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Autore Discussione: FRANCO CARDINI. Missili e campanili  (Letto 3620 volte)
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« inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:19:19 am »

30/11/2009

Missili e campanili
   
FRANCO CARDINI


Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.

Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.

«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?

Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?

Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?

C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 07, 2010, 10:00:24 am »

7/8/2010

Ma l'Italia è tutta un Palio
   
FRANCO CARDINI

In seguito alle dichiarazioni del ministro Brambilla sull’inopportunità di proseguire con manifestazioni folcloristiche o tradizionali che nuocciono in qualche modo agli animali e quindi, indirettamente, all’immagine dell’Italia, specialmente all’estero e al made in Italy, ci sono tre ordini di considerazioni da fare.

A proposito della nostra immagine all’estero, non risulta proprio che, salvo qualche frangia estremista e movimenti animalisti, ci sia un’ostilità nei confronti dell’Italia da parte della stampa o dell’opinione straniera. Basta andare a Siena durante il Palio per rendersi conto di quale forza di attrazione e di quale profondo fascino manifestazioni del genere producano presso turisti anche di alta qualità. Ben altro nuoce alla nostra immagine: i prezzi troppo alti, la disonestà di alcuni esercenti, le stazioni e gli aeroporti mal tenuti e insicuri, la sporcizia, la cattiva manutenzione di certe città e di certe strade. Di questo si lamentano di continuo la stampa e i media stranieri, non del fatto che gli italiani maltrattino gli animali durante le manifestazioni folcloristiche.

Il ministro Brambilla parla anche di radici: precisa che le nostre tradizioni andrebbero modificate o addirittura cancellate, magari sull’esempio di altri Paesi (il caso della Catalogna che ha abolito la corrida), senza tuttavia tener conto del fatto che le circostanze storiche e antropologiche italiane sono del tutto diverse da quelle che il ministro sembra voler prendere a modello. Il Palio, i pali, sono parte delle radici culturali italiane, nati nel Medioevo sono arrivati fino ai giorni nostri conservando e riflettendo una componente originale del carattere degli italiani che amano dividersi per campanili e contrade e trasformare in «palio» ogni contesa.

Va inoltre considerato che questo governo è espressione di forze politiche le quali insistono fortemente sul concetto di «radici storiche». Ora, qui si tratta di coerenza: non si possono invocare le radici (di conseguenza il concetto di identità) quando si parla ad esempio di proibire la costruzione di una moschea, ma al tempo stesso pretendere di aggiornare o addirittura di cancellare la nostra storia quando essa minaccia di recar danno alla nostra immagine, quindi al fatturato dell’industria turistica italiana.

Un’ulteriore considerazione va fatta sulla vera o supposta crudeltà che certe manifestazioni comportano nei confronti degli animali. Se il ministro si fidasse meno di ricerche statistiche, magari condotte con criteri approssimativi e da personale non specializzato, avrebbe agio di rendersi conto di come certi maltrattamenti siano in realtà frutto di cattiva informazione. A Siena i cavalli sono i veri protagonisti del Palio e nessuno si sogna di maltrattarli. È vero che si sono registrati decessi di animali nel passato, durante la corsa o in seguito ad essa: ma di questo si è discusso per molto tempo, soprattutto per modificare il tipo di cavallo montato durante la «carriera». Questi incidenti sono avvenuti quando nel Campo di Siena sono stati ammessi i purosangue, molto fragili e nervosi, per aumentare la velocità e lo spettacolo. Un’innovazione - discutibile e pericolosa - ora rimossa nel senso della tradizione. Ora corrono soltanto «mezzosangue». Le tradizioni si salvaguardano studiandole e migliorandole, non è assolutamente il caso di abolirle sulla base di sollecitazioni alla moda o di riflessi mal digeriti di una cultura animalista da salotto.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7688&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 20, 2017, 05:21:06 pm »

Minima Cardiniana 180

Pubblicato il 3 luglio 2017
Domenica 2 luglio – S. Ottone

EFFEMERIDI DEL CAOS
FACCIO QUELLO CHE POSSO

Franco CARDINI

Sono accadute molte cose, questa settimana. E voi, cari Amici, siete troppo esigenti. Come si diceva una volta, “Io non sono mica Nembo Kid”. Sono un professore in pensione che fa parecchio volontariato (nel senso che quasi nessuna delle mie attività è retribuita o sostenuta da alcun ente pubblico o privato). Tenete presente che non posso rispondere a tutti i messaggi che mi inviate in e-mail (ormai siamo sui 300 al giorno) perché sto scrivendo un paio di libri contemporaneamente e sono in ritardo, ho una decina di saggi in sospeso, debbo far articoli quasi tutti i giorni, faccio conferenze quasi giornaliere e debbo frattanto leggere tesi di laurea, manoscritti che mi vengono inviati per chiedere Prefazione oppure anche solo consigli ecc. Ho quasi del tutto abolito le pause-pranzo e ridotto a tre-quattro ore il riposo notturno. Davvero, non posso fare di più.

Data questa pesante “condizione operaia”, non ho tempo né per il face-book, né per il twitter, né per gli SMS né per altre diavolerie del genere: anzi, a dirVi la verità non capisco nemmeno dove lo troviate Voi, tutto questo tempo. Siete tutti disoccupati? Siete tutti pensionati? Soffrite tutti d’insonnia? Vivete di rendita?

Bene. Di tutte queste cose, io sono solo la seconda. Ma sono un pensionato che lavora più di prima, e per giunta a più bassa retribuzione. Mi chiedete il perché di tutto questo disorientamento in giro, di questa disaffezione per la politica, di questa crisi di quell’identità della quale tanto si parla. Ho cercato di rispondere qui, collettivamente, a molte domande, scrivendo qualche paginetta un po’ più elaborata, sotto forma di saggio (cfr. infra: Note storiche sull’identità italiana e sulle prospettive di una sua ridefinizione).

Mi chiedete poi un parere su Vasco Rossi e le masse che è riuscito a convogliare nella pianura padana: figuratevi, ho dovuto viaggiare sui treni locali Bologna-Modena tra ieri sabato e oggi domenica, in condizioni che un’acciuga sott’olio avrebbe considerato insostenibili; e poi a chi sostiene che Vasco sia il suo idolo  posso soltanto rispondere che musicalmente sono monoteista (wolfangamadeusmozartiano); e a chi mi chiede se conosco le droghe rispondo che anch’io sulle Ande ho masticato coca (serve per respirare meglio ad alta quota) e in Asia centrale ho accettato a volte hashish da qualche carovaniere (ma come esperienze estatiche conseguenti non mi pare che la diarrea sia proprio il massimo), fermo restando che la mia droga preferita resta il peperoncino calabrese (ma apprezzo quello cubano, non disdegno quello messicano e se proprio non c’è altro faccio buon viso perfino alla paprika dolce ungherese).

