potuto cercare di operare in questo mondo, pro tempore».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/448969/
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« Risposta #79 inserito:: Aprile 06, 2012, 03:23:21 pm »

Politica

06/04/2012 - INTERVISTA AL MINISTRO

Fornero delusa da Marcegaglia: "E' il teatrino delle parti sociali"

«Sconcertata dalle demonizzazioni. Abbiamo pensato all'interesse generale e non a favorire una parte o l'altra, facciano tutti così»

MARIO CALABRESI

Per anni hanno biasimato il “teatrino della politica” e ora ci tocca assistere al “teatrino delle parti sociali”: io sono sconcertata da questi cambi di fronte e dal fatto che sia sempre necessario demonizzare qualcuno, è davvero un segno di immaturità del Paese». A tarda sera Elsa Fornero non riesce a trattenere l’irritazione per l’offensiva del mondo imprenditoriale contro la riforma del lavoro e per le dichiarazioni fortemente critiche rilasciate da Emma Marcegaglia in un’intervista al Financial Times. «E’ una reazione incomprensibile - sottolinea il ministro del Lavoro - di fronte a un cambiamento marginale e ragionevole che non stravolge certo il senso della riforma».

Il presidente uscente di Confindustria ha detto testualmente: «The text is very bad», ossia che la riforma del lavoro è pessima.
«Prima di tutto bisognerebbe essere responsabili anche nei messaggi che si mandano ai mercati e all’estero, bisognerebbe davvero recuperare una rappresentazione corretta e non distorta delle cose e poi, prima di rilasciare certe dichiarazioni, l’articolato avrebbe meritato una lettura più pacata e attenta».

Vi si accusa di aver fatto marcia indietro.
«Il governo non ha fatto nessuna marcia indietro, le modifiche apportate non sconvolgono l’impianto né fanno venir meno la spinta innovativa della riforma: l’unica novità che c’è nella riforma dell’articolo 18 è aver inserito la clausola della “manifesta insussistenza” dei motivi economici come possibilità di reintegro».

Però la variazione ripropone il reintegro anche nei licenziamenti per motivi economici.
«La verità è che abbiamo modificato lievissimamente la riforma dell’articolo 18, abbiamo solo inserito la norma secondo cui in caso di manifesta insussistenza il giudice può stabilire il reintegro, il resto è rimasto uguale. Il giudice non viene chiamato ad entrare nello specifico del motivo economico o nel merito della gestione di un’azienda ma può solo stabilire se c’è una insussistenza chiara e manifesta del motivo e poi abbiamo scritto “può” non “deve” reintegrare».

Marcegaglia però ha spiegato che il testo non è quello che avevate condiviso, riferendosi alla prima proposta del governo, presentata alle parti sociali.
«Con le parti sociali c’è stato un lungo dialogo ma nessun accordo e nessuna concertazione, l’accordo invece bisognava trovarlo con i partiti politici che sostengono questo governo e che dovranno approvare il disegno di legge in Parlamento».

E cos’è successo al vertice di martedì sera?
«C’è stato un lungo confronto e poi Alfano e Casini hanno teso la mano a Bersani, nel senso che gli sono andati incontro per cercare una sintesi tra le forze che insieme sostengono il governo. Così si è deciso di aggiungere la possibilità di reintegro del lavoratore da parte del giudice, ma con limiti ben precisi, una cosa di assoluto buon senso».

Non può negare che ci sia stata una concessione a Bersani e alla Cgil nel vertice.
«Non ci sono vincitori e vinti ma una soluzione equilibrata che non ha smantellato l’impianto, mi sembra un tantino esagerato questo cantare vittoria da parte della sinistra».

Che cosa la disturba di più nelle critiche di questi ultimi due giorni?
«Siamo partiti che l’articolo 18 era un totem intoccabile, tutti scommettevano che non saremmo riusciti a fare alcuna modifica, invece noi l’abbiamo riformato e adesso le imprese ci dicono che non è cambiato niente. E poi sembrano far finta di non vedere le cose che hanno portato a casa».

A cosa si riferisce?
«Sembrano dimenticare che nello stesso vertice però si è venuti incontro anche alle esigenze delle imprese allungando da un lato i tempi e dall’altro allentando le restrizioni messe sui contratti non a tempo indeterminato. Per esempio: le aziende avranno un anno di tempo per far emergere i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che oggi sono presentati come partite Iva; poi abbiamo tolto la necessità della causale per i contratti a tempo determinato di sei mesi e per i primi contratti. Per quanto riguarda l’apprendistato abbiamo cambiato il rapporto tra lavoratori e apprendisti: prima era uno a uno, adesso puoi avere tre apprendisti ogni due lavoratori. Inoltre prima potevi assumere nuovi apprendisti solo se ne avevi confermati almeno la metà nel triennio precedente, invece adesso per i prossimi tre anni la soglia è abbassata al 30 per cento. Ma non solo: rispetto alla stesura precedente è stato ridotto l’indennizzo che era previsto in una forbice tra le 15 e le 27 mensilità e che ora sarà tra 12 e 24. Infine abbiamo lavorato per rendere più rapidi e veloci i processi e abbiamo inserito l’elemento della conciliazione preventiva. Perché tanta sfiducia?».

Certamente uno dei motivi della reazione è legato al ricorso ulteriore alla magistratura.
«Beh, le dirò che non mi aspettavo una sfiducia così aperta nei confronti dei giudici, se si vuole il cambiamento non lo si può costruire sui pregiudizi. Salvo che si pensi che i giudici sono tutti ideologizzati: cosa difficile da sostenere. E’ una reazione incomprensibile che mi sembra risponda più a logiche interne che a fatti reali».

Niente da rimproverarsi?
«Il governo ha pensato al Paese, non a favorire una o l’altra parte, lo facciano tutti, sono anni che chiedono a gran voce di far prevalere l’interesse generale e ora c’è l’occasione..., bisognerebbe smettere di pensare solo alla propria parte, solo agli interessi di bottega».

E adesso cosa farà come ministro del Lavoro?
«Sarei ben felice di fare un confronto pubblico, anche in televisione, con Emma Marcegaglia per spiegare la riforma e come stanno le cose, perché bisogna fare chiarezza e perché non è possibile fare marcia indietro in questa maniera».

In che senso marcia indietro?
«Nel senso che non è cambiato quasi nulla rispetto ad un testo che era accettato da tutti tranne che dalla Cgil e adesso sembra di essere passati all’opposto: io faccio ancora fatica a comprendere questa giostra».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/449223/
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« Risposta #80 inserito:: Aprile 15, 2012, 11:29:44 am »

15/4/2012

Strage di Brescia, ora il governo cancelli l'ultima ferita

MARIO CALABRESI

La sentenza pronunciata ieri non chiude per sempre una storia di dolore cominciata il 28 maggio 1974 in una piazza del centro di Brescia. Non è l’ultima parola: non dobbiamo e non possiamo pensare di essere condannati a vivere nella nebbia e nei misteri.

