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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 79726 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 06, 2007, 05:21:23 pm »

Alta intolleranza

Furio Colombo


Giuliano Amato. Conoscete un uomo più incline al dialogo e alla valutazione di opposte ragioni? Bene, dimenticatelo. O almeno così lui ci chiede di fare con le risposte sprezzanti che dedica a chi gli dà torto, nell’intervista pubblicata il 5 settembre da Repubblica (autore Massimo Giannini). Il tema, come il lettore che non avesse letto l’intervista immagina, sono i lavavetri. Lo svolgimento del tema, come ormai tutti sanno, va in due direzioni opposte. In una si vedono i lavavetri, mendicanti e venditori (magari un po’ ostinati) di fiori come il primo gradino di una scala che sale su fino al delitto, alla banda, alla criminalità organizzata. E propone la mitica e e disumana “tolleranza zero” dell’ex sindaco di New York (senza sapere che il bravo leader repubblicano, ora che è candidato alle elezioni presidenziali, sta cercando disperatamente di far dimenticare quella vecchia, gelida immagine di sceriffo).

Nell’altra direzione si vede, si constata, si dice, specialmente se si ha qualche esperienza del mondo, che i lavavetri sono lavavetri e i criminali sono criminali. E che nessun esperto ha mai scoperto e indicato un filo che leghi le due carriere. Ora, per ragioni che certo sono valide ma che non conosciamo, il ministro dell’Interno ha deciso che la Repubblica italiana è fondata sulle persuasioni personali dell’assessore Cioni di Firenze, dislocate non tanto lontano dalle persuasioni del sindaco leghista di Treviso Gentilini, benché Cioni vanti un bel pedigree di sinistra.

La persuasione di Cioni - che adesso è di Amato - è il rovescio della regola d’oro americana.

Quella regola dice: «È permesso tutto ciò che non è proibito». Amato e Cioni sentenziano: «E’ proibito tutto ciò che non è permesso». E poiché non permettono più nulla, né una spugna né un fiore, l’esperienza insegna che il risultato sarà, come qualunque prete della Caritas ma anche qualunque carabiniere semplice potrebbero spiegare, meno mite e assai più illegale. Nel migliore dei casi più decoro urbano e più furti, perché è difficile che gli ex lavavetri vadano a sistemarsi in Telecom o in Alitalia (data anche la situazione). Qui, però, devo fermarmi.

Mi sto accorgendo che - dal punto di vista del nuovo Giuliano Amato - così come rivelato dall’intervista di Giannini a pag 3 di Repubblica - con la mia breve argomentazione, sono già caduto nella “sociologia d’accatto”. Definizione (sono parole mie): «E’ sociologia d’accatto ogni argomentazione che, benché fondata su testi e maestri di qualche valore, non coincide con la visione Amato-Cioni».

Non conosco l’assessore Cioni di Firenze, di cui ho solo ascoltato qualche frase un po’ spiccia e sgarbata alla radio. Ma conosco Giuliano Amato, la persona, il docente, l’amico. E non so spiegare. E’ vero che quella intervista in cui un intellettuale come Amato definisce “d’accatto” anche il dissenso di Asor Rosa, comincia con la più curiosa delle domande nella storia del giornalismo italiano. Non ci crederete ma la domanda è questa: «Ministro Amato, mentre voi preparate un pacchetto di misure urgenti contro la criminalità, politici e intellettuali ex o post comunisti, si baloccano con Cesare Beccaria, filosofeggiando sui delitti e sulle pene, sdottoreggiano sull’uomo buono rovinato dalla società. Non le pare che ci sia un certo deficit culturale nel modo in cui la sinistra ragiona e affronta i temi della sicurezza»?

Un certo deficit culturale esiste certamente se uno dei più noti giornalisti italiani formula in questo modo la prima domanda di un’importante intervista con il ministro dell’Interno su una questione che divide e contrappone parti altrettanto preoccupate e altrettanto rispettabili di ogni società democratica. Potremmo dire che questa domanda è un’attenuante non da poco. O almeno una parziale spiegazione a tutto il resto dell’intervista.

Purtroppo però Giuliano Amato - che abbiamo visto in passato ascoltare, considerare e correggere con rispettosa pazienza persino le dichiarazioni di Bossi - ha questo da dire, in sequenza, da chi si scosta dalla sua dottrina e da quella di Cioni.

Cito: «Il dibattito era ed è burattinesco. Emergono, con toni vibranti, dilemmi che sono assolutamente senza senso e che nascondono un problema non dichiarato».

«Chiedersi se il problema siano i lavavetri o la ‘ndrangheta è una domanda del tutto priva di senso».

«Facciamola finita con certe banalizzazioni sociologiche».

«Se qualcuno mi viene a dire che non c’è solo il problema della microcriminalità, io gli rispondo che ho già imparato alle elementari che due più due fa quattro».

«In queste osservazioni si annida quella tara culturale che affligge una parte della sinistra».

Il disorientamento è grande. Quando sarà iniziata la trasformazione di Giuliano Amato che, per la sua accortezza e finezza e delicatezza era stato definito in passato “il dottor Sottile”? Certo, sono brutti tempi, ma lui, fino ad ora aveva resistito abbastanza bene. Quando sarà scoppiata l’emergenza che all’improvviso, a partire dal Cioni di agosto, ha travolto l’Italia, dove uno solo dei grandi delitti d’estate è stato compiuto, a quel che si sa, da criminali non italiani? E’ vero, in ogni sondaggio di ogni giornale o tv, l’ottanta per cento dei cittadini dà ragione a Cioni e al nuovo intollerante Giuliano Amato. Vorrei ricordare che questo è il percorso che ha portato al ritorno della pena di morte in America. Furor di popolo. La democrazia è cattiva quando i leader si defilano.

Pubblicato il: 06.09.07
Modificato il: 06.09.07 alle ore 9.52   
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 07, 2007, 12:37:55 pm »

2007-09-07 11:22

SICUREZZA: AMATO INVITA ALLA PACATEZZA

 ROMA - "Sono stupefatto per i toni e gli argomenti di critiche che trattano il richiamo al rispetto della legalità come un'oppressiva svolta a destra, condendo questa assurdità con l'immagine di figure sociali marginali colpite da misure liberticide e autoritarie che nessuno ha proposto o intende proporre". Lo ha detto il ministro dell'Interno, Giuliano Amato uscendo dal Viminale. "Un po' più di pacatezza, almeno in questa fase in cui nessuno conosce davvero gli interventi che stiamo studiando - ha aggiunto - non guasterebbe".

"Il senso del mio richiamo - ha detto ancora il ministro - é che applicare leggi democratiche, promuovendo quei cambiamenti necessari a un maggiore rispetto delle regole e una maggiore certezza della pena, serve a prevenire la richiesta di leggi non democratiche e a difendere diritti e libertà di tutti i cittadini, a cominciare dai più deboli, che la sicurezza non possono garantirsela da soli. Le nostre misure serviranno a questo". 

da ansa.it
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 09, 2007, 10:01:18 pm »

Sicurezza è...

Furio Colombo


Se dico che, girando per una città italiana, ho più paura, da pedone, di attraversare una strada sulle strisce bianche di quanta ne abbia, da guidatore, di sostare a un semaforo dotato di lavavetri, credete che il ministro dell’Interno Amato si irriterà di nuovo (il riferimento è alla sua intervista con Massimo Giannini, la Repubblica, 5 settembre)? Hanno mai visto Amato e i sindaci-sceriffo, quel lampo di determinazione che si accende negli occhi del guidatore italiano (automobilista o motociclista) quando decide di tagliare la strada al pedone come se fosse un impegno d’onore?

Se scrivo che, nel nuovo pacchetto sulla legalità urbana non trovo alcun accenno al mare di tavolini di un mare di nuovi ristoranti che invadono e occupano le città italiane al punto da ostruire il traffico persino delle ambulanze (ne ha parlato invano Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani, con qualche ipotesi sulla legalità del nuovo denaro affluito improvvisamente nella ristorazione italiana) credete che darò prova di mancanza di «cultura di governo« (vedi il fondo di Europa del 6 agosto che inizia: «Pensavamo che le reazioni isteriche alle iniziative di Amato e dei sindaci sulla sicurezza derivassero solo da arretratezza ideologica di una parte della sinistra... »)?

Se affermo che non vedo il rapporto fra il «pacchetto sicurezza», clamorosamente annunciato, e la vita italiana (a meno che si vogliano istituire nuclei di polizia di famiglia per prevenire i soli delitti orrendi fra mogli, mariti, fidanzati, figli, e finti rapimenti che hanno funestato la nostra estate) nel senso che la sicurezza richiede uomini e mezzi che non sono indicati nel «pacchetto» e non vedo il rapporto tra il pugno di ferro della sicurezza e la spugna dei lavavetri (che, a Roma, vendono anche la Repubblica e Il Messaggero), dite che è un segno di estremismo leninista?

Chiedo scusa ai lettori se torno sull’argomento “lavavetri”. Lo so anch’io che avremmo ben altro di cui occuparci e che non c’è - e non c’è mai stato finora - un “delitto dei lavavetri”, ne c’è mai stata una simile esasperazione su un problema modesto, quanto a sicurezza dei cittadini. Però devo riconoscere che tutto ciò rivela quanto grande sia la solitudine e isolamento sia dei cittadini sia degli immigrati. Ma c’è un vuoto tra chi sta cercando di suonare l’allarme e chi non capisce perché. Dunque è inevitabile cercare un po’ di chiarezza.

