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Autore Discussione: MARIO CALABRESI.  (Letto 68438 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Maggio 04, 2011, 05:18:22 pm »

4/5/2011

L'inguaribile malattia del complotto

MARIO CALABRESI

In Italia la notizia dell’uccisione di Osama bin Laden è stata accolta da molti con scetticismo o con il pregiudizio che la notizia sia falsa, oscura o perlomeno manipolata.

Nelle lettere che riceviamo qui al giornale, nelle mail, come nelle chiacchiere che attraversano il nostro Paese emerge un vizio tutto italiano, che ci accompagna da decenni.

Ognuno di noi credo abbia avuto anche ieri la stessa esperienza: incontrare qualcuno che scuote la testa e, mentre sorride cercando complicità, dice: «Ma non è certo Osama bin Laden».

Un concetto declinato con mille variabili: ma perché dovremmo crederci? A chi fa comodo? Perché proprio adesso? Perché tutta questa fretta di gettarlo in mare? Perché non ce l’hanno fatto vedere? Il tutto poi racchiuso nella rassicurante frasetta magica: è un «giallo».

Se si prova a rispondere che quelle foto scatenerebbero la furia degli estremisti, che nessun Paese era disponibile ad accettare la salma e che si voleva evitare di creare un luogo di pellegrinaggio per fanatici e terroristi, allora si è guardati quasi con compassione. Sono così belle le teorie cospirative che ogni tentativo di spiegazione semplice e razionale viene subito respinto con disgusto.

Intendiamoci, in tutto il mondo ci sono i teorici delle cospirazioni, quelli che sostengono che l’uomo non è mai andato sulla Luna (lo sbarco sarebbe solo una sceneggiata costruita negli studios di Hollywood), che Elvis Presley è ancora vivo o che nessun aereo ha mai colpito il Pentagono l’11 settembre del 2001. Ma queste idee appartengono a minoranze antisistema, non fanno breccia in ogni strato e in ogni ambiente della società.

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia ufficialmente al mondo che i suoi militari, dopo una caccia durata quasi quindici anni, hanno individuato e ucciso Bin Laden, ma dalle nostre parti invece di discutere e dividersi se ciò sia giusto o sbagliato ci si chiede se sia vero e si pretendono le prove. Molti, a mio parere troppi, a sinistra come a destra, partono dal presupposto che il Presidente non dica la verità, o perlomeno nasconda qualcosa. Coltivare il dubbio non è un difetto, anzi una ricchezza delle democrazie, ma vivere con lo scetticismo come regola di vita rischia di essere una grande fregatura.

E stiamo parlando di Barack Obama, pensate se l’annuncio l’avesse dato George W. Bush. Si potrebbe immediatamente obiettare che proprio dalla Casa Bianca venne diffusa nel mondo la bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e ricordare come Colin Powell lo sostenne all’Onu mostrando la famosa fialetta. Dovremmo però ricordare anche il discredito che colpì Bush, Cheney e Powell quando si scoprì che non era vero, e come oggi la reputazione dei tre sia a pezzi, tanto che l’ex Presidente è forse l’unico a non essere invitato da nessuna parte a tenere lezioni e discorsi. Quei discorsi che a Bill Clinton fruttano milioni di dollari l’anno. L’America non ha mai perdonato ai suoi Presidenti il falso, basti l’esempio di Nixon e del Watergate. Negli Stati Uniti come nel resto d’Europa, ce lo hanno ricordato la Germania e la Gran Bretagna negli ultimi mesi, l’onorabilità e la reputazione sono tutto per un politico. La credibilità è l’unico patrimonio che possiede e si parte dal presupposto che sia tenuto a dire la verità, pena il licenziamento.

Da noi invece ci si contenta di non credere, di alzare le spalle o di deridere senza però presentare il conto a chi pure viene colto sul fatto. Questo accade perché la menzogna del potere è considerata una regola e il nostro rapporto con le istituzioni e con chi ci governa è totalmente rotto. In Italia è normale pensare che il capo del governo menta o manipoli le informazioni, per cui partiamo dal presupposto che tutto possa essere falso. E questo talmente ha fatto breccia dentro di noi che chi dubita di qualunque fatto lo fa a prescindere, non sente la responsabilità di cercare prove a sostegno della sua tesi, il controllo delle evidenze non lo riguarda. In questo modo però il dubbio inquina ogni cosa, mina ogni ragionamento e sfarina ogni certezza, impedendoci spesso di apprezzare e valutare serenamente gli avvenimenti.

Il tarlo italiano ha radici e motivazioni storiche, siamo il Paese di Ustica, delle bombe sui treni, del terrorismo rosso e nero, dei misteri e delle molte verità negate, e nasce certamente perché abbiamo avuto di fronte un potere opaco e sfuggente. Ma questo ha lasciato nella nostra società un modo di pensare, un vero e proprio abito mentale, che è diventato comodo e funzionale. Comodo perché divide tutto in bianco e nero e non dovendosi confrontare con le sfumature rassicura e semplifica.

Così accade di sentire, molto spesso e ad ogni livello, che non sappiamo nulla delle stragi o del terrorismo, che tutto è oscuro e coperto. Quante persone, per fare l’esempio più lampante, sostengono che non conosciamo la verità su Piazza Fontana? Sbagliano: non è così. Per la strage alla Banca dell’Agricoltura è corretto dire che non è stata fatta giustizia ma la verità storica è assodata: furono i neofascisti di Ordine Nuovo a mettere la bomba e poterono contare sulla complicità di una parte deviata degli apparati dello Stato. Ma per molti lo stereotipo e la frase fatta finiscono per essere più forti della storia e delle sue conquiste. Non vedere quello che si è ottenuto significa fare un torto a chi per anni si è battuto per ottenere la verità e lasciarsi invadere da quello scetticismo significa rinunciare a ogni partita e a ogni sfida.

Per tornare a Obama e Osama, negando a priori (ripeto: il dubbio è sano ma non il pregiudizio cieco) che questo fatto sia davvero successo ci neghiamo la possibilità di discutere e capire. Se una cosa non è accaduta perché dovremmo allora porci l’interrogativo se sia giusta o sbagliata e poi cercare di immaginarne le possibili conseguenze?

La Storia passerà avanti veloce, cambieranno gli scenari mondiali, forse ci toccherà registrare la potenza delle vendette e delle rappresaglie, ma noi non saremo stati in grado di capirle perché saremo rimasti fermi alle rassicuranti chiacchiere del bar, al sorrisetto, all’alzata di spalle.

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« Risposta #61 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:47:36 pm »

31/5/2011

La magia perduta del Cavaliere

MARIO CALABRESI

E’ un leader radioattivo»: il soggetto è Silvio Berlusconi, la battuta politicamente scorretta è stata pronunciata al termine del G8 da un uomo di primo piano dell’amministrazione americana che viaggiava con Barack Obama. Una battuta utile a capire il disagio di molti leader stranieri di fronte a un presidente del Consiglio che li assillava con il suo incubo dei complotti giudiziari. Una battuta che può servire oggi per comprendere la fuga degli elettori dai candidati sponsorizzati dal Cavaliere.

Il voto di ieri segnala un vento fortissimo di cambiamento che, in modo molto più incisivo che nel primo turno, ha travalicato il valore amministrativo di queste elezioni.

Un vento che ci racconta come Silvio Berlusconi abbia perso la sua sintonia con la maggioranza degli italiani, con la pancia del Paese. Il premier, fin dai tempi della nascita delle televisioni private, è sempre stato un perfetto interprete degli umori e dei desideri degli italiani: li sapeva anticipare e cavalcare con un tempismo perfetto. Berlusconi ha promesso ai cittadini, consumatori prima e elettori poi, di soddisfare ogni loro desiderio, di garantire ogni loro libertà. Oggi questo meccanismo creatore di consenso appare rotto e non per colpa di qualche inchiesta giudiziaria, ma perché il Cavaliere non è riuscito a capire cosa passa in questi giorni nella testa e nella vita degli italiani.