Ora la verità storica dovrà colmare le lacune della giustizia mancata. Molta strada è stata fatta, tanto che sono chiare responsabilità e complicità, ma molto resta da fare, perché dagli archivi dello Stato possono ancora uscire carte importanti per dare un quadro definitivo della stagione delle stragi.

Ma prima di ogni altra cosa il governo Monti deve cancellare un insulto: deve farsi carico delle spese processuali, al cui risarcimento sono stati condannati i familiari delle vittime. E’ una cosa intollerabile, che richiede un gesto forte e chiaro.

Non è la prima volta che accade: già nel 2005, al termine dell’iter giudiziario per la strage di Piazza Fontana, alle parti civili - anche allora rimaste senza giustizia - la Cassazione chiese di pagare i costi del processo. La sentenza fece scalpore, tanto che il governo Berlusconi decise di farsi carico di tutte le spese processuali, sottolineando di «considerare tale impegno come un atto di doveroso rispetto e di solidarietà per i familiari delle vittime». Anche oggi non resta che correre ai ripari per evitare una doppia ferita a chi ieri sera è tornato a casa svuotato e pieno di amarezza dopo decenni di battaglie dentro e fuori dai tribunali.
Certo questa beffa si sarebbe potuta evitare modificando la legge in modo da non ripetere scandali come questo.

La sentenza di assoluzione però non era inattesa, come racconta - intervistato da Michele Brambilla - il fondatore della Casa della Memoria di Brescia, Manlio Milani: «Sulle responsabilità personali le prove non erano sicure e capisco che i giudici vogliano certezze». Ma restare senza giustizia è doloroso e umiliante.

Questo processo però non è stato inutile, le oltre millecinquecento testimonianze raccolte negli anni e le centinaia di migliaia di pagine di documenti ci offrono un quadro di verità che va divulgato e consolidato: la strage di Piazza della Loggia fu pianificata e realizzata da estremisti di destra che godettero prima e dopo il massacro di complicità e coperture da parte di uomini dei nostri servizi segreti.

Perché questo quadro possa entrare nei libri di storia è ora fondamentale una sentenza che, pur assolvendo, sia capace nelle sue motivazioni di indicare i punti fermi a cui si è potuti giungere nel dibattimento. Per consolidarlo però è necessario l’intervento della politica che, come sottolinea Milani, deve ancora emanare i decreti applicativi della legge del 2007 sul segreto di Stato. Si potrà così capire se esistono ancora armadi da aprire capaci di rischiarare definitivamente la stagione delle stragi.

E’ fuori dai tribunali e dal Parlamento però che dovrà continuare la battaglia più importante, quella per tenere viva la memoria, per non lasciar sprofondare il Paese nell’ignoranza e nel disinteresse.

Pochi giorni fa sono stato al liceo Majorana di Moncalieri dove i docenti di storia hanno fatto un’indagine tra gli studenti per capire che percezione avevano degli Anni di Piombo. Hanno chiesto a 278 di loro chi fossero gli autori della strage di Piazza Fontana: secondo il 45 per cento sono state le Brigate Rosse, per il 23 per cento la mafia, mentre solo il 16 per cento ha indicato correttamente gli estremisti di destra di Ordine Nuovo.

I professori però non si sono fatti prendere dallo sconforto e, come sta succedendo in molte scuole italiane, hanno organizzato un lavoro approfondito per far conoscere la verità storica. Ora i ragazzi hanno chiaro cosa è successo nel nostro Paese negli Anni Settanta e quel sondaggio può essere dimenticato.

Di questo lavoro prezioso di testimonianza Manlio Milani è uno dei più instancabili protagonisti, la sua Casa della Memoria è uno degli esempi migliori dell’Italia che non si arrende all’oblio. Nonostante la sentenza di ieri provochi sgomento, il suo impegno non è stato sprecato, anzi assume un valore ancora maggiore.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9996
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« Risposta #81 inserito:: Aprile 17, 2012, 12:05:31 pm »

Cultura

17/04/2012 -

Anna Lisa, il coraggio di parlare e condividere rompendo il muro delle frasi fatte

Dal libro di Anna Lisa Russo "Toglietemi tutto ma non il sorriso" (Mondadori), riproduciamo la parte finale dell’introduzione di Mario
Calabresi.


MARIO CALABRESI

Anna Lisa ha avuto il coraggio di essere leggera, ironica, spiritosa, perfino sfrontata, anche se questo può sembrare fuori posto a chi pensa che i malati debbano stare chiusi nella loro condizione e non sfidarci a rompere luoghi comuni e tabù: «Credo che la mia autoironia» ha scritto pochi giorni prima di cominciare un ciclo di chemio «stia dando fastidio a molti. Sono troppo dissacrante, cinica a volte, too much ironica. Gente mia, dovrei ammazzarmi di già? Non ne ho ancora voglia... Sabato, per esempio, sono andata dalla parrucchiera. Mi son fatta una testa tutta riccioluta. Fra due giorni saranno lisci come prima, però avevo voglia di vedermi così (strafica) per l’ultima volta. Che male c’è?».

Non c’è nessun male – viene da risponderle –, anzi, solo grazie a te capiamo quante piccole umiliazioni e prove ci siano in un percorso di cure. Anna Lisa rifiutava l’idea di tagliarsi i capelli prima di cominciare la chemioterapia, non voleva, resisteva, le sembrava di darla vinta alla malattia. Così le venne in mente di mettere a punto un decalogo di «Frasi da non dire» a chi è malato, frasi da evitare perché, sotto l’apparente incoraggiamento, nascondono umiliazione e aggiungono dolore.

La seconda lezione di questo decalogo recita che è vietato dire: «Tanto i capelli ricrescono» oppure «Vedrai come sarai bella del tuo colore». «Ok,» replicava Anna Lisa «allora rasatevi tutti a zero. Oppure fatevi un giretto di chemio». E a proposito del colore naturale: «Se mi piacevo del mio colore mi facevo bionda?».

Frasi da non dire, sesta lezione: «Ma non te ne eri mai accorta? E nemmeno il tuo ragazzo?». «Sì, ce ne eravamo accorti entrambi, ma era il nostro segreto. Peccato, ci hanno scoperto».

In questo suo modo sfrontato di rispondere c’è il coraggio di raccontare, di parlare, di condividere, di rompere la crosta dell’indifferenza e il muro delle frasi fatte, delle uscite di circostanza. E sotto si sente la voglia di continuare ogni giorno a sognare, a sperare, a progettare.

Si potrebbe cinicamente obiettare che tanto poi non ce l’ha fatta, ma io non dubito che Anna Lisa sia stata vincente: ha vissuto fino alla fine, nel significato più vero del termine.

