Don Cannavera: Il girone infernale del carcere di Uta
Pubblicato il 14/09/2017
da Antonio Salvatore Sassu
Carcere casa circondariale Cagliari Uta
Il recente rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa sullo stato delle carceri italiane ha messo in evidenza una serie di criticità che riguardano anche gli istituti di pena sardi, principalmente viene citato un caso di maltrattamenti nei confronti di un detenuto accaduto nel carcere di Bancali, notizia passata sui tg nazionali ed elegantemente glissata dalla stampa locale. Eppure le notizie sul nuovo carcere di Bancali pubblicate negli ultimi tempi non sono tra le più confortanti: rivolte dei detenuti islamisti, suicidi, assistenza sanitaria carente, risse tra detenuti e minacce ai poliziotti. Un elenco di criticità senza fine. Ma la situazione non è certo migliore nelle altre carceri dell’isola dove il sovraffollamento la fa da padrone, con oltre 2.300 detenuti, con una percentuale di custodia cautelare intorno al 35 per cento. La custodia cautelare, lo ricordiamo, non riguarda solo gli arrestati con l’accusa di aver commesso un reato, ma anche i condannati non in via definitiva. Non a caso, sempre Strasburgo ha invitato l’Italia a prendere massicci provvedimenti alternativi alla custodia cautelare perché stiamo parlando di innocenti sino all’ultimo grado di giudizio. Questo svuoterebbe in parte le carceri, alleggerendo una situazione esplosiva, e rispetterebbe la legalità, articolo 27 della Costituzione compreso.
Le criticità sono presenti in tutti gli istituti di pena della Sardegna, ma la situazione più grave sembra essere quella del carcere di Uta, in provincia di Cagliari, dove la nuova struttura, inaugurata nel 2014, è già al collasso: una polveriera pronta a esplodere con risse tra detenuti, tentativi dei carcerati di organizzare uno spaccio interno di droga, rivolte, celle incendiate e/o allagate, e tentati suicidi. Un girone infernale che peggiora di ora in ora. E proprio sulla situazione di Uta abbiamo intervistato don Ettore Cannavera, che a fine agosto ha visitato il carcere assieme a una delegazione del Partito Radicale. Don Cannavera è un esperto dei problemi carcerari, con alle spalle una vita intera dedicata ai detenuti, sia dietro che fuori le sbarre, in particolare ai minorenni e ai giovani.
Come ha trovato la situazione nel carcere di Uta?
“Terribile, pesantissima, ci troviamo di fronte a una polveriera pronta a esplodere, anche a causa del sovraffollamento e della mancanza di attività, del poco personale e della insufficiente assistenza sanitaria. Quasi tutti i detenuti passano il loro tempo chiusi in cella, con poche occasioni di attività o di socializzazione. Per non parlare del mix della tipologia dei reclusi, che mette a repentaglio il delicato equilibrio dei rapporti all’interno del carcere. Ricordo che solo il 10 per cento dei carcerati italiani sono delinquenti, il 90 per cento sono sofferenti mentali, rifugiati, tossicodipendenti. A Uta la situazione è peggiore proprio a causa dell’alto numero dei sofferenti mentali che vi sono rinchiusi. La società è forcaiola, è emarginante. Abbiamo chiuso gli ospedali psichiatrici e abbiamo risolto il problema della mancanza di struttura adeguate sostituendoli con il carcere. Non si sa dove mettere una persona che ha o che crea problemi legati al suo disagio mentale? Oggi l’unica risposta è: mandiamolo in galera, la pattumiera sociale indifferenziata, dove stanno tutti assieme senza distinzioni. Al limite, sarebbe meglio una struttura da “raccolta differenziata”, con sezioni specializzate, tipo, tanto per fare un esempio, un piccolo ospedale psichiatrico per quei detenuti che non possono e non devono convivere gomito a gomito con gli altri.”.
Don Ettore Cannavera è stato per 23 anni cappellano del carcere minorile di Quartucciu (in provincia di Cagliari) sino alle polemiche dimissioni del maggio 2015, quando ha affermato che il carcere minorile è una struttura inutile, dannosa e superata. Ma a occuparsi dei problemi dei minori rinchiusi dietro le sbarre ha iniziato 35 anni fa, quando ha fondato la sua prima comunità per minori sottoposti a provvedimenti di polizia giudiziaria. Contemporaneamente non ha mai smesso di occuparsi dei problemi dei reclusi dietro le sbarre: “Quando mi chiamano vado in carcere. Questo è il mio mondo, il mio modo di essere cristiano. “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” dice Gesù nel Vangelo, e i cristiani dovrebbero riflettere su questa frase”.
