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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83527 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Agosto 17, 2008, 11:23:06 pm »

Né di destra, né di sinistra

Furio Colombo


Che momento della storia è questo? Allarmanti analogie ci circondano. L’economia, come nel 1929, sta crollando nelle aree più ricche del mondo, per lo squilibrio tra avidità di immensi guadagni e mancanza di controlli. La Georgia, come la Polonia nel 1939, viene invasa da un vicino potente e violento che nessuno vuole sfidare.

Gli Stati Uniti sono per tante ragioni lontani e distratti, con una visione certamente sfuocata.

L’Italia è frantumata, o sta per esserlo, come i Balcani: governo nelle mani della Lega al Nord e dei separatisti al Sud, intenti a spaccare la reputazione morale e l’integrità fisica del Paese. Tra poco le rivelazioni del “federalismo fiscale” ci diranno a che punto è giunta quella volontà di spaccatura.

Un ritorno al fascismo, come dice Famiglia Cristiana? È un po’ che si vede, ha i suoi momenti esemplari, come la caccia ai neri sulle spiagge italiane, come le impronte digitali imposte con la forza ai bambini Rom. Certo l’epoca è giusta. E, come in quell’epoca, il nascente regime può contare su chi nega, chi collabora, chi sminuisce, chi guarda ad altro, chi concorda. Le ragioni sono tante e diverse, ma tutte le corde tengono su il tendone del circo.

Adesso la frase chiave per definire ogni nuova impresa del Governo è che «non è né di destra né di sinistra», frase che ormai si usa per giustificare di tutto. Il rischio è che si finisca per dirlo, in un tempo non lontano, nell’invocare la pena di morte.

«Dovremmo fermarci solo per il rischio che gli elettori non capiscano?», si domanda Franco Bassanini, della premiata ditta Bassanini-Calderoli, da non confondere con la premiata ditta Amato-Alemanno.

Vale la pena di notare quel “solo”. Se gli elettori si ostinano a non capire è chiaro che sono ottusi, privi di visione politica e che nella nostra futura maggioranza non li vogliamo. Però la domanda (formulata da Bassanini nel suo articolo-risposta sull’Unità del 15 agosto) tradisce un certo fastidio e anche un po’ di disprezzo verso lo scrivente («devo una spiegazione ai nostri lettori ben più che a lui») a proposito di un mio articolo in cui chiedevo ragione ai due professori, finora identificati in prima fila con il centro sinistra, per la loro improvvisa corsa (che non si è mai verificata nell’altro senso) verso un sindaco e un ministro di una destra davvero poco moderata. Infatti è la stesa destra che costringe alle impronte digitali i bambini rom, che vuole acciuffare chi fruga nei cassonetti e sbatte sul pavimento di una cella di sicurezza una ragazza sporca di terra, definita prostituta illegale, evidentemente trascinata a forza per le strade di Parma fino al luogo in cui è stata fotografata, una cella che - si intende - «non è né di destra né di sinistra, come le pere, le mele, le banane» (cito da Bassanini, che avrebbe dovuto aggiungere bambini rom e illegali arrestati in flagranza).

Ma torniamo alla domanda di Bassanini: «Può un grande partito democratico, come vorrebbe Colombo, rifiutarsi di partecipare costruttivamente alla sfida della modernizzazione e delle riforme solo per il rischio che i suoi elettori non capiscano? Non si tratta piuttosto di aiutare i nostri elettori a uscire da una visione rozza e selvaggia della democrazia dell’alternanza?».

* * *

Il messaggio è chiaro, come quelli che da bambini scrivevamo sulla lavagna se il maestro usciva un momento di classe. Ricordate? «Asino chi legge». Qui c’è una lieve modifica: “asino chi legge l’appello” - che era accorato, rispettoso, amichevole - di questo giornale ad Amato e Bassanini. Asino chi non ha letto per tempo le autorevoli interviste dei due ai maggiori giornali nazionali (certe cose mica si vanno a dire all’Unità!) in cui già tutto era già stato spiegato. Asino - ti dicono - è chi ci fa perdere tempo. Noi abbiamo da fare, non possiamo far aspettare statisti come Calderoli “che avrà anche detto cose deliranti e razziste. Ma il 14 luglio si è presentato al seminario delle quindici Fondazioni dichiarandosi d’accordo al novantanove per cento”. Dio mio, un evento storico a cui non avevamo fatto caso.

Non possiamo irritare la croce celtica (che, supponiamo, “non è né di destra né di sinistra”) di Alemanno, non possiamo scadere «a una visione rozza e selvaggia della democrazia dell’alternanza». Il vecchio senatore Kennedy, che un mese fa si è presentato nell’Aula del Senato americano con la testa fasciata (aveva appena sostenuto una operazione gravissima) perché non mancasse il voto risolutivo contro il Presidente Bush e contro i Repubblicani, è servito. Non ha capito che salvare o abrogare una legge di assistenza sanitaria per i bambini poveri d’America (che ovviamente non sono né di destra né di sinistra) è alternanza rozza e selvaggia da evitare come la peste. Molto più civile abbandonare una simile sterile “politica estiva, partitica e faziosa”, e dedicarsi al lavoro di una Fondazione, dove le buone idee sono un patrimonio comune della destra e della sinistra. Altrimenti? «Altrimenti offriamo pretesti per decisioni a colpi di maggioranza». L’argomento è destinato a restare, almeno come nota a pie’ di pagina, nei maggiori testi di politologia. È fatto di tre passaggi, tutti e tre cari a Bassanini.

Il primo è: «Possiamo sottrarci al dovere di dare, ciascuno di noi, il nostro contributo a soluzioni solo perché fatte proprie e realizzate da governi di destra legittimati dal voto della maggioranza degli italiani?». Traduzione: la maggioranza è tutti noi. E anche: Bonaiuti e Letta sono ormai inutili per Berlusconi.

Il secondo passaggio: «Le riforme costituzionali ed elettorali imposte a colpi di maggioranza sono il frutto avvelenato di bipolarismo selvaggio». Traduzione: collaborare sempre. Tanto, chi ha la maggioranza vince comunque. Ma almeno nel prossimo “Porcellum” ci saremo anche noi.

Terzo passaggio: gli elettori smettano di essere “rozzi e selvaggi” e di infastidire con una cosa chiamata “opposizione”. Basterà aggiungere, tra poco, che «la maggioranza, legittimata dal voto degli italiani» non è né di destra né di sinistra. Tanto è vero che il suo simbolo è il dito medio levato in alto ad indicare la strada «dell’interesse del Paese. Delle donne e degli uomini che lo abitano, e delle generazioni future». Bassanini ne è certo. Data la sua storia, dispiace.

* * *

Ora domandiamoci perché questa piccola sequenza di fatti e parole locali ci tenga inchiodati all’Italia, Paese divenuto così irrilevante che il nostro ministro degli Esteri decide di rimanere in vacanza alle Maldive mentre tutti gli altri ministri degli Esteri d’Europa si riuniscono d’urgenza perché è scoppiata una guerra. La risposta la troviamo in un editoriale del Boston Globe del 13 agosto: «Quest’uomo sfuggito alla giustizia merita attenzione non solo perché è talmente ricco o perché è celebre nel mondo. Merita attenzione perché è un magnate dei media che ha dato origine a una democrazia finta e pilotata, una democrazia che preserva le apparenze di sovranità popolare ma ne svuota la sostanza. La sua è una popolarità comprata. Ha comprato o intimidito tutti i media. Ha lanciato grandi operazioni di sicurezza senza toccare il crimine organizzato. Si sottrae ai processi che lo accusano di avere corrotto col suo potere e col suo denaro. Le affermazioni di persecuzione giudiziaria con cui lui si difende non devono essere credute. Sono palesemente pretesti politici. Solo un processo legale, completo e trasparente, potrà portare a conclusione questo clamoroso stato di illegalità. Il suo Paese dovrà liberarsi dalla condizione malata di essere governato da un uomo solo che controlla tutti i media con la sua ricchezza».

Questo editoriale, riprodotto il 14 agosto dallo “International Herald Tribune” è stato tradotto con tutta l’accuratezza possibile, evitando però di citare il nome del politico accusato. Quel nome, purtroppo, non è Berlusconi. È Thaksin Shinawatra, detto il Berlusconi asiatico, ex primo ministro e padrone della Thailandia, ora scappato a Londra perché gli è mancata la furbizia di farsi approvare un Lodo Alfano e deve sfuggire ai processi che, dice lui, lo perseguitano. Ma la coincidenza di identikit, tra Berlusconi e Thaksin, è perfetta, riga per riga, accusa per accusa, processo per processo. E dimostra con chiarezza che cosa pensa di noi, restati soli dopo la fuga di Thaksin inseguito dai processi, noi che siamo governati da Berlusconi, l’opinione del mondo libero.

Ma - dirà qualche lettore - il settimanale politico americano Newsweek gli ha appena dedicato un articolo d’elogio a firma Jacopo Bigazzi. Se cercate in Rete, troverete che Jacopo Bigazzi è l’autore di un trattato sulle fratture del cranio pubblicato a Bologna nel 1518. Troverete anche... Ma è bene non guastare il divertimento degli investigatori virtuali. Forse Amato e Bassanini lo incontreranno nelle Commissioni dove lavorano per il bene di tutti noi e di coloro - bipolari non rozzi e selvaggi - che verranno dopo di noi. E scopriranno che il medico bolognese che nel 1518 studia le fratture dei crani e nel 2008 loda per una pagina intera Berlusconi, non è né di destra né di sinistra. È solo un miracolo fra i tanti del nostro padrone.

* * *

Piccoli episodi tristi segnano le giornate italiane nei giorni d’agosto. Per esempio la Sala stampa vaticana che, del tutto indifferente ai bambini rom e alla ragazza sporca di terra buttata sul pavimento nella cella del sindaco-sceriffo, assicura tutto il sostegno della Santa Sede al cristianissimo regno di Berlusconi-Bossi-Alemanno.

Per esempio Borghezio che - commentando una vittoria olimpica - esalta la superiorità della razza padana, e fa irruzione in una chiesa di Genova per giurare la sua eterna lotta all’islamismo. Conferma, dunque il gesto dello statista Calderoli che - mostrando la maglietta offensiva per gli islamici in televisione - aveva provocato diciassette morti in una rivolta anti-italiana in Libia un paio di anni fa. Ma siamo nel gruppo del dito medio di Bossi, che piace sia al Vaticano sia ai partecipanti né di destra né di sinistra della grande impresa di modernizzazione del Paese.

Per esempio Gianni Letta, autorevole sottosegretario e alter ego di Berlusconi, prende l’iniziativa di regime di farsi trovare dalle troupe televisive in un giorno di agosto per dire “grazie” ai nostri soldati. Grazie per che cosa, se li ha mandati lui? Evidentemente per avere fatto buona guardia, con sprezzo del pericolo, e una buona dose di noia, in pieno Ferragosto, al Duomo di Milano. Tremila soldati, per presidiare lo stato di emergenza proclamato dal quartier generale della Lega Nord di Ponte di Legno. Se la guerra in Georgia richiedesse una forza europea di interposizione, il ministro La Russa ha già detto: «Al massimo potrei mandare un migliaio di uomini. Non ne ho altri». Gli altri servono alla difesa della Padania. Forse, sottovoce e defilato dalle telecamere, Gianni Letta avrà chiesto scusa ai nostri soldati per averli mandati, come in Cile, a fare i poliziotti. E avrà chiesto scusa ai poliziotti per aver tagliato stipendio, auto, straordinari e benzina.

Molto in questo Paese, in questo brutto momento della nostra Storia, è crudele, molto è inventato, molto è pura apparenza (vedi i rifiuti di Napoli) che nessuno - per non irritare Bonaiuti - si prende la briga di controllare. Molto è del tutto sprecato e inutile, benché vivamente celebrato dai migliori commentatori e da tutti i telegiornali. Molto è gretto e volgare e cattivo, come non era mai accaduto in Italia, benché spalleggiato dal Vaticano.

Ma, a parte il danno, a parte il dolore di molti e l’umiliazione di coloro che non si rassegnano, niente è rilevante o conta o contribuisce alla Storia del mondo. Purtroppo, finora, neppure l’opposizione.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 17.08.08
Modificato il: 17.08.08 alle ore 7.12   
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« Risposta #106 inserito:: Agosto 21, 2008, 06:33:36 pm »

Il caso del corrispondente fantasma


Furio Colombo


Capisco che sia imbarazzante elogiare Berlusconi su un giornale americano (Newsweek) mentre l’autore dell’elogio, italiano, sta in Italia, e dunque non rappresenta l’opinione di quel grande Paese lontano.

Capisco che lo sia ancora di più se la persona riteneva soltanto di eseguire un ordine ricevuto, da portare a termine ripetendo, frase per frase, i testi del dottor Bonaiuti.

Capisco che ti auguri che la piccola vicenda (il favore di un pacchetto azionario a un altro pacchetto azionario) fili via liscia, ma poi vedi il tuo pezzo citato da tutta la stampa italiana come «il riconoscimento tanto atteso della grande stampa americana al successo dei primi cento giorni di Berlusconi».
Capisco che ti auguri di non essere notato tra la folla, in modo da non essere professionalmente ricordato per questa impresa che è falsa o perché è falso l’autore (che in Rete risulta un medico bolognese del Sedicesimo secolo) o perché è falso il testo (non si tratta di una valutazione americana del “successo” di Berlusconi ma di un impasto fatto in casa).

Comunque, il merito di questo giornale è di avere, unico e solo, puntato il dito verso lo strano evento. Eppure siamo nel Paese che ha ventidue scuole di giornalismo (senza contare i masters).

Quel puntare il dito sul fantasma redivivo di Jacopo Barigazzi è stato fatto in sole tre righe, verso la fine dell’editoriale di domenica 17 agosto.

Le ripeto (mi ripeto e chiedo scusa) per comodità del lettore: «Se cercate in Rete troverete che Jacopo Barigazzi è l’autore di un trattato sulle fratture del cranio pubblicato a Bologna nel 1518». C’era, nel testo dell’Unità, un refuso. Ma non è questo che ha fatto saltare i nervi ai colleghi del Il Giornale.

So che chi non segue Il Giornale, organo principe della vasta editoria di Berlusconi non ci crederà. Ma un certo Federico Novella (non ho verificato, ma spero che almeno lui esista) ha dedicato alle mie tre righe una pagina intera in cui l’autore di quelle tre righe (sì, le tre righe che avete appena letto e niente altro, sull’argomento) viene accusato di “delirio” (nel titolo) di un po’ di demenza, «un parente con manie che non preoccupano più, al massimo suscitano un mezzo sorriso».

E anche: «Chissà che cosa gli sarà scattato nella testa al Colombo furioso quando ha visto il prestigioso settimanale “Newsweek” che intitolava “Miracolo Berlusconiano”».

Ma c’è di più, sempre a proposito di quelle tre righe: «Veleni quotidiani che l’editorialista continua a propagare nelle sue lenzuolate in prima pagina. Talvolta mancando non solo di buon senso ma anche di buona educazione». Come dire: “Per Dio, qualcuno lo faccia smettere”. Infatti aggiunge (sia pure per riempire, secondo il mandato non facile, l’intera pagina): «pensavamo che le invettive di Furio Colombo potessero elevarsi. Oggi scopriamo che si sono elevate troppo».