Ha vissuto con coraggio, ha avuto giorni di dolore, di pianto, di vuoto, di paura, molti di rabbia, ma è riuscita a trovare attimi di gioia, di speranza; e vivere così, senza abbandonarsi alla disperazione, è il regalo migliore che ognuno di noi si possa fare. Se ci può essere ancora un attimo di felicità o di amore, anche lì dove tutto appare finito, perché rinunciarci?

E allora la scopriamo ormai malatissima che fa un corso per diventare sommelier e poi uno di apicoltura, con curiosità e passione vera, profonda. Grazie a questo, a me ora, oltre a un’indimenticabile lezione di vita, resta il miele d’acacia dell’Apicoltura AndreAnna, l’ultima delle sue fragole. Sull’etichetta ha messo una poesia di Trilussa: «C’è un’ape che si posa su un bottone di rosa: lo succhia e se ne va… Tutto sommato la felicità è una piccola cosa». Lo mangio a piccolissime dosi e guai a chi me lo tocca. Vorrei solo che non finisse mai. Grazie Anna Lisa.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/450424/
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« Risposta #82 inserito:: Maggio 10, 2012, 11:38:11 pm »

10/5/2012

Il dovere di "farsi carico"

MARIO CALABRESI

Esiste un’idea capace di salvare la politica, di restituirle quella dignità che sembrerebbe irrimediabilmente perduta? Ieri mattina ho ascoltato Giorgio Napolitano celebrare per l’ultima volta il Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi e ho pensato che la risposta è racchiusa in due sole parole: «Farsi carico».

Mentre il Presidente parlava mi è tornata in mente una sera di quattro anni fa quando, nella stazione dei vigili del fuoco di un piccolissimo paesino dell’Iowa, mi capitò di ascoltare Hillary Clinton parlare a un gruppetto di elettori del suo partito. Uno le chiese cosa fosse la politica e lei rispose: «Fare la differenza nella vita della gente». Alla fine, prima di andarsene, si accorse che vicino all'uscita era rimasta solo un’anziana madre con un figlio disabile sulla sedia a rotelle. Non c’erano telecamere o fotografi, se ne erano andati tutti, ma Hillary si avvicinò e si mise ad ascoltare il lungo sfogo di questa donna che le parlò delle paure per il futuro del suo ragazzo.

La Clinton si mise a spiegarle a quali assistenze avrebbe potuto rivolgersi e le raccontò come avrebbe voluto cambiare una legge. Andarono avanti per quasi venti minuti. Guardando il volto rasserenato di quella donna, che si sentiva finalmente compresa, mi resi conto di cosa significa «farsi carico» dei problemi dei cittadini.

Significa prima di tutto ascoltare, capire di cosa c'è bisogno, immedesimarsi nelle difficoltà delle persone e poi avere il coraggio di sfuggire dagli slogan, per cercare soluzioni oneste e rispettose della complessità.

Cinque anni fa la memoria del terrorismo e delle stragi e delle sue vittime era un campo di macerie, pieno di rabbia, dolori, rancori e polemiche ideologiche. La prassi politica corrente avrebbe suggerito di tenersene alla larga, limitandosi a qualche ricordo di maniera. Giorgio Napolitano invece ha avuto il coraggio di accollarsi il problema, di dare un contenuto vero a una giornata che il Parlamento aveva appena istituito ma che era tutta da inventare. «Queste Giornate ha spiegato -, il ricordo di quegli uomini e di quelle donne come persone, la vicinanza al dolore delle loro famiglie, la riflessione intensa su quelle vicende, su quel periodo di storia sofferta, di storia vissuta sono stati in questi anni tra gli impegni che più mi hanno messo alla prova e coinvolto non solo istituzionalmente, ma moralmente ed emotivamente. Hanno messo alla prova la mia capacità di ascoltare e di immedesimarmi, la mia responsabilità di lettura imparziale, equanime di fatti che chiamavano in causa diverse ed opposte ideologie e pratiche politiche».

E’ stata fatta una grande opera di ricomposizione, di ricostruzione e di trasmissione della memoria, si sono costruiti percorsi preziosi e utili in tempi di nuova crisi «per porre un argine insuperabile a ogni rigurgito di violenza». Giorgio Napolitano si è emozionato e commosso ricordando la delusione per la «giustizia incompiuta» e il coraggio di chi ha superato barriere un tempo considerate insormontabili.

Questo suo impegno è stato capace di fare la differenza, di diventare un punto di riferimento e resterà un esempio di cosa possono essere la politica e le Istituzioni.

Perché l’unico antidoto all’insulto, allo smarrimento, a quell’aridità che ci condanna a non avere più sogni e fame di futuro è la fatica dell’impegno quotidiano, è la capacità di farsi carico dei problemi e dei bisogni che ci circondano ed è anche la capacità di commuoversi. Per non essere condannati al cinismo abbiamo bisogno di ascoltare e di lasciarci coinvolgere, di riconoscere i bisogni di chi fa parte della nostra comunità, e questo vale per tutti, non solo per i politici o per i presidenti.

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10085
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« Risposta #83 inserito:: Maggio 11, 2012, 12:36:49 pm »


11/5/2012

Il dramma dei suicidi oltre le cifre

MARIO CALABRESI

La nostra paura del futuro aumenta ogni giorno, c’è una continua perdita di fiducia e di speranza e l’attenzione degli italiani è calamitata dalle notizie di chi si toglie la vita, le più lette in assoluto nelle ultime settimane.

Un lettore di Modena, rappresentativo delle centinaia di e-mail che arrivano qui al giornale da settimane, mi scrive angosciato che «suicidi per motivi economici, fallimenti di impresa e debiti anche fiscali, stanno aumentando di giorno in giorno in maniera preoccupante». Il presidente del Consiglio e il primo partito della sua maggioranza duellano sulle responsabilità della crisi e sulle sue conseguenze, evitando solo di pronunciare la parola suicidio, di gettarsi addosso l’accusa più grave e infamante.

Ma stiamo discutendo di un fenomeno davvero nuovo, che non conoscevamo prima, esploso soltanto negli ultimi tre mesi, o di qualcosa che per anni non abbiamo visto e abbiamo sottovalutato? I numeri sembrano dare ragione alla seconda ipotesi e ci dicono quanto la nostra percezione dei fatti possa cambiare influenzata dalle nostre ansie e dall’enfasi con cui le notizie vengono date sui mezzi di informazione.

Se guardiamo al 2010, l’anno più vicino su cui ci siano cifre ufficiali, scopriamo con spavento che ci sono stati 3048 suicidi, di cui, secondo l’Istat, 187 «per motivazioni economiche». Uno ogni due giorni, una frequenza apparentemente maggiore di quella che abbiamo registrato dall’inizio dell’anno (nel 2012 i casi di questo tipo sembrerebbero essere una quarantina). Secondo l’istituto di ricerche economiche e sociali, l’Eures, le morti dettate da ragioni di fallimenti, debiti e disoccupazione nel 2010 erano addirittura una al giorno. La prima cosa che mi colpisce è il silenzio che abbiamo dedicato a queste persone, li abbiamo lasciati andare via senza accorgercene, senza nemmeno saperlo, senza che nessuno si stringesse alle loro famiglie. Alcuni di loro forse hanno conquistato una notizia nelle pagine locali, per molti altri solo il silenzio della sepoltura.