Si è parlato molto di migranti, ma mi paiono discorsi che lasciano il tempo che trovano. Che volete che vi dica? Obbligare francesi e inglesi a “mettersi attorno a un tavolo”, come si usa dire, insieme con gli italiani, è già un grande successo. Peccato che i risultati siano inconsistenti e che la futura conferenza di Tallinn si annunzi come un nuovo fiasco. Perché? Riflettete un attimo. Anzitutto, se l’unica decisione consiste nel cercar d’impostare   una forma di disciplina nei confronti delle imbarcazioni delle ONG, arriviamo comunque tardi (avremmo dovuto farlo da molto tempo): ma la sigla ONG, d’altronde, copre una quantità straordinaria di casi particolari e di situazioni molto diverse fra loro e sarebbe necessario un rapido e intenso sforzo basato sulla collaborazione internazionale per venirne a capo. Se poi si tratta di “dar più soldi alla Libia”, qui allora la canzonatura è palese: la Libia ha tre governi contrapposti, uno filojihadista, uno collegato a doppio filo all’Egitto e alla Turchia e uno – quello che ONU e NATO appoggiano – riconosciuto e sostenuto solo dai cosiddetti “organismi internazionali”, che non ha alcun credito né alcun consenso nel paese e che serve solo a firmare gli accordi con le varie multinazionali per consentir loro di continuar a sfruttare il suo paese (e la nostra ENI ne sa qualcosa). Distinguer tra “rifugiati” e “migranti economici”, come qualcuno vorrebbe, è tanto abietto quanto impossibile. Ormai il vero problema non è più né politico né militare: da una parte vaste aree del continente sono alla fame (ed è stato appunto lo sfruttamento delle multinazionali in combutta con i corrotti governi nazionali africani e i loro patrons occidentali);  dall’altra il flusso migratorio è causato anche dalla falsa immagine dell’Occidente come paradiso terrestre diffusa dai nostri media in tutto il continente africano;  da un’altra ancora le nostre vere classi dirigenti – vale a dire gli anonimi o semianonimi gestori della finanza e dell’economia mondiale, dei quali i politici sono “comitati d’affari” – hanno tutto l’interesse da un lato a esportare dall’Africa forza-lavoro a buon mercato assorbendone la quantità di cui hanno bisogno e disinteressandosi del destino degli altri, dall’altro a perpetuare il supersfruttamento delle ricchezze e delle risorse africane la produzione delle quali richiede scarsa e specializzata forza-lavoro e quindi non risolve il problema delle masse disoccupate e impoverite (anzi, lo ha determinato e contribuisce ad aggravarlo). Finché in sede ONU le potenze che occupano i seggi di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, una delle prerogative dei quali è il “diritto di Veto” alle risoluzioni dell’Assemblea, le multinazionali – protette appunto da quelle potenze, la classe politica delle quali esse in gran parte controllano e ricattano –  continueranno a distruggere l’Africa e a soffocarci col flusso migratorio dalle loro scelte e dal loro interesse provocato. O s’impone alle lobbies di destinare allo sviluppo dei paesi africani una quota-parte dei loro profitti trasformandoli in investimenti produttivi in loco, o la questione non verrà mai risolta e alimenterà, da noi, il circolo malefico insicurezza-malavita-xenofobia.

Sull’eterno problema dell’Islam, è ovvio che la tattica consistente nel cercar di continuo di isolare le comunità musulmane (agitando anche lo strumento incostituzionale dei ”referendum cittadini” ogni volta che si tratta di aprire una nuova moschea –  e dello sgranar quotidianamente il rosario dei crimini commessi da singoli musulmani (ai quali volta per volta si potrebbero contrapporre migliaia di casi di concittadini o di ospiti dall’esemplare condotta: peccato però che “non facciano notizia”), non si andrà da nessuna parte. La via è quella dell’affrettarsi a stipulare convenzioni con i rappresentanti delle comunità: è la via del confronto e dell’integrazione che si sforzi di mantenere la diversità etno-linguistico-culturale (vive la difference!) collaborando però a eliminare con decisione quei costumi e quelle consuetudini che sono sul serio incompatibili con la nostra concezione di libertà e di dignità. E’ in questa direzione che stanno lavorando alacremente le comunità musulmane: si vedano le dichiarazioni rese da Yassine Lafram, responsabile della comunità bolognese, dopo i recentissimi episodi di violenza delle quali si è reso responsabile un giovane marocchino nei confronti delle sue stesse sorelle. Lafram non ha esitato a condannare fermamente e senza ambiguità qualunque uso di costrizione o di violenza messo al servizio di una supposta tradizione religiosa che consiste in realtà in un insieme di consuetudini arbitrarie e retoriche.

Segnalo al riguardo il bell’indirizzo rivolto dal cardinal Angelo Scola al Comitato Scientifico della Fondazione Oasis, editrice dell’omonima rivista edita dalla Marsilio di Venezia, e pubblicata su “Il Corriere della sera” di oggi 2 luglio, p. 20, col titolo I segnali contraddittori dell’Islam contemporaneo. Concordo in pieno con la sua analisi del jihadismo come “una forma di antimodernità che tuttavia rimane succube della modernità” e con il suo giudizio secondo il quale “occorre liberarsi dall’illusione che, sconfitto il jihadismo, le società europee si libererebbero dalle loro contraddizioni per entrare finalmente nella ‘fine della storia’. No, sconfitto il jihadismo, le società europee si ritroveranno con i loro problemi. O, per dirla in un altro modo, solo risolvendo i problemi generati da un liberismo soffocante le società europee saranno in grado di sconfiggere il jihadismo”.

Ineccepibile analisi: che mostra come il mostruoso jihadismo sia un pessimo male, ma non la causa, bensì la risposta sbagliata e criminale – quindi un effetto – di quella che davvero è la redix ominum malorum tra quelli che affliggono la società moderna. Questa radix il cardinale Scola correttamente la individua, ma riduttivamente ed eufemisticamente la definisce, come “un liberismo soffocante”. Esso è il turbocapitalismo internazionale, versione ultima dell’individualismo sfrenato, dell’auri sacra fames e della Volontà di Potenza che non sono conseguenze distorte, bensì l’essenza stessa della Modernità.

Infine, il caso di Charlie Gard. Interpellato telefonicamente ieri sabato da una giornalista de “Il Fatto quotidiano”, che chiedeva il mio parere sull’argomento, le ho lealmente risposto di non saperne abbastanza. In effetti, conoscevo solo quanto aveva scritto qualche giornale. Ho chiesto invece a Marina Montesano un parere meditato, frutto di un’analisi rapida ma attenta. Ecco quanto essa mi e ci scrive.

IL CASO CHARLIE GARD E L’ACCANIMENTO MEDIATICO (Marina Montesano)

Mi è difficile esprimere un parere sulla vicenda medica di Charlie Gard, il bambino inglese di dieci mesi al centro di un contenzioso fra medici e genitori, con ricorso alla magistratura. Ho trascorso gli ultimi trent’anni a occuparmi di storia, prima come studente universitario poi come docente, e ancora nel mio settore di ricerca sono più le cose che non conosco che quelle che padroneggio; e lo reputo normale. Quindi figuriamoci cosa posso sapere di una malattia degenerativa rarissima, una patologia dei mitocondri delle cellule. Fino a questa vicenda, neppure sapevo che esistesse, della qual cosa posso solo ritenermi fortunata: ora so che è una malattia tremenda e incurabile, che ha ridotto un bambino di diciotto mesi in un letto d’ospedale, sordo, cieco e intubato. Ho provato a leggere i pareri degli esperti in materia, visto che io non lo sono. Sono stata molto colpita dall’analisi lucida e allo stesso tempo emotivamente coinvolgente espressa da una dottoressa del San Raffaele di Milano, Alessandra Rigoli: http://www.tpi.it/opinioni/dottoressa-cattolica-commento-charlie-gard/

Può darsi che mi capiterà di leggerne altre, contenenti un parere differente, che mi spingeranno a pensare differentemente. Per ora mi sono fatta l’idea che nel caso di Charlie non si possa parlare di eutanasia, ma della fine di un accanimento terapeutico. Ma se volessi davvero saperne di più, dovrei entrare in possesso di tutte le carte mediche e processuali, ammesso siano pubbliche (le prime credo e spero di no), nella speranza di capirle appieno, e farmi un parere meglio motivato in base ad esse.