Ah, dimenticavo che la pagina, oltre che da una grande fotografia del sottoscritto, è completata da un secondo lavoro giornalistico firmato Paolo Bracalini.
Il suo contributo è offrire la seguente prova di vita umana e professionale dello “editorialista” senza volto che ha definito “miracolo berlusconiano” i cento giorni del Lodo Alfano, delle impronte digitali ai bambini Rom, dello “stato di emergenza nazionale” improvvisamente dichiarato (come in Pakistan) nell’Italia di Ferragosto: «Ho prove certe della mia esistenza, dice al telefono Jacopo Barigazzi corrispondente dall’Italia del settimanale americano».

Non una parola di più. Non una notizia di più sull’avventuroso editorialista.


* * *


Come vedete, per l’Unità un successo di cui vantarsi, anche se giungesse più o meno a conclusione di un vivace lavoro per questo giornale. Infatti una intera pagina di quotidiano, impostata sugli insulti e la denigrazione più scomposta per rispondere a un dubbio di tre righe, è una clamorosa e un po’ incauta conferma di quel dubbio. Tanto più che - nell’intera pagina - tra “deliri” e insinuazioni di fastidiosa senilità (ma stiano attenti al loro padrone, anche lui ha superato da un po’ i settanta) solo una riga è dedicata alla prova di esistenza dello editorialista fantasma. E si tratta di una prova di esistenza “per telefono”. In un thriller commerciale non si potrebbe fare di meglio.

Quanto ai fatti:

Uno: non c’è traccia del nome Barigazzi (scritto con o senza refuso) tra i centodieci nomi di giornalisti di tutto il mondo, compresi i collaboratori, che appaiono nella gerenza di ogni numero del “Newsweek”.

Due: l’ufficio di corrispondenza di Parigi non indica corrispondenti italiani con il nome Barigazzi o con altri nomi.

Tre: alla associazione Stampa estera (con sede in Via Dell’Umiltà 83/c 00187 Roma) nessuno, tesoriere incluso, ha mai sentito parlare di un Jacopo Barigazzi.

Questo non vuol dire che non esista o il nome o la persona o - in qualche altra mansione o lavoro - la reincarnazione del medico esperto di crani, quando correva l’anno 1518.

Vuol dire - e questa è la notizia - che quando “Newsweek” ha dovuto fare un favore a Berlusconi, lo ha fatto al livello più schivo e marginale possibile, in modo quasi segreto, con una persona quasi inesistente. La benevola “grande stampa” e Tv italiana hanno fatto finta di celebrare un trionfo.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 21.08.08
Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.06   
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« Risposta #107 inserito:: Agosto 24, 2008, 09:54:12 pm »

L´opposizione

Furio Colombo


L´Unità cambia. Uno non può sapere che cosa viene dopo, ma questa è la normale condizione umana. Sappiamo quello che è successo prima, lo abbiamo letto nell´editoriale di Padellaro e nel comunicato dell´Editore.

Molti diranno grazie a Padellaro (io lo faccio di cuore) con l´amicizia solidale di tutti questi anni, da l´Unità morta alla sua clamorosa rinascita e tenuta, unica nella storia dell´editoria, unico il lavoro che Padellaro, prima insieme, poi da solo (e con tutta la redazione, la più straordinaria che avremmo mai sognato di trovare in un giornale che era stato dichiarato finito) ha saputo fare. E noi - Padellaro e io - siamo fra coloro che danno il benvenuto e un augurio davvero sentito al nuovo direttore Concita De Gregorio.

A coloro che, amando o stimando questo giornale, si domandano che cosa sta succedendo e perché, cerco di offrire una interpretazione che a me sembra corretta della vicenda: sono due storie diverse.

Una è l´arrivo di una nuova solida proprietà e l´arrivo, contestuale, della nuova direzione. Bene arrivata. L´altra è l´uscita di Antonio Padellaro, voluta come se fosse una necessità. Quale necessità? E motivata come? Qui c´è uno spazio vuoto. Il giornale non era in pericolo e non versa in cattive acque. La redazione è tutta al suo posto e lavora bene. C´è un grado di armonia e di solidarietà raro nei giornali italiani. Allora? Allora c´è tutto per far bene, passato, redazione, firme, rapporti internazionali. Abbiamo riaperto una storia che sembrava finita, abbiamo fatto diventare questo giornale un luogo piuttosto vivace.

Ripeto, i percorsi sono due, è bene non confonderli. Arriva un nuovo direttore e, garantisce il suo passato, farà bene. Ma quale è la ragione per cui è stato detto arrivederci e grazie al direttore che ha tenuto ben ferma in questi anni la rotta difficile e felice di questo giornale di opposizione? Non è rispettoso, e neppure ragionevole, immaginare che tutto ciò accada affinché il giornale non sia più di opposizione. E sarebbe altrettanto azzardato affermare che farà una opposizione diversa. Quante opposizioni ci sono?

Ma se qualcuna di queste ombre avesse anche una minima consistenza, come non nutrire il sospetto (vedete come è mite la parola) che alcuni di noi siano parte del problema, e non della soluzione del problema, se il problema è davvero l´opposizione?

C´è un´altra questione. Berlusconi e il suo potere mediatico totalitario sono sempre sul fondo di ogni questione italiana, specialmente se riguarda l´informazione. Però non è Berlusconi ad aver detto «grazie, Padellaro, va bene così». E anche «grazie, Unità, ma sempre la stessa musica ci ha stufato». Mi sembra più ragionevole pensare che tutto ciò sia nato nell´ambito del Partito Democratico. Si sentiva sfasato rispetto all´Unità (o, viceversa, «un giornale che non ci rappresenta»)? Se è così il problema che ha di fronte a sé il nuovo direttore non è facilissimo: fare una cosa che non è il Foglio, che non è il Riformista, che non è Europa, che non è l´Unità di adesso, e, ovviamente, non è né il manifesto né Liberazione. Auguri, davvero.

Ma se è così, resta da spiegare tutto questo silenzio nell'ambito del Pd. Quale sarà stata la ragione, discrezione, cautela, segretezza, a consigliare di non dire una sola parola ad alcuno degli interessati, compresi quelli che, come me, sono lì a un passo, in Parlamento?

Come vedete, nessuna di queste questioni riguarda la persona cui tocca il nuovo mandato. Ma se questo fosse un giornale a fumetti, si vedrebbe un fumetto grande come una casa con un vistoso punto interrogativo sulla testa. Spiace non sapere dove indirizzare la domanda. Ma più ci si pensa e più sei costretto a inquadrarla dentro la storia del Pd (anche il Pd comincia ad avere una storia), non dell´editore.

Forse uno spunto di ottimismo potrebbe essere questo: finalmente il Pd comincia a prendere decisioni. Forse non è la prima decisione che dodici milioni di italiani che hanno votato centrosinistra si aspettavano, mandare a casa Padellaro, e con lui, fatalmente, qualche firma della Unità rinata, della serie rifondata dopo la fondazione di Gramsci. A questo punto non resta che vedere come la situazione si ambienterà con le altre decisioni del prossimo futuro. Qual è la linea del più grande partito di opposizione che più si armonizza con questo deliberato e netto gesto di «discontinuità» (per usare una delle parole chiave della politica. L´altra sarebbe, se Padellaro ed io parlassimo politichese, chiederci - come Chiamparino - "ma noi siamo una risorsa?")?


* * *


Certo il momento è strano. Ti muovi in un paesaggio da fantascienza popolato di mutanti. A Milano il più importante simbolo istituzionale del Pd, il presidente della Provincia Penati, improvvisamente dichiara: «Con la Lega Nord è possibile fare un lavoro importante per Milano». E noi che pensavamo che la Lega Nord fosse impegnata soprattutto a sfrattare le Moschee e a proibire luoghi di preghiera per gli immigrati islamici. A Firenze la prima Festa Nazionale del Partito Democratico è dedicata a Bossi, Tremonti, Bondi, Fini, Matteoli, Frattini, Maroni. Praticamente tutto il governo che già domina tutte le televisioni. Prima di giudicare il senso politico c´è da domandarsi, in senso elementare e prepolitico: perché? Una Festa di partito costa, e costa ancora di più per un partito lontano dal potere e dai benefici del potere. Perché il nostro ospite d´onore deve essere Bossi, invece del giovane angolano picchiato a sangue da un branco di ragazzi italiani a Genova? Perché dobbiamo festeggiare Tremonti invece di ascoltare il macchinista delle Ferrovie dello Stato licenziato per avere fatto sapere che il treno Eurostar che stava manovrando, si è spezzato (e per fortuna non c´erano passeggeri)? Perché invitare Maroni invece di Xavian Santino Spinelli, il Rom italiano docente universitario, che rappresenta la sua gente (dunque anche la nostra: i Rom sono in buona parte italiani), ma rappresenta soprattutto i bambini forzati al trauma delle impronte digitali? Perché tutti in piedi per Frattini invece di accogliere cittadini osseti e georgiani, testimoni di una breve, sporca guerra di cui ancora sappiamo nulla, se non che uno dei protagonisti spietati, Putin è il miglior amico di Berlusconi ? Perché avere sul palco Matteoli invece dei lavoratori dell´Alitalia, che avrebbero dato voce alla paura del loro futuro, reso ormai quasi impossibile dalla falsa promessa (capitali italiani, forse anche capitali dei suoi figli) del candidato Berlusconi?

Ma la danza dei mutanti continua. Mi devo rendere conto che il maggiore partito di opposizione, di cui sono parte, produce tutto in casa, con una autonomia che sarebbe sorprendente se non fosse come un autobus che salta la fermata lasciando a terra la folla dei viaggiatori in attesa. Il più grande partito di opposizione produce da solo il dialogo, benché Berlusconi attraversi la scena pronunciando frasi altezzose e insultanti. Benché alzi ogni giorno il prezzo di un ambito contatto con lui. Il Pd produce da solo una cordiale collaborazione con la Lega, nonostante la caccia agli immigrati, il reato di clandestinità, le botte ai «negri», l´orina di maiale (iniziativa di Calderoli) sul terreno in cui si doveva costruire una Moschea, la proclamazione fatta da Borghezio - in occasione delle Olimpiadi - della superiorità della razza padana (parlava della nuotatrice Pellegrini come di una mucca). Invita e festeggia Bossi proprio quando lui dice (ripetendo con sempre maggiore frequenza la minaccia): «O si fa il federalismo come dico io o il popolo passerà alla maniere spicce».

Produce da solo una certa ostilità verso giudici, una denuncia quasi quotidiana del «giustizialismo» (sarebbero coloro che sostengono il diritto dei giudici di non essere insultati e di non essere costretti al silenzio). Dice Luciano Violante a La Stampa (22 agosto) che i magistrati «conducono una battaglia di solo potere». Sono gli stessi magistrati definiti «dementi» dal primo governo Berlusconi e «cloaca» dal presente titolare di Palazzo Chigi. Ma a quanto pare la volontà di dialogo supera questi dettagli. Si forma una cultura che trova normale lo «stato di emergenza» che ha indotto a far presidiare le strade delle città italiane dai soldati come se fossero in Pakistan, trova normale che Berlusconi si vanti di avere parlato 40 minuti con Putin senza far sapere al Paese o almeno al Parlamento una sola parola di quel suo dialogo (finalmente dialoga con qualcuno). E trova normale che - mentre scoppia la guerra in Georgia che potrebbe contrapporre Stati Uniti e Russia, Nato e impero di Putin (e di Sardegna)- il ministro degli Esteri resti in vacanza mentre i suoi colleghi europei si incontrano in una riunione di emergenza. O forse è stato un grande, scoperto favore all´ amico Putin (dimostrare che la crisi non era così grave), tanto e vero che il ministro Frattini riferirà al Parlamento (Commissioni estere Camera e Senato) soltanto il 24 agosto, dopo avere partecipato alla Festa del Partito democratico come ospite d´onore. Si forma una cultura, abbiamo detto, fatta di buone maniere e di acquiescenza al governo, sia pubblico (Berlusconi) che privato (Mediaset).

Questo spiega la necessità che sia Enrico Mentana a intervistare Veltroni in un grande incontro finale a conclusione della Festa del Pd. E spiega l´annuncio di Lilli Gruber, deputata europea di primo piano e importante giornalista italiana: sarà Berlusconi a scrivere la prefazione del suo nuovo libro sulle donne dell´Islam. Chi altro? Con l´aria che tira è già una conquista democratica che quella prefazione non sia stata commissionata a Borghezio.


* * *


Mi ha colpito la notizia che alla Festa del Partito democratico di Firenze ci saranno collegamenti con la «Convention» del Partito Democratico americano di Denver. Spero che spiegheranno perché, a quella festosa assemblea di militanti politici di opposizione, non sia stato invitato e applaudito e festeggiato, per un bel dialogo, il vicepresidente Cheney, l´uomo delle false prove della guerra in Iraq. O qualche "neo-con" di rilievo, di quelli che amano Guantanamo e le maniere forti.

Qualcuno - spero - spiegherà che gli americani, nel loro Partito Democratico, sono un po´ più rozzi degli italiani: quando fanno opposizione, fanno opposizione. E quando vogliono essere eletti contro qualcuno che - secondo loro - ha fatto danno al Paese, prendono le distanze, dicono cose diverse, invitano e ascoltano le loro migliori voci, quelle più vibranti e appassionate, non quelle dei Repubblicani che intendono sconfiggere.

Inoltre sanno - ma forse anche questo è un segno della loro cultura elementare - che i loro leader non si fanno intervistare dai giornalisti della Fox Television, alcuni bravissimi ma tutti di destra. In tanti vanno alla convenzione democratica, scrittori, registi, celebrità delle grandi università e dello spettacolo. Ma sono tutti testardamente democratici. Vanno tutti per parlare di pace, non di guerra, di poveri, non di ricchi, di affamati del mondo e di crisi del pianeta, di bambini da salvare e di medicine salva-vita di cui bisogna abbattere i prezzi. Certo, l´ America non è un Paese perfetto. Anche là ci sono tanti Giovanardi e tante Gelmini. Ma (a differenza di quanto avviene nell´altra festa del Pd italiano, quella di Modena) i democratici americani non li invitano. Saranno primitivi ma (se starà bene) vogliono Ted Kennedy. E se Ted Kennedy starà bene dirà tutto quello che pensa con l´irruenza che l´America democratica ammira da mezzo secolo, e che da noi si chiama "politica urlata" e irrita molto persino Ritanna Armeni, ma solo se è "politica urlata" di sinistra.


* * *


Ecco le ragioni del mio disorientamento nel Partito Democratico che ho contribuito a creare partecipando anche alle primarie («Sinistra per Veltroni») e nel quale adesso non so dove mettermi, perché ogni spazio è occupata da un ministro ombra che intrattiene la sua educata, amichevole conversazione col ministro-ministro. Ognuno di essi (i ministri-ministri) è occupato a prendere impronte, a presidiare le strade italiane con l´esercito, a insultare i giudici. Ma comunque appaiono come statisti mai smentiti e sempre in grado di incassare apprezzamenti (oltre che inviti alle nostre Feste) e di dire l´ultima parola in ogni radio e in ogni televisione. La descrizione perfetta è di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20 agosto) «Questa Italia assomiglia a una grande caserma, docile, assuefatta, mansueta. Che si tratti di persone di destra o di sinistra, la musica non sembra purtroppo cambiare: addomesticati a pensare in un modo che sembra diventato naturale come l´aria che respiriamo. Come bambini siamo fatto oggetto della cura di chi ci amministra. E come bambini bene addomesticati diventiamo così mansueti da non sentire più il peso del potere. È come se, dopo anni di allenamento televisivo, siamo mutati nel temperamento e possiamo fare senza sforzo quello che, in condizione di spontanea libertà, sarebbe semplicemente un insopportabile giogo».

