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Autore Discussione: Biagio MARIN (GRADO) - MARAVEGIUSI INGANI - MERAVIGLIOSI INGANNI  (Letto 6721 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Aprile 02, 2017, 09:14:00 pm »

MARAVEGIUSI INGANI


Maravegiusi ingani
dei fiuri che no' dura
dei nuòli sensa afani
che navega per l'aria asura.

Me mai ve disdirè
de voltri hè senpre sé,
e co' la mente inferma
piú v'amo de la tera ferma.

Feste dei mili
che l'alto siel 'nbriaga
e púo un'ariosa maga
disperde i petali sutili;

primavera matana
istàe che 'l cuor tu brusi,
sol che tu lusi
nel sangue che bacana:

senpre ve benedisso
co' boca tonda me ve lodo:
in ogni modo,
me vogio el vostro abisso.


 .......

 

 MERAVIGLIOSI INGANNI


Meravigliosi inganni
di fiori che non durano
di nuvoli senza affanni
che navigano per l'aria azzurra.

Io mai vi disdirò,
di voi ho sempre sete,
e con la mente ammalata
vi amo più della terraferma.

Feste dei meli
che l'alto cielo ubriaca
e poi un'ariosa maga
disperde i petali sottili;

primavera pazza,
estate che bruci il cuore,
sole che fai luce
nel sangue che baccana:

sempre vi benedico,
a bocca tonda io vi lodo
in ogni modo,
io voglio il vostro abisso.

Biagio Marin poeta gradese.
« Ultima modifica: Aprile 02, 2017, 09:17:00 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 02, 2017, 09:15:31 pm »

ARDE  'L MONDO

Arde 'l mondo
comò un bosco in agosto;
urla nel vento
de zorno e de note la guera;
i òmini i massa so' freli
e trema la tera.
Me, vardo a le stele dei sieli,
ai nuvoli d'oro, ch'el vento disperde,
a l'ultimo verde che
incanta la tera.
Eterni xe i munti selesti,
più eterni xe i sieli e i grandi pensieri.
Cô tase i canuni e le bombe
fa tanto silensio sul mondo,
e l'erba continua a fiurî;
seren se dilata el sielo profondo,
el sol torna biondo,
comò duti i dì.

da Le setembrine
    
 

BRUCIA IL MONDO

Brucia il mondo
come un bosco in agosto;
urla nel vento
di giorno e di notte la guerra;
gli uomini ammazzano i loro fratelli
e trema la terra.
Io, guardo le stelle nei cieli,
alle nuvole d'oro, che il vento disperde,
all'ultimo raggio verde che
 incanta la Terra.
Eterni sono i mondi celesti,
più eterni sono i cieli ed i grandi pensieri.
Quando tacciono i cannoni e le bombe
fa tanto silenzio sul mondo,
e l'erba continua a fiorire,
sereno si dilata il cielo profondo,
il sole torna biondo,
come ogni giorno.

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« Risposta #2 inserito:: Aprile 02, 2017, 09:17:42 pm »

E 'NDÉVENO CUSSÌ LE VELE AL VENTO

E 'ndéveno cussì le vele al vento
lassando drìo de noltri una gran ssia,
co' l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento
sensa pinsieri de manincunia.

Mámole e mas-ci missi zo a pagiol
co' Leto capitano a la rigola;
e 'ndéveno cantando soto 'l sol
canson, che incòra sora 'l mar le sbola.

E l'aqua bronboleva drío 'l timon
e del piasser la deventava bianca
e fin la pena la mandeva un son
fin che la bava no' la gera stanca.

da "Fiuri de tapo", 1912
 

   E ANDAVAMO COSI', LE VELE AL VENTO

E andavano così, le vele al vento
lasciando dietro di noi una gran scia,
con l’anima negli occhi e il cuor contento
senza pensieri di malinconia.

Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo
con alla barra Leto capitano;
andavamo cantando sotto il sole
canzoni che ancora volano sul mare.

L’acqua ribolliva dietro il timone
e dal piacere diventava bianca,
persino la penna suonava:
fin che la bava non era stanca.