Tutta colpa dell’informazione, che prima ha sottovalutato e adesso gonfia? Ma se i suicidi non sono aumentati, allora cosa sta succedendo? La risposta, come quelle che sono davvero credibili, non si può racchiudere in una parola ma ha più motivazioni.

La prima si può spiegare leggendo l’ultima notizia arrivata ieri: a Pompei un imprenditore edile si è sparato nel parcheggio del Santuario lasciando una lettera di scuse per la famiglia e una di accuse contro Equitalia.

Ecco che cosa è cambiato: prima il suicidio, che è innanzitutto un dramma personale e familiare si teneva nascosto, c’era la vergogna di pubblicizzarlo, il dolore era muto e il silenzio totale. Perfino i giornali hanno sempre mostrato pudore. C’era poi nella nostra tradizione e nella dottrina cattolica il problema dei funerali, che potevano essere negati a chi si toglie la vita.

Oggi, invece, chi sceglie questo gesto estremo e senza ritorno lasciando lettere di denuncia fa sentire la rabbia del proprio gesto, lo trasforma in un atto di accusa. E le famiglie non nascondono più ciò che è successo, alcune hanno preso il coraggio di parlare, di aprire le porte ai giornalisti, di fare perfino manifestazioni pubbliche. Lo fanno perché sentono che la società può comprendere e di certo non accuserà e non metterà all’indice e nessuno si sognerà di negare esequie in Chiesa.

Ma soprattutto tutti noi siamo più attenti e ricettivi perché la crisi tocca tutti, almeno a livello di ansie e insicurezze, oggi è il malessere diffuso a fare da amplificatore.

Non si può però nascondere il rischio insito in questa mediatizzazione, il pericolo di stimolare un effetto emulazione. Due giorni fa sul sito Internet del mensile Wired è apparsa un’analisi molto ben fatta, in cui il direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano Claudio Mencacci, spiegava come «Studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso effetto domino».

Così se anche i numeri ci possono dimostrare che non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, è fondamentale e urgente trattarlo con cautela per non farlo esplodere ulteriormente. La prima responsabilità di chi fa informazione è di non far crescere una retorica che stimoli e giustifichi i gesti estremi.

Ma, come ha scritto su queste pagine Massimo Gramellini, è tempo che il governo e le forze politiche se ne facciano carico, agiscano per creare condizioni di speranza per il futuro, prospettive di crescita, e mettano in campo politiche nuove capaci di arginare il fenomeno. Perché se è vero che il numero dei suicidi non è aumentato è altrettanto vero che adesso sappiamo: conosciamo la disperazione, è sotto i nostri occhi ogni giorno e non possiamo più avere alibi o far finta di non vedere. Gli italiani hanno bisogno di un traguardo, di immaginare la luce in fondo al tunnel.

La soluzione non è certo quella di cercare colpevoli, soprattutto non nelle file di chi si limita a far rispettare le leggi che sono uguali per tutti e non accettano favoritismi, ma dovrebbe essere quella di cercare responsabili. A ogni livello: nel governo, nella politica, nell’amministrazione delle tasse e delle riscossioni, nelle banche, ma anche nei giornali, come nelle famiglie e in ogni comunità. Abbiamo bisogno di rigore ma anche di umanità e di capacità di comprendere e distinguere.

Tutto questo deve essere fatto non solo per chi è adulto e segnato dalla crisi, ma anche per le generazioni più giovani che stanno crescendo in un clima che nega alla radice la possibilità di costruire un Paese migliore.

Ogni volta che incontro un gruppo di ragazzi di una scuola o universitari che si affacciano al mondo del lavoro faccio sempre la stessa domanda: «Se vi dico la parola futuro cosa pensate?». Non ce n’è uno che mi dia una risposta positiva, incoraggiante o colorata. Le parole che sento ripetere sono: «Paura, incertezza, precarietà». I più intraprendenti mi dicono che se ne vogliono andare all’estero, che fuggiranno appena sarà possibile.

Questo gli è stato trasmesso dalla televisione, dalla scuola, dalle famiglie e questo pessimismo è diventato il loro cibo quotidiano. È chiaro che non ce lo possiamo permettere, non possiamo crescere una generazione nel messaggio che dal fondo di questo pozzo non si riemergerà mai.

La passione e la fiducia nella vita sono l’ingrediente fondamentale con cui si concima il futuro, non esistono altre soluzioni che ci possano salvare dalla disperazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10089
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« Risposta #84 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:46:42 am »

4/6/2012

Un Paese che cambia abitudini

MARIO CALBRESI

Mentre l’Italia è prigioniera delle polemiche, della rabbia, del disfacimento del sistema politico e sembra paralizzata, gli italiani hanno messo in atto una delle più grandi trasformazioni degli ultimi decenni.

Abituati ad aumentare, anno dopo anno, i nostri consumi, a rincorrere telefonini, televisori al plasma, viaggi e a riempirci le case di oggetti «assolutamente indispensabili», nei primi cinque mesi di questo 2012 abbiamo riscritto il nostro modo di vivere e di acquistare, non solo in modo più frugale, ma anche in una chiave più intelligente e sorprendente. Siamo diventati «scienziati della spesa»: diminuisce il valore dello scontrino ma nel carrello ci sono sempre lo stesso numero di pezzi. Cambiano i formati, le marche e soprattutto si assiste ad un ritorno a casa: a colazione, a cena, per festeggiare un compleanno e perfino all’ora dell’aperitivo.

Ogni direttore di supermercato, ogni responsabile degli acquisti di una grande catena, ogni proprietario di ristorante e i manager degli autogrill, dei colossi dell’elettronica e della telefonia, ognuno di loro si è trasformato in un sociologo e ha passato il tempo a scrutare dentro le nostre borse della spesa.

Ne ho incontrati molti negli ultimi mesi e ho raccolto lo stupore per una capacità di adattamento molto veloce, che ha recuperato tradizioni e comportamenti che sembravano appartenere ormai soltanto alle memorie familiari.

Perché il cambiamento più interessante da notare non è quello che porta alla rinuncia ma quello che punta sulla trasformazione: il bilancio familiare si fa quadrare non rinunciando alla carne ma cambiando il taglio, non smettendo di mangiare la torta alla domenica ma tornando a farsela nel forno della cucina, non cancellando il rito dell’aperitivo ma trasferendolo a casa.

Si è anche rimodulata la settimana: le rinunce si possono fare dal lunedì al venerdì pomeriggio ma non nel week-end.