Certo, è difficile cercare chiarezza, quando manca del tutto un sistema di comunicazione costante e coerente fra governo e cittadini, quando le decisioni sembrano prese all’improvviso in base a umori e voci, e non segue mai una spiegazione.

Per esempio, dopo il mitico “pacchetto sicurezza” per cui una parte del governo (incluso il ministro della Difesa!) si è improvvisamente riunito, non è seguito alcun comunicato o conferenza stampa. I telegiornali hanno continuato a ripetere: «Stando a quel che si è saputo», «secondo quanto è trapelato». Il ministro dell’Interno ha fatto sapere nei dettagli ciò che pensa di chi gli dà torto (giudizi da professore irato) ma non ha fatto sapere né in generale né in particolare quali sono i punti e quali sono le ragioni del “pacchetto sicurezza”. E perché adesso, con questa drammatica risonanza.

Abbiamo lasciato dire alla destra che il Paese non ne può più delle tasse, fino a quando l’ultimo elettore di Prodi si è persuaso che non ne possiamo più delle tasse. E come se non bastasse, il ministro dell’Economia fa sapere - come se avesse davvero spinto alle stelle le tasse - che di tagliarle non se ne parla. «Prima bisogna mettere a posto i conti pubblici». Poiché gli estranei al mestiere dell’economia non sanno di quali conti si parla, la strada è libera per Tremonti, Brunetta e altri finti economisti di Berlusconi.

Gli autori dell’Italia a crescita zero denunciano la nostra “miserabile crescita” di quasi due punti come un fallimento. E indicano un’unica strada salvifica che essi non hanno mai percorso: il taglio drastico delle tasse. Vuol dire, ovviamente, tagliare scuole e ospedali (più difficile toccare le Forze Armate, che sono più grintose dei medici e degli insegnanti). La novità è che tutta la sinistra, adesso chiede il taglio delle tasse, come se fosse vero che il governo di Prodi non ha fatto altro che aumentare le tasse. È sottinteso, ma non detto, che tale taglio riguarda soprattutto le imprese, il solo gruppo che si sia ben organizzato a tal fine. I lavoratori sono troppo contenti di avere ancora il posto di lavoro, si trovano le tasse già prelevate in busta paga e sono i soli legittimamente a temere (come francesi, tedeschi, belgi, scandinavi) che, se tocchi le tasse, tocchi anche - forse malamente - alcuni diritti essenziali come scuola o salute.

Per questo non esiste in Europa un movimento popolare per il taglio delle tasse, come è esistito in America il famoso movimento della «Proposizione tredici», che - negli anni Settanta - ha vinto un referendum che ha portato la California, senza polizia e senza servizi sociali al disastro, dalle bande armate dei ghetti alla penuria di energia elettrica, durato per anni, fino al ritorno delle tasse (ma senza più l’inclusione di un minimo di assistenza sanitaria ai poveri).

Esiste, naturalmente, la cultura leghista, quella che sega le panchine per impedire che i senza dimora, come in tutto il mondo, vi dormano. Attenzione, non è una cultura solo leghista. Sindaci di sinistra adesso si attrezzano sia a segare le panchine che a punire con la giusta severità i lavavetri. E adesso leader di sinistra si apprestano a chieder tagli di tasse senza dirci in quale visione della vita, del funzionamento delle istituzioni e del continuare intatto dell’assistenza questi tagli sono possibili e perché. Sulla parola di quale economista questi tagli fanno bene all’economia e alla ripresa del Paese? Se sì, come mai Zapatero e Sarkozy non hanno mai sbandierato necessità e urgenza di eliminare le tasse - o promesso di farlo - nei loro Paesi ben funzionanti?

***

È appena arrivato in Italia il film di Michael Moore, «Sicko» (Malato) sul rapporto fra medicina e pazienti in America. È una delle pagine più dolorose e più vergognose di quel Paese: quasi 50 milioni di americani sono del tutto privi di assistenza medica. Tutto era garantito, un tempo, dalla forza dei sindacati, dal posto di lavoro che durava una vita e dalle aziende che dedicavano una certa parte del profitto alle assicurazioni, garanzie mediche e pensioni in cambio della pace sociale. A un certo punto la destra ha deciso: prima si attaccano i sindacati, poi il lavoro, infine ci si libera delle costose assicurazioni sulla salute.

E infatti Ronald Reagan ha iniziato con la spallata ai sindacati, ordinando il licenziamento in un giorno solo di tutti i controllori di volo in sciopero. Poi sono seguiti, prima con Reagan e poi con Bush padre, i tagli delle tasse che hanno quasi immediatamente smantellato il sistema medico. Quasi contemporaneamente le aziende hanno messo in movimento due manovre: sempre più precariato e sempre meno “fringe benefits” che, ai tempi dei sindacati, voleva dire pensioni e cure mediche.

Nell’America di oggi quasi ogni nuovo posto di lavoro non prevede né pensione né cure mediche. Il mercato ha spostato il suo interesse altrove, le persone da sole sono troppo deboli per trattare. È accaduto che il Partito democratico, storico sostenitore dei sindacati, si è persuaso che un mercato più libero da ogni vincolo è un bene per tutti. È stato un bene, a volte immenso, solo per alcuni.

Nel suo film Michael Moore ci fa vedere, con la sua indignazione americana, che cosa è successo agli altri, con e senza lavoro, con e senza quel che resta delle assicurazioni sanitarie,anziani ai margini della vita ma anche giovani in piena attività. Quel film mostra il cuore del mondo-mercato. Senza governo, senza freni, (quasi) senza tasse, con le borse gravate di fondi truccati e truffaldini, moltissimi cittadini sono solo pedine di un gioco che per loro è sempre perdente.

***

Non so se Michael Moore sia “sinistra radicale”, comunista o post-comunista. Non credo. Lui dice di essere soltanto cattolico. Ma fa vedere bene il legame tra lavoro, mercato, tasse, assistenza medica. Vogliamo dire i quattro punti cardinali di una democrazia industriale? E ci dimostra dove è in agguato l’illegalità contro la quale chi vuol difendere i cittadini dovrebbe voler combattere. È il grande gioco di privarti dei tuoi diritti, dalla sicurezza del lavoro alla sicurezza della salute (e il passaggio cruciale è di sgombrare l’orizzonte dalle tasse), usando i sondaggi delle tue stesse opinioni e usando il sostegno del tuo stesso voto.

Ecco dove la parola sicurezza balza al centro dell’attenzione - o dovrebbe - oltre alla grande lotta di tutti, istituzioni e cittadini, alla criminalità organizzata e alla corruzione. Diranno - con la collaborazione delle grandi testate - che queste sono le fastidiose, marginali posizioni della “sinistra radicale” o “estremista”.

Come vedete, anche se fanno finta di non saperlo, non è vero. Si può far finta di credere che Massimo Cacciari, Giancarlo Caselli, Cesare Salvi siano personaggi da barricata estremista. Si può far finta che Alberto Asor Rosa sia uno stalinista irredimibile. Si può far finta che questo articolo e il suo autore non ci siano. Più difficile sarà far finta di non aver visto che decine di migliaia di persone nel pomeriggio di sabato 8 settembre si sono autoconvocate in molte piazze italiane richiamate da Beppe Grillo. Sono tutte persone che non si sentono rappresentate né dal cast fisso di «Porta a Porta» né dai sindaci-sceriffo, e si sono perdute nel silenzio quasi assoluto di un governo laborioso ma introverso e nella giungla di un’incomprensibile disputa sulle tasse e di un’altra incomprensibile disputa sui lavavetri, mentre l’Italia è sempre immersa in una illegalità immensa e potente, completa di “leggi vergogna” ereditate intatte da Berlusconi. Quelle decine di migliaia di persone si sono riunite in tante assemblee contro la politica così come la vedono recitata nel cast fisso di «Porta a Porta». Erano solo cittadini che un tempo venivano a dare coraggio al centrosinistra in Piazza San Giovanni o al Circo Massimo a Roma. Adesso, lasciati soli, fanno da soli intorno al vocione di Beppe Grillo. «Ma quando mai un comico ha dovuto mettersi a fare il leader»?», ha chiesto lo stesso Beppe Grillo al suo popolo. Per fortuna c’è chi si ostinerà a portare tutte (tutte) queste valige dentro il Partito democratico. Per impedire che voli via col vento frivolo di Europa.

Pubblicato il: 09.09.07
Modificato il: 09.09.07 alle ore 7.01   
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 11, 2007, 09:58:27 pm »

Nati l’11 Settembre

Furio Colombo


C’è un tratto tipico della conversazione politica italiana che forse deriva dalla tradizione contadina degli «stornelli a dispetto». È la tendenza ad argomentare cercando un nemico, ad appoggiare la mia adesione e sostegno e partecipazione a qualche cosa, con la negazione sprezzante di un’altra. C’è una colpa da rinfacciare e quella colpa regge il peso retorico ma anche logico di tutto ciò che diremo di favorevole e buono. «Non come quelli che hanno detto (o fatto o osato o ingannato)» resta la tipica trave di sostegno di una argomentazione che, per completarsi, ha sempre bisogno di una rivelazione a contrasto: la vera storia, non quella che ci hanno raccontato.