Tuttavia, mentre cercavo queste informazioni, mi sono imbattuta, anzi sono stata travolta da un’infinità di commenti sulla vicenda. Alcuni ragionevoli, molti imbevuti di un mix esiziale di paragoni del tutto aneddotici (un altro bambino è vivo / felice / ecc., senza chiedersi se davvero vi sia un rapporto con il caso in questione), di pareri medici e teologici espressi da persone prive di qualsiasi competenza in entrambi i campi, di invettive apocalittiche contro modernità / medici / tribunali / corti europee. Se espressi su Facebook, talvolta accompagnati da emoticon con lacrimuccia, cagnolini piangenti e così via. Insomma, l’atmosfera giusta per inquadrare un caso del genere.

In parte, è l’ormai famigerato ‘popolo di internet’, quello che soprattutto in Italia è riuscito a mettere insieme antiche ignoranze e moderno senso di onnipotenza, per cui non ci si limita più a rifare la nazionale d’Italia, come ai bei tempi, ma si disquisisce di tutto senza conoscere niente. Se poi si tratta di medicina / diritto / storia tanto meglio: un bignami, o il suo equivalente contemporaneo, l’hanno aperto tutti almeno una volta nella vita! E ovviamente, quello di medici / giuristi / professori è solo sapere pomposo del quale è opportuno dubitare.

Ma non c’è solo questo. Si scopre, seguendo questa vicenda, che esiste un popolo numeroso veramente preoccupato per il diritto alla vita dei deboli e degli indifesi. E’ rincuorante, e al tempo stesso sorprendente: perché, generalmente, è un popolo che si nasconde bene. Dove siete quando c’è chi plaude ai bambini annegati nel Mediterraneo? Perché non tuonate? Dove siete quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità denuncia che nel 2016 la  malaria, curabilissima, ha fatto 429mila morti? Che 2/3, ossia circa 280mila, sono bambini sotto i cinque anni?  Ma molti di più ne uccidono la polmonite e persino la diarrea: oltre un milione ogni anno.

Certo, per questi bambini morti l’accanimento mediatico non c’è. Opinionisti e politici (tanti i sedicenti cattolici) tacciono, nessuno ha interesse a parlarne, e tanto gli emoticon quanto i cagnolini di facebook possono risparmiarsi le lacrime.

Marina Montesano

NOTE STORICHE SULL’IDENTITA’ ITALIANA E SULLE PROSPETTIVE  DI  UNA SUA RIDEFINIZIONE

l’Italia nel contesto euro-mediterraneo

Esiste l’Italia? Esistono una tradizione italiana? O sarebbe più giusto dire che l’Italia forse non esiste, però esistono gli italiani: e chiederci se non sarebbe più giusto e corretto limitarsi a definirli “italici”?

L’Ordine dei Cavalieri nato attorno alla chiesa di San Giovanni Battista in Gerusalemme – e divenuto poi di Rodi, adesso di Malta – è distinto in otto circoscrizioni “nazionali”, che tuttavia non ricalcano tanto gli stati-nazione moderni quanto i sistemi linguistico-nazionali dell’Europa occidentale: Castiglia, Alemagna, Inghilterra, Aragona, Italia, Francia, Alvernia, Provenza. Esse sono difatti detti “Lingue”. E’ da notare che la “Lingua d’Alemagna” raccoglie i paesi d’idioma germanico continentale con le immediate pertinenze baltofinniche, mentre la penisola iberica è distinta in due “Lingue” (il Portogallo è associato alla Castiglia; Navarra, Galizia, Paese Basco e Catalogna all’Aragona) e la Francia addirittura in tre (Francia propriamente detta, Alvernia che ricalca l’antico Delfinato e Provenza che comprende tutti i paesi occitani a nord dei Pirenei). Questa tormentata geografia linguistico-nazionale riflette adeguatamente il laborioso processo di concrezione di quel che Massimo Cacciari ha molto adeguatamente definito “l’Arcipelago Europa”: ma s’incontra, in sette casi su otto, con un’identità abbastanza precisa, espressa difatti  da un non meno esplicito segno araldico. Solo nel caso dell’Italia gli araldisti giovanniti si sono trovati a mal partito: e, non essendo riusciti a trovare un simbolo unificatore, hanno preferito ricorrere alla parola “Italia” ricamata in lettere gotiche dorate e posta in banda su un campo nero. Un colore che forse rimanda alle origini benedettine (o agostiniane?) dell’Ordine; ma   che è anche un non-colore, un’assenza, l’incapacità di assegnare alla penisola anche un valore simbolico-cromatico che tutta la rappresenti?

Dopo l’unità d’Italia, il dilemma della mancanza di una tradizione nazionale comune – e quindi d’un simbolo che la rappresenti – fu risolta felicemente per la bandiera della Marina: che raccolse in uno scudo diviso in quartieri le armi delle quattro “Repubbliche marinare”. Viceversa, lo scudo sabaudo contornato d’azzurro al centro del tricolore fu un espediente tutto sommato spurio e poco rappresentativo di qualunque cosa, salvo la volontà egemonica piemontese nel segno della quale si compì, in modo discutibile e imperfetto, un processo unitario nazionale che avrebbe potuto anche compiersi in altro modo. La Repubblica Sociale Italiana si scelse l’aquila della Repubblica Romana del ’49, un simbolo “preunitario” per un tempo ch’era divenuto ormai “postunitario”: ed era tutto dire. Un velo pietoso cada sul pasticcio retorico-massonico-sindacalista che ha espresso il simbolo di stato dell’Italia repubblicana. E uno ancor più pietoso  sull’araldica delle regioni italiane, frutto d’un’ignoranza storico-filologica, d’un’imperizia araldica e d’un cattivo gusto che insieme raggiungerebbero l’acme del kitsch – e non sarebbe poco – se i risultati non fossero anche desolatamente  banali, cosa che il kitsch riesce sovente a non essere.

L’assenza d’un apparato simbolico riflette l’assenza d’una vera e radicata identità nazionale. E giustifica anche la scarsa affezione al tricolore nazionale, umiliata oltretutto da quasi mezzo secolo di esorcizzazione – quando l’onorar la propria bandiera equivaleva a beccarsi la patente di “fascista”: e ciò anche nelle scuole -, maldestra reazione al nazionalismo esasperato della dittatura. Il fallimento dell’esperienza e del modello nazionale fascisti, che avevano del resto una loro forte e coerente continuità rispetto a uno dei molti modi d’intendere il Risorgimento – altro che “invasione degli hyksos” di crociana memoria! – ha le sue responsabilità nel ritardo, nel ristagno e nelle incertezze che si registrano a proposito della maturazione d’una coscienza nazionale italiana. Il fascismo ha rappresentato una fase importante, pur con tratti di rozzezza e di violenza, dello sviluppo del processo di nazionalizzazione delle borghesie e delle messe, di quel “fare gli italiani” dopo aver “fatto l’Italia” che si potrebbe qualificare – prendendo a prestito una definizione a metà fra Carl Gustav Jung e Norbert Elias – come il “processo d’individuazione” della coscienza nazionale italiana. La damnatio memoriae del fascismo ha interrotto questo processo e ha reso arduo, lento e insicuro il riprenderlo. Il rilancio di un “orgoglio italiano”, a partire dal periodo craxiano e più tardi fino ai giorni nostri, magari con punte d’invidia nei confronti del tripudio di strips and stars statunitense esploso in reazione alla tragedia dell’11 settembre 2001,  non appare tuttavia granché sentito e  condiviso  dalla gente: che nella realtà municipale ch’è la vera sostanza profonda del nostro paese preferisce tenersi stretti semmai i suoi gonfaloni cittadini, mentre in certe aree della sua opinione pubblica un po’ più colta si chiede se meglio non sarebbe semmai lavorare a diffondere  una coscienza patriottica europeistica nella quale riassumere (non, badate, dissolvere  e fondere) quella italiana.