In tempi di crisi, di difficoltà, di risparmi che si assottigliano e di giovani che non trovano lavoro, non si può pensare che il tema della separazione delle carriere o la riforma della Corte Costituzionale scaldino i cuori e riempiano le urne. E dire che Berlusconi lo sapeva bene: per anni ha promesso di non mettere le mani in tasca agli italiani e di abbassare le tasse, ora invece si era convinto che la maggioranza dei suoi concittadini fosse indignata come lui con la magistratura e la sinistra.

Così hanno vinto candidati nuovi e imprevedibili, candidati che sulla carta non avrebbero dovuto avere alcuna possibilità: troppo radicali, troppo di sinistra o anche troppo giovani e inesperti. Ma soprattutto hanno perso le forze di governo, perfino nelle roccaforti del Nord, dove si contava sulla tenuta di una Lega fino a pochi mesi fa in ascesa.

Come è potuto accadere? Per anni Berlusconi ha proposto una sua visione per il Paese mentre i suoi avversari hanno sempre reagito costruendo campagne contro di lui e demonizzandolo. Questa volta i ruoli si sono invertiti: a giocare contro è stato lui, da mesi assistiamo a campagne politiche e giornalistiche in cui gli avversari vengono trasformati in caricature e fatti a pezzi. Da questo punto di vista il trattamento riservato a Pisapia è da manuale, è stato dipinto come il leader degli zingari, dei rom e degli estremisti islamici, una campagna di una tale rozzezza da aver allontanato la maggioranza dei milanesi dal candidato sindaco del centrodestra. Una campagna così poco «positiva» da aver spaventato perfino i moderati, che cinque anni fa avevano garantito la vittoria a Letizia Moratti. E dire che per perdere Milano ci voleva davvero impegno: è stato fatto un capolavoro.

Si può pensare di essere credibili se si tappezza una città con manifesti che strillano: «La sinistra vuole i vigili solo per le multe, non per la sicurezza» o con la minaccia di vedere Milano trasformata in «Zingaropoli»? Era una campagna talmente grottesca da prestarsi a mille parodie che hanno spopolato su Internet. Il migliore spot per Pisapia sono state proprio le caricature fatte su di lui: i filmati e le canzoni che lo dipingevano ancora più estremista dei manifesti leghisti o berlusconiani.

L’errore finale, incomprensibile, è stato poi quello di andare dal Presidente degli Stati Uniti a parlargli dei suoi problemi giudiziari, a insultare un corpo dello Stato italiano. Pensate se il nostro premier, dopo aver chiamato i fotografi ed essersi messo in favore di telecamera, avesse strappato a Barack Obama un impegno sulla Libia per frenare il flusso di clandestini. Il suo gradimento non avrebbe che potuto giovarsene. Invece ha scelto di inseguire la sua ossessione.

Cosa succederà adesso è difficile da prevedere, certamente si è messa in moto una valanga dagli esiti imprevedibili. Potrebbe metterci un giorno, un mese o anche due anni ad arrivare a fondovalle e Berlusconi è persona resistente, tenace, capace di reinventarsi continuamente e che combatte fino all’ultimo. Ma il vero dato di ieri è l’incapacità di leggere cosa passa nella testa, nella pancia e nel cuore degli elettori. E quando un politico smarrisce questo fiuto e questa dote allora per lui suona la campana dell’ultimo giro.

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« Risposta #62 inserito:: Giugno 01, 2011, 05:36:43 pm »

1/6/2011 - UCCISO IN PAKISTAN

Addio a un reporter coraggioso

MARIO CALABRESI

Ogni volta che la situazione in Pakistan si incendiava, che Al Qaeda o i taleban alzavano il livello della sfida, che un attentato o un rapimento sconvolgevano quell’area immensa che va da Mumbai a Kabul, in riunione qui alla Stampa usciva sempre la stessa domanda: «Cosa dice Saleem?».

Questo giovane giornalista laico e coraggioso era la nostra bussola, ci aiutava a capire qualcosa delle trame politiche, militari e spionistiche pachistane.

Orientarsi in quel mondo complesso dove si mescolano interessi economici, politici e religiosi è esercizio quasi impossibile per un occidentale, come è impossibile capire qualcosa delle zone grigie che coprono o sponsorizzano il terrorismo islamico. Per questo contattavamo Saleem cercando di parlargli con Skype o, quando era in giro per i suoi reportage, lasciandogli una mail nella speranza che la vedesse prima della chiusura del giornale.

Il suo lavoro era prezioso anche per noi italiani in tempi in cui il Pakistan è diventato cruciale per la sicurezza globale come per il contingente che abbiamo in Afghanistan. Ma Saleem, papà di tre bambini, non era solo un buon giornalista, di quelli che si limitano a raccontare quello che succede sulla scena. Era un coraggioso analista, un reporter investigativo capace di smascherare quei legami pericolosi che hanno permesso a Osama bin Laden di vivere indisturbato per anni a poca distanza da una base militare. Non si era mai fatto scrupolo Saleem di raccontare i doppi e tripli giochi dell’Isi, il servizio segreto di Islamabad. Ma negli ultimi giorni aveva alzato il tiro con un reportage in cui sosteneva che un gruppo di ufficiali della marina militare pachistana dava copertura a una cellula di Al Qaeda. Era la prova delle continue infiltrazioni terroristiche dentro gli apparati di intelligence e militari del Pakistan.

Questa volta però, dopo le accuse americane per la copertura a Osama, il potere occulto non ha più sopportato la pretesa di fare vero giornalismo e ha deciso di spegnere quella luce che Saleem teneva accesa con un lavoro solitario e straordinariamente coraggioso.

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« Risposta #63 inserito:: Giugno 27, 2011, 09:56:17 am »

24/6/2011

Governo, la grande recita

MARIO CALABRESI

Da almeno un anno nella politica italiana esistono due universi paralleli: quello della realtà e quello della finzione. La realtà, così come la raccontano ministri, sottosegretari, senatori, deputati, faccendieri, lobbisti, manager delle grandi aziende e diplomatici di ogni nazionalità, è che il governo è paralizzato, il presidente del Consiglio totalmente assorbito dalle sue vicende personali e la maggioranza lacerata da rivalità, invidie e lotte di potere.

La realtà però viene solo sussurrata: al telefono, nelle cene private o a margine degli incontri di lavoro. Da un anno capita di ascoltare esponenti di primo piano dello Stato e del governo ripetere che una stagione è finita, il Paese non più governato e che ormai si vive nella palude. E fin qui siamo all’analisi politica, poi si viene investiti da una serie di lamentele, sfoghi e pettegolezzi sul premier e sui suoi ministri che, al confronto, tutto quanto è stato letto sui giornali risulta perfino pallido e stinto.
Al posto della realtà va in scena una grande rappresentazione, in cui appare una corte che ancora crede nell’invincibilità del sovrano, nella sua capacità di tornare in sella e soprattutto nell’unicità del suo carisma.

Se si vanno a ricercare le dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrodestra è difficile trovare traccia di critiche, prese di distanza o dubbi sull’operato di Berlusconi o del governo. Eppure le occasioni non sono mancate, da Noemi a Ruby, dal bunga bunga alle pressioni per cancellare programmi e conduttori Rai, dalle assenze nella politica internazionale (la nostra incapacità di avere un ruolo di primo piano nelle crisi in Tunisia, Egitto e Libia) fino alla mancata crescita e al nostro declino.

Molte volte, di fronte a situazioni estreme, è venuto da chiedersi come fosse possibile che il mondo del centrodestra digerisse tutto, senza mai muovere una critica o indignarsi.