Giovanna Pajetta, nel suo libro Nati l’11 settembre: i bambini, le famiglie, la scuola nei sei anni che hanno sconvolto il mondo, non si distrae mai, non perde tempo a crearsi un avversario.

Ha un solo fine, lo dichiara fin dal titolo e lo segue. Come i bambini di cui parla, l’autrice è di fronte a ciò che ha visto senza altra spiegazione che la paura, la sorpresa, l’orrore. E le interessano non i misteriosi mandanti ma le vittime, non il disvelarsi possibile di altri scenari ma quello scenario, che è lo scherno di milioni di televisioni che ripetono la stessa scena milioni di volte, per un tempo che continua a non finire mai. In questo senso il lavoro di Giovanna Pajetta è un appassionato e appassionante lavoro che ha prima di tutto questo grande pregio: tenta di interrompere l’ipnosi, forza la serratura di un incubo che tiene bloccati i bambini, li segna mentre crescono senza poter dimenticare, rende gli adulti un po’ meno incapaci di fare da guida nel nuovo mondo del terrore.

Fa strada, nelle prime pagine del libro, la voce insieme sicura e distorta di un undicenne che sa e che ha visto. È una voce sicura perché Massimiliano sa quello che sa, e gli bastano poche parole per dirlo. L’evento si è mangiato l’immaginazione. È troppo più grosso e lui taglia corto. È una voce distorta perché il bambino si ripara dall’impossibile attraverso una artificiosa pretesa di freddezza, di controllo. È così e basta.

La narrazione continua poi usando, come in un mixaggio televisivo, voci adulte e voci di bambini (ex bambini, alcuni, dato il passaggio del tempo dall’evento alla scrittura del libro) , voci di cronaca e voci di ricordo, genitori, psicologi, insegnanti, testimoni. Il punto di riferimento sono sempre i bambini, ma questa non è una trovata benevola o affettuosa. È un modo straordinario per dire: badate che ciò è accaduto per sempre. E anche se è stupefacente il modo in cui i bambini tentano di cambiare le carte in tavola e di convivere con l’impossibile, questo libro dimostra che l’11 settembre, anche se ha finito (o quando avrà finito) di essere uno strumento di gestione del consenso e dissenso politico, resta una cicatrice sul volto di un vastissimo schieramento di infanzia del mondo.

In tutto il libro di Giovanna Pajetta sono 140 pagine, ma lo scopo è enorme, ed è uno scopo raggiunto. Lo scopo è questo: dimostrare che niente, neppure la bomba atomica, ha mai colpito in un tempo così breve una massa così vasta in un modo profondo che non si può cancellare.

È stata importante e abile anche l’attenzione che l’autrice ha dedicato agli episodi di terrorismo generati dall’attacco alle Torri Gemelle. Irrompono in queste pagine i bambini di Beslan, la scuola tenuta in ostaggio con le bombe appese dovunque in uno spettacolo di orrore vero come un disastro ferroviario, ma condotto e narrato per fasi successive sempre più spaventose dalla psicopatia che ha invaso la politica.

In un certo senso Beslan, per niente investigato dal giornalismo colto e sospettoso sempre in guardia verso gli americani, è un evento (meglio, una serie di eventi) molto più misterioso delle Torri Gemelle. Non sappiamo davvero chi, non sappiamo davvero perché, non abbiamo alcuna ricostruzione seria su cui discutere, non ci sono state vere inchieste, veri processi, neppure un tentativo di riorganizzare le spaventose sequenze e di spiegare il numero così alto di morti bambini, e le vere modalità di quelle morti.

La bambina Greta - che a pag. 65 del libro - racconta la stretta di terrore improvviso che l’ha colta al momento di entrare a scuola, parla a nome dei bambini che hanno trasferito all’instante il terrore in famiglia, in classe, nel vivere quotidiano. Hanno capito che non parliamo di guerre, non ci sono eserciti, i salvatori, se ci sono, è per caso. «È proprio il mondo di Greta che viene attaccato» spiega il libro con le parole del padre della bambina.

Ecco ciò che fa in ogni pagina, in ogni storia, il libro di Giovanna Pajetta. Segue le fenditure naturali della paura, dell’angoscia, del naturale bipolarismo dei bambini fra grandi ansie ed euforie festose. E constata che proprio lì è andato a scolare il liquido infetto della paura di New York e di Beslan e di Madrid e di Londra. La famosa risposta che i bambini più coraggiosi a un certo punto si danno da soli: «No, io so che questo è impossibile», la famosa rassicurazione che i più incerti finiscono per accettare dagli adulti, qui non funziona. Quello che è successo è un cambiamento profondo e totale, come lo scoperchiamento di un pozzo al fondo del quale ogni bambino vede con certezza l’incertezza, anzi la paura, anzi il terrore, che pensavamo materia per genitori, educatori e psichiatri. E invece è realtà quotidiana perfettamente possibile e dunque ragionevolmente probabile. Questo è il marchio: la ragione è dalla parte della paura e non può rassicurare nessuno. E quando la narrazione della Pajetta si stempera in altre vicende, in tormenti locali, in colpi di orrore vicini a casa che non hanno avuto l’esposizione immensa del terrore globale, ci si rende conto che comunque la storia (ovvero la vita, e soprattutto quella dei più giovani) è cambiata per sempre, si è rotta in un punto - la fiducia nella ragionevolezza che prevale - non riparabile. Tutto ciò a causa di una concausa molto meno esplorata delle possibili spiegazioni alternative di ciascun evento tragico.

Sto parlando della solitudine, del silenzio oppure dei bla-bla-bla della politica, che non riguarda nessuno e consola a malapena coloro che parlano affacciandosi al video, finestra sempre più triste. Sto parlando dei circoli chiusi, dei partiti assenti, dei leader queruli o afasici ma sempre lontani. Solitudine o paura, in un mondo presidiato solo un po’ da adulti-genitori, adulti-insegnanti, qualche volta adulti che curano ma mai adulti che rappresentano un autorità credibile, sono il vero tema di questo libro e la vera ragione per leggerlo è il ritratto molto attendibile di un Paese spaventato, parte di un mondo spaventato che è il nostro presente.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 11.09.07
Modificato il: 11.09.07 alle ore 8.24   
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 14, 2007, 04:40:18 pm »

Chi distrugge la politica

Nando Dalla Chiesa


«Maestà il popolo ha fame, manca il pane». «Dategli le brioches!». Viene in mente il celebre dialogo del dignitario di corte con Maria Antonietta vedendo le misure che i leader politici italiani propongono di adottare dopo la giornata di sabato scorso, passata alle cronache come il Vaffa-day di Beppe Grillo. Che cosa chiedono gli italiani che si sono sentiti rappresentati da quelle piazze? Chiedono che i «rappresentanti» vengano scelti dai loro «rappresentati»; che non è, ammettiamolo, un princìpio così bizzarro in una democrazia, ma anzi è il fondamento della democrazia. Mentre abbiamo una legge elettorale che proprio di questo ha fatto piazza pulita: la possibilità del cittadino di scegliersi chi lo rappresenta in Parlamento. Una legge che, tra i deputati e i senatori, ha aumentato i funzionari di partito del 250 per cento. E che ha giocato un ruolo cruciale nell´alimentare la rabbia popolare.

Chiedono ancora, gli italiani che si sono sentiti rappresentati da quelle piazze, che in parlamento non siedano più i condannati per i reati più diversi, compresi i più gravi. Per dire forte e chiaro che le istituzioni parlamentari sono incompatibili con il crimine o con l´illegalità.

E la politica come risponde a chi chiede di potere votare e di non avere condannati in parlamento? Diminuiamo i ministri. Ottimo. Come le brioches. Perché il numero dei ministri e dei sottosegretari poteva e doveva essere tenuto a bada all´atto della formazione del governo, quando partiti e correnti si scatenarono nel rivendicare posti e postazioni di controllo. Ma le richieste di sabato scorso sono chiare, fondatissime, non consentono fughe. Perché sono, appunto, il «pane» della democrazia. E attendono risposte. Quali? Per esempio, più che parlare di ridurre i ministri (che va sempre bene, per carità), il partito democratico avrebbe un´arma straordinaria per dimostrare di avere inteso il messaggio del popolo dei blog. Potrebbe dire: purtroppo la legge elettorale l´hanno voluta quelli del centrodestra, ma noi nella democrazia ci crediamo per davvero; dunque là dove possiamo decidere autonomamente si torna alla libera scelta dei propri rappresentanti. E quindi sapete che vi diciamo? Che, alleluia, il 14 ottobre per le primarie si torna alla preferenza; e le liste bloccate le buttiamo finalmente alle ortiche perché non fanno parte della nostra cultura. E poi vi diciamo pure che avete ragione a non volere condannati per gravi reati in parlamento. In effetti, come si fa a chiedere sacrifici e rischi a magistrati e forze dell´ordine quando tra quelli che fanno le leggi ci sono anche coloro che le hanno violate?

È stupefacente la difficoltà che ha la politica nel rispondere del proprio operato. Mostra la coda bagnata, fa annunci e promesse a raffica. Ma di facciata. A volte si esercita in truffe semantiche (come quando il finanziamento dei partiti venne sostituito con i rimborsi elettorali). Di più: spesso, addirittura, proprio avendo la coda bagnata, asseconda senza dignità le pulsioni demagogiche che inevitabilmente si scatenano dentro i moti di rabbia e di contestazione. Magari immaginando che per mostrarsi «vicini ai cittadini» basti andare in tivù a ridere e ballare e a far da spalla al comico di turno (che politico simpatico, lui sì che è come noi).