Quanto sia esatto ciò che scrive Urbinati lo dimostra questa e-mail appena ricevuta: «Attento, alla sua età è pericoloso agitarsi. Ma comunque la sua perdita nessuno la noterebbe, insignificante comunista. Si spenga serenamente come giornalista e scribacchino. L´umanità e l´Unità le saranno grate eternamente».

Curiosamente la e-mail mi è giunta mentre una collega - che preparava un pezzo sul cambiamento in questo giornale -, mi chiedeva: «Ma temi la normalizzazione de l´Unità?».

La mia risposta meravigliata è stata che a me questa Unità appare un giornale normale. Un normale, intransigente, preciso giornale di opposizione. La storia del suo e del nostro futuro è tutta qui, fra questa «normalità», la descrizione di Nadia Urbinati e la e-mail che ho trascritto e che offre una bella testimonianza del ferreo contenitore culturale in cui ci hanno indotti a vivere. Non resta che attendere il nuovo giornale.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 24.08.08
Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.35
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« Risposta #108 inserito:: Agosto 30, 2008, 11:37:49 pm »

La frontiera di Barack

Furio Colombo


Guardo, ascolto il discorso di Barack Obama che viene da un altro mondo nella notte del 28 agosto e mi rendo conto della distanza, come se ci fosse una profonda sfasatura nel tempo e nella Storia. Guardo e ascolto dal fondo di un fosso in cui sono stretto, spalla a spalla, fra Bossi e Borghezio, fra Marcegaglia e Berlusconi, fra Gelmini e Alfano, fra La Russa e Giovanardi. Guardo e ascolto un candidato alla presidenza degli Stati Uniti che parla fra gli applausi che non finiscono mai e dice frasi come queste: «Che cos'è il progresso? Certo non il numero di milionari, certo non la colpa di essere poveri, certo non la pena di non avere una assicurazione che paghi le spese mediche, certo non coloro che dormono per la strada, certo non i disoccupati che hanno perso il lavoro e la casa, certo non l’America che affonda mentre noi la guardiamo. Questa è l’America di Bush, l’America in cui vi dicono che se fate discorsi come questi siete lamentosi. Andate a dirlo ai cittadini di New Orleans abbandonata all’inondazione. Andate a dirlo alle famiglie dei soldati in Iraq. La prossima settimana il partito Repubblicano farà la sua “convention” e vi chiederà una proroga di altri quattro anni. Dite no, dite basta!».

Questo, voglio spiegare ai lettori, non è l’elogio di un’America che non esiste. È la descrizione di una notte in cui un uomo politico giovane, con il vantaggio immenso di essere uno straordinario predicatore e l’handicap finora imperdonabile di essere nero, racconta di un Paese che non c’è ancora, ma potrebbe, all’improvviso arrivare nel mezzo di un mondo rovinato da rancore, esosità, furore di potere e violenza. Pensate, se non altro, alla stranezza di questo giovane uomo politico che con coraggio si è messo di fronte alla barriera finora mai superata della razza. E invece che con la razza si identifica con speranza e dolore, con attesa e paura, con solitudine e caos e quando dice «fratelli» intende dire «cittadini» (e intende tutti, dalle famiglie alle coppie gay, e lo dice chiaro), pensate a questo candidato politico americano dell’anno 2008 che dice: «Questa è la notte di mia madre, è un impegno preso con lei che, dal suo letto di malata di cancro, lottava per il suo diritto con la compagnia di assicurazione. Questi sono i miei eroi, mio nonno, che aveva combattuto da volontario nella Seconda guerra mondiale ma poi aveva studiato perché c'era una legge che pagava gli studi ai soldati che tornavano dalla guerra, non li lasciava, come adesso, nell’abbandono. Mio nonno, che aveva molta immaginazione, mi raccontava di un Paese che non c’era. Io volevo chiamarmi Obama Smith oppure John Obama. Ma chiamarmi Barack Obama, pensavo, farà la mia fine. No, non se sei bravo, non se studi, continuavano a dirmi i miei eroi. Sono qui, sono bravo? No, se non mi avessero iscritto alle scuole migliori e non avessero mollato mai».

Il ritmo da gospel del giovane Obama (vi siete accorti che insisto sul «giovane» non tanto per l’età anagrafica o per l’immagine da studente, ma per la radicale novità che questo candidato americano porta nella politica del mondo) continua, incalza e trascina gli applausi che raramente si spengono per pochi secondi e sono una risposta viva come la sua voce. In quel ritmo di gospel si rintracciano citazioni, non saprei dire quanto istintive o calcolate: «the load is heavy» il peso è grande, citazione dai «country» da Johnny Cash; per descrivere la tremenda eredità lasciata da Bush, un paese impoverito e incerto, fra due guerre che non finiscono. «This is for You, John McCain», citazione da «Sacco e Vanzetti», di Joan Baez, per dire al rivale repubblicano che in lui ammira l’eroe e il soldato, ma «he does not get it», non capisce proprio che cosa voglia dire tenere il lavoro, salvare la casa, avere una assicurazione per la salute, per i bambini e gli anziani della famiglia. Però ecco la prima grande rivelazione. Obama parla di famiglia, si rivolge a ciascun americano e intende davvero tu, tua moglie o tuo marito e il tuo compagno e i tuoi piccoli e i tuoi genitori. Ma vede subito la frontiera del familismo gretto, egoista, chiuso: prima noi, per gli altri si vedrà. Il suo gospel lo aiuta a mettere «gli altri fratelli della stessa famiglia che è tutto un Paese» nella stessa frase. Ripete questa idea che sconvolge la politica tradizionale quando è programma di candidato e non esortazione morale. La sconvolge in due modi diversi. La prima: «Non è vero che non sei il custode di tuo fratello. Lo sei. E lo sei dei più giovani e dei più vecchi, nel tuo gruppo e in un altro gruppo perché o ci salviamo tutti o non si salva nessuno». La seconda: «La promessa americana, che è venuto il tempo di mantenere, è fondata sul dare e avere, su uno scambio continuo fra noi e gli altri, fra i cittadini e lo Stato, fra la comunità che diventa migliore, più moderna, più forte, e i più deboli, quelli rimasti fuori e non ancora entrati».

Si capisce che il candidato, che alla fine abbraccerà a lungo la sua Michelle (avvocato come lui, ex povera come lui e come il candidato vicepresidente Joseph Biden) vuole far capire bene che quando dice «famiglia» non intende farsi i propri interessi e chiudere fuori gli altri. Intende un mondo che si capisce e si parla e sa di vivere insieme e sa che l’immagine repubblicana del possesso esclusivo di ricchezza che prima o poi farà colare qualche goccia di beneficio sugli altri (la «trickle-down economy» raccomandata per primo da Ronald Reagan contro l’America sociale di Roosevelt) porta solo alla penuria e allo spreco. Al troppo e al troppo poco. E che tra privilegio e abbandono, tra solitudine in basso e capriccioso dominio dell’alto non si forma una società nuova, un Paese moderno, una cosa che si chiama progresso. C’è un’altra citazione, non so quanto voluta, ma scandita tra le ondate travolgenti del gospel di Obama. È questa: «The Preacher says...» la trovate in «Mercy» di Bob Dylan. Ma qui stabilisce una identificazione subliminale e istantanea di ogni americano nero con Martin Luther King. È lui «il predicatore». E allora ti accade di accorgerti che i segni sparsi nel grande sermone di Barack Obama al suo popolo (tutto il suo popolo, bianchi e neri, adulti e bambini, uomini e donne, ricchi e poveri) è colmo di segnali come una mappa del tesoro nelle storie d’avventura. Il fascino incredibile di questo leader politico (guardavo il suo discorso alla Fox Television, la più schierata a destra nel paesaggio americano, e ho avuto l’impressione che anche i suoi commentatori siano stati per un momento travolti dal «predicatore» Obama) è in una estrema semplicità che però guida verso territori non frequentati dalla politica. Barack Obama sembra muoversi con forza e passione contro tre avversari che non sono John McCain (da cui mette in guardia solo perché ti riporta al passato). Quei tre avversari sono la solitudine, che blocca tanti americani nella diffidenza e nell’affannosa ricerca di difesa; la paura, in un mondo in cui i pericoli vengono spiegati male e tardi, e in tanti hanno la sensazione che solo pochi saranno al sicuro. È la povertà, il male che torna e ritorna nel gospel di Obama, perché è il più crudele ma anche il più inaccettabile, nella parte ricca del mondo. E anche il più stupido, perché è una povertà fabbricata governando male, distruggendo l’ambiente, sprecando risorse.

Ci sono, come in una saga cavalleresca, tre grandi alleati insieme a cui battersi: il tuo vicino, in modo che ciascuno ricordi sempre che c’è un mondo altrettanto in cerca di salvezza, oltre la siepe della famiglia; i più deboli perché, dice e ricorda e ripete Obama, nessuna società vince scaricando i più deboli e ogni grande ritorno alla civiltà ricomincia dal basso; i più bravi perché, dice Obama, dobbiamo essere tutti più bravi. Predica inseguito dalla frenesia degli applausi. E qui c’è forse il punto chiave del discorso e della campagna elettorale di Barack Obama, candidato di punta benché non sia bianco, benché non si chiami Obama Smith.

La parola è «scuola». Sentite questa frase che, comunque vada, non andrà perduta nei ricordi di una campagna elettorale: «Vi prometto un’armata di insegnanti con stipendi e scuole migliori. È qui che si costruisce il futuro di un grande Paese, non nell’outsourcing (tagliare posti di lavoro dentro un’impresa per far fare lo stesso lavoro fuori), non dalla “delocalizzazione” (esportare in Paesi poveri i posti di lavoro)».

Non dite mai «buonismo» se parlate di Barack Obama. A parte l’onore delle armi, il suo giudizio su John McCain è stato aspro e chiaro: «Non capisce la sofferenza di questo Paese. Non la capisce perché gli manca ogni contatto, conoscenza o esperienza». Ciò che pensa e che dice di Bush è rappresentato, oltre che da una accurata e spietata descrizione del disastro, da quel «dite basta!» a cui ha fatto eco il grido e l’applauso più lungo e più pieno di 85mila persone nello stadio di Denver. Ma la parte del discorso che appare come un manifesto politico, comincia quando Obama decide di affrontare la parola «cambiamento» che è stato il marchio di fabbrica di tutta la sua campagna.

«Cambiamento vuol dire che la crescita di un Paese si misura sulla dignità del lavoro. Vuol dire tagliare le tasse al novanta per cento degli americani, dunque i più poveri tra coloro che lavorano, fino a tutta la classe media invece che ai più ricchi. Vuol dire ridurre il peso fiscale alla migliore tecnologia, vuol dire raggiungere in 10 anni l’indipendenza dal petrolio. Sono 30 anni che «loro» si danno da fare a importare e consumare petrolio. Vuol dire garantire a tutti i cittadini il diritto alla salute. Vuol dire premiare il lavoro volontario dei giovani per i disabili, i bambini, gli anziani, pagando loro le tasse universitarie. Vuol dire uguale paga per uguale lavoro. Cambiamento vuol dire un Paese in cui si incrociano il mutuo sostegno e la responsabilità personale. Cambiamento vuol dire affrontare i pericoli del mondo senza guerre sbagliate come in Iraq. Come comandante in capo vi prometto che non invierò mai soldati americani a combattere senza una missione precisa e senza la protezione adeguata.

Noi - i democratici - siamo il partito di Roosewelt e Kennedy. Dobbiamo ricordarlo nei giorni del disastro tra Russia e Georgia e dobbiamo dire a McCain che sono tempi troppo difficili per buttarci addosso l’un l’altro l’accusa di non essere abbastanza patriottici».

Poi viene, verso la fine, la netta e coraggiosa inclusione nella grande famiglia americana dei «nostri fratelli gays e delle nostre sorelle lesbiche», in modo che niente restasse implicito o non detto. E il diritto degli immigrati a riunire le loro famiglie chiamando i congiunti dai Paesi d’origine. Perché esaltare l’unione delle nostre famiglie e dividere per sempre le famiglie degli immigrati? E in conclusione una definizione della campagna elettorale vista da destra: «Poiché non hanno grandi idee fanno grandi campagne elettorali su piccole cose, e come unica trovata tagliano ancora una volta le tasse ai più ricchi. Tenete bene in mente che il cambiamento non viene da Washington. Il cambiamento va a Washington. Il cambiamento siete voi. Noi non possiamo tornare indietro. Noi non possiamo camminare da soli. Non con tutti quei bambini. Non con tutta quella gente che lavora o che cerca di lavorare. Noi possiamo continuare soltanto insieme».

Più che mai le ultime parole sono scandite dal ritmo del gospel, una sorta di abbandono e di grande preghiera laica. Le telecamere cambiano inquadratura e sempre mostrano volti di persone che piangono. Stranamente piangono più bianchi che neri, più giovani che anziani, i ragazzi come le ragazze. Obama stringe la moglie e le bambine e guarda la sua folla senza sorridere. La musica è jazz. Niente inni.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 30.08.08
Modificato il: 30.08.08 alle ore 8.19   
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« Risposta #109 inserito:: Settembre 07, 2008, 07:47:01 pm »

Diplomazia segreta

Furio Colombo


Sappiamo molto di Franco Frattini, ministro degli Affari Esteri della Repubblica italiana. Sappiamo persino che una giovane donna di nome Chantal si è fidanzata con «Franco» attraverso un comunicato stampa, nuovo tipo di iniziativa sentimentale che costringerà Moccia e Muccino ad aggiornare in senso burocratico il loro repertorio.

Sappiamo poco da Franco Frattini. Ci offre solo tre opzioni per conoscere il mondo della sua politica estera: poche parole stentoree, pronunciate lentamente, con l’aria di un annuncio, ma a fatti già avvenuti.

Poche parole stentoree, pronunciate lentamente per dirci che il merito è dell’Italia e continuano a pervenire comunicazioni in tal senso al suo ministero (non sempre specifica quale merito è dell’Italia e come è stato acquisito); poche parole stentoree pronunciate lentamente per dire che «queste cose le decide il presidente Berlusconi» (di solito per qualunque materia).

Direte che è poco, se pensate che il segretario di Stato americano Condoleeza Rice passa ore davanti alla vivacissima e poco amichevole commissione Affari Esteri del Senato americano. Se pensate al ministro degli Esteri inglese Miliband sulla cui giovane età e inesperienza si scarica lo scontento della stampa inglese e della Camera dei Comuni per la non brillante stagione del governo Brown. Direte che è poco se avete in mente l’indipendenza e l’attivismo dell’ex medico senza frontiere Bernard Kouchner ora ministro degli Esteri di Sarkozy e sempre incline a discutere i fatti ambigui e complicati del mondo dentro e fuori il cerchio interno della vita politica.

Vorrei chiarire per chi mi legge. Il nostro ministro degli Esteri Frattini non è così generico ed evasivo (in contrasto col tono solenne e le parole scandite) solo con i cittadini o con i giornalisti. Lo è anche con i deputati e i senatori. Gli piace riunire le due commissioni Esteri, dove in molti lo ringraziano «per avere aderito all’invito», quando invece si tratta di un dovere e di un obbligo.

E quando tutti sono riuniti di fronte a lui, con voce stentorea e parole scandite il ministro ripete ciò che senatori e deputati hanno già letto su tutti i giornali. Salvo il tono della voce, da grandi occasioni, non filtra l’ombra di una notizia in più.