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« Risposta #3 inserito:: Aprile 03, 2017, 05:40:55 pm »

E 'NDÉVENO CUSSÌ LE VELE AL VENTO

E 'ndéveno cussì le vele al vento
lassando drìo de noltri una gran ssia,
co' l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento
sensa pinsieri de manincunia.

Mámole e mas-ci missi zo a pagiol
co' Leto capitano a la rigola;
e 'ndéveno cantando soto 'l sol
canson, che incòra sora 'l mar le sbola.

E l'aqua bronboleva drío 'l timon
e del piasser la deventava bianca
e fin la pena la mandeva un son
fin che la bava no' la gera stanca.

da "Fiuri de tapo", 1912
 

   E ANDAVAMO COSI', LE VELE AL VENTO

E andavano così, le vele al vento
lasciando dietro di noi una gran scia,
con l’anima negli occhi e il cuor contento
senza pensieri di malinconia.

Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo
con alla barra Leto capitano;
andavamo cantando sotto il sole
canzoni che ancora volano sul mare.

L’acqua ribolliva dietro il timone
e dal piacere diventava bianca,
persino la penna suonava:
fin che la bava non era stanca.


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« Risposta #4 inserito:: Aprile 03, 2017, 05:44:27 pm »

ARDE  'L MONDO

Arde 'l mondo
comò un bosco in agosto;
urla nel vento
de zorno e de note la guera;
i òmini i massa so' freli
e trema la tera.
Me, vardo a le stele dei sieli,
ai nuvoli d'oro, ch'el vento disperde,
a l'ultimo verde che
incanta la tera.
Eterni xe i munti selesti,
più eterni xe i sieli e i grandi pensieri.
Cô tase i canuni e le bombe
fa tanto silensio sul mondo,
e l'erba continua a fiurî;
seren se dilata el sielo profondo,
el sol torna biondo,
comò duti i dì.

da Le setembrine
    
 

BRUCIA IL MONDO
Brucia il mondo
come un bosco in agosto;
urla nel vento
di giorno e di notte la guerra;
gli uomini ammazzano i loro fratelli
e trema la terra.
Io, guardo le stelle nei cieli,
alle nuvole d'oro, che il vento disperde,
all'ultimo raggio verde che
 incanta la Terra.
Eterni sono i mondi celesti,
più eterni sono i cieli ed i grandi pensieri.
Quando tacciono i cannoni e le bombe
fa tanto silenzio sul mondo,
e l'erba continua a fiorire,
sereno si dilata il cielo profondo,
il sole torna biondo,
come ogni giorno.

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« Risposta #5 inserito:: Aprile 03, 2017, 05:51:25 pm »