Lo scorso autunno incontrai un giorno Bisignani, che non avevo mai visto prima, e, come molti altri esponenti del governo nelle stesse settimane, mi raccontò di un presidente del Consiglio assente e distratto dal suo privato e di una maggioranza completamente allo sbando. Rimasi colpito dal doppio registro della narrazione: un racconto privato che divergeva totalmente dalla rappresentazione pubblica

Poi sono arrivate le intercettazioni del caso Ruby, i file di Wikileaks (con le confidenze agli americani di molti nostri politici e manager) e perfino le telefonate di Briatore nell’inchiesta sul suo pànfilo. Così abbiamo scoperto giudizi taglienti e senza appello su Berlusconi, i suoi comportamenti e sullo stato del governo, scagliati da persone che credevamo vicinissime e fedeli.

Da qualche giorno infine, con le migliaia di intercettazioni dell’inchiesta chiamata P4, il velo è completamente caduto e leggiamo attoniti delle risse, degli insulti, degli odii che lacerano il governo e circondano Berlusconi. Al di là degli aspetti penali e del malcostume di un sistema che sembra aver abolito ogni trasparenza e ogni criterio di merito, emerge uno scenario in cui i veleni hanno conquistato ogni spazio del discorso pubblico.

Scopriamo che anche i ministri o gli amici di una vita dileggiano Berlusconi (così come facevano le ragazze ospiti delle feste ad Arcore), lo considerano finito e organizzano continue guerre intestine. La reazione naturale sarebbe stata quella della resa dei conti, della cacciata degli infedeli, ma invece nulla è successo. Perché per sopravvivere c’è bisogno di tutti, si è costretti a scendere a patti con chiunque e a qualunque prezzo: l’unico problema appare quello di chiudere il rubinetto della realtà, di ripristinare in fretta la finzione.

Così vediamo una ministra, che abbiamo appena saputo ritenere il premier «poco intelligente», sedersi ai banchi del governo, o molti altri stringersi la mano e sorridersi nonostante sia stato reso noto che si detestano e tramano uno contro l’altro.

Così si corre a cercare di rimettere in pista ogni strumento per bloccare le intercettazioni e la loro divulgazione: il problema non è la sostanza ma la rappresentazione. Bisogna impedire in fretta di far sapere agli italiani non tanto di eventuali scandali ma cosa pensano davvero parlamentari e ministri. Dobbiamo credere che regni ancora l’armonia, per farlo è necessario chiudere al più presto porte e finestre affinché la rissa si svolga tutta tra le porte di casa. L’urgenza adesso è quella di rimettere in piedi la Grande Recita, i problemi veri possono aspettare ancora un giro.

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« Risposta #64 inserito:: Giugno 30, 2011, 05:05:38 pm »

30/6/2011

Un sito web per l'Italia e il mondo

MARIO CALABRESI

Le televisioni e i giornali di tutto il mondo che tengono ancora aperto un ufficio di corrispondenza aRoma lo fanno per un solo motivo: non per la nostra politica, nemmeno per il nostro cinema, il Colosseo o l’economia, ma perché c’è il Papa. Il Vaticano continua a fare notizia nel mondo, ogni giorno, con decisioni, discorsi o documenti, che si tratti dinucleare, di ricerca scientifica, dimedicina, di educazione, di famiglia, di matrimoni gay, di fame nel mondo, di giustizia sociale o di scandali legatialla pedofilia

Per molti osservatori e lettori, italiani e stranieri, comprendere le dinamiche delle scelte prese dalla Chiesa cattolica, analizzarle e metterle nel giusto contesto può essere complicato. Le porte del Vaticano, inteso come luogo delle decisioni, spesso appaiono poco trasparenti e difficilmente accessibili.

Me ne sono reso conto parlando con molti giornalisti e direttori di giornali a Berlino, come a Londra, a New York e a Hong Kong. Tutti mi sottolineavano quanto incrociassero le nostre vite i temi religiosi, i dibattiti sui temi etici e quanto fosse difficile avere notizie fresche, attendibili e di prima mano.

Per questo abbiamo pensato di dare vita ad un canale online di informazione in tre lingue, dedicato a un’audience globale, che racconti in modo serio e indipendente cosa accade Oltre Tevere. Questo luogo di informazione si chiama Vatican Insider ed è una novità assoluta nel mondo editoriale: è il primo sito di informazione sul Vaticano non legato alla Chiesa, a congregazioni religiose e comunità di fedeli, ma promosso da un quotidiano laico, generalista e indipendente.

La Stampa ha una grande tradizione laica, a cui intendiamo tenere fede perché è parte fondamentale del nostro Dna oltre che una garanzia per i lettori. Ma ha anche una grande tradizione di innovazione e approfondimento e mettendo insieme tutte queste sue caratteristiche abbiamo pensato di lanciare qualcosa di completamente nuovo.

L’idea è quella di aprire una finestra che racconti, senza pregiudizi e in totale libertà, le discussioni e i dibattiti sui temi etici e religiosi. Che dia ogni giorno notizie esclusive, che sia capace di proporre inchieste, retroscena e approfondimenti per aggiungere un tassello alla comprensione del mondo in cui viviamo.

Oltre ai temi di giornata, troverete interviste e interventi di protagonisti del dibattito religioso provenienti da esperienze e da posizioni le più diverse e plurali. Il primo, che ospitiamo oggi anche sulle pagine della Stampa, è l’ex premier britannico Tony Blair.

Per lanciare Vatican Insider abbiamo costruito una squadra in cui convivono alcuni tra i migliori vaticanisti, esperti e analisti che ci siano sulla piazza globale e siamo orgogliosi di poter offrire un prodotto italiano multilingue che nei suoi primi giorni di lancio ha già trovato oltre il quaranta per cento dei suoi lettori fuori dai nostri confini.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8919&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #65 inserito:: Luglio 14, 2011, 03:38:51 pm »

14/7/2011 - UN INCUBO CHE RITORNA: COLPITE 11 MILIONI DI PERSONE DALLA SOMALIA ALL'ETIOPIA

La grande carestia che sta uccidendo il Corno d'Africa


MARIO CALABRESI

Aden Salaad è un bambino somalo di due anni, è malnutrito, ma tre giorni fa ha avuto la fortuna di arrivare vivo, insieme alla mamma, all’ospedale di Medici senza Frontiere messo in piedi nel più grande campo profughi del mondo, a Daab in Kenya. Qui si sono rifugiate 400 mila persone in fuga dalla fame e dalla carestia. Abbiamo scelto questo scatto, crudo e sconvolgente, perché in un’Italia concentrata sugli scandali politici, sulle tasse, i ticket e le vacanze, si sappia che nel Corno d’Africa per colpa della siccità c’è uno dei peggiori disastri umanitari dell’ultimo mezzo secolo e che oltre due milioni di bambini rischiano la vita. Per molti di loro anche una bacinella di plastica rotta dove fare il bagno resterà un miraggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8980
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« Risposta #66 inserito:: Agosto 03, 2011, 04:24:33 pm »

3/8/2011

Africa, non bisogna chiudere gli occhi

MARIO CALABRESI

Più di quarant’anni fa il mondo scoprì le immagini del Biafra: bambini denutriti, scheletrini con il pancione gonfio.
Erano le grandi carestie a cavallo degli Anni 60 e 70 che sconvolsero l’Occidente.

Quelle prime foto in bianco e nero portarono nelle nostre case il significato della morte per fame, della malnutrizione cronica, della siccità che distrugge ogni possibilità di sopravvivenza. Quelle stesse scene le avremmo riviste vent’anni dopo in Somalia, poi in Etiopia e pochi anni fa in Sudan. Allora l’Africa era lontana dalle nostre vite e molte volte in questi quattro decenni il mondo si mobilitò commosso portando aiuti e inviando dottori e medicinali.