Farò alcuni esempi che - purtroppo - sono drammatici. Il giorno 26 agosto, di fronte alle commissioni Esteri riunite il ministro degli Esteri italiano ha riferito al Parlamento sulla breve e devastante guerra del Caucaso, Georgia contro Russia e poi Russia contro Georgia. Ci è stato anche fornito un voluminoso dossier, tutto tratto dai giornali italiani (nessuna inclusione o traduzione della stampa estera). Ora tutto ciò avveniva venti giorni dopo l’inizio di quella guerra. Sia la relazione verbale del ministro sia il dossier contenevano frequenti riferimenti al «merito che ha avuto l’Italia» nella risoluzione della vicenda e del vasto riconoscimento internazionale che l’Italia avrebbe ottenuto per quel suo merito.

Ci sono due «ma». Il primo è che «la questione» è tuttora aperta. Navi da guerra russe e navi da guerra americane sono a poca distanza nel Mare Nero. L’Herald Tribune del 2 settembre, in un articolo di Roger Cohen, ha scritto: «Purtroppo non stiamo parlando del pericolo di una nuova guerra fredda ma del pericolo di una nuova guerra».

Il secondo «ma» è che il merito dell’Italia sarebbe consistito in una lunga e abile mediazione del presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Ora noi (noi italiani) siamo stati informati di una conversazione della durata di quaranta minuti, ma con frequenti riferimenti a una «linea calda» di contatti sempre in azione fra Roma e Mosca. È un fatto che la stampa del mondo non ci da notizia, della gigantesca impresa del premier italiano che, da solo, ha fermato la guerra dei mondi. Non invocherei, però, come prova di alcunché questo silenzio della stampa internazionale. Dopotutto è un po’ come per le Olimpiadi. Nella stampa e tv di ogni Paese, gli atleti locali appaiono sempre come gli unici vincitori o più vincitore degli altri.

Quello che trovo preoccupante è che - salvo alcune simpatiche indiscrezioni depositate su La Stampa del 2 settembre da Augusto Minzolini (che doveva essere nella stanza al momento della telefonata di Berlusconi con Putin, perché le frasi chiave di Berlusconi appaiono fra virgolette)- noi, gli italiani e noi, il Parlamento italiano, non sappiamo che cosa si siano detti il primo ministro italiano e il primo ministro russo e in che modo il titolare di un Paese al momento privo di forza economica (crescita 0.1) e di un identificabile ruolo politico-internazionale (salvo l’automatismo delle alleanze) possa avere «mediato» (che vuol dire dare e avere, promettere e ottenere, impegnarsi e assicurare) con il titolare della seconda più grande, pericolosa, aggressiva potenza del mondo, che aveva appena sbriciolato, sia pure a mero titolo di esempio, la città georgiana di Gori, seconda, per importanza, in quel Paese.

In questa vicenda - mi rendo conto - c’è poco da screditare l’Italia. L’intera Europa si è sentita molto virtuosa per avere mitemente e genericamente redarguito i russi e lasciato al suo destino il presidente georgiano, giocatore d’azzardo certamente non privo di colpe e di decisioni sbagliate ma persuaso di avere «l’Occidente» al suo fianco e forse incoscientemente spinto a una azione folle. Resta però - sulle macerie provvisorie di una situazione provvisoria (e immensamente pericolosa) una domanda senza risposta: che cosa ha detto per quaranta minuti il presidente Berlusconi a Putin, oltre alle due frasi che Minzolini virgoletta e consegna alla storia? Che cosa ha promesso, che cosa ha accettato?

Non ci crederete, ma Franco Frattini non ne ha fatto cenno ai deputati e senatori delle due commissioni Esteri riunite, sia pure settimane dopo la grande emergenza di una guerra scoppiata improvvisamente in Europa in un punto e in un modo capace di scardinare tutti gli equilibri del mondo che conosciamo. È vero, Frattini ci ha taciuto molte altre cose. Per esempio, fidanzato o no, perché non ha interrotto le vacanze come tutti gli altri ministri degli Esteri d’Europa quando è scoppiata la guerra? Una simile assenza è stato un segnale alla Russia? Figurerebbe bene in un «thriller» internazionale, in cui un certo comportamento viene richiesto come condizione per trattare, e farti fare la figura del «mediatore».

Frattini, come al solito, fa un passo indietro e lascia il riflettore al suo capo, anche se la sua immagine si riduce di fronte ai suoi pari e colleghi d’Europa.

È in questa chiave che va interpretato il suo silenzio verso l’opinione pubblica italiana (che per forza non esiste, come un muscolo mai esercitato). Ma anche verso il Parlamento che stranamente si contenta - maggioranza e opposizione - di essere convocato con due settimane di ritardo per sapere un po’ meno di ciò che era già stato già detto da tv e giornali.

Non è una vanteria annotare che, nella audizione del 26 agosto, sono intervenuto (50 secondi) per chiedere di riferire sul testo e sul senso politico della telefonata «di mediazione» Berlusconi-Putin. E poi ho interrotto i gentili convenevoli del saluto finale per insistere sulla risposta che non avevo avuto. Non è una vanteria, perché la prima volta il ministro degli Esteri ha ignorato del tutto la domanda. E la seconda volta, girando le spalle, ha detto, nel modo infastidito che i superburocrati usano solo quando sanno di poterlo fare: «Ma la politica italiana è una sola, no? Che cosa pensa il presidente del Consiglio lo sappiamo tutti».

Se un Parlamento, a cominciare dalla maggioranza, si lascia maltrattare dall’esecutivo e ridurre a un organo di consulenza non vincolante, l’evento, oltre che pericoloso, è offensivo per tutti, non solo per chi ha posto la domanda, prima ignorata, poi maleducatamente respinta.

L’attenuante è che - a differenza di Minzolini - Franco Frattini del contenuto di quella telefonata che avrebbe fermato la guerra e salvato il mondo non sapeva nulla. O meglio: non più di noi e dei giornali. E, fra i giornalisti, persino il bravo Minzolini si è reso conto che bisognava far circolare almeno una frase virgolettata.

L’aggravante è ciò che è accaduto in Libia, delicatissimo evento internazionale a cui il ministro deli Esteri non ha neppure preso parte. Pochi giorni prima di quell’evento, mentre aveva di fronte deputati e senatori delle commissioni Esteri, Frattini, evidentemente estraneo all’evento, non ha avuto nulla da anticipare. Due giorni dopo, il colonnello Gheddafi ha annunciato che l’accordo Italia-Libia prevede la sospensione degli impegni internazionali italiani. In altre parole, le nostre basi non saranno mai usate per azioni che coinvolgano gli interessi del colonnello Gheddafi. Penso che l’avvertimento sia tempestivamente giunto al governo di Israele.

L’imbarazzo di Frattini, nella incredibile circostanza, appare grande, grande come quello degli altri italiani e, al momento, dei governi, dei cittadini, dell’opinione europea e di quella americana.

Per fortuna Franco Frattini, modesto e marginale viceministro degli Esteri (il posto è vistosamente occupato da Silvio Berlusconi) ha, al momento, il conforto di nuovi affetti, come da informativa di un comunicato stampa.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 07.09.08
Modificato il: 07.09.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #110 inserito:: Settembre 09, 2008, 05:53:45 pm »

La Repubblica condivisa

Furio Colombo


«Il Presidente della Repubblica ha ricordato la dignità dei militari italiani che furono deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Di diverso avviso il ministro della Difesa». Cito dal Tg 1, ore 20, 8 settembre. In linguaggio deliberatamente piatto non nasconde il fatto certamente eccezionale: il ministro della Difesa La Russa, post-fascista, è di «diverso avviso» sul fascismo.

Infatti la vera frase del ministro è un omaggio alla Repubblica fascista di Salò nel giorno in cui il capo dello Stato stava celebrando, da solo, la Resistenza contro i tedeschi a Roma. C’era anche il sindaco di Roma, alla cerimonia, Alemanno, post-fascista anche lui. Il sindaco aveva detto il giorno prima il suo sentimento di rispetto verso il fascismo. Dunque, per prima cosa, è doveroso inviare da questo giornale un pensiero grato e solidale al Presidente Napolitano che ha celebrato la Resistenza italiana non con le autorità presenti ma insieme a tutti gli italiani che, come lui, credono nella Resistenza e nella Costituzione.

Per i più giovani, forse, è utile un chiarimento.

Che cos’è il fascismo? È un progetto di potere che non bada a spese di vite umane per affermare e rafforzare quel potere. Ha due nemici: chiunque all’interno di un Paese colpito dal fascismo, si opponga. E chiunque (o qualunque altro Paese) fuori dai confini nazionali, sia o diventi ostacolo all’espandersi del regime fascista. Ha tre comandamenti che, in Italia, erano scritti a caratteri immensi su tutti i muri: «Credere, Obbedire, Combattere». Il primo comandamento impone l’accettazione fanatica di una dottrina inventata. Nel caso italiano si chiamava «mistica fascista». I praticanti di quella mistica (cittadini di tutte le età) non avevano scampo. L’intimazione di credere è sempre una intimazione violenta. Significava che un livello superiore, forte abbastanza da lanciare quella intimazione, aveva conquistato potere assoluto con sangue, sottomissione, violenza e complicità.

Obbedire significava l’umiliazione di tutti davanti ai pochi che decidono di vita e di morte. Ci sono sempre, nella storia di tutti i popoli. Sono sempre i peggiori. E cadono fuori dalla storia a causa delle rivolte di libertà. Ma quando comandano non badano a sangue, dolore, umiliazione, morte per farsi ubbidire.

Combattere è il comandamento obbligato. Se sei fascista, o sottoposto al fascismo, c’è sempre qualcun altro da uccidere, persona, famiglia, gruppo o popolo.

Il fascismo per vivere ha bisogno di censura ferrea al fine di impedire anche il minimo alito di libertà. Il fascismo ha bisogno di paura perché ognuno, fascisti e non fascisti, resti al suo posto senza discutere. Il fascismo ha bisogno di miti per organizzare riti che sono sempre evocazioni di stragi. Quei miti sono invenzioni nel vuoto di cultura e di storia, e quei riti sono sempre armati, in attesa che siano pronte nuove vittime da immolare sugli altari della Patria.

La Patria è un mostro al quale, come tributo di grandezza e di difesa dei sacri confini, bisogna sempre tributare un doppio sacrificio: i propri figli, mandati comunque a combattere, dopo aver creduto e obbedito, perché non ci può essere pace fino alla vittoria del fascismo (al di là di un mare di sangue). E il sacrificio di altri popoli, scelti secondo una fantasia arbitraria (il fascismo non deve rendere conto a nessuno) dunque malata, in base a una dottrina di sangue, anch’essa malata che predica: «molti nemici molto onore». Vuol dire che a ogni guerra segue altra guerra, ad ogni persecuzione altra persecuzione.

Il fascismo italiano, giunto a uno dei momenti più alti e pieni del suo mortuario potere (1938) ha visto e identificato gli ebrei, gli ebrei italiani (italiani da secoli, al punto che persino alcuni di essi erano e si dichiaravano fascisti) come nemico finale e mortale.

Nemico da identificare, braccare, catturare, distruggere.

Per sapere quanto il progetto fosse esteso e totale, profondamente fascista e completamente auto-generato dal fascismo, basterà rileggere il pacchetto delle leggi razziali italiane. Da esse non traspare l’impeto brutale e cieco di un momento di barbarie. Si tratta invece di un disegno accurato e giuridicamente impeccabile per sradicare ogni vita, ogni professione, ogni lavoro, dal laticlavio senatoriale al lavoro manuale. L’impossibilità di dare, di avere, di possedere, di lavorare, di restare, di andare via, di essere padri, madri, coniugi, figli, fratelli, neonati, malati, vegliardi morenti, bambini nelle scuole. Tutto chiuso, impedito, escluso, proibito, vietato, ogni porta murata subito e per sempre.

Quando, da parlamentare della tredicesima legislatura, ho scritto, firmato, fatto firmare (anche da deputati di Forza Italia e di An) la «legge che istituisce il Giorno della memoria», questo ho inteso fare: affermare che la Shoah è un delitto italiano. Senza le leggi italiane e il silenzio quasi totale degli italiani, la Germania nazista non avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il suo delitto. Tremendo delitto. Ne è una prova la Bulgaria dove - come testimonia in un suo non dimenticato libro Gabriele Nissim - il presidente del Parlamento locale Dimitar Peshev, uomo di destra in un Paese occupato da tedeschi nazisti e da italiani fascisti, si è rifiutato, insieme alla sua assemblea, di approvare le «leggi per la difesa della razza» scrupolosamente copiate dal modello italiano. I persecutori tedeschi e italiani non hanno potuto toccare un solo cittadino ebreo bulgaro.

«Il Giorno della memoria», vorrei ricordare a chi ne ha discusso su questo giornale ieri, esiste non per dare luogo a una cerimonia, ma per ricordare che gli ebrei italiani e gli ebrei stranieri che avevano creduto di trovare rifugio in una Italia buona, sono stati cercati, isolati, catturati e messi a disposizione dei carnefici tedeschi da fascisti italiani. E tutto ciò è avvenuto nel silenzio di altri italiani che a quel tempo avevano un’autorità e un ruolo. I perseguitati, in Italia, sono stati aiutati e salvati, quando possibile, quasi solo da persone e famiglie che hanno rischiato in segreto la vita, dunque da persone verso cui l’Italia ha un debito immenso (l’Italia, non gli ebrei che non avrebbero dovuto essere vittime), un debito che non è mai stato riconosciuto o celebrato. È anche per questo - ricordare e onorare l’italiano ignoto che non ha ceduto, che non ha ubbidito, che non ha combattuto la sporca guerra della razza, che esiste il «Giorno della Memoria».

Ma esiste anche per ricordare che il Parlamento fascista italiano ha approvato all’unanimità, al grido di «viva il Duce» alla presenza di Mussolini, le leggi dette «per la difesa della razza», articolo per articolo, fra discorsi deliranti, il cui testo si può ancora trovare negli archivi di Montecitorio, e frenetici applausi.

«Il Giorno della memoria» esiste per rispondere a chi osi pronunciare la inaccettabile frase sull’«onore dei combattenti di Salò», per esempio l’attuale ministro Italiano della Difesa La Russa. I combattenti di Salò sono stati coloro che hanno cercato, arrestato, ammassato nelle carceri italiane e poi consegnato alle guardie e ai treni nazisti quasi tutti gli ebrei italiani che nei campi di sterminio sono scomparsi. Sono stati quegli onorati combattenti di Salò a consegnare Primo Levi ai nazisti per il trasporto ad Auschwitz. Negli Stati Uniti, nessuno, per quanto di destra, si sognerebbe di difendere la schiavitù come una onorevole pagina della storia americana. E in nessun paese d’Europa si è mai assistito a una celebrazione di governo verso coloro che hanno collaborato con i nazisti e fascisti che occupavano i loro Paesi.

Le parole del sindaco di Roma e del ministro della Difesa italiano sono più gravi perché riguardano l’immenso delitto della Shoah di cui l’Italia fascista è stata co-autrice e co-protagonista. E’ vero che l’Italia fascista, con il suo codice di violenza, il suo impossessamento crudele delle colonie (di cui Gheddafi, oggi ha chiesto e ottenuto il conto) e la sua relativa modernizzazione dell’Italia ha avuto in quegli anni un suo prestigio e un suo peso in Europa. Ma proprio per questo il delitto razziale italiano si è esteso al peggio di tutta la sanguinosa Europa fascistizzata, e la responsabilità del regime italiano in quegli anni e in quel delitto è stata immensa.

Molti avranno notato che il Presidente della Repubblica, l’8 settembre a Roma, ha parlato da solo a nome dell’Italia libera (libera dal fascismo e dalla persecuzione razziale) nata dalla Resistenza e ha indicato il solo vero valore condiviso: la Costituzione.