I dati di vendita dei supermercati sono una spia perfetta di questa trasformazione: crescono a due cifre gli alcolici, perché l’happy hour si continua a fare con gli amici ma non più al bar; così la colazione la mattina che è tornata prepotentemente in cucina, come ci raccontano il boom dei frollini e delle merendine; e la voglia di pizzeria è in parte soddisfatta dalle pizze surgelate

Se lo scorso anno c’era stata un’impennata dei preparati per le torte e i budini - segno che al dolce nessuno vuole rinunciare, anche se lo si compra di meno in pasticceria - quest’anno a crescere sono addirittura gli ingredienti base: zucchero, farina, uova, cioccolato in polvere e in tavolette. Perfino il pane si ricomincia a fare in proprio, come racconta il successo di un elettrodomestico di nicchia come la macchina del pane.

Ci sono poi le tendenze che determinano la nostra dieta: è noto a tutti un calo della carne rossa in favore di quella bianca, ma le cose sono un po’ più complesse e anche qui parlano di uno spostamento più che di una trasformazione. Si mangia meno la fettina e si comprano più hamburger, si riscoprono tagli meno pregiati che non consideravamo più (la guancia, il collo, la schiena, la spalla, per spezzatini, stracotti e polpette), tanto che, per dirla con Carlin Petrini, «si rimangia tutta la mucca» magari presentata sotto forma di carpaccio. Sugli scaffali sono tornate le ali di pollo che insieme alle cosce stanno surclassando il petto, più costoso e meno richiesto.

A pagare la crisi e il cambio dei menù sono soprattutto il pesce (che cala quasi del 10 per cento), considerato troppo caro, e la frutta. Quest’ultima è vittima del fatto che non viene considerata una portata essenziale del pasto e così la si può tagliare senza avere la sensazione di aver perso qualcosa (diverso naturalmente è il discorso dietetico e di salute).

La verdura invece tiene meglio, perché gli ortaggi fanno parte del pranzo e della cena e anzi possono sostituire una portata: dal contorno spesso vengono promossi a piatto forte. Da notare che un comportamento che sembrava elitario come la riscoperta dei prodotti locali e stagionali ha preso piede in comportamenti di massa, perché è chiaro che ciò che percorre meno chilometri ed è di stagione costa meno.

E la capacità di cucinare, di inventare e di recuperare gli avanzi è tornata ad essere un’arte apprezzata, come ci racconta il fatto che è diminuito il volume della spazzatura e degli scarti di generi alimentari.

Nel fare la spesa gli italiani si stanno spostando sui primi prezzi e sulle “private label”, cioè su quei prodotti che portano il logo delle grandi catene e costano meno dei corrispettivi prodotti di marca. Anche i formati cambiano perché lo scontrino deve calare ma nella busta della spesa ci deve essere lo stesso numero di prodotti, così dopo anni di corsa verso flaconi e confezioni sempre più grandi ora si torna ad acquistare in piccole dimensioni. La spesa si fa con più frequenza, spesso più vicino a casa, e a farne le spese sono le confezioni famiglia. Un’inversione di tendenza che sta spingendo le aziende a ripensare in gran fretta le dimensioni dei contenitori.

Se si cerca di non sprecare, si cerca anche di razionalizzare eliminando quei prodotti di cui non si sente più una necessità impellente, dai deodoranti per l’ambiente ai detersivi di alto prezzo.

Il ritorno a casa significa anche «portato da casa»: basta entrare nell’atrio di un’università tra l’una e le due per notare quanti studenti mangiano panini con la frittata, paste fredde, insalate di riso o di pollo conservate nei contenitori di plastica che sono stati riempiti la mattina presto. Ogni dialetto ha il suo modo di definire la pietanziera, ma quello che gli americani chiamano «lunch box» è davvero tornato di moda, se ne sono accorti anche negli autogrill dove i camionisti entrano sempre più spesso solo per il caffè.

Lo spettro della benzina a due euro ha fatto calare le presenza sulle autostrade, ridotto i tragitti e i fine settimana (ormai da un anno lo notiamo anche guardando ai dati di vendita di questo giornale e notando che lo spostamento di copie e lettori verso il mare e la montagna nel week-end si è ridotto).

La fuga nel fine settimana dalle grandi città, che sembrava un fenomeno inarrestabile negli ultimi due decenni, segna il passo. La crisi ma anche un’offerta sempre più intensa di manifestazioni, festival, corsi e gare sportive hanno cambiato il nostro modo di vivere il tempo libero. Anche in questo caso rimanere a casa non è più vissuto come una rinuncia o un’umiliazione.

La mania per i telefonini e l’elettronica sembra invece continuare a stregare gli italiani: non si cambia più il forno, il frigo, la lavatrice, se non in caso di guasto irreparabile, ma lo smartphone quello sì, continua a vendere nonostante sia ben più caro di un semplice cellulare.

Tra gli elettrodomestici uno solo sta vivendo una stagione felice: l’aspirapolvere robot, capace di alleviare fatiche e sensi di colpa in una botta sola. Accanto sta rispuntando un oggetto di modernariato: la macchina da cucire, segno che la cultura dell’usa e getta ha perso il suo fascino e perché l’Italia di oggi ha bisogno di essere rammendata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10186
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« Risposta #85 inserito:: Giugno 24, 2012, 09:09:49 am »

22/6/2012

Si abbandoni la filosofia della lentezza

MARIO CALABRESI

Una settimana per evitare di trovarsi di fronte a uno scenario da incubo, una settimana che comincia oggi a Roma e si concluderà alla fine del mese a Bruxelles. Una settimana per accantonare quella «filosofia della lentezza» che sembra aver ispirato l’Europa nell’ultimo anno. Una sola settimana per scongiurare «attacchi speculativi sempre maggiori» e «tassi di interesse sempre più alti». Mario Monti ha accettato di parlare direttamente all’opinione pubblica dei sei maggiori Paesi europei per mostrare un percorso virtuoso capace di convincere i cittadini e i mercati che l’euro è «indissolubile e irrevocabile».

Il Professore è convinto che le possibilità per farcela esistano e rivendica per l’Italia il rispetto degli impegni e la capacità di fare da ponte tra Francia e Germania.

Sono passati pochi mesi da quel vertice autunnale di Cannes in cui Silvio Berlusconi si trovò nell’angolo e il nostro Paese sotto accusa, ma oggi sembra passato un secolo tanto che è stato Monti ad invitare a Roma Merkel e Hollande per rafforzare il percorso verso il summit di Bruxelles. E il nostro ruolo non è più quello dell’«appestato» quanto quello di un Paese «ascoltato» che può aiutare a trovare una mediazione tra le ricette differenti di Francia e Germania.

Nell’intervista che ha accettato di dare proprio per sollecitare i cittadini comuni a comprendere il valore dell’Europa, Monti si rivolge direttamente ai tedeschi, ai francesi e agli spagnoli, come ai polacchi e agli inglesi, affinché archivino stereotipi e luoghi comuni. «Perché - sottolinea - diversi Paesi si trovano a far sempre più fatica a far comprendere alle opinioni pubbliche che politiche giuste vanno continuate».