Due libri scritti da altrettanti spiriti bizzarri, L’Italia non esiste di Sergio Salvi (Camunia 1996) e Doveroso elogio degli italiani (Rizzoli 2001) di Rino Cammilleri, che dovrebbero essere obiettivamente l’un contro gli altri armati, si rivelano invece – a una spregiudicata lettura in parallelo – quasi complementari.  Ha molte ragioni il Salvi: l’Italia è stata molto a lungo un’espressione geografica e circoscrizionale, non nazionale, nel 1861 nacque uno stato, non una nazione; l’Italia è unita nell’artificio della lingua scritta ma disunita nella concreta realtà della lingua italiana; all’identità approssimativa degli italiani sotto il profilo socioantropologico corrisponde una realtà incompiuta del paese-Italia; all’irrisolta “questione meridionale” se ne affianca una, irrisolta e a lungo “negata”, settentrionale; la mitologia risorgimentale è falsa almeno quanto quella leghista è utopicamente arbitraria; le fantaregioni come Padania e Appenninia sono ridicole astrazioni. Eppure deve pur esserci qualcosa che lega fra loro gli abitanti della penisola – lingua a parte – se, come ribatte il Cammilleri, noi italiani abbiano il comune vizio (già rilevato da Giuseppe Prezzolini) dell’autodenigrazione, ma abbiamo dato al mondo una quantità di scoperte, d’invenzioni, di opere d’arte, di idee originali da farci davvero considerare il sale della terra. E uno storico inglese di sinistra, Paul Ginsborg, sostiene da tempo che perfino i difetti degli italiani – a cominciare dal loro poco senso civico, corretto però ad esempio da una forte sensibilità familiare, di gruppo di ambiente, magari perfino di cosca –  è una delle nostre ricchezze e delle nostre fortune.

Forse l’identità nazionale italiana non esiste: nel senso che le nazioni non sono mai frutto di determinismi etnogeografici di sorta, bensì di volontà. Si è nazione perché si vuol divenire tale: e nessuna forza storica è mai riuscita a farci sul serio e a lungo sentire nazione. La stessa ricchezza culturale delle nostre tradizioni cittadine e regionali c’impedisce di sviluppare un forte senso nazionale; in un certo senso, nel concreto processo storico che ci poneva a contatto con realtà mediterranee ed europee diverse a seconda della nostra regione, non ne avevamo bisogno.

Ma a questo punto va anche detto di più: un’identità per così dire assoluta e totale, un’identità perfetta, non esiste. E aggiungerei: per fortuna. In effetti, i caratteri storici e antropologici sui quali si fondano le varie accezioni del termine “identità”, di cui oggi si abusa, paiono convergere su un insieme di connotati non sempre facili a comporsi e ad armonizzarsi reciprocamente. Non esiste un’identità perfetta: tutte le identità sono imperfette, e ordinariamente quelle che si potrebbero definire “macroidentità” (le nazionali e le religiose sono forse tra esse) altro non sono se non il risultato sincretico piuttosto che non la sintesi di una serie di “microidentità” tra loro disomogenee, e delle quali tuttavia persone, gruppi e comunità in differente misura compartecipano e si riconoscono.

Ma chiediamoci il perché di tante domande – e di tante polemiche – attuali sull’identità italiana. Perché chiederci proprio oggi, e con tanto accanita insistenza, se e nella misura in cui possiamo definirci una “nazione” o una “patria”, e se è più o meno ancora necessario che l’una e l’altra dimensione – affini, ma non identiche –  possano o addirittura debbano ancora riconoscersi in uno “stato”?

Vi sono forse due dimensioni – una generale e mondiale, una specifica di noialtri italiani – alle quali è corretto impostare il problema.

Nel mondo, il nostro è un tempo di forti polarizzazioni. Da un lato sembra che il processo di globalizzazione marci al deciso livellamento delle identità e alla fatale cancellazione di ogni limite e di ogni confine, quindi anche di qualunque sovranità statale: e,  in tempi forse non lunghi, la stessa unica superstite superpotenza potrebbe diventare nei suoi organi decisionali un guscio vuoto riempito della volontà  dei centri dirigenti delle multinazionali, con un  governo ridotto a “comitato d’affari” di essi: Dall’altro, però, stanno riemergendo o emergendo per la prima volta un po’ dappertutto gruppi, nuclei, “tribù” stretti attorno alle loro autentiche o artificiali identità (etniche,  linguistiche o religiose che siano)  e ben decisi ad affermarsi attraverso lo scontro con gruppi, nuclei, “tribù” vicini ed avversi.

In Italia, l’affermarsi delle istanze federalistiche e addirittura di tentazioni scissionistiche si sposa con un’antica tradizione fondata sul policentrismo – specie, ma non soltanto, al nord e al centro – per finir col costituire un quadro di fondo  caratterizzato sul piano delle istituzioni politiche da una  “fuga dall’Italia” nel particolare per il trasferimento dei poteri alle regioni e ai comuni, nel generale per l’inserimento del nostro paese nella Comunità Europea e del suo permanere all’interno di quella realtà poco precisa ma politicamente e massmedialmente molto forte ch’è il “mondo occidentale”. Insomma: siamo italiani in quanto soprattutto italofoni (e anche l’italofonia è condizionata e “corretta” da molti dialetti, vernacoli, argots eccetera); ma sul piano politico non meno che su quello  pratico ci chiediamo se questa nostra “italianità” non sia ormai diventata un valore pleonastico dal momento che per definirci sul piano ristretto la città e la regione ci bastano, mentre su uno più ampio siamo semmai europei ed occidentali.

Il principe di Metternich sosteneva, com’è noto, che “l’Italia è un’espressione geografica”.  E non era una battuta sprezzante, ma una constatazione: il “regno d’Italia” fondato alla fine del X secolo dagli imperatori sassoni sulle basi  del  regno longobardo e poi carolingio  e arrivato fino alla pace di  Presburgo del 1806 non c’era più, quello napoleonico era finito con  il congresso di Vienna; e nessuno dei due, del resto, aveva mai incluso il centro-sud della penisola.  L’Italia non disponeva di una sua compagine unitaria sotto il profilo politico:  ma conosceva (conosce) altre forme di unità? Non certo quella storica: in età romana, la parola “Italia” risalì dal Meridione della penisola fino alle Alpi, senza tuttavia mai significare altro che una realtà circoscrizionale. L’antica frattura tra un nord celto-etrusco-italico e un sud greco-punico con inserti italico-etruschi sopravvisse alla Romanità e si trasferì (dopo gli apporti germanici, uraloaltaici e anche arabo-berberi dell’Alto Medioevo) in una dicotomia tra un centro-nord comunale e poi signorile e un sud monarco-unitario che ripeteva quasi perfettamente l’antica divisione tra Italia e Magna Grecia, con in più la variabile dei territori che riconoscevano l’autorità temporale del vescovo di Roma. Fra 1859 e 1860 “si fece l’Italia”, ma non gli italiani. E a render tali gli abitanti della penisola non bastava nemmeno la lingua: tanto più ch’essa era unitaria  solo come lingua scritta dei ceti colti,  mentre  a livello orale e per i ceti subalterni prevalevano i dialetti.