MARIN, Biagio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

di Edda Serra

MARIN, Biagio. – Nacque a Grado, allora sotto il dominio austriaco, il 29 giugno 1891 da Antonio e da Maria Raugna, primo di tre fratelli.
Il padre era persona di un certo rilievo sociale come sacrista della basilica di S. Eufemia e proprietario di un’osteria e di un trabaccolo, con il quale intratteneva rapporti commerciali con la vicina costa istriana. Il M., rimasto orfano della madre a neanche cinque anni d’età, fu allevato dalla nonna paterna, Antonia Maran, analfabeta, eppure donna di alta spiritualità, con la quale stabilì un legame profondo.
Il M. iniziò i suoi studi presso la scuola pubblica di Grado ma, a dieci anni, si trasferì a Gorizia per frequentare i corsi preparatori che gli dettero accesso al ginnasio di lingua tedesca. Bocciato al quinto anno, si spostò a Parenzo e poi a Pisino d’Istria, dove completò gli studi ginnasiali in italiano ottenendo la maturità nel 1911.
Fin dai primi anni il M. crebbe e si nutrì dell’esperienza dei luoghi, che seppe leggere e fare suoi, e senza i quali non è pensabile il suo itinerario di uomo e di poeta. In particolare dalla natia Grado gli venne l’antico dialetto veneto, connotato di forme arcaiche, in cui sarebbero fioriti, per oltre 72 anni, i suoi Canti de l’isola.
Dall’immaginario dei racconti degli isolani gradesi e di quelli del padre, ascoltati da bambino, gli derivarono la meraviglia e il senso mitico del vivere come lotta; dal paesaggio essenziale e nudo, aperto su vasti orizzonti e dalla sua luce, il blocco di emozioni, la disposizione a osservare e contemplare in solitudine, il vagheggiamento poi della «lontania» e dell’oltre; e, ancora, da Grado recepì la tradizione di una religiosità, unica forma di cultura per tutta l’isola, che nella figura della nonna si sublima e in lui, intellettuale laico, avrebbe trovato diversa espressione; nonché quel senso dei contrasti tra la mobilità di mare, venti, maree, nuvole, e la solidità della terraferma. È Grado dunque il piccolo nido cui ritornare sempre (B. Marin, Grado. L’isola d’oro, Udine 1934; El picolo nio, ibid. 1969) come al luogo della coscienza e dell’io. Le immagini catturate di questo mondo – la natura come le persone – vivono della musicalità del dialetto, dei suoi suoni e dei suoi ritmi, di prevalenti bisillabi e inusuali dittonghi rinchiusi dal M. in quartine.
Gorizia rappresenta, invece, la scoperta del grande mondo arboreo dei parchi e dei viali, il luogo da cui partire per esplorare la pianura friulana con le sue chiare rogge, «la dolse tera furlana», con le case e gli orti raccolti entro muri, veri luoghi di pace per la sua «anima violenta». Ed è la bella città che attrae l’adolescente per il vivere elegante e civile (Gorizia, Venezia 1940); la città del primo amore e dell’iniziazione ideologica e politica, fondata sull’insegnamento di G. Mazzini – la cui impronta etica non sarebbe stata dimenticata mai (nel 1908 fu tra i fondatori, a Grado, del Circolo mazziniano Ausonia) – e sull’irredentismo. Gorizia è, infine, il luogo di una scuola interessante per i contatti umani tra alunni di lingua diversa, ma rigida, ripetitiva, mnemonica (ibid.): non amata, anche se ne sarebbe rimasta l’eco delle migliaia di versi mandati a memoria di Schiller, Goethe, Heine, Lenau, Rilke, accanto a quelli di Carducci, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Dante. Pisino d’Istria è il luogo della scoperta della terra e del lavoro, della sacralità elegiaca di uomini e animali, dell’impegno serio nello studio, nell’ambiente raccolto e accogliente della piccola comunità. Ma è Parenzo che lo incanta, insieme con le cittadine venete della costa già conosciute dall’infanzia (Le elegie istriane: Fontane, Orsera, Milano 1963).
Nello scorcio del 1911 il M. si iscrisse all’Università di Vienna, ma subito dopo fu a Firenze con il gruppo dei triestini che frequentavano l’ambiente de La Voce: G. e C. Stuparich, G. De Vescovi, A. Spaini e, tra tutti, S. Slataper, eletto a modello e ad amico, divenendone «l’ombra» (I delfini di Scipio Slataper, ibid. 1967).