Oggi l’Africa arriva ogni giorno sulle nostre coste, la fame la potremmo leggere guardando i volti di chi attraversa il Mediterraneo stipato in un barchino e spesso perde la vita nel lungo viaggio, ma non sempre ci riusciamo: la paura dell’immigrazione, l’eccesso di immagini e la nostra crisi economica ci chiudono gli occhi.

Ho parlato con un medico che ha combattuto la grande carestia del Corno d’Africa nel 1972 e ’73, ricorda bambini rovistare nella spazzatura per cercare bucce di banana, ricorda famiglie che cercavano di sfamarsi con le foglie o mangiavano crudi i semi che erano stati appena distribuiti per la semina. Ricorda l’inedia e gli occhi vacui di chi ormai non ce la fa più e mi ha spiegato che vediamo solo donne e bambini perché gli anziani se ne sono andati per primi.

Oggi sappiamo che sta succedendo di nuovo e in proporzioni e con una violenza che non si vedeva da molto tempo. Gli abitanti di interi villaggi sono tornati a percorrere a piedi piste di terra lunghe centinaia di chilometri nella speranza di incontrare acqua o cibo. Sono migrazioni - come vi raccontiamo in queste pagine e come testimoniano i primi operatori umanitari che riescono a lavorare laggiù - in cui si abbandona per strada ogni avere e si cerca soltanto di sopravvivere.

Tre anni fa ho incontrato una famiglia che era fuggita dalla guerra del Ruanda, avevano vissuto per anni in un campo profughi prima di ottenere lo status di rifugiati e approdare in America. Arrivarono all’aeroporto di Newark nel New Jersey - padre, madre e quattro figli - solo con una busta in mano. Gli chiesi dove fossero i bagagli e loro mi risposero che non avevano più nulla da quattordici anni, ma il padre serio aggiunse: «Però pensiamo di essere fortunati, molto fortunati, perché abbiamo ancora la vita». E’ la frase che più mi risuona in testa ogni volta che parliamo delle nostre difficoltà quotidiane e perdiamo di vista ciò che conta davvero.

In questo momento nel Corno d’Africa ci sono 12 milioni di persone che sono colpite dalla carestia e non hanno cibo, oltre un milione di bambini rischia la vita. Per questo abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di permettere a chi desiderasse fare qualcosa di potersi muovere, di sentirsi utile. Abbiamo ricevuto numerose sollecitazioni negli ultimi giorni e prima di lanciare una sottoscrizione abbiamo voluto individuare un progetto serio in cui i soldi dei lettori della Stampa potessero fare davvero la differenza ed essere ben spesi. Adesso lo abbiamo trovato: è un reparto pediatrico che si sta costruendo in Somalia proprio per assistere bambini denutriti. Lo sta costruendo un’associazione torinese, ma non ha fondi sufficienti. Grazie a Specchio dei tempi siamo sicuri che si farà in fretta a terminarlo. Ma se la vostra generosità e le sottoscrizioni saranno tante, allora siamo pronti a trovare altri progetti e altre iniziative pratiche e ben fatte da sostenere. Grazie a tutti quelli che saranno con noi.

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« Risposta #67 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:52:22 am »

4/8/2011

Ragazzi, attenti all'estate delle maxibevute

GIORGIO CALABRESE

Drammatica festa hawaiana. È una tradizione, a Sestri Levante, in Liguria, la città dei Due Mari e della movida della Riviera. È nata come festa d’estate, una sorta di Carnevale che invade le spiagge, le strade, le piazze. Un party innocuo. Poi, con gli anni, questa serata è diventata sempre più popolare, nel senso che, tra passaparola e Facebook, si è trasformata in un appuntamento da 25-30 mila ragazzi. È diventata un assedio, una corrida sfrenata alimentata dall’alcol. Anzi, dall’abuso d’alcol, da parte soprattutto dei più giovani. È la moda del «binge drinking», cioè dell’abbuffata di un mix di bevande altamente alcoliche: uno dei nuovi mali di questa nostra società molto ammalata.

Del resto, se si organizza una festa di questo tipo, bisogna essere coscienti che l’alcol sarà il protagonista principale della kermesse. Emettere un’ordinanza severa in merito alla vendita di sostanze alcoliche, controllare zaini e giubbotti all’ingresso della città, sguinzagliare i vigili nei bar e negli altri locali, va bene. Ma evidentemente non è bastato. O non ha funzionato. E poi, come fai a controllarne 25-30 mila? Cinquantun ragazzi sono finiti all’ospedale per etilismo acuto, altri ci sono andati vicinissimi. Vino, anche. Ma in particolare gin, tequila, rhum, che sono corsi a fiumi.

Questi superalcolici già da soli danneggiano prima la mucosa boccale, poi l’esofago, quindi lo stomaco per poi finire malamente nel fegato, che patisce più di tutti gli organi. Da qui, sotto forma di acetaldeide passano la barriera ematoencefalica, e quindi vanno nel cervello. Ecco spiegato lo stato di alterazione in cui si incorre, che viene definito etilismo acuto. I segni? Grave nausea, bruciori di stomaco di forte intensità, vomito continuo e perdita di coscienza.

Se si intende dare veramente il via libera a questo tipo di feste, bisogna agire drasticamente. In modo che i superalcolici spariscano dalla portata dei più giovani (ma sarebbe giusto limitarli fortemente anche agli adulti). È necessario chiedere, ottenere la presenza delle forze di polizia, specie quella municipale, e pretendere controlli capillari negli esercizi pubblici. Per impedire che somministrino, senza alcuna verifica dell’età e dello stato di sobrietà, i superalcolici. Occorrono divieti, ma occorre anche farli rispettare.

Prevenzione, però, è anche educazione. Bisogna allora iniziare ad educare i giovani a scuola, soprattutto illustrando gli effetti negativi del «binge drinking», talvolta anche duraturi nel tempo, fino alla irreversibilità nota come etilismo cronico.

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« Risposta #68 inserito:: Agosto 14, 2011, 07:21:41 pm »

14/8/2011

In cerca di un'idea di futuro

MARIO CALABRESI

La crisi arrivata al suo culmine italiano nelle ultime settimane è cominciata tre anni fa, quando le televisioni di tutto il mondo iniziarono a trasmettere le immagini di persone con la faccia stravolta e uno scatolone tra le mani che uscivano da un grattacielo sulla Settima Avenue di Manhattan. Erano i lavoratori del quartier generale newyorchese di Lehman Brothers che avevano appena avuto la notizia del fallimento della banca d’affari americana.

Da quel momento il nostro mondo è profondamente cambiato. Chi ci governa e chi ha governato l’economia italiana in tutto questo tempo ha ripetutamente ridimensionato il problema e sembra essersene accorto soltanto nelle ultime settimane.

Certamente in questi giorni c’è stata un’escalation in tutto il pianeta e la situazione si è fatta drammatica, ma sostenere che non era prevedibile quando si ha il quarto debito pubblico del mondo e si ha una crescita bassissima non è credibile.

E non dimentichiamo che la crescita dello spread tra i titoli di Stato italiani e i Bund tedeschi è cominciata dopo l’emergere di divergenze e tensioni tra il nostro premier e il ministro dell’Economia, così come il deficit di credibilità è anche figlio di una manovra - quella di luglio - che rinviava troppo in là nel tempo i suoi effetti.

La manovra straordinaria varata in questa drammatica vigilia di Ferragosto ha il pregio di riconoscere la gravità della situazione, di provare a dare una risposta forte e di metterci - auspicabilmente - al riparo da nuovi attacchi speculativi e da ondate di vendite dei nostri titoli e delle nostre azioni.

Agli aspetti positivi, che si possono riassumere nella velocità con cui sono state fatte scelte altamente impopolari come spiega in questa pagina Luca Ricolfi, si accompagnano una serie di preoccupazioni e di amarezze di segno diverso tra loro.