L’Italia non esiste è il titolo provocatorio e paradossale d’un libro sarcastico, dissacratore e dottissimo di Sergio Salvi (Camunia 1996). Altro che principe di Metternich. Salvi nega l’esistenza di una “nazione italiana”: intendendo per nazione l’insieme di genti legate da comunanza di tradizioni storiche, di lingua, di costumi, ed aventi coscienza di tali  vincoli comuni.  Nega che l’Italia possa essere una “patria”, vale a dire l’unione di un territorio e di un popolo che vi risiede e che ad esso è unito nella  condivisione di lingua, cultura e tradizioni.  Bisogna dire che ha molte ragioni: il policentrismo storico-culturale italiano è sovente per sua natura centrifugo, ed esistono culture regionali dotate di profonda complementarità con culture extraitaliche e poco o nulla affini a quelle italiche vicine. La Sicilia si spiega attraverso i mondi greco, punico, bizantino, arabo-africano, spagnolo; sono Grecia e Spagna a dare un tono semiunitario alla cultura meridionale; la costa ligure si legge meglio se la si confronta con  la  Corsica, la Provenza e la catalogna che non col suo entroterra; il Piemonte è indecifrabile separato dalla realtà burgundo-alamanna; il mondo adriatico nel suo insieme resta dimidiato se non viene posto in rapporto con quello balcano-danubiano.

Il punto è tuttavia che tradizioni davvero unitarie non esistono; e che non c’è popolo né persona che non siano compartecipi, al tempo stesso, di molte identità, tutte imperfette. Una nazione non è tale se nasce su un supporto genetico: è tale se e nella misura in cui si riconosce storicamente e culturalmente  tale.  A metà Ottocento, un sottile strato d’intellettuali e una parte delle borghesie italiane si sono voluti riconoscere tali: si è poi avviato un processo di nazionalizzazione della penisola che non è mai stato del tutto compiuto, sulla base di una formula istituzionale – quella giacobina e bonapartista dello stato  unitario e accentrato – ch’era obiettivamente fuori dalle tradizioni storiche italiane,  avviate semmai (come la Germania) verso una soluzione federale che ne valorizzasse le libertà e  le consuetudini locali.

Si fece in altri termini l’Italia: e il modo con cui la si fece non fu esente da malintesi, tradimenti, violenze, inganni. Non si riuscì a fare gli italiani: e qui bisogna dire che Benedetto Croce sbagliava giudicando il fascismo una “discesa degli Iksos” del tutto estraneo alle tradizioni nazionali. Era vero il contrario: perché in quelle tradizioni erano profondamente radicati il conformismo, il trasformismo, il burocratismo, la retorica: mali postrisorgimentali passati all’Italietta e al fascismo, che tuttavia cercò sia pur in modo per molti versi rozzo e violento di trasferire nella società la Weltanschauung garibaldina e mazziniana. Non era certo quello l’unico modo per tentarlo: ma il tentativo ci fu, ed è coerente con la storia dell’Italia unitaria. Sbagliava il grande Croce, aveva invece almeno in parte ragione il suo non meno grande corregionale abruzzese, il Volpe.  Non che il fascismo fosse – com’egli sosteneva – l’esito necessario del Risorgimento unitario: ma, senza dubbio, esso si era configurato sotto il profilo storico come uno dei coerenti esiti di esso. Ma proprio la stretta consequenzialità tra Risorgimento e fascismo, sostenuta dal regime, ha in qualche modo compromesso il primo inducendo a vederlo come una premessa del secondo: una tesi che, se non ha mai trovato consenziente la maggior parte degli studiosi e dei politici, ha in cambio profondamente inciso a livello della coscienza diffusa degli italiani.

Per questo ha ben visto Ernesto Galli della Loggia nel saggio La morte della patria (Laterza). La fittizia e coatta identità nazionale fondata dal fascismo, e da esso presentata come la conclusione del Risorgimento, fallì. Ma sono falliti anche i tentativi di radicare nella Resistenza i fondamenti di un’identità nazionale e democratica.  Per troppi anni l’ombra del nazionalismo fascista e la cattiva coscienza di chi vi aveva per conformismo, per paura o  per tornaconto aderito si sono tradotti  in un’eclisse e un disagio per il concetto di patria: per troppi anni, nella realtà di tutti i giorni, dirsi italiani ed orgogliosi di esserlo equivaleva a confessarsi fascisti.  I ceti dirigenti dell’Italia postfascista obbligarono purtroppo gli italiani, in effetti, a buttar via il bambino (la patria) con l’acqua sporca del bagnetto (il fascismo); e un patriottismo resistenziale non è mai nato al di là delle sue espressioni politiche e intellettuali, sia perché non è mai stato profondamente sentito, mai fondato su un reale consenso (mentre il fascismo un consenso lo aveva eccome), sia perché equivocamente dotato di troppi volti. Il patriottismo liberale, quello azionista, quello comunista c’erano, ma erano troppo diversi fra loro. Mentre i cattolici, emarginati dalla vita nazionale fino al ’29 e in seguito variamente coinvolti e compromessi  tanto nell’esperienza fascista quanto in quella di un antifascismo ch’aveva pur connotati propri, non avevano mai davvero superato la diffidenza e l’ostilità  nei confronti dell’unitarismo.

Cosa tanto più grave, quest’ultima, perché erano semmai proprio il cattolicesimo e la vita  ecclesiale –  lo avevano da sponde differenti anche se forse meno lontane di quanto paia riconosciuto tanto Gramsci quanto Mussolini –  l’unico vero e condiviso valore comune della grande maggioranza degli italiani.

E adesso, quindi, che fare? Accettare un’Italia stemperata, diluita e in pratica disciolta nelle realtà regionali che agendo nel futuro ordine federale potrebbero finire con lo scomporla? Assistere al suo scomparire nella più ampia identità europea, anch’essa vaga e sfumata?  Pensiamo di no; riteniamo che due millenni di storia comune – esisteva pure una provincia Italiae nel mondo romano, per quanto non sia il caso di far del nominalismo – , rivissuti e ripensati sia pur con  equivoci e mistificazioni  da due secoli ad oggi, non possano esser gettati a mare. L’Italia come stato e come popolo deve entrar a far parte di una Comunità Europea vissuta e sentita, appunto, come comunità di stati e di popoli. Soluzioni alternative, che consentissero di riconoscerci tutti e soltanto come imperfettamente italofoni, non sono storicamente plausibili. Nessun “patriottismo europeo” potrà concretarsi, se non quello fondato sui patriottismi delle patrie e sulla coesione dei popoli  da cui l’Europa è composta. A patto che si tenga bene a mente, e s’insegni ai nostri ragazzi, che patriottismo significa anzitutto senso civico e consapevolezza d’identità. Nulla va quindi affidato né alla retorica né alla natura: essere italiani non è un caso, né l’esito di un cammino necessario e obbligato. Essere italiani è una scelta affidata alla coscienza storica e alla volontà.