Già, perché mentre opta per le brioches la politica evita anche di difendere se stessa rinunciando a combattere i luoghi comuni. Perciò (guarda che mi tocca fare... ma qui bisogna sapere andare controcorrente sia rispetto ai partiti sia rispetto alla piazza...) dico che essa, mentre è chiamata a cambiare il cuore delle regole, deve anche sentire la responsabilità di dare ai cittadini informazioni corrette sulla «materia infiammabile» di questi mesi. Che mentre deve bonificare radicalmente i territori inquinati, dalle prebende a pioggia e incontrollate agli attici di favore, deve sapere difendere o spiegare ciò che va difeso o spiegato. Giusto per «pulire» il campo. Perché non diventi tutto uno stesso mazzo di vergogne. Ad esempio i famosi viaggi gratis dei parlamentari. Che esprimerebbero, si dice, un privilegio di deputati e senatori di fronte alla società civile. Ma perché non dire che è proprio la società civile che beneficia di quei viaggi gratis, ossia le centinaia e centinaia di circoli, associazioni, scuole, cineforum, biblioteche, riviste, che sanno di potere invitare un parlamentare per dare slancio e forza alle loro iniziative senza dovere pagare il costo di un aereo o di un treno? Perché non dire, anzi, che questo privilegio rientra esattamente nei calcoli di chi organizza e invita, il quale mai - altrimenti - potrebbe permettersi di sopportare i costi del convegno o del dibattito o del cineforum? Perché far credere al cittadino che questo privilegio venga usato per farsi crociere personali quando in più anni l´unico desiderio che io e tanti altri abbiamo avuto è stato quello di festeggiare l´arrivo delle vacanze estive con una settimana di sosta a casa, provvidenziale riposo dopo un anno passato a viaggiare in frenesia (fine delle votazioni in aula-partenza-dibattito serale-rientro all´alba)?

Naturalmente si può discutere se questo sia giusto o no. Probabilmente non lo è. Fatto sta che (salvi, accidenti!, gli aerei di Stato per usi di svago) questo è l´uso che centinaia di parlamentari fanno di quel «privilegio»: metterlo al servizio, farne una forma di finanziamento indiretto, della democrazia diffusa, della società civile.

Oppure ancora, altro esempio: perché continuare a presentare come una forma di moralizzazione politica la abolizione del Senato? Davvero crediamo che i nostri padri costituenti non sapessero o capissero nulla di politica e di meccanismi istituzionali? O forse nel tempo non si è mostrata ancora più lungimirante la loro previsione? Quella cioè che fosse necessaria una doppia lettura delle leggi per metterle al riparo dalle consorterie ambientali o dagli stati emotivi di massa? Forse che nella società dei media non è ancora maggiore il pericolo che un evento o una campagna d´opinione scatenino istinti e sentimenti, travolgendo il buon senso e portando una camera a votare un provvedimento del quale essa si potrebbe vergognare dopo una settimana? Non dice nulla il caso della cura Di Bella? E davvero pensiamo che se fosse stato rispettato lo spirito del bicameralismo (il «raffreddamento» invece della corsa forsennata), sarebbe passata una legge sciagurata come quella dell´indulto?

O infine, per andare alla terza richiesta del «popolo di Grillo». Perché non dire che il tetto dei due mandati parlamentari, oltre a cozzare con il principio della libera scelta degli elettori (lo stesso, si badi, invocato contro le liste bloccate) può abbassare proprio la qualità dei rappresentanti? Un conto è diffidare dei senza mestiere che si installano per una vita in parlamento. Altro è precludere alle istituzioni di potersi servire anche a lungo di persone di qualità. Ricordo, per capirsi, la delusione che provai quando Stefano Rodotà mi annunciò che non si sarebbe più ricandidato. La prima cosa che pensai fu che il parlamento perdeva qualcosa. E, se può servire la mia esperienza, devo dire (ora che non sono più parlamentare) che, delle tre legislature che ho fatto, quella in cui ho potuto dare il massimo al Paese è stata la terza. Perché quando sulla scena si scatenano i poteri forti dell´ economia e dei media è utile, decisivo perfino, avere almeno parlamentari di esperienza.

Ecco. Ho fatto solo tre esempi. Per dire che spesso si scelgono bersagli falsi. Agnelli sacrificali, alternativamente, per deviare la rabbia o per esasperarla. E per dire che chi fa politica con passione ha dieci volte il dovere di spiegarlo. E magari di dire pure che la proposta di rendere ineleggibili i condannati non è nata sabato scorso ma è già stata presentata e portata al voto in commissione (perdendo) nella scorsa legislatura da un gruppo di senatori. Giustissimo firmarla e presentarla di nuovo. Ma dei parlamentari - non complici, non accidiosi - ci avevano già pensato prima. Così come quaranta parlamentari, non altri, convocarono la famosa manifestazione di piazza Navona nel 2002 per una legge «uguale per tutti». Il rischio insomma è sempre lo stesso. Ed è un rischio micidiale. Che la rabbia monti cieca, spenda tempo ed energie contro totem sbagliati, metta nello stesso mazzo tutti i politici (in un dibattito su Radio Popolare sono stato perfino accusato di avere per portavoce un pregiudicato...), inietti in circolo nuovi veleni dai quali risorgerà, più forte di prima, la politica più cinica. Pronta a flettersi quando arriva la piena, e altrettanto pronta a rialzarsi con baldanza quando la piena è passata. Nel frattempo il finanziamento pubblico sarà stata abolito per dar vita ai rimborsi elettorali, le preferenze saranno state abolite per dar vita alle liste bloccate, il ministero dell´agricoltura sarà stato abolito per fare nascere quello delle Politiche agricole. La rabbia e l´inganno. Il «sono tutti uguali», il «nessuno fa niente». Che è la ricetta ideale perché, dentro la politica, i rapporti tra innovatori e conservatori restino identici. Poi, passata la marea, i conservatori rialzeranno orgogliosamente la propria bandiera sulle mura della città. Ma davvero deve sempre andare così?

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Pubblicato il: 14.09.07
Modificato il: 14.09.07 alle ore 13.11   
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 16, 2007, 07:37:27 pm »

La scommessa
Furio Colombo


Non vi preoccupate. Il prof. Galli della Loggia non si affaccerà al balcone del suo editoriale per dire sdegno e protesta per «il tempo dei maiali» proclamato dal vicepresidente del Senato Calderoli. Ovvero la dignitosa ed equilibrata proposta di un’alta carica dello Stato di utilizzare i maiali come deterrente alla costruzione di luoghi di preghiera per gli immigrati (molti di essi sono già cittadini italiani) di religione islamica.

Il prof. Galli della Loggia è diversamente occupato. Che cosa volete che sia una dichiarazione pericolosa e oscena di un personaggio che ha già provocato personalmente - poco tempo fa - una ventina di morti in Libia, in una sanguinosa rivolta anti-italiana, rispetto alla impudenza del ministro Padoa-Schioppa che ha osato nominare un esperto (forse il più esperto in quel campo, in tutto il Paese) consigliere di amministrazione della Rai?

«La nomina di Fabiano Fabiani continua ad accendere le polemiche e a dividere la politica italiana», hanno aperto per giorni i giornali radio, le agenzie, un bel po’ di telegiornali.

Infatti le notizie della settimana politica sono state due, la nomina di Fabiani (so che non lo sto aiutando con questo articolo, ma è impossibile evitare l’argomento) e i maiali di Calderoli. Per rendere più chiara la gerarchia presso i media italiani di queste due notizie e metterle in prospettiva, farò un passo indietro.


***


Siamo a Torino, alla festa de l’Unità, lunedì 10 settembre, e stiamo discutendo sullo stato delle informazioni nel nostro Paese. La mia proposta alla folla che ci ascolta in questa «ultima festa» (ma io ho sostenuto che non può essere l’ultima, perché l’Unità continua e regge bene, resta il solo giornale politico d’Europa che stampa e vende decine di migliaia di copie) è la seguente: «Nel giornalismo italiano l’agenda di ciò che conta e ciò che non conta è ancora dettata da Berlusconi, dai suoi interessi e dal suo capriccio.

Da questa agenda nessuno si discosta perché Berlusconi è un potente editore sempre in grado di vendicarsi. Ma anche perché interessi e capriccio di Berlusconi segnano ogni settimana, anche adesso, la vita politica del Paese e dunque pesano sul modo in cui compaiono e scompaiono le notizie.

Un collega de La Stampa che partecipava al dibattito, con lodevole lealtà, ha difeso sia la categoria che il suo giornale, facendoci notare che sarebbe assurdo dire che, in un Paese libero, sono tutti berlusconiani. Naturalmente aveva ragione, anche se è stato inevitabile fargli notare che molti non berlusconiani hanno dovuto a suo tempo lasciar perdere sul licenziamento in tronco di Enzo Biagi, e sui vari allontanamenti di cui hanno patito Santoro, Luttazzi, Sabina Guzzanti e tanti altri.