La prima è quella di tutti coloro che negli ultimi anni avevano lanciato l’allarme sulla crisi e che erano stati regolarmente bollati come disfattisti e anti-italiani. Avere ragione col senno di poi non è mai di grande consolazione, soprattutto se si pensa che avere aspettato tre anni non ha che aggravato la situazione.

Chi si vede alzare le tasse (quando ancora in primavera si riproponeva la favola di un abbassamento delle aliquote) non può fare a meno di chiedersi se tutto questo non poteva essere evitato: con interventi sulla spesa più incisivi e tempestivi e favorendo la crescita.
Sì perché il vero problema italiano è quello di non riuscire a crescere e questa manovra, come le precedenti, non contiene una ricetta chiara e riconoscibile di sviluppo, né liberista né keynesiana. Mancano ancora le riforme, se si fa eccezione per gli interventi sul mercato del lavoro - che puntano a renderlo un po’ meno ingessato - e quelli sul sistema pensionistico. Ci preoccupiamo di tenere sotto controllo i conti, ma manca un’idea di futuro, un disegno per il Paese di domani.

Mettendo le mani in tasca in maniera pesante a quegli italiani che le tasse le hanno sempre pagate ci saranno inevitabilmente meno soldi da spendere: si taglia un pezzo di domanda e il rischio non è solo quello di non garantire nuova crescita ma di cominciare a decrescere.
Se da un lato nessuno si può tirare indietro in momenti di grave crisi, così come è giusto chiedere maggiori sacrifici a chi più ha, dall’altro si consolida ancora una volta l’iniquità di colpire sempre gli stessi. Perché il cosiddetto «contributo di solidarietà» (da considerarsi come un aumento delle aliquote più alte, capace di regalarci tasse record) viene scaricato non tanto sugli italiani più ricchi - come si cerca di far credere - ma su quelli più controllati e colpibili, quelli che dichiarano completamente il loro reddito, i cui guadagni sono tutti alla luce del sole.

In molti si sono già chiesti perché si sia deciso di intervenire solo sui redditi da lavoro e non sui patrimoni, come se il possessore di dieci appartamenti sia da considerare più sacro e intoccabile del padre di famiglia che porta a casa cinquemila euro al mese. Così come in molti si stanno chiedendo in queste ore perché mai i tagli alle poltrone si concentrino su Province e Regioni e non sui parlamentari nazionali o perché deputati e senatori non paghino tasse sulle loro liquidazioni, mentre il Tfr (tassato) dei dipendenti pubblici verrà pagato con due anni di ritardo.

La manovra andava fatta, le medicine amare non erano più rinviabili e ognuno di noi dovrà fare la sua parte (comprese le opposizioni e le parti sociali), ma i tagli andrebbero sempre accompagnati da misure di stimolo e di rilancio, da investimenti di lungo periodo, o perlomeno da quelle riforme a costo zero che non richiedono nuove spese ma il coraggio di scontentare settori di popolazione.

La sensazione che questo governo dell’economia ci trasmette è invece di profonda sfiducia nell’Italia, quasi che il declino sia una condizione obbligata, da cui è impossibile sfuggire e a cui è inutile opporsi.

Un Paese però non può pensare di vivere solo in difesa, di chiudersi in una trincea sempre più stretta e soffocante, deve scommettere su se stesso, coltivare non solo la paura ma anche la speranza. Deve puntare sui giovani, fare investimenti in quella direzione, solo così tagli e tasse possono apparire un po’ più accettabili. Ma se il disegno e il futuro mancano, allora restano solo la paura e l’incertezza e nuove tensioni a dividere un italiano dall’altro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9094
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« Risposta #69 inserito:: Settembre 11, 2011, 03:35:45 pm »

11/9/2011

11 - Settembre, perchè è un anniversario unico

MARIO CALABRESI

Siamo arrivati al giorno esatto del decimo anniversario degli attentati del 2001, ma è da una settimana che ne parliamo: la Stampa ha dedicato due supplementi - uno domenica scorsa e uno oggi - pagine di analisi e commenti.

Perché tutto questo spazio a un avvenimento che fece sì quasi tremila morti ma che non è unico nella storia?
Quanti altri massacri, stragi o genocidi - mi vengono in mente il Ruanda o la Bosnia per primi - dovremmo e potremmo ricordare con lo stesso impegno e spazio? Certamente molti - non esistono unicità senza precedenti come ci spiega accuratamente Enzo Bettiza sulla copertina dell’inserto che trovate al centro del giornale - ma c’è qualcosa che caratterizza l’11 settembre, che lo rende eccezionale, al di là del doveroso ricordo di quelle donne, di quei bambini e di quegli uomini che persero la vita. E’ il fatto che l’11 settembre ha accelerato molti fenomeni che germogliavano da anni, ma che dopo quegli attentati trovarono la strada spianata e hanno cambiato in modo significativo le nostre esistenze e gli equilibri del mondo in cui viviamo.

Il primo fenomeno, il più dirompente, mi sembra possa essere la crescita impetuosa e senza ostacoli dell’economia cinese. Il 10 settembre del 2001 i centri di ricerca e gli analisti di mezzo mondo prevedevano un decennio di sfida Pacifica: gli Stati Uniti avrebbero dovuto tenere a bada e rintuzzare la crescita cinese e le mire di Pechino sulle materie prime sparse sul globo. Dovevano essere dieci anni di battaglie economiche e geopolitiche ma non sarebbe stato così.

L’11 settembre ha cambiato l’agenda dell’Occidente, ha messo al primo posto la lotta al terrorismo islamico, ha dirottato immense quantità di denaro e di energie al compito di contrastare Al Qaeda e di difendere le capitali americane e europee. L’America ha girato la testa da un’altra parte, ha speso tra i due e i tre miliardi di dollari in due guerre - quei soldi che oggi appesantiscono il suo debito e impediscono politiche di rilancio dell’economia - e ha lasciato campo libero non solo alla Cina ma anche alla crescita di Paesi vincenti come India e Brasile.

Mentre Washington dava la caccia ai taleban e alle cellule terroristiche di Bin Laden, Pechino dava la caccia alle materie prime di continenti interi, dall’Africa al Sud America. Basta atterrare all’aeroporto di Nairobi in Kenya per rendersi conto di quanti cinesi ci passano ogni giorno per affari, così come il giorno in cui è scoppiata la guerra in Libia abbiamo improvvisamente scoperto che a Tripoli lavoravano decine di migliaia di operai con il passaporto di Pechino, a significare che stavano conquistando il monopolio delle costruzioni perfino sulla sponda Sud del Mediterraneo.

In questo decennio i rapporti di forza tra le varie aree del mondo sono profondamente cambiati, dal G8 si è passati al G20, e il debito americano, come parte di quello europeo sono in mani asiatiche. Negli ultimi giorni ha viaggiato in Europa una delegazione con i vertici del Fondo sovrano cinese, quello che compra partecipazioni e sottoscrive appunto il debito degli stati nazionali, chi li ha incontrati racconta non solo la preparazione e la puntualità di questi alti funzionari di Pechino ma anche la loro coscienza di essere saliti sui gradini più alti del pianeta e la loro convinzione di potersi permettere di guardare molti di noi dall’alto verso il basso.

Viviamo in un altro mondo, un mondo in cui le tensioni religiose si sono accresciute - fortunatamente senza esondare in maniera irreparabile come sottolinea proprio oggi Enzo Bianchi -, in cui il nostro modo di viaggiare, di muoverci e di guardare agli altri è cambiato, in cui le paure per molto tempo hanno trionfato sulla razionalità e in cui molte realtà - a partire dal mondo arabo - sono state terremotate. Oggi non ci sono più Osama bin Laden e Saddam Hussein, così come non dettano più legge Mubarak e Gheddafi: se quell’11 settembre fosse stata una mattina normale molto probabilmente sarebbero ancora al loro posto.