Ma è anche la nostra classe politica a preoccuparlo, tanto che Monti denuncia il rischio della disaffezione nella sua maggioranza: «Un rischio che vedo persino nel nostro Parlamento, che tradizionalmente è sempre stato europeista e non lo è più».

Nelle parole del premier, appena tornato dal G20 messicano, c’è invece l’orgoglio per la strada percorsa dall’Italia e per la capacità mostrata di rispettare gli impegni presi. Quella che spesso è presentata come la rigidità e l’ostinazione del premier-professore viene - nelle sue parole - implicitamente trasformata nell’unica possibilità che abbiamo per tornare ad essere credibili e protagonisti.

Ma, non basta, di fronte alla speculazione è necessario varare «un insieme di misure più efficaci per dare stabilità finanziaria all’eurozona». Un’eurozona che - ricorda con un filo di polemica - «presenta nel suo assieme disavanzo e debito pubblico che, in rapporto ai rispettivi Pil, sono inferiori a quelli del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone».

La fretta di Monti, il suo richiamo a abbandonare la «lentezza», è figlia della convinzione che nessun paziente può reggere a lungo a una «situazione di sveglia acuta, di insonnia e di convulsioni». Per questo ritiene indispensabile individuare in questa settimana «uno strumento, uno “scivolo” di passaggio verso un mercato più ordinato e sostenibile in termini di tassi di interesse» per quei Paesi che, pur rispettando le regole date e procedendo sulla via delle riforme strutturali, scontano spread troppo alti.

Nell’intervista, fatta ieri mattina presto a Palazzo Chigi, Monti ha accettato la sollecitazione della collega tedesca di provare a parlare direttamente ad un immaginario signor Müller, il pensionato tedesco spaventato dall’idea di dover pagare per tutti. E qui il professore ha rotto il suo aplomb, si è immaginato a tavola - in compagnia di due birre - e ha invitato il suo commensale a rilassarsi, «perché l’Italia finora non ha chiesto prestiti, ne ha dati molti» e non è vero che «stai mantenendo l’eccessivo tenore di vita degli italiani». C’è da augurarsi che oggi pomeriggio convinca anche la signora tedesca che si troverà di fronte.

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« Risposta #86 inserito:: Luglio 27, 2012, 11:53:12 am »

27/7/2012

D'Ambrosio, il dramma di una storia rovesciata

MARIO CALABRESI

Di fronte alla morte di un uomo si resta sconvolti. Se poi quell’uomo era al centro di una polemica furibonda non si può non chiedersi se i toni usati fossero corretti o invece eccessivi e perfino micidiali.

Loris D’Ambrosio è morto da uomo angosciato, si sentiva braccato e provava rabbia e frustrazione per vedersi completamente privato della sua storia, che non è certo storia di collusioni, di contiguità o di zone grigie con poteri mafiosi o criminali.

Provava rabbia nel vedersi confuso, nel gioco delle semplificazioni mediatiche e nel turbine che indica ogni cosa che appartenga alla politica o alle istituzioni come marcia e corrotta, con gli accusati della trattativa tra lo Stato e la mafia. D’Ambrosio con quella non c’entrava niente, la sua colpa era un’altra, aver troppo ascoltato e rassicurato un ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, Mancino, che protestava la sua estraneità e chiedeva aiuto per non essere coinvolto nell’inchiesta palermitana.

La diffusione delle telefonate tra i due ha sollevato tanto clamore da far passare in secondo piano l’oggetto delle indagini: fare finalmente luce su uno dei momenti più bui della nostra storia, chiarire se, mentre Falcone e Borsellino venivano uccisi, c’era chi, nei palazzi del potere, cercava con i boss un accordo che mettesse fine alle stragi.

Di sapere questo abbiamo bisogno, per scongiurare di trovarci ancora una volta a poggiare la nostra storia su verità mancate e giustizie tardive.

E’ appena stato richiesto un processo e tra le persone per le quali si chiede il rinvio a giudizio c’è anche Mancino. Questo mostra che quelle telefonate non hanno avuto gli esiti sperati e che la giustizia non è stata intralciata. Ma D’Ambrosio è stato stroncato da un infarto prima di vedere la conclusione di questa vicenda e la sua morte lascia una tale quantità di tensione che finirà per avvelenare ulteriormente il dibattito in questo Paese.

E’ stato Giorgio Napolitano a dare la notizia della scomparsa del suo collaboratore, con un comunicato scritto di suo pugno da cui emerge tutta l’angoscia e il dolore del Presidente della Repubblica per una «campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose, senza alcun rispetto per la sua storia». Sì, perché la storia di Loris D’Ambrosio era tutt’altra, era fatta di battaglia per la legalità, di impegno antimafia, di conoscenza eccezionale delle leggi.

Anzi, vale la pena ricordare come per anni sia stato accusato, in modo più o meno velato, di essere tutt’altro, di essere l’ispiratore delle motivazioni giuridiche capaci di bloccare, ritardare o bocciare le leggi berlusconiane. E molti di quelli che ieri sera lo hanno indicato come vittima dei pubblici ministeri fino a non troppo tempo fa lo vivevano come una spina nel fianco.

Avevo avuto modo di conoscere Loris D’Ambrosio nella preparazione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi e proprio lo scorso aprile – dopo la sentenza che ha chiuso senza condanne la strage di Piazza della Loggia – mi aveva parlato della necessità di dare attuazione alla legge sul segreto di Stato bloccata da anni.
C’era in lui una sincera volontà di far fare un passo avanti alla conoscenza che abbiamo dell’altra grande stagione di misteri italiani, di spendersi perché si aprissero finalmente gli archivi riservati.

Questa era la persona che avevo incontrato e che il pubblico ministero Ilda Boccassini ha ricordato come «un uomo che ha sempre salvaguardato l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».

Ma la barbarie che si è impossessata di molti italiani, anche di quelli che chiedono a gran voce verità, giustizia e che dovrebbero avere perlomeno senso di legalità, ha fatto sì che una gran quantità di commenti apparsi su Internet alla notizia della morte siano assolutamente osceni.

Nessuna pietà, nemmeno il più elementare rispetto dei morti, ma dileggio, ironia e complottismi.

Un fetore nauseabondo, un vizio tutto italiano che dura da decenni e di cui non riusciamo a liberarci. O recuperiamo il senso delle proporzioni e il rispetto per gli altri, abbandonando
l’istinto al linciaggio e alla demonizzazione, oppure saremo davvero perduti.

twitter @mariocalabresi

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10379
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« Risposta #87 inserito:: Settembre 26, 2012, 02:50:38 pm »

22/9/2012

Quei miti andati in frantumi

MARIO CALABRESI

Tre certezze ci hanno guidato in questi ultimi anni dominati dal malgoverno e dalla corruzione, erano tre pilastri su cui abbiamo pensato fosse possibile costruire una politica nuova: prima di tutto il federalismo, con la dote della maggiore vicinanza degli eletti agli elettori che rende possibile un controllo più serrato, poi il ricambio generazionale, con l’ingresso di giovani e volti nuovi non compromessi, infine una nuova legge elettorale per restituire il potere di scelta ai cittadini, con l’auspicato ritorno delle preferenze.