Ma ho pensato che sarebbe stato più utile rischiare una scommessa. La scommessa che ho fatto con i presenti era questa: vi preannuncio che, di fronte alla notizia dell’ex consigliere Rai Petroni che resiste, si oppone, si appella per la terza volta al Tar, tutte le fonti di stampa italiane saranno caute e gentili, come i giornali americani non fanno mai neppure quando sono in discussione i candidati alla Corte Suprema. Petroni è la pedina di Berlusconi per bloccare la Rai. Berlusconi non gradirebbe giudizi un po’ rudi. Scandalo, fermezza e severità ci saranno. Ma per Fabiani.

E quanto al presidente Petruccioli, già si insinua che sia patologicamente legato alla poltrona solo perché non si è dimesso subito, una insinuazione sgradevole che però non tocca il Petroni tuttora aggrappato al posto e al Tar. Immaginate, ho detto, a chi mi ascoltava, il furore e il sarcasmo se Petroni fosse stato di centrosinistra? Quanto ci si sarebbe divertiti (con il concorso di tutti i vignettisti) per uno di sinistra che non se ne vuole andare? Del resto tutti ricordiamo gli sberleffi dedicati a Biagi e al «Bella Ciao» di Santoro.

E poiché - con la lealtà di categoria - il collega de La Stampa resisteva, ho potuto dirgli, senza sapere da giornalista, ma sapendo da lettore italiano: «Basterà un’occhiata a ciò che scriverà domani Augusto Minzolini. Come per caso, incontrerà Berlusconi e lo citerà tra virgolette. Citerà e ambienterà l’apoteosi di Petroni e la condanna con sprezzo della nomina di Fabiani».

Poiché si è trattato di una scommessa in pubblico (stimo Minzolini, so che nel suo legame esclusivo con Berlusconi non delude mai) sono contento di avere vinto. Il testo di Minzolini apparso martedì 11 settembre sul grande quotidiano italiano a proposito della Rai, corrispondeva quasi frase per frase alla mia profezia (aggiungete qui un po’ di umorismo) del giorno prima. Ma ancora non sapevo nulla di Ernesto Galli della Loggia.


***


Il professore di Perugia, oltre un anno dopo la presunta fine del capo carismatico della CdL (che però si sta reincarnando in Michela Vittoria Brambilla), scrive un testo scrupolosamente ligio ai dettami di Forza Italia e ne rappresenta lo specifico percorso politico: negare rispetto e credibilità a decisioni e persone che siano fuori dallo spazio del passato governo. Quel passato governo, noi all’Unità, (da soli, lo riconosco) lo avevamo chiamato regime. Perché è difficile non considerare regime un governo che deliberatamente organizza i pestaggi cileni di Genova (dopo che lo sparo che ha ucciso Carlo Giuliani avrebbe suggerito in qualunque democrazia una tregua); che si libera del più autorevole e credibile giornalista italiano su richiesta pubblica ed esplicita del primo ministro; che accusa in modo ripetuto, pesante, brutale i giudici dei processi per reati che lo riguardano (ricorderete la definizione di malati mentali); che definisce “Kapò”, ovvero caposquadra di un campo di sterminio, un eurodeputato tedesco che si era permesso di accennare, nel Parlamento di Strasburgo, alle origini oscure della ricchezza di Berlusconi; che irrompe in un’assemblea di imprenditori per insultare liberamente, a lungo, in diretta uno di quegli imprenditori per qualche sgarbo o violazione di regole nel club “potere privato più governo”, ovvero gigantesco conflitto di interessi.

Al centro di quel conflitto di interessi c’era la Rai, caso clamoroso denunciato come uno scandalo dalla stampa inglese e americana, dai media del mondo.


***


Nella Rai governata dal conflitto di interessi di Berlusconi è successo di tutto: dalla presenza del primo ministro proprietario e controllore, concessionario e concedente delle frequenza su tutte le reti, alle notizie false dette e ripetute in tutti i programmi, incluso il varietà e lo sport. Dalle nomine più fantasiose e audaci di totali incompetenti e di amici personali del padrone all’insediamento di un direttore generale “incompatibile”, dunque illegale e illegittimo per il quale la Corte dei Conti ha multato chi ha preso quella decisione e la Rai per cinquanta milioni di euro.

Ma all’improvviso il professore di Perugia nota la nomina di Fabiano Fabiani, ex direttore del telegiornale Rai, ex direttore centrale Rai, ex vicedirettore generale Rai, a consigliere di amministrazione della Rai al posto dello sfiduciato Petroni. E si è lanciato in una accanita contestazione annunciata sin dal titolo del clamoroso editoriale: “Il patto stracciato”.

Avrà lasciato di stucco anche la destra che (vedi la legge Gasparri scritta per Mediaset dal ministro italo-berlusconiano delle Comunicazioni) non ha mai saputo o creduto o pensato che dove vige il dominio assoluto del conflitto di interessi, vi possano essere patti da rispettare. Ma Galli della Loggia a questa obiezione risponde senza imbarazzo: «Ciò che va bene per Berlusconi non va bene per Prodi». Evidentemente intende dire: Prodi non può perché non è il padrone di niente. Ma persino arrivare a questo punto non basta. Occorre dimostrare che la nuova nomina è una nomina di partito. E qui entra in campo la mia scommessa con il collega della Stampa, giorni prima, alla Festa dell’Unità, prima di leggere Minzolini (a cui Berlusconi confida la sua ira, la sua dichiarazione di guerra e proclama “mai più il dialogo” come se ci fosse mai stato un dialogo). E prima di conoscere l’editoriale di Galli della Loggia che stiamo discutendo. Sentite questa frase, che è il cuore dell’argomentazione: «Fino a ieri la Rai costituiva uno dei pochi ambiti in cui si era riusciti a stabilire un accordo di tipo istituzionale tra maggioranza e opposizione sulla base di un comune rispetto di un comune modus operandi». Se la sente l’autore di spiegare questa frase a Enzo Biagi? O alla Corte dei Conti? O di provare a spiegarlo a coloro che non si sono arresi al violento strappo illegale del conflitto di interessi che ha consentito a una sola persona di governare insieme Rai e Mediaset, stesse notizie, stessi messaggi, stessa faccia, stessa voce e stentorei discorsi in onda a tutte le ore su tutti gli schermi del Paese?

Qualche lettore adesso mi chiederà: e la barbara dichiarazione del vice presidente del Senato italiano che propone di insediare dovunque i maiali per spingere via gli immigrati stranieri che vogliono pregare? Niente paura, soffici titolazioni e dichiarazioni sull’evento sono durate meno di un giorno. Dopo tutto, maiali o non maiali, si tratta di una persona solidamente insediata nell’area di rispetto imposta da Berlusconi. E poi, ammettiamolo, il vice presidente del Senato è un’istituzione. E finora non vi sono stati segni di dissociazione o condanna al Senato. Che cosa volete che scrivano i giornali?

Purtroppo mi sembra di dover dire: ho vinto la scommessa. Lo faccio notare con triste orgoglio al collega della Stampa. Tutto ciò avrebbe dovuto sollevare un tumulto di reazioni nella folla degli illustri commentatori che animano il Paese. Ma i commentatori vogliono commentare. E se dispiaci a Berlusconi non è tanto facile.

Non lo era allora e non lo è adesso. Tanto che anche adesso se lo fai sei un ingombro. Pensate, c’è ancora qualcuno che è in attesa del dialogo.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 16.09.07
Modificato il: 16.09.07 alle ore 7.15   
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« Risposta #21 inserito:: Settembre 23, 2007, 04:14:29 pm »

Rai e Senato, la vera storia

Furio Colombo


Se non ci fosse Blob, unico programma chiave della televisione italiana (gli eventi non li commenta, li fa vedere) gli italiani non saprebbero quale impulso ha gettato Loretta Goggi contro Mike Buongiorno, durante una litigata dal vivo sul palco di Miss Italia. Blob c’era e tutti hanno visto tutto e capito quel poco che c’era da capire.

Purtroppo Blob non c’era al Senato quando la Camera Alta italiana si è riunita intorno al ministro dell’Economia Padoa-Schioppa per ascoltare le ragioni della sostituzione di un consigliere di Amministrazione della Rai e la nomina di un nuovo consigliere.
O almeno questo era il mite ordine del giorno, una questione di routine nella vita - a momenti ben più drammatica - di una Repubblica parlamentare.
Perché allora, nel corso di una concitata e confusa manifestazione di rabbiosa incontinenza verbale, scritta, stilistica, procedurale, mentre si passavano freneticamente di mano mozioni di quattro, cinque pagine, spazio uno, cinquemila parole, la destra ha perduto per un voto (l’ormai celebre voto Storace) e la sinistra ha perduto al punto da ritirare la sua sterminata mozione che non è stata votata, e poi l’Unione si è limitata a sostenere, insieme alla destra, frammenti divelti da una mozione ribelle, fuoriuscita (forse un segno simbolico per il prossimo futuro) dal centrosinistra, in cui si dichiarava, insieme alla destra, scontento e disprezzo per ciò che avviene comunque, alla Rai, le cose fatte, quelle non fatte, l’Isola dei famosi e i telegiornali, le presenze di lungo corso e i nuovi arrivi, il tutto unito da una euforia distruttiva sorprendente, visto che tutti quei pezzi di politica rappresentati in Senato, tutti, hanno il loro pezzo di rappresentanza dentro la Rai (vedi la sgridata del leader Fini al libero giornalista Mazza).