Gli aerei che hanno colpito le Torri Gemelle e il Pentagono non hanno distrutto le nostre economie ma hanno dato vita a fenomeni esiziali, penso per esempio alla necessità americana di reagire con un ottimismo dei consumi che non aveva ragion d’essere e che avrebbe indebitato una nazione fino all’inevitabile scoppio della bolla immobiliare che ha dato vita alla recessione da cui non siamo ancora usciti oggi.

Per questi motivi si tratta di un anniversario diverso dagli altri, per gli effetti sul nostro presente e sul nostro futuro. Per questo quella mattina di luce meravigliosa, in cui è finita un’epoca, merita una grande attenzione e uno sforzo di comprensione. Noi pensiamo di avervi dato le nostre firme migliori per aiutarvi a capire, anche se in questa giornata resta solo un dovere: quello della memoria.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9182
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« Risposta #70 inserito:: Settembre 27, 2011, 10:44:27 am »

16/9/2011

L'Italia merita qualcosa di meglio

MARIO CALABRESI


Ci sono giorni in cui il destino ti mette sotto gli occhi tutto quello che non vorresti vedere, da cui scappi, e lo fa con una chiarezza che non lascia scampo.

Ieri è stato uno di quei giorni per Silvio Berlusconi e per l’Italia. Una micidiale coincidenza ha messo in fila i nuovi guai giudiziari del nostro premier, la drammatica situazione economica con il crollo della nostra credibilità internazionale e l’assenza del nostro Paese dalla politica internazionale che conta. Partiamo da quest’ultima. Ieri a Tripoli il Presidente francese e il premier inglese sono stati ricevuti da una folla festante, accolti come liberatori, per Sarkozy perfino i fiori. Nessun italiano nelle immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Eppure alla guerra in sostegno dei ribelli contro Gheddafi abbiamo partecipato anche noi, ma ci siamo accodati malvolentieri e oggi abbiamo altro a cui pensare. Mentre francesi e inglesi costruiscono il loro futuro sulla sponda del Mediterraneo di fronte a casa nostra - compito che si è dato anche il premier turco Erdogan, pure lui in visita in Libia, dopo essere stato in Egitto.

Il nostro presidente del Consiglio invece ha passato la giornata in silenzio, chiuso con i suoi avvocati a studiare le carte e le grane giudiziarie che arrivano da Bari, Milano e Napoli.

Ieri la Banca d’Italia ha certificato la fuga degli investitori stranieri dai titoli di Stato italiani: nel solo mese di luglio ci sono state vendite dall’estero di titoli di debito italiani per 21 miliardi di euro. Gli stranieri vendono e a comprare, per non far saltare il Paese, sono le banche italiane e la Banca d’Italia. Ma a liberarsi del nostro debito - come spiega in queste pagine il professor Franco Bruni - non sono speculatori ma fondi pensione europei e americani, seri e rispettabili, che lasciano i titoli italiani perché non danno loro più fiducia. Non siamo credibili, ripetono ormai con micidiale costanza analisti e giornali di tutto il mondo. Difficile dare loro torto, se in contemporanea le agenzie italiane diffondevano l’elenco dettagliato delle ragazze «indotte all’attività di prostituzione in favore di Silvio Berlusconi», premurandosi di specificare anche le ville o i palazzi dove ognuna delle donne ha partecipato alle «serate galanti». A Milano nel frattempo si chiedeva di processare il premier per aver avuto un ruolo nella divulgazione dell’intercettazione della famosa telefonata tra Piero Fassino e l’assicuratore Giovanni Consorte in cui si parlava dell’acquisto da parte di Unipol della Bnl. A Napoli intanto i pubblici ministeri attendono di sapere se Berlusconi si farà interrogare nel procedimento che riguarda i ricatti da lui subiti dalla coppia Tarantini-Lavitola, a cui ha pagato diverse centinaia di migliaia di euro nell’ultimo anno.

Siamo immersi in una nuova bufera giudiziaria, il premier può accusare i magistrati di accanimento ma questa volta non può più giustificarsi sostenendo che si tratta di vecchie vicende, dei tempi in cui faceva l’imprenditore, perché tutte le indagini aperte riguardano gli ultimi due anni e sono figlie della sua vita spericolata.

Per molto tempo ci siamo permessi il lusso di essere guidati da un uomo che doveva dedicare molto tempo per difendersi nei processi o più spesso dai processi, siamo mancati come Paese sulla scena internazionale perché le priorità del premier erano altre, ora però il gioco è diventato troppo pericoloso e devastante per tutti. Avere un presidente del Consiglio che deve passare ore con i suoi avvocati per mettere in piedi strategie difensive è indubbiamente un danno per una nazione, quel tempo è inevitabilmente sottratto alle attività istituzionali, siano queste la politica estera o le finanze pubbliche. In passato però non c’era modo per quantificare con sicurezza quanto questo costasse alla collettività e ai cittadini italiani. Oggi purtroppo tutto ciò è immediatamente percepibile: sono il crollo drammatico dei valori delle azioni, l’innalzarsi degli interessi che dobbiamo pagare per riuscire a piazzare i nostri titoli di Stato e il conseguente aumento di tasse varie a cui siamo sottoposti in conseguenza. Non sto dicendo che la profonda crisi economica sia conseguenza diretta dei processi berlusconiani, anche se oggi la credibilità e la serietà sono le merci più apprezzate sui mercati, ma che in un momento così delicato abbiamo bisogno di una guida che pensi soltanto a come salvare il Paese, che metta l’interesse nazionale molto sopra al proprio. Che non pensi a come bloccare le intercettazioni ma a come partecipare alla ricostruzione della Libia e che sia pronto per il verdetto delle agenzie internazionali di rating che potrebbe esserci recapitato questa sera.

Sono passato alla Camera dei Deputati l’altro ieri pomeriggio, non ci andavo da parecchio tempo, e sono rimasto colpito dalla sensazione di lontananza dal Paese reale che si respira. Mentre fuori scoppiavano due bombe carta e gli elicotteri della polizia volteggiavano su Montecitorio, dentro il Palazzo non si avvertiva quell’urgenza e quell’emergenza che oggi ogni cittadino sente sulla sua pelle. Ho visto grandi conciliaboli per discutere come salvare dall’arresto Marco Milanese, l’ex braccio destro di Tremonti, ho visto il responsabile Scilipoti proporre allegramente nuovi condoni e un gruppo di ministri valutare l’opportunità di un decreto di urgenza per bloccare la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni.

Alcuni pensano che non si possa andare avanti così, ma nessuno lo dice ad alta voce e la convinzione comune è che si continuerà navigare a vista, giorno dopo giorno. «Li vede - mi ha detto un ministro indicando la folla dei deputati che usciva dall’Aula - nessuno di loro vuole andare a casa, perché la gran parte dei parlamentari è convinta che non verrà mai più rieletta e allora resistono e garantiscono la maggioranza». Una maggioranza esiste, un governo anche, ma l’Italia sta affondando e diventa sempre più piccola. Ogni giorno ci sembra d’aver toccato il fondo ma con angoscia scopriamo che si può scendere ancora. Il Paese ha bisogno di essere governato, di avere una direzione e un po’ di speranza. Gli italiani non meritano di vivere in quest’angoscia.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9207
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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 17, 2011, 05:17:27 pm »

16/10/2011

Perché succede solo qui

MARIO CALABRESI

Ieri in 951 città di 82 Paesi del mondo sono scesi in piazza cittadini di ogni età, ma soprattutto giovani, per protestare contro un sistema economico che si preoccupa di salvare le banche prima dei cittadini. Sono i cosiddetti «Indignati», che hanno preso il nome dai manifestanti spagnoli che in primavera hanno occupato la Puerta del Sol a Madrid per denunciare la disoccupazione crescente, la precarietà dilagante e i privilegi della casta economica e di quella finanziaria.