Per il principe di Metternich ai tempi del congresso di Vienna, s’è detto, l’Italia era un’espressione geografica. In realtà, la sua dura e precisa affermazione era volta a negare e ad esorcizzare però una verità emergente: che cioè, se l’Italia era stata un’espressione geografica, ormai dalla fine del Settecento era diventata qualcos’altro: sotto l’influsso del modello francese e dell’idea di nazione importata dalla Rivoluzione, senza dubbio, ma anche sotto quello del risorgere di valori e di componenti di libertà municipale – appoggiati a e valorizzati da contenuti patriottico-religiosi – che si erano espressi in modi e in termini occasionalmente antifrancesi e antigiacobini, ma tali tuttavia da far capire (anche se non subito lo si capì)  ch’essi avrebbero potuto condurre all’elaborazione sia pur lenta e non univoca di uno scenario nel quale i concetti di unità e d’indipendenza della penisola avrebbero trovato modo di affermarsi.

Ma pochi anni prima che il Metternich  formulasse il suo giudizio, un altro e più alto e intenso ne era stato formulato, a proposito dell’Italia, da Ugo Foscolo ne I Sepolcri: dove già si indicava con chiarezza il rapporto tra nazione italiana, memoria  della sua identità attraverso il culto delle “itale glorie” e  culto religioso vissuto in termini che con chiarezza rinviavano alla tradizione greca e latina ma che, tuttavia, trovavano il loro momento e il loro monumento catalizzatore in un “tempio” ch’era una Chiesa cattolica, in un pantheon sepolcrale posto sotto l’egida d’una visione cristiano-cattolica della vita, della morte e  del culto da rendersi ai defunti connotato attraverso un’intensa rete di ridefinizioni culturali e cultuali ma pur sempre segnato dalla teologia della comunione dei santi. Alcuni lustri più tardi, Alessandro Manzoni avrebbe posto in Marzo 1821  la fede e la tradizione religiosa – e nel contesto dei suoi versi non possono esserci dubbi ch’egli alludesse esclusivamente alla cattolica – tra gli elementi fondamentali e costitutivi della nazione italiana.

Il rapporto forte e profondo, quasi endiadico, tra italianità e cattolicesimo (nella consapevolezza che la prima non potesse andar disgiunta dal secondo, che tuttavia restava un àmbito incommensurabilmente più ampio di essa), si presentava anche nel celebre motu proprio del 10 febbraio del 1848, in quel  “Benedite, gran Dio, l’Italia!” col quale Pio IX aveva acceso tante speranze, provocato tanto entusiasmo e tanto allarme e avviato una breve travolgente stagione densa di equivoci poco più tardi drammaticamente emersi alla luce.

Ma proprio questo è il punto. L’Italia su cui il papa invocava la divina benedizione non era tanto e soltanto quella del giobertiano Primato quanto quell’Italia imperiale romana che Diocleziano aveva riorganizzato in province sulle quali si erano modellate le diocesi vescovili e che almeno dal V-VI secolo – vale a dire dai papi Leone I e Gregorio I – i presuli che sedevano sulla cattedra episcopale dell’Urbe, e che erano profondamente legati alle vicende dell’aristocrazia senatoria e latifondista, avevano considerato come area connotata da una loro egemonia di fatto che si connotava anche attraverso elementi molto concreti, come le riserve granarie sicule con le quali quel grande aristocratico ch’era Gregorio Magno alleviava la fame delle genti della sua diocesi e della penisola.

Il rapporto tra Italia e fede cattolica, in effetti, va scandito in più fasi e articolato in differenti piani: esso conosce e comprende senza dubbio un aspetto profondo, diffuso, “popolare” nell’accezione gramsciana del termine, che corrisponde a una rete straordinariamente fitta di tradizioni che in gran parte sono entrate in crisi – e non del tutto – solo nella seconda metà del XX secolo, in connessione con l’avanzare del processo di laicizzazione e con quella che alcuni anni or sono Sabino Acquaviva definiva “l’eclisse del Sacro nella società contemporanea”, mentre appaiono oggi invece oggetto sovente di revivals tuttavia disomogenei e talora qualitativamente equivochi; ma accanto a questo piano che comprende e confonde l’Italie des profondeurs  e  il folklore, si ha sul piano propriamente storico la mappa complessa e anch’essa disomogenea dei rapporti, delle connessioni e delle compromissioni tra istituzioni temporali e istituzioni ecclesiali dall’Alto medioevo all’unità del paese, che hanno determinato e segnato molteplici aspetti della nostra vita civile, culturale ed economica e che il contenzioso aperto dai quali  non sembra essere stato del tutto risolto e metabolizzato neppure dal dettato dei due successivo concordati novecenteschi tra stato italiano e Chiesa cattolica; e, infine, si ha il rapporto specifico tra Santa sede e Italia, vale a dire tra istituzioni connesse con la presenza sul suolo della penisola dell’episcopio romano  con tutto il bagaglio d’implicazioni ad esso relative  a partire appunto – ancora una volta – dall’Alto medioevo, da quando cioè i vescovi di Roma hanno avviato il loro, sia pur non coerente fin dall’inizio, progetto di primato in auctoritate prima e propriamente anche in potestate poi su tutta la Chiesa latina.

Sembra che oggi – pacate e in parte superate le polemiche (alcune strumentali) provocate dalle opposte celebrazioni della campagna d’Italia del generale Bonaparte e delle “insorgenze” o dalla beatificazione di Pio IX – ci si possa avviare a una fase ulteriore, animata da un serio disincanto, della  considerazione storica di quel mezzo secolo che va dal controverso radicamento della Rivoluzione francese in Italia alla prima guerra d’Indipendenza: il mezzo secolo cruciale per la definizione dell’Italia  come patria-nazione e del superamento d’un’idea e di un modo istituzionale di usare il concetto “Italia”, risalente almeno all’età carolingia,  che lo arrestava alla parte centrosettentrionale della penisola o addirittura alle soglie del Patrimonium Beati Petri, escludendone comunque la parte meridionale e insulare, il Regnum. Erano state proprio l’avventura giacobino-bonapartista e le Insorgenze da essa provocate a far emergere e ad attivare da una parte una densa discussione politica e intellettuale, da un’altra una serie di espressioni e di sentimenti diffusi, a carattere comunitario e collettivo, che si erano rivelati in grado di radicarsi anche se in modo omogeneo dalle Alpi alla Sicilia. Il sentimento religioso, la consapevolezza d’un’unica ancorché non monolitica comune appartenenza a una comunità linguistica ed etnoculturale, il culto delle tradizioni e delle libertates proprie di un mondo assuefatto al policentrismo ma anche al confronto e allo stretto rapporto, avevano fatto germogliare un’idea di patria-nazione destinata ad esprimersi attraverso un’armonia discorde di tesi e di ipotesi, senza dubbio nuova e mai prima di allora profilatasi nella realtà ma subito partita alla ricerca di illustri antenati: Roma repubblicana e augustea, Dante, Petrarca, Giangaleazzo Visconti,  il Machiavelli…

Risorgimento, lo si è chiamato. Piuttosto che polemizzare sulle parole e proporne una loro modificazione che sempre comporta in qualche misura l’abbandono di una parte della loro eredità storica,  bisogna semmai sempre affrontare con chiarezza gli aspetti storici della loro avventura semantica. Al pari che nel cosiddetto Rinascimento, nel quale non ri-nacque affatto l’antica civiltà grecoromana ma si affermò qualcosa di originalmente nuovo, non Risorgimento non ri-sorse alcun modello desueto o superato d’Italia in qualche modo richiamato a nuova vita, ma sorsero tout court e per la prima irripetibile volta idee e valori nuovi,  magari coesistenti ma anche contrastanti fra loro, destinati a entrare perfino in rotta di collisione, tutti comunque radicati in qualche modo in una proposta di rielaborazione dell’eredità passata, della storia.