Come vedete da queste righe, in tanti sono caduti nella trappola del finto dibattito in cui ciascuno ha posizionato battaglioni o pattuglie intorno alle fragili mura della Rai per dire: se si tratta di fare peggio di come si è fatto finora (ovvero pesare il più possibile con la forza dei partiti dentro il servizio pubblico) noi siamo qui e siamo pronti. E nessuno si sogni di ignorare neppure coloro che rappresentano quasi niente per cento del voto popolare o di trascurare qualcuno dei nuovi venuti dalle frantumazioni sulla destra del centrodestra e sulla destra del centrosinistra. La scena è confusa? Sì è confusa. Lo è al punto che chi sta in quell’Aula, se non ha partecipato al progetto dei trucchi, degli effetti speciali, delle frasi scritte a rovescio - che si leggono solo nello specchio di qualche ricatto di potere - non capisce niente neppure dall’Aula.


* * *

Che cosa sto cercando di fare ad uso dei lettori, nel mio piccolo? Ho raccolto i frammenti della più brutta discussione mai avvenuta nella mia esperienza in Parlamento (brutta nel senso di cieca, inutile, senza politica) prima che passassero le donne delle pulizie.

Ma devo far precedere l’inventario da un paio di precisazioni.


Una è che quel dibattito, anche se fosse stato di buon livello e senza segnali di frantumazione a destra della maggioranza, non solo non era necessario o dovuto ma era del tutto inutile. Si trattava di un capriccio della opposizione che intendeva mettere sotto accusa una decisione (la rimozione del Prof. Petroni, la nomina di Fabiano Fabiani nel Consiglio di Amministrazione Rai) che era un fatto compiuto, dovuto, legale, non discutibile dal punto di vista giuridico perché compiuto all’interno di una legittima (e dovuta) responsabilità. Il ministro ha deciso ché poteva e doveva decidere. La decisione è apparsa subito ovviamente normale (un competente nominato in un’area di competenza) tanto che persino gli oppositori più aspri hanno dedicato minuti a spiegare che non discutevano la persona. E solo il senatore avvocato Schifani ha portato in Aula un articolo del Corriere della Sera del marzo 2005 per citare un inciso in cui Fabiani - che nella sua vita non ha mai rilasciato interviste - veniva indicato dall’articolista come “simpatizzante” di Prodi, cosa che - secondo il sen. avv. Schifani - dovrebbe squalificare chiunque.

Il dibattito, o voto in una Camera del Parlamento era dunque non solo pretestuoso (la decisione era competenza esclusiva del ministro dell’Economia che ha la responsabilità di far funzionare tecnicamente un ente di cui lo Stato è azionista di riferimento). Ma quello stesso ministro non ha alcuna competenza o responsabilità per discutere di programmi o di organigrammi della Rai. Il fatto è che - voto o non voto - quel dibattito non poteva avere alcuno sbocco né giuridico né politico. E infatti ha prodotto soltanto caos.

Ma - seconda precisazione - il caos è il grande, continuo contributo politico della Casa delle Libertà. Lo era anche al tempo del loro governo, irrazionale e improduttivo (salvo le convenienze personali del proprietario Berlusconi). Ma era, almeno, festoso perché continuamente celebrato da uno schieramento di giornalisti pensatori, da Vespa a Socci e di autorevoli opinionisti, da Panebianco a Galli della Loggia. In quella festa si perdeva almeno il senso del lutto per il crollo della politica che adesso invece attanaglia il Paese. Perché se è vero che nessuno più parla al Paese per mentire, come Berlusconi, nessuno parla al Paese, comunque: niente spiegazioni, niente indicazioni di percorso, e - al posto delle bugie - niente ragioni per volere o fare insieme qualcosa. O almeno per sostenerla. Solo uno strano silenzio che isola e allarma. E spinge, a volte, come si sta constatando, a sentimenti vendicativi.


* * *

Quanto ai reperti di quel brutto giorno al Senato, può essere utile citarne qualcuno, ricordando che la discussione, voluta dall’opposizione, intendeva contrastare e svilire solo la nomina del consigliere Fabiani. Ecco parte del testo di una risoluzione: «Noi impegniamo il governo a determinare l’immediato azzeramento e il conseguente rinnovo del Consiglio di amministrazione Rai. Ad adottare tutte le iniziative urgenti e necessarie per evitare che si possa procedere a nuove nomine. A mettere in campo le iniziative necessarie a consentire che tutte le nomine già approvate siano “rivisitate” dopo l’approvazione del piano industriale». È il testo delle cose dette dalla Casa delle Libertà in cerca di tanto meglio-tanto peggio, desiderosa di oblio per l’immenso danno realizzato dentro la Rai dal gigantesco conflitto di interessi di Berlusconi, che con una mano colonizzava la Rai e con l’altra triplicava il valore di Mediaset? No. Su tutta questa parte della questione Rai non una parola. Sul fatto che la Rai è un frammento teleguidato dalla famosa legge Gasparri-Berlusconi che consente controllo totale dei media e della pubblicità non una parola. Il testo parzialmente citato che - come Grillo - vuole “mandare tutti a casa”, ma, a differenza di Grillo, è un “tutti” meno le leggi e gli interessi di Berlusconi, è di due di noi, due importanti senatori dell’Unione, Manzione e Bordon.

Ma sentite come l’Unione, ovvero la maggioranza che sostiene Prodi e il governo e il ministro dell’Economia che ha preso quell’unica decisione che gli compete, senza alcun titolo per essere coinvolto in una discussione sul vasto orizzonte editoriale-aziendale-politico della Rai. Sentite con quali argomenti e quale documento la nostra maggioranza ha pensato di tener testa a coloro che avevano licenziato in tronco Enzo Biagi più una importante lista di proscrizione, a coloro che avevano definito “criminoso” opporsi alla autorità padronale di Berlusconi, e hanno inventato questo dibattito pur di non lavorare alle leggi in attesa, in modo da aggravare il senso di impotenza e di stallo del governo: «La prima serata è in gran parte appaltata a società che producono programmi commerciali... l’assetto industriale resta rigido e disfunzionale, con modelli produttivi pesantemente sovrastrutturati... queste carenze rendono arduo misurarsi con le nuove tendenze del pubblico... ».

Ma l’assemblea, riunita giovedì 20 settembre a Palazzo Madama, era il Senato della Repubblica, in cui la maggioranza di centrosinistra che sostiene il governo (e quell’unico ministro in Aula che si è preso, pensate, la sfacciata responsabilità di nominare Fabiano Fabiani nel Consiglio di amministrazione della Rai) doveva tener testa alla spallata della destra che sventolava carte per dimostrare che Fabiani non era post fascista, non era leghista, non era nel libro paga di Berlusconi e dunque era indegno di accostarsi alla Rai? O era un convegno fra tanti - solo meno colto e più caotico - su “Ombre e luci del servizio pubblico radiotelevisivo”?


* * *

Ma noi, la maggioranza che avrebbe il dovere politico di respingere l’attacco pretestuoso della Casa delle Libertà con un grande “Amarcord” di ciò che è stata quell’azienda in tempi di programmazioni Rai organizzate in modo da non disturbare i buoni programmi (e la buona pubblicità) di Mediaset, ai tempi dei licenziamenti di regime, ai tempi dei telegiornali taroccati per non far sentire agli italiani le gaffe di Berlusconi che intanto facevano il giro del mondo, ha scelto invece di unirsi agli avversari per attaccare da ogni lato il Titanic già un po’ inclinato della televisione pubblica, senza sostare un momento a pensare al regalo immenso che, ancora una volta, il Parlamento italiano stava facendo a Mediaset.

Che poi la situazione, grazie anche alle tipiche maniere del ceto berlusconiano, ai discorsi stentorei di Schifani (che esige dai suoi di essere applaudito, come Petrolini, ogni 5-6 secondi, qualunque cosa dica, il segnale lo dà quando alza la voce e subito fior di professori, avvocati, giudici in aspettativa e futuri imprenditori fanno crepitare gli applausi) agli scherzetti del Hobbit-gigante Calderoli, l’uomo dei maiali da lanciare contro gli islamici, alla vendetta personale di Storace che non perdona così poco fascismo nelle fila dei sui ex amici di pestaggi giovanili e poi di cariche istituzionali, sia precipitata nel caos, è stata una cosa buona, anzi l’unica cosa buona della giornata, saggio colpo di mano, all’ultimo istante, della senatrice Finocchiaro. L’Unione ha potuto ritirare il suo brutto testo privo di luce politica l’opposizione ha perso la sua modesta occasione causa vendetta privata di uno di loro. I due senatori distaccati Manzione e Bordon si sono persino visti votati da quasi tutta l’Aula un paio di paragrafi altrettanto privi di senso politico quanto il testo dell’Unione. Nessuno ha discusso della libertà dei mezzi di informazione ancora profondamente feriti e intimiditi da Berlusconi. E la conclusione triste, lettori, è che nessuno è stato peggiore dell’altro. Quella gara, quel giorno, non si poteva vincere.
colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 23.09.07
Modificato il: 23.09.07 alle ore 13.05   
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 30, 2007, 04:24:45 pm »

Politica, ultimo appello
Furio Colombo


Via dal video, tutti e subito. Mi riferisco alla folla di volti e di voci della politica che sono presenti dovunque a tutte le ore. Proverò a dimostrare perché questo può essere il primo, vigoroso taglio al costo della politica. Non è soltanto un simbolo. Ecco le ragioni.