La protesta ha fatto proseliti e in queste settimane i riflettori si sono concentrati a New York sugli «occupanti» di Zuccotti Park, una piazza poco lontana da Wall Street, dove è stato costruito un piccolo accampamento che intende contrapporre l’uomo della strada, che soffre la crisi, ai broker della Borsa che sono tornati a prendere bonus milionari. La mobilitazione americana non è mai sfuggita di mano e, di fronte alle accuse del sindaco di sporcare e deturpare, gli occupanti si sono messi al lavoro per lavare e pulire.

Poi ieri c’è stata la prova mondiale di un movimento che sta raccogliendo la comprensione di giornali, televisioni, comuni cittadini, politici e perfino di banchieri.
In 950 città le manifestazioni sono state assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo mostrato al mondo un’anomalia italiana.
Anche oggi ci tocca vergognarci.

Mentre a New York i ragazzi indossavano distintivi pacifisti ed erano armati solo di scope e spazzoloni per pulire, da noi indossavano caschi e erano armati di bombe carta.
La colonna sonora a Manhattan è quella del tamburino che suona i bonghi (e il dibattito tra le tende è se debba fermarsi dopo pranzo per non disturbare chi riposa nelle case vicine) o dei buddisti che pregano ripetendo «Om». L’odore è quello degli incensi di attempati figli dei fiori.

La nostra colonna sonora invece, come troppe volte nella storia italiana, è quella delle sirene dei blindati di polizia e carabinieri, dei rotori degli elicotteri che sorvolano gli scontri e delle esplosioni, mentre l’odore è quello acre dei lacrimogeni o del fumo delle auto incendiate.
Perché è accaduto a Roma, perché è accaduto solo da noi, perché alcune migliaia di ragazzi che volevano solo la guerriglia sono riusciti a prendere in ostaggio una città, un movimento nascente e a distruggere ogni possibilità di mobilitazione pacifica e fruttuosa?
Perché l’Italia si ritrova ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i lacrimogeni?

Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs, che faceva uso di droghe ma le sue visioni erano futuristiche e non apocalittiche.

Da noi accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro. Per guarire dovremmo eliminarli dal vocabolario. Smettere di relativizzare la violenza perché, a seconda dei tempi, a giustificarla c’è il regime democristiano, quello berlusconiano, l’alta velocità o qualche riforma indigesta.

Milioni di italiani sono indignati dalla nostra classe politica, dalla lontananza che chi ci governa mostra verso i problemi reali dei cittadini, e dalla mancanza di investimenti sul futuro dei giovani. Ma non per questo pensano di scendere per strada a bruciare l’auto del vicino e non per questo sono meno indignati, arrabbiati o sfiniti. Di certo considerano quei manifestanti dei vandali e dei criminali, che non conoscono il valore del rispetto e non hanno mai faticato per guadagnarsi da vivere.

Ora la rabbia è grande, ma state sicuri che tra tre giorni quando le forze dell’ordine avranno identificato alcuni di questi ragazzi e un magistrato li indagherà, allora si alzeranno voci pronte a difenderli, a giustificarli e a mettere sul banco degli imputati giudici e poliziotti colpevoli di non capire e di essere troppo severi. Ma la democrazia si preserva difendendo la convivenza e il diritto delle migliaia che volevano manifestare pacificamente, non schiacciando l’occhio agli estremisti.

Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo: perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza, allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento. Ai giovani allora restano solo due possibilità: un atteggiamento di rassegnazione e di apatia che trova riscatto momentaneo solo nello sballo degli Happy Hour (le ore del lungo aperitivo che dal tramonto si trascina fino a notte fonda) o un atteggiamento di rottura. Perché se si dice che nulla si può costruire, allora non resta che la pulsione a sfasciare e distruggere.

Una sola speranza ci resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e sperano. Ce ne sono ben più di quanto si possa immaginare e molti erano in piazza ieri: li abbiamo visti battere le mani a polizia e carabinieri, li abbiamo visti provare a cacciare dal corteo gli incappucciati, li abbiamo visti piangere di rabbia. Ragazzi, il futuro è vostro se imparate subito a rifiutare la violenza, a non tollerarla mai, a isolare chi la predica e la mette in atto, a denunciarla il giorno prima e non quando ormai il corteo è partito. Il futuro esiste se ve lo costruite con speranza e tenacia e se non ve lo fate scippare da chi non crede in nulla.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9324
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« Risposta #72 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:19:25 pm »

24/10/2011

La scelta che il premier non può più rinviare

MARIO CALABRESI

E’ odioso essere commissariati, essere cittadini di uno Stato a sovranità limitata, a cui premier stranieri dettano l’agenda delle riforme e impongono tre giorni di tempo per dare risposte.

È irritante assistere ai risolini e agli ammiccamenti di Merkel e Sarkozy quando sentono parlare d’Italia e di Berlusconi: ciò non è accettabile ed è irrispettoso.

È umiliante ascoltare che l’Europa ci considera alla stregua della Grecia, anzi - a quanto ci risulta - al vertice di ieri è stato detto che «in questo momento non solo l’Italia è in pericolo, ma è il pericolo».

Il rispetto però ce lo si conquista con la credibilità e mantenendo gli impegni e tutto questo a noi manca da troppo tempo. Siamo il malato d’Europa perché il governo è paralizzato e non riesce a indicare una direzione di crescita e riforme. In tutto il Continente, pur tra mille divisioni, si concorda su una cosa: o il premier italiano cambia improvvisamente marcia o - per il bene di tutti - si fa da parte seguendo l’esempio spagnolo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9357
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 05, 2011, 11:30:09 am »

5/11/2011

Il punto di non ritorno

MARIO CALABRESI

In altri tempi Silvio Berlusconi tornando dalla Costa Azzurra si sarebbe fermato a Genova, in altri tempi avrebbe speso un poco del suo tempo per mostrare attenzione verso una regione in cui le acque hanno ucciso 16 persone in meno di una settimana.
Il nostro premier ogni giorno di più mostra di aver perso il contatto non solo con l’Italia ma anche con la realtà.

C’è la moda passeggera di assaltare i titoli di Stato italiani», ha detto ieri alla conferenza stampa finale del G20, fingendo di non sapere che se i risparmiatori di tutto il mondo abbandonano o non comprano i nostri titoli è perché abbiamo un gigantesco problema di credibilità. Lo abbiamo dovuto sentire dalla viva voce del direttore del Fondo monetario Christine Lagarde, lo stesso organismo che insieme all’Unione europea dovrà monitorare i passi dell’attuazione della lettera con cui ci siamo impegnati al risanamento e al rilancio. Siamo sorvegliati speciali, ma anche di questo fingiamo di non accorgerci.

Nella rappresentazione della realtà del Cavaliere in Italia «non c’è una forte crisi» e lo dimostrerebbero i ristoranti pieni e gli aerei in cui è difficile trovare un posto. Per la mancanza di un contatto vero con i suoi concittadini, il premier non sa che in quei ristoranti gli italiani spesso si stanno mangiando i loro risparmi.

Ieri sera, secondo i conti di Verdini e Alfano, il governo non ha più la maggioranza alla Camera, per questo sono andati a Palazzo Grazioli a riferirglielo. Ma anche qui Berlusconi non ha mostrato di comprendere che il suo partito si sta sgretolando, sembra non sentire il disagio terribile che attraversa ormai anche i suoi fedelissimi, che a più riprese - anche se non pubblicamente - gli hanno suggerito di fare un passo indietro. Si dice sicuro di recuperare qualche voto nei prossimi due o tre giorni, puntando ancora una volta su quel calcio-mercato politico di cui si è mostrato a più riprese maestro.