A Firenze, in quest’ambito di vivace dibattito e aperto all’Europa, frequentò i corsi dell’Istituto di studi superiori e venne catturato dall’arte toscana; stabilì, soprattutto, una serie di relazioni durature, tra cui quelle con P. Jahier, G. Salvemini, G. Amendola, ottenne la stima di G. Prezzolini, conobbe Pina Marini di Pescia (che avrebbe sposato nel 1915, e da cui ebbe i quattro figli: Gioiella, Marina, Falco, Serena); chiarì, infine, per il suo futuro, l’intenzione di fare il professore, nel convincimento di partecipare, da intellettuale, al rinnovamento nazionale e al riscatto civile.
All’indomani della prima esperienza fiorentina pubblicò, nel dialetto di Grado, per le nozze di due amici, Fiuri de tapo(Gorizia 1912).
Questa sua prima silloge ha evidenti tracce crepuscolari e pascoliane, ma presenta anche i segni di una poetica personale caratterizzata da vitalismo e contemplazione: «Me son el vento e tu la vela mia, Bâte gnifa». Mare, vento, amicizia e amore sono i temi di una scrittura che è, e resterà, autobiografica.
Dal 1912 al 1914 frequentò i corsi di filosofia dell’Università di Vienna: psicologia, dialettologia, linguistica, storia dell’arte; e la capitale dell’Impero al suo tramonto offrì al M. ricche occasioni di crescita, condivise con l’amico E. Pocar. Nel 1914, dopo l’attentato di Sarajevo e la conseguente mobilitazione, il M. dovette frequentare, a Marburg (Maribor), in Slovenia, il corso allievi ufficiali dell’esercito asburgico, ma riuscì a rientrare a Grado e di qui disertò in Italia per combattere contro l’Austria; volontario nel 1917, non poté mai raggiungere il fronte a causa di una tubercolosi (nel 1916 era stato in sanatorio a Davos), cui seguirono ripetute broncopolmoniti. Nel 1918 a Roma, dove seguì l’insegnamento e godette dell’amicizia di G. Gentile, si laureò in filosofia teoretica.
Attivissimi furono gli anni del primo dopoguerra vissuti a Gorizia dove, in una condizione di salute ancora incerta, si impegnò come insegnante di pedagogia presso l’istituto magistrale. Ma il suo discorso pedagogico di laico convinto, troppo d’avanguardia per l’epoca e in una città di forte tradizione cattolica, si concluse amaramente con un’inchiesta, la rimozione dall’incarico e le dimissioni dalla scuola dopo un breve incarico ispettivo. Nel 1922 dovette entrare di nuovo in un sanatorio.
Nei tre anni passati a Gorizia si cementò l’amicizia con Nino Paternolli, professore di lettere antiche, editore, e cultore di filosofia classica e orientale, che raccoglieva attorno a sé un cenacolo di amici interessati al dibattito filosofico; ad affascinare il M., oltre a J.G. Fichte, furono Platone e i presocratici. Con la morte di Paternolli si chiuse la seconda esperienza goriziana del M., il quale contestualmente pubblicò la sua seconda silloge dedicata alla sorella Nunziata in occasione delle nozze: La girlanda de gno suore (Gorizia 1922).
Rientrato a Grado il M., dal 1923 al 1938, fu direttore dell’Azienda dei bagni, poi delle terme, occupato in progetti di ammodernamento turistico in un ambiente non facile e in un impiego che implicò, fra alterne vicende, l’iscrizione al Partito nazionale fascista (PNF). Non cessò, tuttavia, di pubblicare poesie in gradese, studi sul folclore locale e brevi prose nella Rivista della Società filologica friulana G.I. Ascoli, e, nel 1927, la silloge delle Cansone picole (Udine) apprezzata da D. Valeri. Nel 1938, accusato di attività sovversiva, fu licenziato senza liquidazione e consigliato di stare lontano da Grado.
Nel trentennio successivo (1938-69), insieme con la famiglia, ormai ridotta per la lontananza dei figli, il M. si trasferì a Trieste dove visse le tormentate vicende storiche della città e della Venezia Giulia. Ritornato all’insegnamento della pedagogia e della filosofia presso l’istituto magistrale come supplente (1939-42), poi impiegato con mansioni di bibliotecario delle Assicurazioni generali (1942-56), nel 1943 perse il figlio Falco, caduto in guerra in Slovenia nel corso di un’azione dei partigiani locali contro l’esercito italiano. Nel 1945 entrò nel direttivo del Comitato di liberazione nazionale (CLN) ricostituito a Trieste, che insorse il 29 aprile contro i Tedeschi, mentre la città veniva subito dopo occupata dal IX Korpus dei partigiani di Tito.