Gli scandali delle ultime settimane e, in particolare, quest’ultimo della Regione Lazio, sbriciolano queste certezze, mostrandoci come federalismo, giovani e preferenze non garantiscano di per sé alcuna redenzione del sistema se non preceduti da una riforma dei meccanismi della politica che metta al centro la trasparenza e il principio di responsabilità.

Partiamo dal federalismo: senza controlli, senza procedure chiare e facilmente verificabili, sprechi e scandali proliferano al centro come in periferia, sono possibili nel Parlamento nazionale come in un Consiglio comunale.

Se non ci sono meccanismi di vigilanza e sanzioni immediate e certe non fa differenza che i centri decisionali siano accanto a casa nostra o a centinaia di chilometri di distanza. E i privilegi non abitano solo a Montecitorio ma possono essere anche locali, basti sapere che il caffè al bar interno del Consiglio regionale del Lazio costa solo 45 centesimi (un panino un euro…) contro gli 80 di Camera e Senato.

Allo stesso modo se il sistema permette di arricchirsi e di fare la bella vita con i soldi pubblici allora ne saranno attratti i furbi e i gaglioffi di ogni età. Avete guardato le biografie dei personaggi coinvolti nel banchetto laziale? È pieno di facce giovani e pulite, baldanzosi trentenni che hanno immediatamente preso il vizio di usare le tasse dei cittadini per pagare servizi fotografici, interviste televisive, automobili, pranzi e cene. Forse anche inebriati dalle cifre senza senso che vengono garantite ai consiglieri regionali (Francesco Fiorito, ormai famoso alle cronache come «er Batman di Anagni», ha spiegato ai magistrati di guadagnare 30 mila euro al mese sommando le indennità regionali, più di Napolitano e Monti messi insieme).

Essere giovani non significa necessariamente essere onesti e il ricambio generazionale ha un senso solo se la casa viene ripulita prima di dare ospitalità a nuovi occupanti e se questi mostrano di essere fatti di una pasta diversa. Per scoraggiare approfittatori e sciacalli in cerca di scorciatoie verso la ricchezza basterebbe ridurre drasticamente stipendi e indennità così da spingere in politica chi ha a cuore la cosa pubblica più di chi ha a cuore il proprio portafoglio.

Veniamo infine alla legge elettorale: Fiorito, così come l’esponente romano del Pdl Samuele Piccolo coinvolto in un altro scandalo di fatture false poche settimane fa, erano campioni assoluti delle preferenze, candidati capaci di accaparrarsene decine di migliaia proprio grazie ad un uso disinvolto dei fondi pubblici o a macchine elettorali costruite con metodi poco raccomandabili.

Vent’anni fa le preferenze vennero abolite, grazie a un referendum, proprio perché erano volàno di malaffare (oltre a far lievitare in modo astronomico i costi della politica), stiamo attenti oggi a non illuderci che rimetterle significhi eleggere i migliori. Ai cittadini va garantito il diritto di scelta ma questo si può ben fare anche con i collegi uninominali dove a sfidarsi sono i candidati dei vari partiti, auspicabilmente scelti con il meccanismo delle primarie.

Perché il sistema funzioni è però necessario che non solo i cittadini ma anche l’informazione svolga il suo ruolo di controllore, di «cane da guardia» del potere. Se però scopriamo che in molte realtà locali i politici hanno l’usanza di fare veri e propri contratti con le televisioni, versando migliaia di euro in cambio di interviste, allora si capisce che il meccanismo di controllo non esiste più.

Il ricambio italiano nasce da un’assunzione di responsabilità individuale che deve coinvolgere tutti, politici, giornalisti, insegnanti, imprenditori e semplici elettori, perché ognuno deve imparare a mettere davanti l’interesse generale, a pretendere senso di responsabilità ma anche a essere responsabile.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10553
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« Risposta #88 inserito:: Novembre 08, 2012, 11:25:48 pm »

Editoriali
08/11/2012

La coalizione che ridisegna gli Stati Uniti

Mario Calabresi

La vittoria di Barack Obama di ieri notte non è sorella di quella di quattro anni fa. 


Nel 2008 la Casa Bianca fu conquistata grazie a un messaggio potente di cambiamento e novità. A incantare la maggioranza degli americani furono l’immagine e la retorica di un giovane senatore nero, che rompeva gli schemi della politica tradizionale e le barriere razziali.

 

Oggi quell’incanto e quella speranza sono svaniti, sostituiti però dalle speranze individuali di milioni di persone che in quel Presidente, che nel frattempo ha compiuto i cinquanta, vedono ancora la possibilità di una loro realizzazione.

 

Per me il volto della vittoria di ieri sera è quello di Jacky Cruz, che ho intervistato all’inizio di settembre a Tampa. Jacky, 21 anni, è una perfetta ragazza americana, parla inglese senza accenti stranieri, è stata la prima della classe dalle elementari alle superiori, fa volontariato, ha sempre lavorato per contribuire a pagarsi gli studi ma ora non può frequentare l’università. La sua colpa è di essere entrata illegalmente negli Stati Uniti quando aveva tre anni, insieme ai genitori venuti a raccogliere mirtilli nei campi della Florida, e di non esserne mai più uscita. E’ una clandestina e da quando è maggiorenne ha scoperto anche di essere invisibile, come due milioni di ragazzi con la sua stessa storia, che scommettono su Obama per non essere più fantasmi.

 

La vittoria di ieri notte è sorella di Jacky. 

 

Ed è figlia della sapiente costruzione di una coalizione elettorale capace di saldare una serie di minoranze che da sole risulterebbero ininfluenti e perdenti.

 

Per riuscirci e per vincere le elezioni bisogna conoscere il proprio Paese, sapere esattamente chi sono, cosa pensano e cosa vorrebbero per il loro presente e il loro futuro i cittadini. La capacità della squadra di Obama è stata di farlo con precisione millimetrica: preso atto che la maggioranza degli elettori maschi bianchi si stava spostando verso destra, verso il candidato repubblicano, era tempo di creare un nuovo blocco di interesse ripetendo l’operazione che Franklin Delano Roosevelt fece esattamente ottant’anni fa, quando mise insieme gli agricoltori bianchi del Sud e i nuovi lavoratori italiani e irlandesi garantendo ai democratici due decenni di predominio.

 

Oggi, che come nel 1932 viviamo sprofondati nella recessione, era possibile osare un cambio di paradigma, perché la crisi economica ha cambiato il sentimento profondo dell’America. 