È un giorno di tristezza e vergogna per coloro che c’erano, in Italia, quando gli ispettori della razza entravano nelle scuole, quando le brigate nere provvedevano a trovare e consegnare ai tedeschi gli italiani ebrei. Ed è bene ricordare al ministro della Difesa di questa Repubblica, nata dalla Resistenza che gli è estranea, che nella sua Repubblica di Salò i delatori venivano compensati (dai fascisti, non dai tedeschi) con lire cinquemila per ogni ebreo catturato e mandato a morire.

È un giorno di gratitudine verso Giorgio Napolitano che ha detto agli spettatori di sequenze televisive che saranno sembrate un film brutto come un incubo, che è la Resistenza, non Salò, il fondamento dell’Italia democratica, che è la Costituzione antifascista il nostro codice condiviso.

Il resto, aggiungo in nome della memoria che ho cercato di mantenere viva nella legge che porta quel nome, è spazzatura della storia.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 09.09.08
Modificato il: 09.09.08 alle ore 13.09   
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« Risposta #111 inserito:: Settembre 14, 2008, 05:58:55 pm »

Morte di un ospedale

Furio Colombo


Avete mai visto un ospedale che muore, mentre le ambulanze continuano ad arrivare, i malati aspettano in lunghe file ordinate nei corridoi già ingombri di mobili e macchine fuori posto, i medici vengono sulla porta per dirti ciò che stanno facendo, come ogni giorno, da anni, ciò che fra pochi giorni non faranno più?

Avete mai visto l’entrare e uscire dei pazienti della dialisi? Qui sono centinaia. Come i medici, come gli infermieri, come gli altri pazienti, non sanno dove andranno. I dirigenti amministrativi fanno il nome ora di uno, ora di un altro ospedale. Quanto lontani? Con il traffico che attanaglia la città quasi in tutte le ore, sono lontani una vita. Cioè la salvezza di una vita.

C’è stata una lettera, in piena estate, appesa ai muri (solo quelli piastrellati) con nastro adesivo. Quella lettera ha stabilito all’improvviso la data di morte dell’ospedale: 31 ottobre 2008.

«Siamo sicuri che tutti continueranno, con la consueta competenza professionale, nella loro attività per il buon funzionamento dell’ospedale» (secondo paragrafo, in stile badogliano, tipo “La guerra continua”, più gli auguri e i cordiali saluti).

C’è qualcosa di involontariamente esemplare e teatrale, nella morte di un ospedale. Gli infermieri non di turno, i medici non in servizio, si fermano in gruppi. Le discussioni accese sono finite, le domande sono rimaste senza risposta, le lenzuola appese alle finestre, con la scritta che annuncia la fine, pendono flosce, come le bandiere delle sigle sindacali, nelle giornate afose e senza vento di questo strano settembre romano. Anche i pazienti, nelle lunghe file in corridoi appena ripuliti, lucidati, riverniciati con bei colori, sembrano comparse. Infatti lo spettacolo ha qualcosa di incongruente, di stravolto che si presterebbe più a uno spettacolo dell’assurdo che a un documentario-realtà.

La ragione è che fra quello che accade (l’ospedale muore) e quello che vedi, i conti con la realtà non tornano.

Infatti, come in certe storie tristi della vita, l’ospedale muore mentre è nel pieno della sua forza e della sua vita. Alzi lo sguardo dal cortile e vedi le strutture di un recente, costosissimo impianto di aria condizionata. Entri e trovi, reparto dopo reparto, sezioni completamente ricostruite, con buoni materiali e un certo gusto. Un non addetto ai lavori non può sapere. Ma quando ti dicono che la sala di rianimazione è tra le più moderne d’Europa, e te lo dicono i medici dell’ospedale, che finalmente hanno ricevuto e installato (proprio prima dell’estate) il modernissimo impianto «Tac» che avevano chiesto da anni, come fai a non credere?

E poi c’è questa contraddizione: il flusso delle ambulanze e la folla dei pazienti continua ad arrivare nel luogo appena perfezionato e ormai quasi morto, e lo stupore di coloro che i sindacati chiamano «il personale sanitario» non finisce. Sono lì fermi, sulle porte e negli androni ed è come se si domandassero senza parlare: come sarà l’ultimo giorno? Qualcuno si presenterà a nome del nuovo proprietario? Metteranno i lucchetti? Porteranno fuori gli ammalati rimasti, svuoteranno il pronto soccorso o ci sarà un cartello che dice, come per le farmacie di turno, dove rivolgersi in caso di malore?


* * *


L’ospedale morente di cui sto parlando è il San Giacomo, in Via Canova, nel centro storico di Roma. È un immenso edificio, fra Via del Corso e Via di Ripetta, dentro una casbah di vicoli e stradine. È qui, con queste stesse mura più le aggiunte e le modifiche dei secoli, dal 1326. Vuol dire che tutta la parte di Roma fra il Campidoglio e il Vaticano, è stata costruita e ricostruita intorno a questo ospizio-lazzaretto-ospedale intorno al rifugio per gli incurabili (quasi tutti, quando il San Giacomo è nato), intorno al centro medico di eccellenza che adesso fanno morire. So che molti lettori di tante parti d’Italia mi domanderanno perché parlo di una particolare vicenda di Roma, così simile alle tante che si aprono drammaticamente e si chiudono, spesso malamente, ma quasi uguali, in tante altre città.

Rispondo che abito accanto a questo ospedale. Per anni, chiudendo le imposte, ho visto le luci nei tre piani del vecchio, immenso edificio. Sapevo, e so, che non c’è altro luogo di assistenza medica qui intorno per chilometri di traffico urbano (oppure vicino, solo in linea d’aria). Si possono indicare altri ospedali nel centro di Roma cercandoli su una mappa: uno è troppo piccolo per il Pronto soccorso di una città con milioni di ospiti, uno dove non c’è la dialisi, uno che ha scavato persino sotto il Tevere per le sue sale operatorie, ma non può espandersi più neppure di un centimetro. Il resto è meno antico ma più provato dalla cattiva gestione e dai topi, più dell’ospedale di sette secoli. Oppure si può andare in campagna, di qua o di là del Raccordo Anulare, non sempre dove arrivano autobus e metropolitana.

Ma tutte queste non sono le vere - o le sole - ragioni. Comincio col dire ciò che mi manca. Mi manca di poter annunciare, con la consueta passione polemica, che questa è una cattiva decisione di destra.

Non lo è. È della giunta Marrazzo. È la decisione di persone che ho votato, che stimo, che non capisco. Legare alla storia di una giunta di sinistra la chiusura di un grande centro popolare di cura, per di più nel momento in cui era stato dotato, con costi enormi e non recuperabili, delle più recenti e nuove attrezzature sanitarie, mi sembra una brutta decisione che allarma.


* * *


Devo spiegarmi. Quando, parlando di malati e salute, uso la parola «sinistra» non intendo notare la contrapposizione politica (“se fai così perdi voti”) ma il senso profondo di solidarietà che quella parola si porta addosso.

È vero che «una sinistra moderna sa leggere i bilanci». E qualcuno ti dirà anche che «i bilanci non sono di destra né di sinistra». Ma non è vero. Per la sinistra vengono prima persone, dolore, speranza, ansia, attesa. Portare via un intero ospedale da un quartiere immensamente popoloso, abbastanza anziano e, per di più, affollato di milioni di ospiti (visitatori e turisti) per dieci mesi all’anno, non può essere la decisione giusta, nonostante i problemi del bilancio. È come un buco nel mezzo di una fotografia, come quando da un ritratto di gruppo si vuol fare scomparire qualcuno. Qui scompare il senso del perché si è votato a sinistra dopo avere patito il governo post-fascista di Storace, con la partecipazione straordinaria di signore d’area o di partito che erano diventate, proprio nel periodo Storace, imprenditrici della sanità.

Ricordate le giuste discussioni sulla scomparsa o debolezza, in Italia, dell’opinione pubblica, che vuol dire capacità critica di intervenire da parte dei cittadini? Ecco un altro motivo per cui parlo del San Giacomo e della sua chiusura annunciata con appena un mese di anticipo come di un fatto che, a titolo di esempio, ci riguarda tutti.

Invano medici noti per il loro buon lavoro, infermieri con i loro sindacati, cittadini con i loro interrogativi hanno fatto assemblee pubbliche e invitato giornali, televisioni, politici. Invano hanno raccolto sui marciapiedi di Roma migliaia e migliaia di firme, invano i negozi del centro storico hanno esposto in vetrina un insolito annuncio di morte dell’ospedale. Per discutere con persone coinvolte e allarmate e ai cittadini di una vasto quartiere, non si è presentato nessuno. È vero che l’acquirente privilegiato dell’immensa area «ristrutturabile» (una volta messo sui camion il pronto soccorso, la nuova Tac, tutta la rianimazione, la cardiologia, l’intero reparto ortopedico) è un certo Caltagirone. È un fatto che nessun giornale romano, legato o no ai palazzinari, ha mandato i suoi cronisti. E se lo ha fatto, visite fugaci, e trattare la materia come «caso umano», dal punto di vista di qualche vecchietto nostalgico o infermiere che si ostina a non essere trasferito. Quanto alle televisioni, che corrono ai matrimoni delle deputate-vallette, non se ne è presentata nessuna.

Per il resto ci raccontano l’evento come la modernità che avanza (i vecchi ospedali storici è meglio che diventino alberghi o residence, anche se spese notevoli e irrecuperabili sono appena state fatte) e come austero, manageriale rigore economico. Come se Roma fosse diventata all’improvviso una Londra thatcheriana senza la Thatcher.

Tutto ciò si fa dissipando un patrimonio umano che in altri paesi si chiama «comunità» e che non si monta e si smonta come le macchine.

Tutto ciò accade con una strana inesorabilità, senza parlare, senza spiegare, senza ascoltare, che sono le ragioni più importanti per votare a sinistra.

Tutto ciò si fa spargendo un senso di solitudine che fa apparire l’autorità lontana ed estranea, con un immenso spazio vuoto fra chi prende la decisione e chi la subisce. Diciamo che - qualunque cosa sia la sinistra - non c’è niente di sinistra, cioè fraterno, comunitario ma anche capace di legare il passato al futuro, e il destino solitario di ciascuno con i destini degli altri, nella storia dell’ospedale che muore.

Per questo - con tristezza - ho voluto narrarla su questo giornale: la morte di un ospedale viene da sinistra.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.14   
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« Risposta #112 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:46:51 pm »

Caso San Giacomo. La mia replica

Furio Colombo


È doveroso ringraziare Piero Marrazzo, Presidente della Regione Lazio per la risposta attenta a ciò che ho scritto domenica su l’Unità nell’articolo “Morte di un ospedale”.

È necessario rispondere punto per punto, anche se alcuni punti sono fattuali, altri sono politici (nel senso di un programma da realizzare e non di fatti accaduti), alcuni sono incoraggiamenti a credere e sperare. Vediamo.

1. Quanto costa un ospedale? Il Presidente Marrazzo ci dice una cifra per il San Giacomo (54 milioni). È tanto? È poco?

È produttivo o improduttivo? È parassitario o efficiente? È un lusso dei cittadini che vivono in centro o è una necessità? Il Presidente nota che ben 38 milioni se ne vanno in retribuzioni. È normale? È ingiusto profitto di personale rapace? Siamo nella media necessaria, sotto quella media, o qualcuno guadagna troppo? Si tratta di salari esosi o di cattiva organizzazione? E per rimediare si deve dare luogo a un drammatico esodo generale e quasi improvviso di medici, malati e pazienti in dialisi?

2. Il personale è eccessivo. Da oggi? Non è più facile ristrutturare un organigramma che eliminare una grande istituzione da un momento all’altro? E perché non ricordare la ragione di questo affollamento di personale, che origina nella chiusura di un altro ospedale, il Regina Elena, e nel trasferimento di quel personale al San Giacomo? E anche: a mano a mano che nuove tecnologie fanno il loro ingresso negli ospedali, aumentano tecnici e specialisti. Infatti il rapporto personale-pazienti del New York Hospital di Manhattan è di tre a uno, e viene citato ad esempio. Ma è quattro a uno al Sloan-Kettering (oncologia).

3. Il Presidente della Regione osserva che dei 54 milioni del costo, 38 milioni se ne vanno in salari e stipendi. Prego vivamente il Presidente di non seguire il percorso Gelmini, che pensa di illustrare la crisi della scuola affermando che il 90 per cento del bilancio della pubblica istruzione se ne va nelle paghe degli insegnanti. A questa affermazione, in sé priva di senso economico (sono i salari che sono troppo alti o i fondi disponibili che bastano appena a compensare - male - chi lavora?) di solito non seguono riforme ma “snellimenti” e trovate, come il maestro unico e la cancellazione di decine di migliaia di posti. Ma quella è la strada della destra. Noi avevamo votato a sinistra.

4. Tranquillizza la affermazione secondo cui il pronto soccorso del San Giacomo ha pochi “codici rossi” (casi gravi) . Il fatto ci dice: a) che la gente dell’immenso quartiere del centro storico di Roma gode di buona salute; b) che i pazienti “non scelgono” di andare altrove, come suggerisce il Presidente, perché l’ambulanza non è un taxi. Vuol dire piuttosto che il 118 manda i pazienti gravi altrove. Va benissimo, ma non c’entra con la chiusura dell’ospedale. Vuol solo dire che il 118 ha avuto altre istruzioni. Però, come valutare, sia dal punto di vista del merito sia dal punto di vista del costo i trentamila passaggi annui al Pronto soccorso dell’ospedale che sta per chiudere?

5. Leggo la lista degli altri ospedali romani che saranno disponibili una volta chiuso il San Giacomo. Corrisponde a ciò che avevo scritto anch’io e che sanno tutti. Alcuni non sono affatto a breve distanza. Le domande però sono: quanto carico in più si può addossare a questi già affollati ospedali? Sono espandibili o rigidi i loro servizi, dal pronto soccorso alla dialisi? Il San Giacomo era un ospedale vuoto e non necessario? E allora come spiegare la folla che ognuno di noi può vedere in tutti i corridoi, a tutti i piani, tutti i giorni, anche adesso?

Si tenga conto che all’ospedale San Giacomo, che sta per essere chiuso, esiste il centro di nefrologia più importante di Roma e uno dei più importanti in Italia, unico per la dialisi peritoneale. Avranno valutato questo fatto coloro che, con i libri contabili in mano, hanno consigliato al Presidente della Regione Lazio (e tuttavia non spiegato) l’opportunità di abbandonare questo ospedale?

6. “I macchinari saranno riutilizzati e valorizzati altrove”. È una affermazione rassicurante ma mancano pezzi di comunicazione essenziale fra il Presidente della Regione e i cittadini. Altrove dove? Il costo dello sradicamento e dell’altrove non sarà poca cosa. E come è possibile non tenere in conto il danno non riparabile di smembrare una comunità tecnico-medico-scientifica intorno a cui si raccoglie una comunità di pazienti che ha fiducia e che non ha mai patito, per anni, i frequenti casi di malasanità che purtroppo tormentano i cittadini altrove?

7. Tranquillizza l’affermazione, dunque l’impegno: «Nessuno perderà il posto». Ma allarma l’indicazione, implicita nella smentita di una vendita dell’immobile, che l’immenso edificio resterà vuoto. Sanno tutti quale pericolo urbano sono gli edifici vuoti nei centri storici cittadini. E tutti conoscono il costo pesante di un immenso edificio vuoto se non si vuole abbandonarlo ai vandali.