Aula del Senato italiano, giorno 27 settembre, ore 9,30. Il senatore Marconi (Udc) chiede di parlare «sull’ordine dei lavori», espediente per rallentare il lavoro, già lentissimo della “Camera alta”. Il senatore si dedica a una dettagliata recensione del programma Porta a Porta della sera prima, analizza i difetti vistosi, dal punto di vista dell’oratore, di quella serata televisiva e dedica un giudizio particolarmente severo alla performance di Antonio Di Pietro, che è personalità televisiva e non solo ministro della Repubblica, o così appare nel discorso di critica televisiva. Senato italiano, 27 settembre, ore 9,50. Chiede di parlare il senatore Calderoli. Poiché il tema della mattina sono i conti dello Stato e poiché il sen. Calderoli, quando non è un leghista sarcastico e crudele, è un estroso inventore di espedienti per confondere i dibattiti in aula, tutti prestano la dovuta attenzione.

Anche il senatore Calderoli, però, dedica il suo intervento a una vicenda televisiva. Oggetto della sua critica, ben organizzata e serrata, non è Porta a Porta con Vespa, ma Ballarò, con Giovanni Floris, ospite d’onore Clemente Mastella. Anche il giudizio di Calderoli sul programma esaminato è drastico e negativo come i più fermi corsivi di Aldo Grasso. Il giudizio riguarda il trattamento piuttosto insolito che è stato dedicato al ministro della Giustizia, circondato da una folla ostile nel mezzo di uno studio televisivo, più gogna che dibattito. Molti in aula concordano. Il problema è: c’è, e se c’è, dove passa il confine fra televisione e politica, fra ministro (certamente trattato male) e personalità televisiva, che affronta gli stessi rischi dei partecipanti all’Isola dei famosi?

Mi sembra di vedere una grande confusione in cui non si capisce se la cattiva politica genera cattiva televisione o il contrario.

E se persino la politica non cattiva, quando diventa show gladiatorio, a disposizione degli umori del pubblico, non diventi spettacolo indecoroso.

* * *

I lettori sanno che da anni provo e riprovo a lanciare lo stesso messaggio: non andare a Porta a Porta, il talk show politico in cui un conduttore abile conduce il suo non disinteressato programma dove vuole e, nonostante la sensazione di appagamento (quasi due ore in video, quasi ogni sera) dei suoi ospiti, li conduce alla brutta figura. Avevo torto e avevo ragione. Avevo torto nell’affermare che tutti i mali della comunicazione erano accatastati a Porta a Porta. Forse è stato vero sotto Berlusconi. Ma è diventato chiaro, in quest’ultima stagione difficile e infelice della vita politica italiana, che nessuno show è migliore di un altro. E dopo il caso Mastella diventa difficile avere preferenze. Ma avevo ragione quando insistevo nel dire: guardate che in nessun Paese democratico l’impegno principale è di andare ogni sera (ogni sera) in televisione. Ci sarà un motivo se altrove, dalla Spagna agli Stati Uniti, non avviene. E infatti quando è stato sollevato il problema della casta - problema che non è in esclusiva italiano - i destinatari erano tutti in scena, tutti noti, tutti costantemente presenti nella retina oculare e nel retro pensiero degli italiani, dopo anni di ininterrotta "performance" televisiva di un cast che si fa presto a identificare come casta. Accanto al libro di Stella e Rizzo che si moltiplicava nelle librerie, in televisione c’era, e c’è, un presepio vivente di voci e volti impressi, ormai, nel vissuto italiano. Ce n’è abbastanza per far divampare, da una legittima denuncia, un immenso incendio che non accenna a spegnersi. E quando fa irruzione in tv il faccione di Grillo, lo schermo è già stabilmente affollato di volti fissi, come le figure da abbattere nel tiro a segno di un luna park. Non resta che indicare le sagome da colpire.

Ho detto e ripeto: questo affollamento visivo continuo di politici in televisione è un grave fenomeno esclusivamente italiano. Infatti, oltre ai reality show politici che vediamo sul piccolo schermo quasi ogni sera (a cui si aggiungono le apparizione festose degli stessi politici in programmi, diciamo così, di divertimento o "leggeri") c’è l’esibizione continua delle stesse teste parlanti, che compaiono implacabili in ogni telegiornale allo scopo di dire, una dopo l’altra, frasi incomprensibili. Ancora più incomprensibili se dette - in sovrapposizione alle immagini - dalla voce disinteressata dello speaker, che con giusto distacco, pronuncia schegge di un parlato senza riferimenti e senza senso. Anche questo è un fenomeno unicamente italiano, così dannoso da essere visto ragionevolmente da molti come il luogo di nascita dell’antipolitica.

* * *

Se dunque l’antipolitica, nel suo ceppo più pericoloso e aggressivo e virulento nasce dal fiume incontenibile del cast/casta della politica in televisione, sembra naturale affermare che arginando, anzi bloccando questo fiume si compie un gesto importante che non è un puro simbolo. Al contrario si elimina un potente irritante. Non si può certo dire che la televisione generi il problema. Di certo lo ricorda, lo evoca, lo ripete, lo ostenta, e non è una cosa da poco. Più che una esibizione è una provocazione. Figuriamoci una provocazione che si ripete ogni giorno e ogni sera, sempre con gli stessi partecipanti uniti dal legame ambiguo di contrapposizione e colleganza, di somiglianza, di reclamo di inconciliabile diversità ma anche di intesa bonaria, di convivenza, distruzione, scontro finale.

Mi sento di dire questo. Nessuna delle trasformazioni, cambiamenti o riforme della politica, del suo ingombro, del suo costo, può essere fatto in tempo reale, come sembrano esigere le nuove voci dell’antipolitica. Ciò è comprensibile. Le grandi ondate di protesta giungono fatalmente in momenti di estrema esasperazione in cui non è ragionevole aspettarsi pazienza, meno che mai la pazienza di accettare lunghi intervalli di promesse e di attesa. Lo prova il fatto che gli esperti autori della Casta Stella e Rizzo hanno denunciato sul loro giornale che "i costi della politica non scendono", (Corriere della Sera 25 settembre) e lo hanno fatto meno di tre mesi dopo la pubblicazione del loro libro-denuncia. Certo gli autori sanno che la dimensione o incisività di eventuali tagli immediati appariranno fatalmente piccoli, inadeguati, ridicoli, perché nessuno potrebbe realizzare istantaneamente un taglio drastico e visibile nella casa della politica senza fare amputazioni improvvisate o puri annunci. Ma sopratutto manca un criterio guida, come invece avviene nelle aziende, in cui si conoscono prodotti, costi, missione.

La politica e i suoi costi si espandono in un modo che mima la natura. Si espandono al modo di una foresta di rampicanti e di piante voraci. Occorrerà un lavoro autorevole profondo e molto esteso per ricondurla a un disegno sensato in cui i costi non siano privilegi, i tagli non siano mutilazioni di funzioni necessarie e le riduzioni abbiano senso oltre lo scopo, ovviamente prevalente, del risparmio.

* * *

Eppure qualcosa di ben visibile e certamente utile può essere fatto subito con conseguenze mediatiche (dunque di percezione) molto forti. E conseguenze che avranno altre conseguenze, prima fra tutti il mutamento del modo di comportarsi in pubblico e dunque di fare politica. È la scomparsa istantanea e completa del protagonismo mediatico dei politici. So che nessuno accetterà, ma è un peccato. Il ritiro immediato, generale e spontaneo verrebbe visto come un atto di austerità che anticipa le restrizioni e rinunce ancora non fatte e diventa simbolo forte e vistoso di quella operazione di rientro nei limiti che non è facile né rapido persino se ci fossero buone intenzioni.

Se è vero che l’esibizione continua di un cast fisso di politici in televisione, dai talk show ai telegiornali, è una delle grandi cause dell’antipolitica perché si trasforma in una overdose di parole, dunque di annunci, fatalmente sconnessi dai fatti, è per forza anche vero l’effetto immediato - sorprendente e benefico - di un black out auto-imposto.

Non si tratta di un ritiro ma di una rinuncia per lasciare spazio al giornalismo e alla responsabilità giornalistica di interpretare e rappresentare, sfidando le televisioni pubbliche italiane, privandole del volontariato politico, a ritrovare il senso di buona conduzione professionale che altri colleghi del mondo democratico non hanno mai perduto.

Entrino in campo i professionisti dell’informazione e si elimini l’occupazione politica degli spazi-notizia, che al momento - e ogni sera, e in ogni telegiornale - sono autogestiti dagli interessati, cioè dagli stessi politici. Finisca il gioco del protagonismo fisso che genera più sentimenti antipolitici delle auto blu e degli aerei di Stato con figli e amici, perché ingombra lo spazio dei cittadini e stimola gogna e vendetta.

Non si tratta di chiedere ai politici di scomparire. Si tratta di lasciar cadere ciò che ormai appare - molto più del barbiere di Montecitorio - il più arrogante dei privilegi, quello di occupare quasi tutti gli spazi dell’ informazione. Occorrerà rinegoziare la presenza dei politici nei media in modo molto più austero e deliberatamente autolimitato, restituendo il resto dello spazio all’opinione pubblica e agli interpreti professionali dell’opinione pubblica.