 

Così è nata una nuova coalizione che si può permettere di vincere anche contro il pensiero economico dominante da decenni, anche se è portatrice di un’idea di Stato pesante e presente, un concetto considerato a lungo una pericolosa bestemmia per chi volesse entrare alla Casa Bianca. Una coalizione che ha permesso di vincere nonostante il sessanta per cento degli elettori bianchi abbia scelto Mitt Romney e che ha sancito che l’America bianca, anglosassone, dello Stato leggero e del conservatorismo sociale non è più in grado di dettare legge da sola: è andata in minoranza.

 

Le paure di Samuel Huntington, l’uomo dello «Scontro di civiltà», ieri notte si sono avverate. Tre anni prima di morire, nel 2005, il professore di Harvard aveva teorizzato la fine di quell’America «wasp», con il mito dell’individualismo e del libero mercato, che per due secoli era stata capace di integrare ogni ondata migratoria nella sua ideologia fondativa. 

 

Ora è accaduto, anche se in termini diversi da quelli catastrofici profetizzati da Huntington. Obama ha saldato una minoranza bianca progressista, intellettuale, interessata soprattutto ai diritti civili (dai matrimoni gay, all’aborto, alle tematiche di genere) con il blocco delle minoranze dell’America multietnica. I democratici hanno conquistato il voto del 93 per cento degli afroamericani, del settanta per cento degli ispanici e del 73 degli asiatici. I latinos hanno fatto la differenza in Florida e Virginia e hanno rotto il blocco conservatore del Sud-Ovest regalando al Presidente Colorado e New Mexico.

 

Eppure gli ispanici sarebbero gli alleati ideali dei repubblicani: sono cattolici, vivono per la famiglia, non amano l’idea dei matrimoni gay e sono conservatori. Potrebbero sposare un conservatorismo dei valori ma non possono permettersi un Paese in cui vinca l’idea di un welfare minimo (le loro famiglie allargate hanno bisogno di scuola e sanità pubblica) e non possono condividere una politica di espulsioni verso i lavoratori immigrati che non hanno regolare permesso di soggiorno (i clandestini sono 12 milioni). 

 

Questi gruppi sociali così diversi condividono un’idea, passatemi il paragone, più europea della società, con una presenza dello Stato che si sente. Gli operai bianchi dell’Ohio e del Michigan, a differenza dei loro colleghi di tutta America, hanno scelto di votare democratico perché si sono sentiti più garantiti dall’uomo del salvataggio pubblico dell’industria dell’auto, piuttosto che dal repubblicano che sosteneva - in nome dell’economia di mercato - che sarebbe stato meglio lasciar fallire Detroit.

 

Nello studio dettagliato degli spostamenti demografici, geografici e sociali della popolazione, la squadra di Obama ha anche capito che, non solo per una frangia radicale, ma per la maggioranza delle donne americane è cruciale la libertà di scegliere di fronte ai temi che riguardano la loro vita riproduttiva, tanto da non sopportare più di sentirsi dettare le regole da un gruppo di maschi bianchi. E così la campagna mirata di Obama sui diritti delle donne gli ha garantito il voto del 55 per cento delle elettrici americane.

 

Questa coalizione vincente, destinata a crescere con il boom demografico ispanico, mette in grave crisi il partito repubblicano e gli imporrà di ripensarsi profondamente, ma consegna al Presidente in carica un Paese profondamente diviso e polarizzato. Da questa mattina, anzi già da ieri notte con il discorso della vittoria, Obama dovrà dimostrare di saper anche ricucire l’America.

 

twitter @mariocalabresi 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/08/cultura/opinioni/editoriali/la-coalizione-che-ridisegna-gli-stati-uniti-Bhrm7yy3SAKNxtNU6uZacO/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Dicembre 09, 2012, 10:00:55 pm »

Editoriali
09/12/2012

Il gesto limpido del Premier

Mario Calabresi


Mario Monti si è preso un giorno per riflettere, poi ha fatto un gesto, l’unico, che fosse in linea con la sua persona, la sua vita e il suo modo di governare: assicurare la legge di stabilità e poi dimettersi. 

Non solo non poteva accettare di farsi mettere sotto accusa da chi gli aveva consegnato un Paese allo sfascio, non solo non ha intenzione di elemosinare per settimane la fiducia su ogni provvedimento, ma nemmeno di condividere un metro di strada con chi adesso ha deciso che tutte le colpe stanno nella moneta unica. «Io non vado in Europa a coprire quelli che fanno proclami anti-europei, io non voglio averci niente a che fare», ha detto con estrema chiarezza Monti al presidente della Repubblica mentre, ieri sera, gli annunciava il suo passo indietro.

Un gesto chiaro e limpido che costringe ognuno ad assumersi le proprie responsabilità e lascia Berlusconi solo con le sue convulsioni e i suoi voltafaccia. Non è in discussione il diritto del Cavaliere di ricandidarsi (anche se per un anno aveva assicurato il contrario), ma non è tollerabile che l’azionista di maggioranza del governo tecnico, che per inciso è anche il premier che aveva lasciato l’Italia sull’orlo del baratro, una mattina si svegli e se ne chiami fuori. 

 

Non è tollerabile che indichi l’azione di Monti come responsabile di ogni problema italiano, senza riconoscere tutto il lavoro fatto in un anno.

L’esecutivo tecnico era nato di fronte all’incapacità di governare e alla profonda sfiducia degli italiani nel sistema dei partiti, doveva servire a mettere in sicurezza i conti e a traghettarci verso nuove elezioni. Il patto era che ognuno si assumesse la sua parte di responsabilità (e di impopolarità) per provare a evitare il crac del Paese, senza cavalcare il populismo e il malessere sociale.

 

Stando così le cose, come poteva pensare Alfano che il premier potesse andare avanti dopo che lui lo aveva sfiduciato ufficialmente nell’Aula di Montecitorio? E dopo che oggi il centrodestra aveva minacciato di bocciare provvedimenti e proposte di legge, a partire da quella sul taglio delle Province? Solo un politico navigato e rotto a ogni compromesso avrebbe fatto finta di niente, Monti invece ne ha preso atto e ha deciso di restituire le chiavi.

 

Così andremo a votare, per la prima volta nella nostra storia repubblicana, con il cappotto, forse addirittura nella prima metà di febbraio, se si anticiperà l’approvazione della legge di stabilità e si scioglieranno le Camere alla vigilia di Natale. 

Dopo aver provato a fare le cose con ordine per dodici mesi, siamo tornati nell’emergenza e in preda agli spasmi della peggiore politica. Con tutti gli sforzi e i sacrifici fatti non ce lo meritavamo.

Sarebbe tempo che anche l’Italia diventasse un Paese normale, prevedibile e magari anche noioso. Un Paese di cui non ci si deve vergognare, che può sedere in Europa e riuscire a farsi ascoltare. Per un anno ci siamo andati vicino.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/09/cultura/opinioni/editoriali/il-gesto-limpido-del-premier-b4sV40d7UNvoSv3hqiIVYJ/pagina.html
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