8. In conclusione se il personale funziona, i macchinari sono eccellenti, i medici e infermieri sono compatti nel sostenere i pazienti (soprattutto quelli in dialisi) e i pazienti sono compatti nel sostenere i medici, infermieri e ospedale, se non si conosce nessuno, individuo o organizzazione, che ne voglia o anche solo tolleri questa chiusura, se l’edificio, con il valore che ha (e i limiti storici di uso che ha, dati i secoli) non è in vendita e anzi si nega che ci siano pretendenti potenti, perché chiuderlo mentre è al suo meglio? Perché scaricare pesi, ovviamente impossibili, su ospedali le cui crisi ricorrenti tornano e ritornano, da anni, nella cronaca dei giornali romani?

Perché - sia pure con buone intenzioni di risparmio - fare spazio al privato che inevitabilmente colmerà il vuoto?

Perché proprio un Presidente e una giunta eletti da chi crede nelle persone, nel loro lavoro e passione prima che nei numeri (i numeri fanno vittime, le persone li salvano) dovrebbero essere ricordati come coloro che hanno chiuso un grande , efficiente ospedale, buttando all’aria migliaia di vite, senza avere risolto il problema dei “servizi migliori a costi giusti” di cui parla il Presidente?

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 18.09.08
Modificato il: 18.09.08 alle ore 13.05   
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« Risposta #113 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:56:05 pm »

18.09.08 -

Identikit di una opposizione

IL DISSIDENTE

di Furio Colombo


Se dovessi dire, nel corso di una inchiesta di polizia: “E’ tutta colpa dell’Opposizione”, e mi domandassero, come è logico: che faccia ha questa Opposizione che lei accusa, come rispondere? Chiamerebbero l’esperto che disegna gli identikit e farebbero ma, temo, inutilmente, le rituali domande:

- Occhi?
- Non lo so, sono sempre bassi.
- Statura?
- Si nota poco, tra la folla di Camera e Senato.
- Età probabile?
- Deve essere media, perché non ha la fretta impulsiva dei molto giovani, né la determinazione un po’ concitata dei molto anziani.
- Voce?
- Regolare, bassa, priva di ogni accento di indignazione.
- Maschile o femminile?
- Ugualmente difficile da ricordare.
- Segni particolari?
- Sì, uno. Ripetono sempre la frase “cultura di governo”. Sembra di capire che, secondo questa Opposizione, più uno tace più ha cultura di governo. Ah, e anche l’ombra. Ognuno è convinto di essere l’ombra di un altro, qualcuno che ha vero potere. E lo imita quasi in ogni gesto e parola.
- E’ una imitazione ironica?
- No, è compiuta con molto rispetto. Questa è una Opposizione che ha molto rispetto per il potere e cerca di assumere i modi e i toni.
- C’è il rischio che sia una tattica per infiltrazioni non notate nelle stanze del potere, al fine di mettere le mani sulle decisioni che contano?
- Improbabile, perché il potere è ben sorvegliato e, nonostante gli educati tentavi di imitazione, l’opposizione è immediatamente identificata e respinta in modo brutale, con insulti e minacce, se necessario rinfacciando all’opposizione i Gulag e le fosse di Katyn.
- Questo fatto non produce reazioni vivaci da parte di questa Opposizione scacciata?
- Al contrario. Nonostante ogni tentativo del governo di farla finita una volta per tutte, l’Opposizione resta accanto alla porta in attesa che si schiuda.
- E quale sarebbe la ragione di un così strano comportamento?
- Forse la solitudine. Continuano a ripetere: “Se non parliamo con i nemici, con chi dovremmo parlare?” Ma i nemici sbattano la porta.


APPUNTO. E ALLA FINE NON PARLANO CON NESSUNO.
GLI ELETTORI LI STANNO ANCORA CERCANDO.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/180909-identikit-di-una-opposizione/
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« Risposta #114 inserito:: Settembre 21, 2008, 07:23:37 pm »

Meno di Zero


Furio Colombo


Un viaggio mi è rimasto in mente fra i tanti della mia vita. Con l´Avvocato Agnelli stavo andando a dire al presidente degli Stati Uniti (in quel momento si trovava in California) che il colonnello Gheddafi non era più azionista della Fiat. L´Azienda aveva ricomprato la sua quota, decuplicata di valore nel tempo. Ma erano i giorni dell´assassinio di Klingofer, il vecchio ebreo in sedia a rotelle buttato in mare dal ponte dell´Achille Lauro per mano dei terroristi che avevano sequestrato la nave italiana. Erano i giorni in cui Gheddafi, quasi nelle stesse ore, alternava il gesto del mediatore alla funzione di complice. Consideravo quel giorno un evento importante, che valeva anni di lavoro in America: avere separato l´immagine di Gheddafi da quella del lavoro italiano, per quanto la presenza dei capitali libici fosse disponibile, conveniente e sempre alla ricerca di rispettabili opportunità di accasarsi.

Ma era già evidente allora l´andamento infido e ondivago di quelli accostamenti ai paesi democratici mentre continuava e continua la parte non visibile e non decifrabile (mai in tempo reale) di azioni, motivazioni e vere intenzioni politiche. Come non pensarci nei giorni in cui un presidente del Consiglio italiano trascorre con Gheddafi ore di festa, si scambia doni e vestiti, e tutto il mondo giornalistico, il mondo politico, l´opinione pubblica italiana sanno solo di questa festa e di un presunto impegno di Gheddafi a fermare la gran parte dell´immigrazione africana che parte dalla sue coste per arrivare in Italia. E tutto ciò in cambio di una immensa cifra che l´Italia pagherà per «danni di guerra», ma senza mettere in alcun conto, ad esempio, i ricorrenti e sanguinosi progrom contro gli ebrei italiani (si noti bene: nel dopoguerra) che sono accaduti in Libia contro persone e famiglie appena scampate alla persecuzione fascista. E senza spiegare che cosa faceva Tarik Ben Ammar, socio in affari dell´imprenditore Berlusconi ma non consigliere del primo ministro Berlusconi, in quella festa e nella foto di quella festa pubblicata da "Dagospia". C´erano altre cose da sapere dello storico incontro Berlusconi-Gheddafi in Libia. Non le abbiamo sapute né dal presidente del Consiglio né dal ministro degli Esteri. Una l´ha benevolmente condivisa con gli italiani il colonnello Gheddafi facendo sapere che il nuovo rapporto Italia-Libia firmato da Berlusconi sospende i trattati internazionali dell´Italia se e quando quei trattati fossero sfavorevoli alla Libia. Uno è stato comunicato senza troppa enfasi da alcuni giornali. Il presidente del Consiglio, nel consueto «angolo degli affari» che lo statista riserva sempre ai suoi colloqui internazionali (vedi i quaranta minuti di conversazione con Putin, mentre c´era la guerra in Georgia e di cui né i cittadini, né i politici, né gli specialisti, fuori e dentro il Parlamento, sanno nulla) ha trattato con Gheddafi la presenza di una quota di capitale libico nell´azienda Telecom italiana. In questo modo la nostra storia si rovescia: tornano i grembiulini, tornano le case chiuse e torna Gheddafi, come in un film bizzarro e privo di senso. Un´altra cosa ancora sappiamo, dei festosi e segreti accordi Italia-Libia. Lo ha spiegato Sergio D´Elia ("Nessuno tocchi Caino") in una interpellanza parlamentare e a Radio Radicale, mentre ancora duravano le celebrazioni per lo storico incontro. Come farà Gheddafi a fermare il fiume di immigrazione dal Sud del mondo verso l´Europa? Non ci riuscirà, naturalmente. Ma è una buona occasione per attivare la sua polizia e allargare i campi di morte in cui vengono rinchiusi i più sfortunati tra i profughi che cercano di scampare alla fame e alla guerra, quando cadono nelle retate, nei rastrellamenti, o vengono venduti dagli stessi mercanti di uomini. Vengono ingabbiati e lasciati morire dove la Croce Rossa o l´Onu non arriveranno mai, dove si perde (purtroppo non solo in Libia, ma questa volta con un complice italiano) ogni traccia di umanità.

* * *

L´accordo, presentato come una soluzione e una vittoria, oltre che come un giorno di spettacolo dell´unico protagonista italiano, non è un evento isolato per la nuova immagine dell´Italia nel mondo. In Europa, nella settimana appena conclusa, l´Italia ha ottenuto fischi e «buuu» in occasione della presentazione del moderno progetto italiano di incursioni notturne con obbligo di impronte digitali - bambini inclusi - nel campi rom. È stata anche l´occasione per permettere ai deputati europei più attenti di scoprire l´imbroglio Maroni. In linea con il ministro degli Esteri che (sia pure per precisa direttiva di Berlusconi) alla Russia dice una cosa e agli Stati Uniti ne dice un´altra, Maroni ha mandato in Europa un piano sforbiciato dal peggio. Ma, come hanno detto e ripetuto anche al Senato italiano deputati europei che sanno e hanno visto, il peggio resta riservato ai rom e ai raid nei campi italiani. Intanto l´On Cota capo gruppo della Lega Nord-Indipendenza della Padania, prende la parola alla Camera per chiedere «test di accesso per gli studenti stranieri nelle scuole dell´obbligo» e «in caso di bocciatura, la frequenza in una classe ponte» (leggi: "ghetto"). «In questi classi - dice il noto pedagogista Roberto Cota - si svolgeranno corsi per diversità morale e cultura religiosa del Paese accogliente e ci saranno lezioni al rispetto delle tradizioni territoriali e regionali». Le parole suonano ovviamente ridicole, dato anche l´orizzonte minimo della vita a cui si affaccia Cota. Suonano tragiche se si tiene conto della crudeltà nel Paese di Gentilini, di Borghezio dell´orina di maiale versata sulla terra in cui deve sorgere una Moschea, dell´accanito susseguirsi dei divieti di luoghi in cui pregare per gli islamici sventuratamente approdati in Italia. Ma quelle parole hanno un suono sinistro a pochi giorni dalla morte a Milano del diciannovenne Abdul Salam Guibre, cittadino italiano di origini africane, abbattuto a sprangate da una buona e unita famiglia italiana (padre e figlio, ciascuno con la sua mazza per colpire lo "sporco negro") a causa del furto di due biscotti. E tutto ciò nel silenzio del sindaco di Milano. Ma sono anche i giorni in cui l´onorevole Borghezio, capogruppo al Parlamento europeo del partito italiano di governo "Lega Nord per l´indipendenza della Padania", annuncia con orgoglio la sua partecipazione, insieme con bande dichiaratamente naziste a una serie di manifestazioni contro gli immigrati a Colonia. Ogni volta che qualcuno si fa avanti a ripetere con invidia che «la Lega è radicata nel territorio», sarà bene ricordare che anche il fascismo e il nazismo lo erano, che il radicamento in sé non è una ragione di ammirazione e di applauso. Può essere una disgrazia da combattere. Del resto, chi era più radicato nel territorio del Ku Klux Klan prima del sacrificio di Martin Luther King?

* * *

Ma questi sono anche i giorni in cui il ministro della Difesa italiano dichiara, alla presenza del Capo dello Stato, e in un giorno sacro alla Resistenza, che si devono ricordare e celebrare i soldati della repubblica fascista di Salò che hanno combattuto a fianco dei tedeschi occupanti contro gli angloamericani che, insieme ai soldati italiani del legittimo governo, insieme alla Brigata ebraica, stavano liberando l´Italia dal nazismo, dal fascismo, dal razzismo. Il ministro La Russa ha tentato, dunque, il giorno 8 settembre a Roma di esaltare come normali e rispettabili combattenti italiani coloro che stavano difendendo Auschwitz. Il presidente Napolitano ha risposto subito e con fermezza. E ha ripetuto varie volte anche dopo: «La Costituzione italiana sbarra il passo alla falsificazione della storia». Ma quella falsificazione c´è stata. L´ha fatta il ministro della Difesa, in un Paese che, da settimane, è presidiato da unità delle Forze armate. Per fortuna è stata immensamente più autorevole la risposta del Capo dello Stato. Ma il fatto, inaudito e impossibile in ogni altro Paese europeo, è accaduto in Italia in modo solenne e pubblico. Pochi giorni dopo i giovani di An hanno detto forte e chiaro, ripudiando prontamente le parole di invito alla democrazia appena ascoltate da Gianfranco Fini: «Non saremo mai antifascisti».



Mi rendo conto che tutto ciò non è che una parte del dramma italiano provocato da un legittimo e riconosciuto voto popolare. Ma il breve elenco di fatti che avete letto non è che un accenno al rischio evidente e grave a cui è esposta, con questo governo, la Costituzione italiana. Dunque la democrazia. E tutto ciò, compreso lo sdegno che l´Italia di questa destra sta suscitando in Europa (e che ha fatto dire all´imprenditore ed editore Carlo De Benedetti, nell´ultimo incontro dello Aspen Institute: «Noi, l´Italia, non siamo più nulla, siamo irrilevanti nel mondo») è solo una parte, il mezzo cerchio della asfissia che sta stringendo il Paese. L´altra metà degli eventi è economica e personale. Riguarda il presidente del Consiglio e la sua ricchezza. Una parte delle infaticabili iniziative per lo sviluppo di quella ricchezza ci è ignota. Ne possiamo solo constatare la continua crescita, come di un pane miracoloso che continua a lievitare, governando. Una parte è pubblica, sbandierata. È di questi giorni la notizia che la famiglia Berlusconi - con la figlia del premier vice presidente e tre uomini dell´uomo di Arcore nel Consiglio di amministrazione - controlla Mediobanca, la più importante e la più potente Banca d´affari, a cui fanno capo tutti i nodi, tutti gli accordi, tutte le alleanze e gli incroci del potere economico in ogni campo e settore in Italia. Questo Paese, come tutti sanno, è economicamente a zero. Le notizie ci dicono che, moralmente, questo Paese è meno di zero.



La domanda è: di fronte a una così clamorosa emergenza in cui sono in gioco l´immagine politica, l´identità storica, la natura morale, la difesa costituzionale di un Paese che sta per essere sottoposto al violento shock di frantumazione del federalismo leghista, e dove tutto il potere politico, tutto il potere mediatico e - da adesso - tutto il potere economico sono nelle stesse mani (con l´infinita possibilità di guidare qualsiasi gioco, incrociando questi poteri) in Italia si può continuare a fare opposizione di normale andatura parlamentare, come se il Parlamento non fosse stato neutralizzato e disattivato persino nella sua componente di maggioranza? Si può fare una opposizione all´ombra di un governo ombra, che vuole dire corrispondenza simmetrica e valori condivisi, quando, in realtà, alla simmetria si contrappone il segreto, e i valori condivisi sono rappresentanti solo dal Capo dello Stato? Si può fare opposizione parlamentare senza separarsi nettamente dalla finzione di un gioco impossibile, che comprende persino la celebrazione del fascismo? Chiariamo. È il governo Berlusconi che è uscito dal Parlamento per andarsene in incontri segreti o nella cancellazione della storia italiana o nelle banche. È l´opposizione che resta al suo posto nelle Camere a nome degli italiani che vogliono sapere chi li rappresenta. Ma non possiamo fare opposizione con lampi stroboscopici che alternano sprazzi di luce a una disorientante penombra. Qui si tratta di testimoniare ogni giorno, ogni ora, in ogni atto della nostra vita pubblica che il loro voto è legittimo, il loro modo di governare no.