Come e perché ha iniziato a occuparsi di minorenni incarcerati?
“Trentacinque anni fa, su invito del Tribunale dei minori di Cagliari. Avevo già preso coscienza dei limiti della carcerazione per i ragazzi dai 14 ai 18 anni e delle mancanza di alternative. Così ho fondato la mia prima comunità: un luogo dove scontare la pena e, contemporaneamente, una possibilità di riscatto e la speranza di un futuro migliore per questi ragazzi”.
Il passo successivo di don Cannavera è stato quello di fondare, nel 1998, una seconda comunità, La Collina, dieci ettari in territorio di Serdiana. Questa comunità è stata ideata per i giovani, dai 18 ai 25 anni, che scontano reati commessi da minorenne.
Perché questa nuova avventura?
“Perché mi sono accorto che molti ragazzi, dopo aver compiuto i 18 anni, rientravano in carcere perché non avevano alternative oltre a delinquere, non avevano un luogo di sostegno che li avviasse al mondo del lavoro e della scuola, secondo regole di legalità. Così ho pensato di offrire loro un’esperienza e un’occasione che non avevano mia vissuto prima. Non dimentichiamoci che oggi si matura più tardi, che l’adolescenza è un periodo più lungo rispetto al passato, ed è per questo che abbiamo portato l’età massima dei ragazzi ospitati in comunità a 25 anni”.
Come è strutturata La Collina?
“Il punto fondamentale del nostro lavoro è quello di inserire i ragazzi in un contesto educativo centrato sulla vita in comune, sulla condivisione e il rispetto dell’altro, sull’autonomia personale ed economica, raggiungibile principalmente attraverso il lavoro. Nei nostri terreni, estesi una decina di ettari, abbiamo un vigneto e un oliveto con 1.200 piante. Noi produciamo e vendiamo olio e vino. I ragazzi vengono assunti da una cooperativa e ricevono uno stipendio di 600 euro al mese, diviso in parti uguali tra loro e la cassa comune. In carcere c’è assistenzialismo puro, qui uno mangia grazie al suo lavoro. In carcere si butta tanta roba, qui se resta qualcosa a pranzo si conserva per la cena. Sono ragazzi sani, forti e robusti. Perché assisterli quando possiamo dar loro la possibilità di lavorare e guadagnarsi da vivere?
In tanti anni di lavoro sul campo che idea si è fatto della delinquenza minorile e come si potrebbe combatterla?
“Un concetto che amo esprimere è che ‘deviati’ non si nasce ma si diventa. Bisogna capire quali sono i fattori di questa devianza. La risposta non è certo il carcere minorile, che non migliora ma peggiora la situazione. A quell’età non sei un delinquente ma un adolescente, delinquente lo diventerai anche grazie al carcere. Al minore bisogna fare scontare la pena in un ambito educativo, ma educare è pratica di libertà, e il carcere, proprio per come è strutturato, non è il luogo più adatto. Un ragazzino, un adolescente, non può crescere in un contesto di carcerazione ma deve crescere in un contesto di libertà controllata. In carcere, infatti, sei messo da parte, stai in cella come dentro un freezer e peggiori col tempo. Poi quando esci non hai quasi nessuna speranza di poter vivere una vita ‘normale’. E questo vale soprattutto per i minori. Non è un caso che il 70 per cento degli ex carcerati delinque di nuovo. Mentre la pena deve tendere alla rieducazione. D’altronde lo dice anche l’articolo 27 della Costituzione: ‘L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’”.
Senza dimenticare una maggiore attenzione nei confronti dei minori e dei giovani?
“Certamente. Per i minori è preferibile una struttura adeguata ma ci vogliono anni per fare maturare la società. La nostra, lo ripeto, è una società forcaiola ed emarginante. Quando un ragazzo commette un reato bisogna chiedersi di chi sono le responsabilità: non sono solo sue ma è il sistema educativo italiano che è fallimentare. Una volta che non abbiamo sviluppato bene il cammino verso la legalità in questi ragazzi, ricordiamoci che li abbiamo privati del loro fondamentale diritto all’educazione. Se poi li priviamo anche della libertà commettiamo altri danni. Ogni volta che un ragazzo commette un reato ci dobbiamo interrogare noi adulti, non sono nati così, non sono nati delinquenti, dietro ci sono responsabilità familiari, scolastiche, territoriali, della Chiesa, di tutti noi adulti. O prendiamo atto di questo oppure torniamo alle teorie del Lombroso nel suo libro ‘Delinquenti nati’!”
Antonio Salvatore Sassu
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