Quello che fu chiamato allora Risorgimento dette a se stesso, attraverso un processo storico che come sempre si rivelò assolutamente libero – checché se ne dicesse – da  deterministiche necessità, un finale esito nazionale e statale di tipo unitario e centralistico, secondo un modello ispirato alle soluzioni della Francia del Secondo Impero ma per altri versi animato dalle esperienze democratiche, repubblicane, in qualche misura concettualmente anche egalitarie, della “sinistra” mazziniana e garibaldina. Ne nacque un processo di unificazione nazionale e di consolidamento della raggiunta unità politica che in qualche misura condusse alla negazione del policentrismo e del municipalismo che tanta parte erano della storia quanto meno dell’Italia settentrionale e centrale, e all’elaborazione di una tavola di valori nella quale il cristianesimo aveva un grande ruolo e uno straordinario peso, ma  che comportava uno scontro con le istituzioni ecclesiali cattoliche e  con quel che restava sia del potere temporale della Sede romana, sia  delle prerogative gestionali di tipo politico, giuridico ed economico fin lì detenuti da gerarchie e da sodalizi della Chiesa o da essa comunque dipendenti. E’ noto come due successivi concordati abbiano cercato di regolare questa materia e di appianare il relativo contenzioso; ed è noto che di recente commentatori come Ernesto Galli della Loggia si siano chiesti se la società civile italiana sia ormai matura per fare a meno dei presupposti e degli strumenti concordatari.

Intanto, e d’altro canto, gli italiani degli ultimi lustri sembrano star riscoprendo le loro “piccole patrie” municipali e regionali: ed è giusto, perché la storia millenaria della penisola è storia di un mosaico di appartenenze, di una pluralità di città-stato e di stati-regione, di un policentrismo che sarebbe stato difficile, nel secolo XIX, organizzare in una disciplina federalistica ma che costringere sul letto di Procuste di un unitarismo di stampo e di modello giacobino-bonapartista non è stata scelta felice. Qualcuno sta cercando d’inventare e di proporci nuove patrie, ritagliate all’interno dell’Italia: ma esistono davvero connotati “nazionali” nell’improvvisata padanità, nel  qua e là risorgente meridionalismo? E sarà davvero possibile, e sarà auspicabile, sostituire il patriottismo italiano con un nuovo non diciamo patriottismo, ma perlomeno senso civico europeo?  Ma siamo ancora in tempo a tornare sui passi che abbiamo percorso – non sempre prudentemente – negli ultimi cinquant’anni, e reinsegnare l’affetto e il rispetto per l’amor di patria alle giovani generazioni, dopo che almeno da due siamo stati disabituati a questi valori, anzi indotti quasi a vergognarcene o a trattarli con sdegnosa ironia?  E come si comporrà un possibile ritrovato senso d’italianità non solo con gli orizzonti più ristretti del municipio e della regione e con quelli allargati dell’Europa, dell’euromediterraneità e dell’Occidente, ma anche col problema religioso? Non dimentichiamo che il senso d’italianità, dopo il 1848, è cresciuto in contrasto con la Chiesa, cioè con la comunità che inquadrava la stragrande maggioranza degli italiani stessi sotto il profilo religioso. Ma non dimentichiamo neppure che oggi il dialogo, l’incontro-scontro, non è più limitato ai cattolici e ai laici. Anche qui, il discorso è policentrico: ci sono i laici, gli agnostici, gli atei, ma anche le confessioni cristiane diverse dalla cattolica, le sette, le nuove religioni: tutti fenomeni in crescita. C’è una presenza islamica in incremento; c’è un mondo ebraico che dopo la shoah rivendica la sua italianità ma ha abbandonato i lidi – che gli erano in parte propri fino alle leggi razziali del ’38 – della tendenza semplicemente assimilazionista.

La vocazione italiana al policentrismo, mai superata, si ripropone dunque anche al livello religioso, dove la stessa Chiesa sembra aver abbandonato  la tesi d’una coincidenza se non totale quanto meno molto larga  dell’identità nazionale con quella cattolica e andar addirittura accettando per sé  il ruolo, nuovo nella consapevolezza se non nella sostanza,  d’una realtà istituzionalmente e culturalmente di straordinario rilievo, ma  politicamente, moralmente e numericamente di sia pur qualificata minoranza. Sotto il profilo religioso, questa è la novità che più d’ogni altra qualifica la storia recentissima del nostro paese. Venuta meno anche l’identità cattolica come identità pervasiva e maggioritaria se non unica, che cosa ci resta? Forse, la coscienza appunto storica della nostra “vocazione” – sia detto con la piena coscienza della pericolosità del “vocazionismo” come dimensione ideologica – a far da policentrica e polimorfica cerniera tra Europa e Mediterraneo e fra Europa e Oriente, il nostro fondamentale ruolo di “euroterroni” che in passato ha fondato il genio, la flessibilità, la capacità di adattamento e di metabolizzazione della storia. Crediamo che non sia poco.

L’Italia, il Mediterraneo, la Pace.

Se l’Italia è un paese europeo, essa è anche, e non meno, un paese mediterraneo. Tale dimensione è vissuta nel mondo politico in due direzioni fondamentali: a sinistra, in termini di pace; a destra, in termini di sicurezza. Lasciamo per ora da parte questa dimensione, che propriamente sembra preludere a una visione del Mediterraneo come appendice funzionale dell’atlantico (inserita quindi nella prospettiva dell’Europa-Occidente, la prospettiva atlantista). Esaminiamo invece il tema della pace, che per un verso parrebbe più retorico e convenzionale, per un altro si presenta forse come più interessante se considerato al di là dello stereotipo pacifista, in una dimensione civica concreta.

E’ molto difficile, oggi, parlare di pace. Venti di guerra soffiano impetuosi tra Asia e Mediterraneo, e quasi nessuno – fra i politici che contano sul serio come tra gli opinion makers più influenti – sembra disposto a spendere una parola per la pace. Anzi, si va diffondendo – ed è forse questo il dato più allarmante – una sorta di convinzione pseudorazionale che la guerra sia, a questo punto, non solo “giusta”, bensì anche “necessaria”; e si vanno con sempre maggior decisione criminalizzando le poche voci contrarie, proponendo sistematicamente un aberrante paragone con l’Europa dopo il trattato di Monaco del ’38 e sostenendo che chi si oppone alla guerra fornisce un aiuto “obiettivo” ai “nuovi Hitler”.

Per tutto il secondo dopoguerra siamo stati dominati da un conformismo occidentale che si diceva quasi coralmente pacifista; anche per questo la repentina, corale conversione alla guerra – e alla guerra “giusta”, una dimensione che fino a pochi anni fa si rimproverava duramente alla Chiesa cattolica – mi sconcerta. La risposta “di guerra” all’attentato dell’11 settembre del 2001 era solo una di quelle possibili; così come era – e lo ha sottolineato Simon Peres – solo una delle linee possibili, e non affatto l’unica praticabile,  quella della rappresaglia scelta da Sharon dopo i recentissimi attentati in Israele. Quello della guerra senza quartiere contro tutti i terroristi o supposti tali e i loro complici o supposti tali – che rischia di allargare a macchia d’olio il conflitto in corso – è il teorema proposto-imposto dal presidente Bush: non è affatto l’esito di una necessità obiettiva, bensì il risultato di una scelta politica alla quale sempre meno estranee appaiono anche le ragioni interne all’equilibrio politico statunitense e al controllo delle fonti energetiche nell’Asia centrale.  Il convergere delle conseguenze di questo teorema con la fredda volontà dei centri terroristici, ormai evidentemente indirizzati a far deflagrare un più ampio conflitto al fine di procurarsi il sostegno di una base di consenso di massa nel mondo musulmano, rischia di strangolare sul serio la pace.