Dall’immediato dopoguerra svolse un’intensa attività di oratore e pubblicista (scrisse in La Libertà, L’Idea liberale, La Voce libera, Il Messaggero veneto, Il Piccolo, La Porta orientale, Umana, Trieste, Voce giuliana), spesso con lo pseudonimo di Piero d’Orio, a difesa delle sorti della città e dell’Istria. E se Trieste ritornò all’Italia nel 1954, il M. continuò a pensare e a scrivere dell’Istria perduta.
Tale discorso ha sintesi nelle ricordate Elegie istriane, un polittico inteso a suggellare la memoria di una patria. La linea drammatica del confine che attraversa la città di Gorizia e lambisce Trieste lo indusse, nel 1956, a ristampare, ampliata, la raccolta di prose già edite nel 1940 col nuovo titolo Gorizia, la città mutilata (Gorizia-Milano). Riflessioni e ripensamenti profondi sono affidati alle pagine del diario in prosa, che avrebbe proseguito per tutta la vita (La pace lontana. Diari 1940-1950, Gorizia 2005).
Negli stessi anni la battaglia del M. intellettuale impegnato si esplicò in altri due campi, quello dell’organizzazione culturale, realizzata come direttore della sezione letteraria del Circolo della cultura e delle arti fondato a Trieste nel 1945; e quello più propriamente politico: attivo nella ricostruzione del Partito liberale in città, aderì poi al movimento radicale e, infine, sempre meno contento della condotta politica delle segreterie dei partiti a livello locale e nazionale, al Partito socialista italiano (PSI).
Contestualmente prendeva slancio l’itinerario poetico del M.: nel 1949 pubblicò Le litanie de la Madona (Trieste), composte a partire dal lontano 1937 in onore della madre; nel 1951, una prima edizione de I canti de l’isola (Udine), raccogliendo e rivisitando le sillogi fino allora pubblicate e aggiungendo cinque raccolte nuove: Canti de prima istàe, Le setenbrine, Minudagia, Omini e mestieri, L’ultima refolada. I canti de l’isola, via via incrementati dalla successiva produzione poetica in dialetto, ebbero, con il medesimo titolo, numerose edizioni (Trieste 1970, raccolta di tutte le poesie edite del periodo 1912-69; nonché, a cura di E. Serra, ibid. 1981, per il periodo 1970-81, e ibid. 1994, per il periodo 1982-85).
Nella presentazione dell’edizione 1951, il M. giustifica l’adozione del dialetto come lingua della poesia: il suo mondo non può essere rappresentato né cantato se non nel suo dialetto e tra lui autore e il suo mondo non è possibile distinzione alcuna: la condizione propria del M. è di integrale unità e di immedesimazione, di rifiuto della poesia come esercizio letterario. Al centro di questo mondo, dunque, sono Grado e il poeta, con la tematica amorosa, la riflessione sulla morte, il dialogo con Dio, l’autobiografia, solare pur nella coscienza del passare degli anni (L’ultima refolada), e vivo è il bisogno di quiete (Rada picola ciusa).
I Canti de l’isola, premio Barbarani 1952, furono anche l’inizio di un decennio di progressive affermazioni in ambito nazionale che dettero al M. la soddisfazione di vedersi riconosciuta la dignità di poeta e di poeta in dialetto, culminata nella pubblicazione di Solitàe (Milano 1961) con La lettera accompagnatoria a Scheiwiller e ai lettori di P.P. Pasolini, presso un editore raffinato appunto come Scheiwiller, cui successivamente si affiancarono i grandi nomi dell’editoria italiana (Mondadori, Einaudi, Rusconi, Rizzoli, Garzanti) che avrebbero diffuso la sua opera fra un più vasto pubblico.