Pubblicato il: 21.09.08
Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.46   
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« Risposta #115 inserito:: Settembre 22, 2008, 06:48:31 pm »

Partiti di Governo

Furio Colombo


Borghezio (Lega Nord) è andato a Colonia per unirsi a una manifestazione contro gli immigrati islamici e i tedeschi lo hanno subito riconosciuto: un nazista. Gli hanno chiuso il microfono dopo 20 secondi e «lo hanno portato via di peso» (dai giornali, ndr). Borghezio ha protestato e si possono capire le sue ragioni. Quelle manifestazioni lui, e quelli della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, in Italia le fanno tutti i giorni, proprio come la manifestazione proibita a Colonia. Ma da noi i giornali ne parlano con rispetto, le televisioni le includono nella regolare rassegna politica, perché in Italia Borghezio, «portato via di peso dalla piazza di Colonia» è partito di governo. Lo stesso partito del ministro delle Riforme, del ministro del federalismo fiscale, del ministro dell’Interno.

Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 7.39   
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« Risposta #116 inserito:: Settembre 28, 2008, 04:46:13 pm »

Quando il lavoro è un ingombro

Furio Colombo


Due questioni hanno tormentato il mondo del lavoro e quello dei media italiani in questi giorni. Uno è la celebre contesa intorno alla sopravvivenza dell’Alitalia, azienda di dimensioni internazionali detta «compagnia di bandiera», di cui si sono occupati, giorno e notte tutti i politici, tutti i media italiani e un po’ i media del mondo. Mentre scriviamo l’esito è ancora sospeso, anche se è innegabile che uno scatto di vita alla creatura già semi-morta è stata data dall’incontro Epifani-Colaninno,non per iniziativa del Primo ministro in cura a Todi, ma del capo della opposizione, vivamente vilipeso da Berlusconi per essersi intromesso. L’altro è la improvvisa totale chiusura di un grande ospedale, unico nel vecchio centro di Roma e unico per il livello di alcune strutture e settori clinici appena costosamente rinnovati e comunque di qualità europea (ortopedia, nefrologia, medicina di rianimazione).

È una storia locale ma esemplare. Dove, quando è stata mai chiusa, con notifica di meno di due mesi una struttura urbanisticamente collocata nei secoli nel centro del centro storico di una città, disperdendone storia e patrimonio ma perdendo anche i fondi del vasto rinnovamento appena finito? E perché - in questo è il simbolo, che riguarda tutto il Paese, non solo Roma - dovrebbe farlo un governo di sinistra (è di sinistra la Regione Lazio) aprendo uno spazio prezioso e vuoto alle bande dei palazzinari?

Una cosa hanno in comune due storie tanto diverse: il lavoro. In tutti e due i casi (con tristezza si potrebbe dire: visti da destra e visti da sinistra) tutta l’attenzione politica e giornalistica si è concentrata sulla parte impresa (quanto vale, a quanto si può comprare o vendere, quanto frutta l’una decisione o l’altra) e niente o quasi niente sul lavoro, il valore del lavoro. Ma anche del lavoro come componente essenziale dell’impresa. Per esempio, dei lavoratori dell’ospedale è stato detto che le persone saranno sparpagliate come le macchine. Ma, a differenza delle macchine, le persone andranno, più o meno a caso, dove li prendono e come si può. Ringrazino il cielo di non essere licenziati. Quanto ai lavoratori dell’Alitalia, alcuni giornali hanno già definito “aquile spennate” i piloti che hanno deciso di cedere parte dei loro stipendi. Ma tutti sono stati visti, un po’ da tutti e certo dall’universo mediatico unificato, come guastafeste disposti a rendere impossibili convenienti accordi già raggiunti.
Convenienti per chi? È la domanda mai posta e la risposta mai pervenuta. Ma restiamo un momento con Alitalia.


* * *

Raramente ci si sente in debito con la televisione. Questa volta devo dire che sono grato ad «Annozero» per avere impegnato tutte le sue risorse e la capacità giornalistica (arricchita dall’arrivo di Corrado Formigli) per restituire dignità al lavoro. Mi rendo conto, «Annozero» dura due ore mentre una continua, accanita, sarcastica denigrazione del lavoro dei dipendenti di quella impresa disastrata è continuata per settimane, dal governo agli editorialisti compatti, dalle fonti meno credibili a molte voci competenti, a cui si è aggiunta qualche autorevole voce del Partito Democratico, come quando Enrico Letta ha descritto l’impegno senza tregua di Epifani di non abbandonare la difesa del lavoratori «l’errore del secolo...». Giudicando dal seguito della vicenda si direbbe che l’errore (almeno l’errore della settimana) è stato di Enrico Letta e della sua dichiarazione leggera e scorporata dal peso drammatico dei fatti.

Il peso dei fatti si concentra, come se fosse un’evidenza processuale, su una piccola folla di assistenti di volo che - nelle riprese televisive - sembrava festeggiare l’annuncio del ritiro della cordata Cai dalla trattativa. Come in una rapina in banca, è stata identificata la «hostess con le braccia alzate», Maruska Piredda. «Annozero» le ha dato la parola, sostituendo volti veri e storie umane alla indecorosa narrazione dei media, seguita da concitati corsivi di disprezzo e condanna che accreditavano due versioni: parassiti che guadagnano troppo e non accettano anche minimi sacrifici sulla lauta paga; fannulloni che non lavorano e si indignano, mentre l’azienda muore, di un ritocco all’orario. Maruska Piredda ha potuto spiegare agli spettatori di «Annozero» che la proposta era dimezzare la paga e allungare (quasi a volontà chiamando i dipendenti anche nel tempo libero e di riposo) l’orario di lavoro, come se si trattasse di ridurre i consumi e aumentare le prestazioni di una macchina e non dell’orgoglio, dei nervi e della fatica di una persona. Moltiplicate tutto ciò per le vite e i nervi delle assistenti di volo di quella ripresa televisiva e avrete notizie vere del modo drammatico in cui hanno vissuto in pubblico la lunghissima trattativa.

La riduzione a stupidi manichini che fanno festa al «tanto peggio tanto meglio» non è soltanto un falso. È la rappresentazione di un pregiudizio contro il lavoro che si cerca di diffondere in modo da scatenare una guerra tra poveri. Squallido progetto che, tra i lavoratori dell’Alitalia maltrattati e in attesa, è quasi riuscito. Ognuno, con i suoi privilegi (povere conquiste risibili in un mondo di super ricchezze e di super manager) diventa «la casta» dell’altro. E in questo mondo frantumato è facile separare e frantumare anche i sindacati e lavoratori.

Il sindacato più tenace nel resistere al tavolo delle trattative, la Cgil, è stato descritto come delinquenziale e pericoloso, come una inaudita mancanza di rispetto verso la controparte che è sempre rimasta in una rispettosa penombra.

Qualcuno ha mai detto all’avvocato Buongiorno che è riprovevole la tenacia con cui difende i suoi imputati? Intanto i giornali italiani si stavano divertendo con la «la limousine dei piloti» (ovvero con l’auto di servizio che li preleva di giorno o di notte per andare all’aeroporto) come se, in qualsiasi parte del mondo civile, i piloti dei grandi aerei e dei viaggi che durano un giorno o una notte, facessero meglio a destreggiarsi con bravura nel traffico cittadino prima di prendersi la responsabilità in volo di quattrocento passeggeri per decine di ore.

Avrete notato che nessun bravo giornalista investigativo, impegnato a cogliere all’istante la frase incriminata di un dipendente Alitalia sull’orlo di una crisi di nervi, ci ha mai riproposto le storie dei manager che, nei decenni, con paghe infinite e la partecipazione straordinaria della politica, hanno portato l’azienda Alitalia sempre più in basso. E nessuno - tranne piloti e assistenti di volo esausti - ci ha ricordato la lunga lotta Fiumicino-Malpensa, leghisti contro «Roma ladrona», costato molto più della paghe dei dipendenti «lagnosi» prima dei tagli risanatori.


* * *

Allo stesso modo il San Giacomo. D’accordo, è solo un ospedale di Roma, ma alle spalle della chiusura improvvisa di un antico, eccellente ospedale, si intravede l’ombra di una immensa operazione immobiliare. Esattamente il tipo di operazione immobiliare che da decenni ha inquinato l’Italia. Se conoscete la città e la vastità dell’immobile, prima ancora di ricordare lo sperpero di bravura umana e di civiltà ospedaliera, che nessuno calcola, vi viene in mente l’indimenticabile film «Le mani sulla città» di Francesco Rosi. Dunque siamo di fronte a un fatto grave ed esemplare che, come ai tempi de «Le mani sulla città» riguarda una città che si chiama Italia.

Qualcosa non funziona nelle notizie che vengono date al pubblico. Non funziona l’avere migliorato in modo eccellente e con spese altissime un ospedale per poi chiuderlo all’improvviso. Non funziona il teorizzare «il luogo sbagliato» dopo sette secoli, in una città come Roma dove tutto è nel «luogo sbagliato» ma diventa giusto e accettato per la forza del tempo e perché la città è venuta modellandosi intorno ai suoi edifici unici al mondo.

Qualcosa non torna quando vi dicono che «le attrezzature mediche verranno ridistribuite» fra i vari ospedali di Roma, come se le sofisticatissime apparecchiature, portate e adattate nel prezioso ma non facile contenitore San Giacomo (con due Chiese in vendita?) fossero i mobili della nonna, qui e due poltrone più piccole, di là il divano più grande.

Qualcosa non torna quando ripetono: «Ma noi non chiudiamo ospedali, noi tagliamo posti letto». Qui i posti letto tagliati sono il cento per cento. Infatti non si sta spezzettando il San Giacomo, il famoso «spezzatino» che è il grande incubo nelle cessioni di impresa. L’intero ospedale viene eliminato e basta. E questo fatto dovrebbe allarmare l’opinione pubblica perché non è uno sgradevole evento romano,è un fatto italiano. E’ un drammatico precedente. Dice che si può cancellare una intera istituzione sanitaria pubblica persino se sono contrari tutti i suoi medici, tutto il suo personale, tutti i suoi pazienti, tutti i cittadini. Colpisce l’indifferenza della politica per questo universo umano che dissente.

Colpisce l’indifferenza verso il lavoro di una parte politica che non è una cordata di imprenditori (quelli, se mai, caleranno sull’edificio vuoto) ma un partito di sinistra.

Di nuovo, in questo quadro allarmante, il lavoro è un disturbo, la competenza un intralcio, il reclamo di ciò è stato compiuto e del come è stato compiuto è una fastidiosa vanteria. Far presente che quella di un ospedale che va bene ed è amato (amato!) dagli utenti è una comunità che lavora bene perché lavora insieme e non si può spezzare e ridistribuire per piccole parti, è una affermazione che viene vista come un antipatico ostacolo.

La grande concessione non è: rispetto il tuo lavoro, lo apprezzo e faccio di tutto perché tu possa continuare. La grande concessione è: smettila di vantare le cose buone che stavi facendo in questa comunità. La comunità adesso chiude per ragioni che non tocca a voi discutere. Voi sarete mandati via, e secondo quel tanto di disponibile, un po’ di qua e un po’ di là. Ma non sarete licenziati, non vi basta?

Il lavoro perde il suo senso, la sua dignità, quel tanto di missione che dà un valore alle tante ore di ogni giornata. La lezione è tremenda e invita al cinismo togliendo valore a quello che fai.

È la seconda triste lezione sullo stato del lavoro oggi in Italia. Il meglio che ti può capitare è di non essere licenziato subito. È un punto molto basso di quella, che una volta, chiamavamo «civiltà».

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 28.09.08
Modificato il: 28.09.08 alle ore 14.50   
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« Risposta #117 inserito:: Settembre 29, 2008, 10:08:57 am »

26.09.08 - Il governatore ombra

Piero Marrazzo sarebbe il Presidente della regione Lazio. Come tale è responsabile della sanità pubblica in tutta la regione e dunque, essendo stato eletto dal centro sinistra, della difesa della sanità pubblica in tutta la regione. In un periodo di vivace espansione delle cliniche e delle imprese di cura private, è facile immaginare che si tratterà di un lavoro senza sosta per la difesa e il potenziamento di ogni ospedale.

Piero Marrazzo è il commissario straordinario del governo con il compito di tagliare le spese, ridurre i posti letto, se necessario chiudere ospedali. I conti devono quadrare e finché non quadrano, il governo non darà altri soldi per la sanità (la salute) della regione Lazio. Infatti il governo ha già chiuso le casse.

Il Presidente della regione Lazio, Marrazzo, ha prontamente e vigorosamente protestato. Annuncia (24 settembre) “Per la Sanità del Lazio ci sono soldi solo per una settimana”.

Intanto il commissario straordinario per la Sanità del Lazio, Marrazzo, sta spietamente precedendo, come da istruzioni di governo, a “fare cassa”. La farà chiudendo l’ospedale San Giacomo, l’unico ospedale nel centro di Roma, nel cuore di un quartiere su cui gravitano, tra residenti, persone che vengono a lavorare e a comprare e turisti, oltre mezzo milione di persone al giorno.

Il commissario Marrazzo, come è tipico in simili circostanze, non guarda in faccia nessuno, né a personale sanitario dell’ospedale da abolire (che ha creato l’Istituto di Nefrologia, il più avanzato centro di dialisi a Roma), né ai cittadini del quartiere che si oppongono alla perdita di una delle istituzioni più antiche di Roma (1326) ma anche aggiornato fino alla sala di rianimazione appena finita (30 luglio) e considerata una delle migliori in Europa.

Il commissario Marrazzo, in azione risanatrice per conto di un governo di destra intento a dimostrare che prima, a Roma, tutto era un disastro, non guarda in faccia neanche al Presidente Marrazzo che era stato eletto Primo Cittadino della regione con i voti del centrosinistra e dunque con l’impegno principale di tutelare e di sviluppare il grande campo di responsabilità dei governi regionali: La Salute.

C’è un problema. Il commissario Marrazzo che esegue la volontà del governo di destra (che vuole sputtanare il centrosinistra, cioè l’opposizione al governo di destra) è la stessa persona del Presidente di sinistra Marrazzo.

Se non fosse tragico, la situazione evocherebbe il tipico pasticcio con scambio di persona caro a Goldoni.

MA E’ TUTTO VERO, TRAGICO, IMMINENTE.

MARRAZZO È IL GOVERNO OMBRA DI SE STESSO. LA SUA POTENTE OMBRA DI DESTRA OCCUPA E CAMBIA LO SPAZIO DOVE PRIMA C’ERA IL CENTROSINISTRA. E DIMOSTRA CHE NON BASTANO PIÙ IL VOTO E LA VITTORIA ELETTORALE PER METTERSI AL SICURO.

TU VOTI A SINISTRA MA CHI COMANDA È L’OMBRA DI DESTRA, SE L’OMBRA È SUCCUBE.

Furio Colombo

da temi.repubblica.it
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« Risposta #118 inserito:: Ottobre 05, 2008, 04:49:45 pm »

Marcegaglia e le altre


Furio Colombo


Marcegaglia, la signora che presiede l’Associazione degli industriali italiani, è una dirigente inflessibile.
Fra poche ore potrebbe crollare la finanza del mondo ma lei non si distrae, tiene lo sguardo fisso sul punto «nuovo modo di rinnovare i contratti da lavoro in Italia per sbloccare lo sviluppo del Paese». La missione sembra piccola rispetto agli enormi problemi del momento. In realtà, così come lo vuole con perizia strategica il grosso dei suoi associati, porta l’Italia a fare, sia pure con deplorevole ritardo, ciò che è avvenuto in America ai tempi di Reagan: isolare il lavoro dipendente, umiliare i sindacati con il progetto di accantonarli, o di cooptarli con la strategia del «merito», della «produttività», della «competitività».