Con questi presupposti, e in questo contesto, riesce davvero difficile parlare di pace. Stiamo oggi toccando con mano una tanto triste quanto innegabile realtà: vi sono nella storia momenti in cui, e forze per le quali, la guerra diviene utile, opportuna, redditizia. In casi del genere, gli appelli alla ragione non servono: perché non meno razionali e ragionevoli, purtroppo, sono gli elementi che determinano il nascere e il dilagare dei conflitti. Le ragioni del potere o della convenienza economica militano sovente in favore delle guerre anziché delle paci.

D’altronde, se la guerra può essere strumento di affermazione di potere, è vero anche il contrario. Essa può altresì essere strumento di liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento. Si può rifiutare in linea di principio tale strumento, come si è fatto nella costituzione italiana: ma abbiamo visto ch’è davvero difficile tradurre puntualmente i princìpi in atti e in scelte di tipo concreto. Un mondo nel quale un miliardo circa di persone, pari a un quinto della popolazione mondiale, detiene e gestisce oltre l’ottanta per cento delle ricchezze e delle risorse del globo, mentre quattro miliardi di persone, i quattro quinti di tale popolazione, è costretto a sopravvivere disponendone di meno del venti per cento, è per forza soggetto al deflagrare d’infiniti conflitti.

Non serve dunque il pacifismo retorico, quello delle buone intenzioni: non serve un pacifismo che astragga dal fatto che, per preparare la pace, è necessario modificare profondamente le strutture  economiche, finanziarie, produttive, tecnologiche d’un mondo fondato sull’ingiustizia e sulla sperequazione. I ragazzi che marciano per la pace nelle nostre strade o che nel suo nome occupano le aule scolastiche, debbono pur chiedersi che tipo di politica produttiva sia quella seguita dalla “Nike” o dalla “Adidas” che forniscono loro tanto ambìti oggetti di consumo. Debbono pur interrogarsi sulla provenienza del petrolio ch’è materia prima per la miscela dei loro motorini. Debbono pur domandare ai loro genitori se essi sono sicuri di non concorrere in qualche modo a finanziare le industrie produttrici di armi allorché immettono i loro risparmi nel circuito della borsa. Non si può sul serio marciare per la pace mentre il nostro motorino, la nostra maglietta, le nostre scarpe, i soldi che abbiamo in tasca marciano invece compatti per la guerra.

E’ dunque opportuno cominciare dal paese ch’è il nostro e nel quale viviamo, l’Italia. E’ davvero portatrice di una missione di pace, la nostra penisola? Come può esprimerla?

Per rispondere adeguatamente, bisognerebbe cominciare col chiedersi che cosa sia l’Italia. Forse l’identità nazionale italiana non esiste: nel senso che le nazioni non sono mai frutto di determinismi etnogeografici di sorta, bensì di volontà. Si è nazione perché si vuol divenire tale: e nessuna forza storica è mai riuscita a farci sul serio e a lungo sentire nazione. La stessa ricchezza culturale delle nostre tradizioni cittadine e regionali c’impediva di sviluppare un forte senso nazionale; in un certo senso, nel concreto processo storico che ci poneva a contatto con realtà mediterranee ed europee diverse a seconda della nostra regione, non ne avevamo bisogno.

Ma a questo punto va anche detto di più: un’identità per così dire assoluta e totale, un’identità perfetta, non esiste. Per fortuna. In effetti, i caratteri storici e antropologici sui quali si fondano le varie accezioni del termine “identità”, di cui oggi si abusa, paiono convergere su un insieme di connotati non sempre facili a comporsi e ad armonizzarsi reciprocamente. Non esiste un’identità perfetta: tutte le identità sono imperfette, e ordinariamente quelle che si potrebbero definire “macroidentità” (le nazionali e le religiose sono forse tra esse) altro non sono se non il risultato sincretico piuttosto che non la sintesi di una serie di “microidentità” tra loro disomogenee, e delle quali tuttavia persone, gruppi e comunità in differente misura compartecipano e si riconoscono.

Ma chiediamoci il perché di tante domande – e di tante polemiche – attuali sull’identità italiana. Perché chiederci proprio oggi, e con tanto accanita insistenza, se e nella misura in cui possiamo definirci una “nazione” o una “patria”, e se è più o meno ancora necessario che l’una e l’altra dimensione – affini, ma non identiche –  possano o addirittura debbano ancora riconoscersi in uno “stato”?

Vi sono forse due dimensioni – una generale e mondiale, una specifica di noialtri italiani – alle quali è corretto impostare il problema.

Nel mondo, il nostro è un tempo di forti polarizzazioni. Da un lato sembra che il processo di globalizzazione marci al deciso livellamento delle identità e alla fatale cancellazione di ogni limite e di ogni confine, quindi anche di qualunque sovranità statale: e, in tempi forse non lunghi, la stessa unica superstite superpotenza potrebbe diventare nei suoi organi decisionali un guscio vuoto riempito della volontà  dei centri dirigenti delle multinazionali, con un  governo ridotto a “comitato d’affari” di essi. Dall’altro, però, stanno riemergendo o emergendo per la prima volta un po’ dappertutto gruppi, nuclei, “tribù” stretti attorno alle loro autentiche o artificiali identità (etniche, linguistiche o religiose che siano)  e ben decisi ad affermarsi attraverso lo scontro con gruppi, nuclei, “tribù” vicini ed avversi. Ma allora, qual è il ruolo della Chiesa cattolica, quale il ruolo del sentimento di appartenenza alla cattolicità che alberga in molti italiani, rispetto all’appartenenza alla comunità italiana? Che l’identità nazionale possa identificarsi nel nostro paese con quella cattolica, che pure della sua tradizione e della sua storia è tanto cospicua parte, non si può sostenere: neppure paesi nei quali processo  di unificazione nazionale e di identificazione con una fede e una Chiesa  sono ben più convergenti e si potrebbe dire per molti aspetti convergenti – cito qualcuno fra i pur essi stessi discussi casi-limite di Polonia e Chiesa cattolica, d’Irlanda e Chiesa cattolica, di Russia e Chiesa ortodossa (a parte la lunga e  del resto essa stessa non univoca parentesi socialista), di Prussia e Chiesa evangelica –  possono presentare la loro coscienza nazionale e la loro coscienza religiosa come una sorta di valore sino in fondo endiadico e inscindibile.

Alla luce di tutto ciò, il còmpito di una ridefinizione dell’identità italica deve partire dal presente puntando al futuro, per recuperare quelle tradizioni che al progetto del presente sono strettamente connesse. L’archeologia folklorico-culturale non serve; il conservatorismo si traduce fatalmente in un immobilismo museale che di solito serve da maschera per un cinico e amorale rifiuto delle radici nel nome dell’adesione a un perbenismo funzionale al mantenimento dello status quo sociale; quel che forse, provvisoriamente, può servire è un “tradizionalismo futurista”, che abbia chiaro il principio secondo il quale le tradizioni sono una realtà viva, che si rinnova di continuo (e che non ha nulla a che fare con quella delle consuetudini incollate a un passato acriticamente visto come “da conservare” indipendentemente dai suoi contenuti) e sia ben consapevole del fatto che si è nazione solo se, quando e nella misura in cui tale si vuole essere.

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