Forse la trincea potrebbe reggere ancora, ma ormai senza nessuna prospettiva futura, con il solo fine di non uscire di scena, di restare al governo una settimana in più.
Secondo il «Financial Times» Giulio Tremonti avrebbe messo in guardia Berlusconi che la sua permanenza a Palazzo Chigi potrebbe significare un disastro per l’Italia sui mercati. Si guarda all’apertura delle Borse di lunedì con ansia, si guarda al crescere dell’ormai famoso spread (la differenza tra il rendimento dei nostri titoli di Stato e quelli tedeschi), che ormai punta pericolosamente a raggiungere quota cinquecento, si guarda a quanto siamo costretti a pagare d’interesse per far acquistare il nostro debito. Gli occhi di tutta Europa sono puntati su queste cifre, solo quelli del premier sembrano essere puntati in un’altra direzione. Se la barriera costruita intorno alle nostre emissioni ancora regge è solo grazie ai continui acquisti della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Ma se i nostri partner, a partire da Francia e Germania, lanciassero il segnale che non si possono continuare a spendere i denari di tutti per tenere a galla l’Italia allora il disastro sarebbe assicurato.

Per questo è diventato obbligatorio chiedersi come Berlusconi speri di salvarsi e di salvarci, cosa possa ancora fare per cercare di far cambiare rotta agli eventi. Siamo vicini al punto di non ritorno, al momento in cui il cambio di governo sarà dettato da eventi esterni, possono essere questi i mercati o i partner europei, oppure da una drammatica votazione parlamentare su provvedimenti economici. Nessuno si merita una situazione e un finale di questo tipo, non l’Italia e nemmeno Berlusconi.

E’ ancora in condizione di scegliere lui i tempi e i modi per un passo indietro, sarebbe un gesto sensato verso il Paese, verso la sua maggioranza e i suoi elettori. Per farlo però dovrebbe aprire gli occhi e guardare a quanto è cambiato lo scenario che lo circonda, scoprirebbe che la crisi stringe l’Italia e l’Europa, che gli italiani hanno bisogno di normalità e tranquillità e sono sfiniti dalle prove di forza, dai giochi di Palazzo e dalle battute.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9399
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 15, 2011, 11:43:58 am »

15/11/2011

Quei privilegi non più tollerabili

MARIO CALABRESI

Mario Monti ha pochissimo tempo davanti, l’Italia non può stare a lungo senza un governo in questa situazione, ma per cominciare la sua navigazione deve riuscire a conquistarsi un patrimonio di credibilità con i cittadini e a costruirsi una tenuta politica che ne eviti il naufragio precoce.

Una sfida difficile in un Paese che ancora oggi mostra di non avere consapevolezza delle difficoltà che affrontiamo: lo dimostrano quei leader politici che continuano a giocare e a opporre veti e tutti quei cittadini che sono pronti ad accettare ogni sacrificio, basta che tocchi qualcun altro e non loro.

Il premier incaricato però, pur con quella sua aria distante e un po’ lunare, ha mostrato ieri sera di essere un attento ascoltatore degli umori degli italiani, ha capito che stava crescendo il malessere per un governo che si prevedeva composto solo da uomini e di grande esperienza. Così ha corretto l’impressione sottolineando che la sua squadra sarà orientata a dare risposte ai bisogni delle donne e dei giovani, che perseguirà la crescita e l’equità e non avrà come motto: «Lacrime e sangue».

Se tende ancora l’orecchio allora gli sarà chiaro che, per conquistarsi un ampio consenso e il sostegno della maggioranza degli italiani, dovrebbe mettere al primo punto del suo programma un intervento vero sui costi e sui privilegi della politica.

In tempi di sacrifici e di tagli l’esempio deve venire dall’alto, da chi ci governa: solo se si hanno le carte in regola allora si può chiedere agli italiani di fare rinunce o pagare nuove tasse. La maggioranza uscente ha sottovalutato il problema in questi anni, non ha capito quanto fosse grande nel Paese l’insofferenza verso la cosiddetta «casta», e anche per questo ha perso il consenso di chi l’aveva votata.

E’ necessario un gesto di discontinuità, le possibilità sono moltissime perché moltissimi sono i privilegi e i costi delle burocrazie e della politica (lo hanno spiegato con grande chiarezza ieri Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera , ricordandoci tra l’altro che a Palazzo Chigi ci sono ben più del triplo dei dipendenti che nella sede del primo ministro britannico). Molte sono le cose inaccettabili, per esempio non si capisce perché ogni cittadino italiano abbia una trattenuta sulla liquidazione del 23 per cento (fino a 15 mila euro, perché sopra questa cifra l’aliquota sale al 27) mentre i parlamentari invece non pagano tasse sulla loro indennità di fine mandato. E, come abbiamo raccontato in un’inchiesta di Carlo Bertini, dopo una sola legislatura l’indennità è di ben 46 mila euro netti. E’ chiaro che i tagli alla politica non faranno la differenza nel bilancio dello Stato e non saranno certo determinanti per ridurre il nostro debito, ma è certo che faranno un’immensa differenza nella percezione dei cittadini e nella loro propensione ad accettare i sacrifici necessari a rimettere in equilibrio il Paese. E’ un’impresa difficile e coraggiosa a ogni latitudine (ieri i parlamentari francesi hanno rigettato la proposta di tagliarsi gli stipendi del dieci per cento, preferendo un ben più modesto 3 per cento e non da subito), ma è il necessario punto di partenza.

Ma se ha bisogno dei cittadini, Monti ha bisogno anche del sostegno convinto del Parlamento, per questo ieri sera è stato attento a mostrare rispetto per la politica, i suoi tempi e i suoi percorsi necessari. Anche se non può sfuggire che se la giornata è stata nuovamente drammatica ciò è accaduto perché non c’è ancora un nuovo governo e non ci sono certezze sui tempi.

Alla politica l’ex commissario europeo si è rivolto mostrando la possibilità di trasformare un momento difficile in una vera opportunità di rilancio e speranza. Dovrebbe essere chiaro a tutti i nostri leader di partito che Monti è l’ultima scialuppa di salvataggio sia per loro sia per l’Italia. Ma non tutti l’hanno capito e questa mattina sarà cruciale per misurare la reale volontà dei due partiti maggiori di sostenere il nuovo governo.

Monti avrebbe voluto avere nel suo esecutivo esponenti di peso legati alle tre maggiori forze politiche del Parlamento, non voleva dire tornare indietro o chiedere ai segretari di partito di farne parte, ma costruire un filo diretto con il Parlamento che desse maggiore tenuta al nuovo esecutivo. Si parlava di Gianni Letta e Giuliano Amato, ma questa soluzione è rimasta schiacciata tra i veti incrociati di Pd e Pdl, che non riescono a uscire dalla stagione della contrapposizione e della battaglia. Monti non ha ancora abbandonato la speranza di rafforzare il suo governo, cosciente insieme al Presidente della Repubblica che ad un governo puramente tecnico è più facile «staccare la spina», e ai partiti ha detto chiaramente che è «indispensabile un appoggio convinto».

Quest’uomo, che appare un marziano delle scene politiche per come risponde o non risponde - alle domande, sembra avere presente meglio di quasi tutti noi la gravità del momento. Intorno a lui, nei partiti e nell’opinione pubblica, la memoria sembra essere brevissima, non più lunga di una giornata. Accade perché il cambiamento non ce lo siamo conquistato, perché questa situazione è figlia di spinte esterne più che di una consapevolezza maturata all’interno. Ora abbiamo davanti una seconda occasione, dopo quella seguita al crollo della Prima Repubblica, per riformare il sistema, per ripartire e per ricostruire. Una terza probabilmente non ce la darà nessuno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9439
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