Lungo questo itinerario Solitàe è sintesi della condizione personale di solitudine del poeta e appartiene alla stretta biografia, al suo bisogno d’amore sempre insoddisfatto, alla tristezza di non essere accolto né capito. Ma l’io poetico del M. incarna anche l’esigenza di dare risposta a problematiche esistenziali più profonde e la risposta è davanti agli occhi nel paesaggio di Grado: il linguaggio del M. si interiorizza e prende la strada dell’astrazione e della riduzione; l’isola si costituisce simbolo dell’universo e il dialetto linguaggio capace di esprimere valori secondo moduli che non sono della dialettalità tradizionale ma piuttosto neodialettali.
Il profilo del M. tracciato da Pasolini – che curò tale scelta antologica – evidenzia l’immobilità dell’itinerario e l’assenza, nei suoi canti, di «tempo, ragione e storia». Nel 1970, presentando La vita xe fiama. Poesie 1963-1969 (antologia a cura e con nota bibliografica di C. Magris, Torino), Pasolini, nei suoi Appunti per un saggio su B. M. che accompagnano il volume, riprese il discorso sul M. «illuminista laico centroeuropeo» mettendo in rilievo ancora alcune costanti della sua poesia: la rappresentazione della tensione generatrice, la «monotonia» dei temi, la selettività del linguaggio, ma anche il processo operato sul suo mondo gradese, di dilatazione per riduzione e sottrazione; infine ne riconobbe l’appartenenza alla contemporaneità più alta per il solo fatto di riprodurre in dialetto quello che è il suo contesto letterario storico italiano ed europeo.
Il ritorno del M. a Grado, nel 1969, fu preceduto e accompagnato da altre vicende editoriali significative: dopo El mar del l’eterno (Milano 1967) e Tra sera e note (ibid. 1968), in cui riprende il dialogo con il figlio scomparso, Falco, nel 1969 pubblicò la silloge Quanto più moro (ibid.) calda di vita, dove la tematica amorosa è più che mai riflesso dell’esperienza personale, della nuova stagione di amori che si era aperta fin dagli inizi degli anni Cinquanta; e, nel 1973, la raccolta El vento de l’eterno se fa teso (Milano-Trieste, a cura di E. Guagnini - E. Serra), che esprime la sua piena maturità. Nel 1970, affiancato dall’amico S. Crise, il M. aveva curato la seconda edizione dei Canti de l’isola.
Sono ben 500 le poesie infine presenti nella raccolta, prova di una fluenza poetica inarrestabile, se pur irrinunciabile, da molti rimproverata anche per la pretesa del M. di vedersi pubblicato. Perché i Canti de l’isola sono diario d’anima, espressione di coscienza e di pensiero, frutto dell’elaborazione esistenziale quotidiana, che il M. sente doverosa come per fare il punto di una navigazione e che quotidianamente registra anche nelle pagine dei Diari: la vita è distrusona e imprevedibile, «solo il poeta ferma la vita che score» e «solo ne l’arte vita xe eterna» e il poetare del M. è liturgia quotidiana.
Gli ultimi anni del M. furono segnati dalla morte di Pasolini nel 1975 (El critoleo del corpo fracassao. Litànie a la memoria de Pier Paolo Pasolini, Milano 1977), ben più profondamente dal suicidio del nipote Guido, nel 1977 (In memoria, ibid. 1978) e dalla perdita della moglie (1979), che era stata l’ancora e fonte di equilibrio della sua esistenza. E le raccolte degli anni Settanta, A sol calào (ibid. 1974) e Stele cagiùe (ibid. 1977), sono caratterizzate dalla dolorosa accettazione delle rinunce legate alla vecchiaia, accompagnata, però, da una serena riflessione sulla vita testimoniata da altre sillogi, di raro equilibrio tra semplicità e chiarezza espressiva, musicalità e immagine, sentimento e ragione, come già in Poesie (Frammenti, Capua 1972), così in Pan de pura farina (Genova 1976). Mentre il discorso poetico espresso negli anni Ottanta – in cui il linguaggio si estenua raggiungendo zone di rarefazione estrema –, pur senza rinunciare alla tematica amorosa, riflette principalmente l’attesa e la preparazione alla morte, e la riduzione a sola memoria (anche per la perdita della vista avvenuta nel 1978) della solarità, della luce, dei colori del passato (E anche el vento tase, Genova 1982; La luse sconta, Milano 1983; La granda aventura, Padova 1983; A le fose, ibid. 1984; Lontane rade, ibid. 1985).
Il M. morì a Trieste il 24 dic. 1985.