Ma in tutti questi bei progetti chi lavora con rischio e fatica, non c’entra niente, non può farci niente. Niente di tutto ciò dipende dai singoli lavoratori o da tutta la mano d’opera di un impresa. Però le tre parole, nate e poi risuscitate in America dalla celebre «scuola di Chicago» (il grande consigliere economico di Pinochet) e cresciute col reaganismo, suonano «moderne», fanno strage di consensi anche a sinistra (quante tesine vi hanno dedicato i giovani rampanti del Pd) e sono diventate luoghi comuni sia del liberismo che del riformismo in cerca di buona reputazione.

Ho letto della appassionata difesa del lavoro da parte di Epifani, il più competente e il meno populista, dunque il più moderno leader sindacale, in Italia, oggi (l’Unità, 3 ottobre). Infatti non subisce il fascino di parole vuote per il lavoro, che in America hanno portato all’iperfinanziarizzazione delle aziende e al crollo che adesso lascia tutti col cuore in gola. Tutti, salvo Marcegaglia e Berlusconi.

Berlusconi ha di fronte la montagna sconosciuta di detriti finanziari del mondo, non si sa quanti salvabili e quanti marci, non si sa quanti italiani e quanto importanti o, al contrario, quanti di questi debiti inesigibili siano, con discrezione non notata, diventati italiani e quanta Lehman Brothers ci sia nella filiale sotto casa, dove il direttore simpatico e rampante accostava il risparmiatore col gruzzoletto per fare proposte «interessanti». Berlusconi punta il dito come faceva a Napoli di fronte alla spazzatura e proclama: «tranquilli, ci penso io». Fa credere che anche per i prodotti tossici della finanza ci sarà un Castel Volturno, con i suoi italiani disperati e con i suoi immigrati disperati, disposti a lasciarsi portare in casa quest’altra spazzatura da nascondere.

Quanto alla Marcegaglia, donna giovane e non incolta, ci aspettavamo un soprassalto. Ovvero, per la prima volta in Confindustria, poteva accadere che finalmente qualcuno, magari perché donna, venisse avanti con le due cose che non sono state mai fatte: dire che cosa l’associazione degli imprenditori può fare per il Paese, invece di chiedere continuamente al Paese che cosa può fare, anzi deve fare per gli imprenditori.

E capire e dire ai propri consociati che la vecchia sceneggiata, comunisti cattivi contro liberisti buoni, Peppone contro Don Camillo è davvero finita, che l’incubo della finanziarizzazione tossica riporta attenzione e prestigio intorno all’impresa. Quell’incubo dice che - invece che mettersi in mano alle banche - è meglio lavorare, produrre, esportare. Ma per farlo ci vuole ricerca (qualcosa che nessuno fa e nessuno promette di fare in Italia) e un idea del tempo e del mondo. E ci vogliono lavoratori, ma non come fannulloni da rimettere al loro posto di ubbidienti subordinati che costano sempre troppo.

Chi «fa impresa» come si dice ai convegni di Confindustria con un tono ispirato, quasi religioso, come se si trattasse di prendere i voti, chi «fa impresa» sa che l’impresa è fatta di buon lavoro. Sa anche che il buon lavoro comincia come e dove l’azienda si identifica, quando si esprime con i suoi leader, nel modo in cui sa scegliere i suoi dirigenti. E sa che non è il conteggio dei minuti per andare in bagno dei dipendenti che assicura il buon lavoro ma un clima di lealtà reciproca che tiene conto del resto del mondo: quanto costa il lavoro a me imprenditore; quanto costa un minimo di dignità della vita a te che lavori.

Questa strada c’era, ed era modernissima, ai tempi di Adriano Olivetti in Italia, nelle imprese di David Rockefeller in America, dove ogni persona era una persona dall’inizio del lavoro fino ai livelli manageriali. Adesso, in questa Italia in ritardo, prevale il modello Thatcher-Reagan che era già vecchio e fallito, quando è stato riesumato dal prima della Depressione del 1929 e che, infatti, ci sta portando a un’altra depressione: distanza, diffidenza, delusione, sospetto, solitudine, tutte condizioni pessime per costruire il futuro del lavoro e dunque delle imprese.

Marcegaglia sta dicendo che preferisce che i lavoratori si presentino ad uno ad uno, per fare contratti legati al merito, alla produttività, cui segue l’eterna invocazione «per tornare a essere competitivi». Ma perché fingere di non sapere che la competitività d’impresa dipende dall’impresa, perché dipende dalla guida, dal realismo ma anche dalla visione; che la produttività è il compito e il capolavoro del manager, perché è il frutto della buona organizzazione; che il merito si misura soltanto dove si vede, ovvero se chi lavora è messo nelle condizioni psicologicamente sicure e fisicamente protette in cui può dare e mostrare (mostrare a chi? si potrebbe chiedere oggi) il meglio delle proprie capacità. Qualcuno vuole il meglio da un precario, oppure soltanto un tot di ore e un tot intercambiabile di fatica?

Ho fatto parte della vita aziendale del tipo rappresentato dalla Marcegaglia. E so che l’imprenditore si presenta a qualunque tavolo scortato da buoni avvocati, esperti fiscalisti, e dai più abili esecutori di tagli sui salari, di solito camuffati con il gentile titolo di responsabili delle risorse umane.

Il lavoratore invece - ci dice la Marcegaglia - deve presentarsi da solo e togliere di mezzo i sindacati. Che mercato è? Un simile squilibrio non ha mai generato civiltà. Questo sta dicendo Epifani. Quando insiste e tiene duro, non boicotta l’impresa. Propone il lavoro dignitoso, psicologicamente alla pari, che è parte essenziale dell’impresa.

* * *

Ma ecco che arriva sulla scena l’altra nuova dirigente di Confindustria, Federica Guidi, figlia di, Presidente dei Giovani imprenditori. Lei ha una visione del mondo. Ma lo vede da una prospettiva retrò in cui però invoca il retrò come futuro. Strano per una donna giovane, passata per buone scuole. Ma ecco quello che ha da dire, mentre i giovani industriali, tutti figli di anziani e robusti imprenditori della precedente generazione, si preparano, come i loro papà, a far festa al governo, a Berlusconi, a Tremonti, nel loro convegno di Capri. «Qui c’è qualcuno che continua a guardare al vecchio, che resta ancorato a schemi ormai passati, che nemmeno adesso, nel mezzo del crac finanziario che sta mettendo a dura prova il mondo, si rende conto di come quegli schemi siano del tutto inadeguati ad affrontare cambiamenti rapidissimi e a volte drammatici». (Corriere della Sera, 2 ottobre).

Santo cielo, ma davvero Federica Guidi pensa che Lehman Brothers, la banca che lo scorso Natale aveva pagato ai suoi top manager “bonus” (premi individuali) tra i cento e i duecento milioni di dollari, sia inciampata e caduta e scomparsa a causa della irresponsabile resistenza del sindacato dei fattorini e dei ragazzi che distribuiscono la posta ai piani bassi dell’azienda?

Non le ha raccontato nessuno che, nel Paese di Reagan e dei due Bush, una volta spezzato, troncato e poi gradatamente escluso da ogni partecipazione il sindacato, una volta reso il lavoro e anche la manodopera più specializzata una variabile di mercato di ultimo livello, un po' sotto la scelta e l’acquisto del materiale da ufficio, moltissime aziende si sono trasformate, come New Orleans, in avamposti abbandonati a raid, accorpamenti, merger, svendite delle divisioni più remunerative e preziose, perdita deliberata di personale specializzato, mentre calava l’originalità e desiderabilità dei prodotti, diminuivano le esportazioni e dalle finestre senza vetri dei piani alti passava il vento di uragani finanziari che si sta portando via l’intero management americano di generali senza esercito?

Dice ancora al Corriere la Guidi: «Persino in momenti di crescita l’Italia rimane ferma al palo». Quando, dove, quale azienda è stata bloccata dagli operai (che in Italia muoiono anche in tre al giorno, mentre lavorano, lavorano, lavorano di giorno e di notte)? Quando nell’Italia della Thyssen-Krupp (al processo i sindacati sono stati autorizzati dal giudice a costituirsi parte civile)? Quando, in questo Paese, prima di questa crisi mondiale che non ha niente di sindacale, un’azienda è rimasta al palo per colpa dei lavoratori, invece che per la responsabilità di un pessimo management?

Possibile che la giovane Guidi, Presidente dei Giovani imprenditori, non si sia accorta di suo, o non sia stata avvertita dai colleghi che stanno appena arrivando, come lei, a sostituire i padri (c’è da essere orgogliosi: sono tutti al convegno di Capri invece che al “Billionaire“) che la Fiat ha avuto una buona ripresa, che ha fatto notizia nel mondo, non per avere finalmente umiliato il lavoro, ma per avere ritrovato un management adeguato, nuovi progetti, nuovi modelli, nuovi modi di vendere?

Prendiamone atto al momento di riflettere sulle relazioni industriali: non è stata la «forte spinta» invocata dalla giovane Guidi (parola codice che significa mano dura sul sindacato) a far tornare in prima fila la Fiat. E’ stato il buon lavoro organizzato bene. Non c’è niente di più moderno che riconoscerlo. Non c’è niente di più vecchio che dare la colpa ai soldati, come facevano, ad ogni sconfitta i generali sabaudi, nella Prima Guerra mondiale.

Quasi nelle stesse ore si fa avanti Barbara Berlusconi, neolaureanda in filosofia, giovanissimo membro del consiglio di amministrazione di Fininvest. Partecipa, insieme alla madre Veronica, a un convegno sull’etica dell’impresa organizzato dai ragazzi di «Milano young», figli che esistono in nome del padre, come sempre in Italia e quasi solo in Italia. Dice Barbara Berlusconi che «Fininvest ha una struttura etica», ed è bello sentirglielo dire di una azienda fondata da e con Marcello Dell’Utri. Dice di avere imparato dal padre «il rispetto per gli altri e l’importanza di non ledere la libertà altrui». Non è il primo caso di padri affettuosi che in casa dicono una cosa e fuori gli scappa di dire che i giudici del proprio Paese o sono mentecatti o sono un cancro, e, in ogni caso, «dovranno presentarsi col cappello in mano». Sarebbe ingiusto giudicare gli affetti. Ma di nuovo si vede che cosa questi padri non hanno insegnato ai figli, persino i padri migliori di Berlusconi. Non gli hanno insegnato che un’azienda non è solo proprietà e dirigenti, altrimenti, sei i piani alti continuano a dare “bonus” a se stessi e a guardare giù con l’irritazione di Federica Guidi, ogni impresa sarà Lehman Brothers. Spiacerà a tutte queste signore, ma ha ragione Epifani: un’impresa è il lavoro.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.35   
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« Risposta #119 inserito:: Ottobre 14, 2008, 03:07:07 pm »

Un Nobel contro il disastro


Furio Colombo


Alla vigilia delle più importanti elezioni presidenziali americane il Premio Nobel per l’economia è stato assegnato all’economista che, con forza, competenza e passione è stato il grande antagonista di George W. Bush e del «rovinoso governo pubblico-privato» costituito da Bush «che si è preso il compito di liquidare anche i più urgenti interventi dello Stato, aumentando a dismisura la povertà», e da Dick Cheney «che è il titolare di un vasto sistema di potere e di profitto privato che dalla Casa Bianca si estende fino all’Iraq».

Un piccolo privilegio, essere membro dell’«Advisory Council» dell’Università di Princeton, mi ha consentito di conoscere presto Paul Krugman che a Princeton insegna economia e relazioni internazionali. Ma Krugman è un collega due volte, caso rarissimo in un Paese che non ama confondere le carriere. Infatti è opinionista di punta del New York Times. Per questo quasi tutto ciò che ho scritto di economia e di lavoro su questo giornale viene dalla lezione di Paul Krugman. (Che infatti, come i lettori sanno, è stato citato in quasi ogni mio articolo su questo giornale da anni). Il suo libro politicamente più importante è stato «The Great unraveling» («Il grande disastro» oppure «Grande disfacimento») con cui Krugman si è battuto per impedire la seconda elezione di George Bush e ha dimostrato, con quattro anni di anticipo sui politici e sui grandi giornali americani, la devastazione dell’economia, lo sbilanciamento brusco e pericoloso fra pubblico e privato, non solo a causa del continuo ritiro dello Stato da impegni assoluti come la salute, ma anche dell’invasione del “privato” (politicamente manovrato) in alcuni settori chiave come la sicurezza, le scorte anche militari, l’“intelligence”, la gestione di interrogatori e prigioni, l’occupazione quasi totale della sanità.Paul Krugman ha denunciato i tagli successivi di tasse ai redditi più alti voluto da Reagan, e poi, in modo più rovinoso, dato l’immenso debito contratto con l’infinita guerra in Iraq, dal drastico taglio delle tasse ai ricchi di George W. che ha segnato la fine di essenziali servizi sociali. Il nuovo Nobel ha descritto per tempo e con chiarezza le conseguenze, «la doppia natura malefica del governare da destra»: da un lato «si espande la povertà che comincerà ad avere il costo sociale di una guerra». Dall’altro «l’abolizione di ogni regola, lo stato pericoloso che i sociologi chiamano “anomia”, e che in economia si chiama caduta nel vuoto, quando nessuna parte riconosce più il debito con l'altra». Krugman ha anticipato di anni la disperata condizione del mondo della finanza americana e del mondo che stiamo vivendo oggi.

Riceve il Nobel con motivazioni tecniche che riguardano la sua teoria sul commercio mondiale (che richiamano comunque aspetti solidaristici visti come strumento di compensazione e di equilibrio anti-conflitto e contro il tornaconto «a breve» dei potenti e dei prepotenti). Ma Krugman per molti anni ha condotto da solo la sua battaglia di economista, ma anche di formidabile comunicatore, contro i due grandi inganni del «governo cieco» e della «economia che corre veloce, senza progetti e senza guida tranne l’avidità di alcuni, e che sta per deragliare».
Ora che la finanza del mondo è deragliata «ed è come un grande, ingombrante, pericoloso malato che passerà di casa di cura in casa di cura», il Nobel a Krugman appare come il sigillo di un notaio su una serie di documenti profetici tutti scritti con precisa e analitica descrizione dei fatti, prima, molto prima che i fatti accadessero. È naturale dire - ed è consenso comune in America - che il mondo di Obama, il senatore, il leader politico, il candidato presidenziale, il possibile nuovo Presidente degli Stati Uniti, nasce qui, nella visione di un economista, ma anche di un opinionista, di grandissimo peso che vede e denuncia con forza le decisioni più gravi prima che diventino legge o tolleranza o accettazione appannata dalla teoria del «decidere insieme».
Paul Krugman si è battuto da solo contro la guerra in Iraq, contro l’immensa crescita del debito americano, contro il taglio delle tasse ai redditi alti, contro il governo “privato” di Cheney e l’abbandono dei poveri, contro del governo “pubblico” di Bush, fondato sui tagli di tasse ai ricchi e sulla eliminazione di servizi essenziali, contro l’isolamento del lavoro e della classe media, contro la solitudine dei malati senza assicurazione, contro la voracità padronale delle assicurazioni verso cui l’accademico di Princeton è molto più duro del celebre documentarista Michael Moore.Paul Krugman è di sinistra nel senso di uno competente, che sa, capisce e non cede. Sa che passerà un treno impazzito e che bisogna spingere via dai binari le vittime designate che sono sempre i più deboli. Lo fa, lo ha fatto e - per una volta nella vita -, gli arriva un premio. Il prossimo risultato del suo straordinario lavoro potrebbe essere l’elezione di Barak Obama a Presidente degli Stati Uniti.

Pubblicato il: 14.10.08
Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50   
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