L’appartenenza del M. al «canone» della letteratura triestina, o meglio giuliana, del XX secolo è stata sottolineata con ogni evidenza da B. Maier che già nel 1968 lo inserì, accanto a Slataper e a Saba, nell’antologia Scrittori triestini del Novecento (Trieste 1968). C. Magris nel saggio Io sono un golfo, introduttivo all’antologia Nel silenzio più teso (a cura di C. Magris - E. Serra, con note di E. Serra, Milano 1980) dà ragione del rapporto sostanziale nel M. tra vita e poesia, tra il M. e la cultura europea, cogliendo la miracolosa sintesi di astrazione e di sensualità realizzata nella sua lirica. «Marin è un mistico dell’unità della vita» (p. 13) osserva; in lui «la tensione del linguaggio abolisce ogni distanza fra poesia e filosofia, mito e concetto» (p. 14), rileva, infine, che «la sua lirica è una risposta consapevolmente radicale alla crisi della lirica moderna» (p. 16).
Opere: oltre a quelle già citate nel testo, per la produzione poetica in dialetto, si ricordano ancora: Sénere colde, Roma 1953; Tristessa de la sera, Verona 1957; L’estadela de San Martin, Caltanissetta-Roma 1958; El fogo del ponente, Venezia 1959; Il non tempo del mare (antologia, con prefaz. di C. Bo), Milano 1964; Dopo la longa istàe, ibid. 1965; La poesia è un dono, ibid. 1966; El mar de l’eterno, ibid. 1967; La vose de le scusse, ibid. 1969; Tinpi passài, Fiume 1974; E tu virdisi, Cittadella 1977; L’isola - The island (antologia, a cura di E. Serra, testo a fronte in inglese di G. Parks), Udine 1982; postume: L’anema sita, Roma 1986; Maravegia del sol, Lugano 1989; Rama de rosmarin, a cura e con nota di E. Serra, Milano 1991; Poesie (antologia con un’appendice di inediti relativi al periodo 1981-85), ibid. 1991. Per le poesie in lingua: Liriche (presentazione di M. Cecovini), Trieste 1960; Acquamarina, a cura e con nota di U. Fasolo, Cittadella 1973. Per la produzione in prosa: Elogio delle conchiglie, Milano 1965; Strade e rive di Trieste, ibid. 1967; Parola e poesia, a cura e con introduz. di E. Guagnini, Genova 1984; Gabbiano reale, a cura e con nota di E. Guagnini, Gorizia 1991.
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia del e sul M. si veda: E. Guagnini, Scritti critici su B. M.: cronaca essenziale 1912-1972, in B. Marin, El vento de l’eterno se fa teso, cit.; nonché i nn. 1-11 (1991-2007) della rivista Studi mariniani (Grado), con particolare riguardo al n. 11 che raccoglie il compendio della bibliografia critica sul M. con un saggio introduttivo di P. Camuffo, Scrivere su B. M. Appunti per una bibliografia. Vedi ancora: E. Serra, Poesia e fortuna di B. M., Gorizia 1981; Id., B. M., Pordenone 1992; A. De Simone, L’isola Marin: biografia di un poeta, Torino 1992; P. Camuffo, B. M. La poesia. I filosofi, Monfalcone 2000; E. Serra, B. M.: i luoghi del poeta, Milano 2001. E. Serra
Claudio MàgrisMàgris, Claudio. - Germanista e scrittore italiano (n. Trieste 1939). Ha dedicato importanti studi alla cultura della Mitteleuropa (interessandosi anche di autori italiani di confine, come B. Marin e I. Svevo) e più in generale alla crisi della letteratura contemporanea. È anche autore di opere di narrativa, ...Giòtti, VirgilioGiòtti, Virgilio. - Pseudonimo del poeta italiano Virgilio Schönbeck (Trieste 1885 - ivi 1957), ricavato dal cognome della madre veneta, Ghiotto. Nel 1957 gli fu conferito dall'Accademia dei Lincei uno dei premî nazionali Feltrinelli. La sua poesia, quasi tutta in veneto (Caprizzi, canzonete e storie, ...
Capróni, GiorgioCapróni, Giorgio. - Poeta italiano (Livorno 1912 - Roma 1990). La sua poesia, formatasi nell'ambito dell'ermetismo ma con ascendenze al vocianesimo ligure (da Sbarbaro a Boine), ha mirato a immettere nelle rarefazioni analogiche, proprie del primo, il lievito di un autobiografismo tra risentito e gentile, ...Zanzòtto, AndreaZanzòtto ‹ƷanƷ-›, Andrea. - Poeta italiano (Pieve di Soligo 1921 - Conegliano 2011). La poesia di Zanzotto, Andrea s'inscrive nelle tracce e memorie del suo paese di nascita: "qui non resta che cingersi intorno il paesaggio", contemplato in Filò. Laureato in lettere a Padova nel 1942, e a lungo insegnante ...

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