Questo dunque è l’appello, forse l’ultimo appello prima che l’ondata sia troppo forte. Via dal video per iniziare un’epoca profondamente diversa, civile, rispettosa, ansiosa di comunicare ai cittadini, fine dell’invasione del loro tempo. Ma c’è anche un vantaggio molto importante per i protagonisti della politica: la fine della complicità con i conduttori Tv, che usano i politici come animali da circo. Porterà subito un po’ più di rispetto al difficile lavoro della politica.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 30.09.07
Modificato il: 30.09.07 alle ore 7.37   
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 08, 2007, 11:24:39 am »

Il caro estinto

Furio Colombo


Che cosa distingue la televisione politica di questi giorni, del dopo Grillo e del dopo Casta, dalle sorprendenti incursioni popolari sia di piazza che di tv, al tempo di «Mani pulite»? Credo di poter dire che, adesso, c´è un´aria funebre.

Sto pensando ad AnnoZero di Santoro di giovedì scorso (su giustizia, ingiustizia e magistrati perseguitati). Ma gli altri talk show politici pur essendo più cauti e conformisti, non sono meno lugubri. Sono processi a un cadavere.

Del resto provo quella sensazione di inopportuna esibizione nel luogo sbagliato quasi ogni giorno al Senato. I nostri avversari cantano e ballano un po´ barbaramente e credono di farlo intorno alla salma o al corpo morente del loro odiato nemico (odiato perché, fino all´ultimo respiro, pretende di far pagare le tasse). Invece partecipano, sia pure in modo sgangherato, a una cerimonia funebre collettiva.

Torno per un istante ad AnnoZero. Il senso cupo, da «day after» del programma di giovedì 7 ottobre, era dato dalle parole estreme dei giudici (Forleo, De Magistris), dalle parole estreme di voci e volti diversi e dolenti dei «testimoni» (storie, esperienze presentate come esemplari), dal grido, che mi pareva senza speranza, dei giovani automobilitati in Calabria, dagli applausi così intensi e rabbiosi proprio perché terminali. Ti diranno che simili trasmissioni sono deliberatamente caotiche, che i pezzi sono fuori posto, che i percorsi sono guidati dai temi da sostenere, che l´enfasi era eccessiva. È possibile.

Ma nessuna «errata corrige» ti potrebbe sottrarre al senso di fine, di capolinea, potrebbe dirti se c´è giustizia dopo questa giustizia, se c´è ceto politico e classe dirigente dopo questi personaggi, se c´è vita (vita pubblica, vita insieme) dopo questa vita bloccata dal muro dei carichi pendenti di un mondo finito che viene prima, e non sgombera.

Ma le sedute quotidiane al Senato sono anche più cupe e più tristi perché il senso di ultimo giorno che ispirano (votare all´improvviso ogni cosa che nega o ne disfa un´altra pur di giocare scherzi, segnare disprezzo, bloccare la piccola, lentissima macchina, accreditarsi un punto al costo di bruciare nel niente ore, giorni, settimane, mesi ormai) quel senso di ultimo giorno e di applauso alla salma avviene non nel tempo libero della televisione ma nelle mattine e nei pomeriggi di lavoro di una camera della Repubblica.

Con un pauroso aumento dei costi si discute a vuoto, per tempi lunghissimi, di riduzione dei costi, che ciascuno attribuisce esclusivamente alla parte avversa, ma mai che ci si fermi a domandarci: i costi di quale politica, per fare che cosa, al servizio di chi?

Con una immensa spesa di energia, tempo, fatica, persino talento, ogni volta che il lavoro parlamentare sta per cominciare, il convoglio viene spinto in una piazzola di sosta, che dura un giorno o una settimana muovendo nel vuoto dibattiti feroci e senza scopo, senza destinatari, senza un qualsiasi punto di possibile conclusione.

Pensano davvero, i senatori della Casa delle Libertà che ci sia un popolo disposto a battersi per il generale Speciale, la cui unica battaglia, tutta privata, riguarda la sua carriera?

Quando giovedì scorso in Senato, il presidente di turno, Calderoli, ha interrotto il confuso dibattito a vuoto per annunciare che era morto il soldato italiano D´Auria, ferito a morte in Afghanistan nel blitz inglese per liberarlo, in quel minuto quel gruppo di uomini e donne che costano molto e si costringono a vicenda a non lavorare (quasi fermi ormai da un anno) hanno sentito nel soffio gelido di morte - e nel minuto di silenzio - che qualcosa di vero, di reale e di tragico li stava sfiorando. Più vero dell´inutile e umiliante dibattito su quel personaggio da opera buffa che è il generale Speciale. Ancora più tragica la missione di quel caduto italiano perché di essa non sappiamo niente, non ci hanno detto niente, non abbiamo voluto sapere niente. Mentre noi siamo qui a ripetere il rito di qualcosa che è proprio finito.

Loro dicono che è finito Prodi. Ma, come in una "funeral home" californiana, esibiscono il loro leader imbellettato, finto, e col sorriso fissato dal truccatore per promettere un´altra vita. Anche l´improvvisato abbraccio fra il ministro Di Pietro e il leader post-fascista Fini, non vi sembra uno di quegli improbabili gesti di conciliazione-disperazione tipico dei funerali?

Solo che in questo funerale, evocato in modo particolarmente suggestivo dalle luci basse, le voci con effetto di rimbombo o di eco (un difetto tecnico ma efficacissimo) e gli applausi disperati della trasmissione "AnnoZero", non c´era neppure la salma. Della cosidetta seconda Repubblica sembra che non sia rimasto niente.


* * *


Ecco perché il profilarsi nel confuso orizzonte del Partito democratico disturba il caro estinto al punto da fargli dichiarare (a lui, mentre ci guarda col sorriso fisso) che "tutto comincia con il 14 ottobre".

Il 14 ottobre è il giorno delle primarie che dovranno eleggere il segretario e leader del nuovo partito, non il salvatore. Soltanto qualcuno vivo e normale, che ha già dato una buona prova di tenere la casa in ordine e che ha come programma di non restare inchiodato in un punto a rivedere per sempre lo stesso blob del passato.

Lo dico per coloro che, per tante buone ragioni, si sono scostati a sinistra, con la stessa persuasione di alcuni grandi americani degli anni Sessanta (Norman Mailer, Leonard Bernstein, Leroy Jones, James Baldwin) che stavano più vicino alle Pantere nere che a Martin Luther King, e non volevano votare per Kennedy (e poi altri di loro per Carter, per Clinton) perché dicevano: sono troppo moderati, sono uguali ai repubblicani. Ma quando si sono trovati di fronte a Nixon, a Reagan, a Bush padre, a Bush figlio, hanno potuto constatare l´immensa diversità di mondi, di visione della vita e del destino degli esseri umani. Lo dico per coloro che si mantengono scettici e separati mentre muore un´intera epoca di vita pubblica, e l´intravedere una nascita sta scuotendo e buttando all´aria tutti i progetti e le certezze acquisite degli officianti della ripetizione infinita dei riti di fine stagione.

Lo dico perché noto la differenza tra lo scompiglio di chi prende male questa nascita perché la prende sul serio, e l´incertezza o freddezza o disincanto di tanti per cui sarebbe più naturale partecipare a un buon lavoro di costruzione.

Si può fare un elenco di errori anche gravi, è vero, nella nascita di questo partito, dal regolamento cervellotico alla esclusione di persone e valori che sarebbero stati un bel contributo (penso a Pannella, penso a Di Pietro, prima dell´incomprensibile abbraccio con Fini). Ma bastano questi errori per disinteressarsi di tutto in un momento estremo?

È il momento in cui il Paese (mentre nel bunker Prodi e Padoa Schioppa cercano di mantenere onorato e credibile ciò che resta della Repubblica) potrebbe voltare per sempre le spalle al caro estinto. L´alternativa è il suo ritorno con frasi registrate del tremendo già detto, il sorriso fisso del truccatore e la officiante Michela Brambilla col reggicalze e tutto.



Pubblicato il: 07.10.07
Modificato il: 07.10.07 alle ore 19.09   
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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 16, 2007, 11:54:17 pm »

Il Pd e le macerie italiane

Furio Colombo


Nasce il Pd ed è vita nuova. La vita nuova è cominciata con impeto. Più di tre milioni di cittadini hanno votato e forse non è fuori luogo rivolgere un pensiero a Storace. Come ha fatto il premio Nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini.

Infatti, se il volgare intervento di Storace, prima contro la nostra collega al Senato, poi contro il capo dello Stato ha svelato, per contrasto, a Rita Levi Montalcini «quanto è buona l’Italia», tuttavia l’atto di teppismo, in tutta la sua bassezza, non è una «svista» o un «errore» come bonariamente ci dicono dalla «Casa delle Libertà». No, il gesto di Storace è un gesto politico attentamente calcolato per dire ai suoi ex compagni di partito: «attenzione, io posso richiamare in strada i fascisti». «Attenzione perché qui intorno (lui intende la “zona Storace” che fino a poco fa ha condiviso con An, ma da cui da tempo An ha cominciato a prendere igieniche distanze) i fascisti ci sono, con la stessa cultura e gli stessi “valori” di quel passato». Storace del revisionismo se ne frega (credo che sarebbero parole sue). Gli importa poco che ci sia a sinistra chi si prende cura di schermare il fascismo, e di precisare ad ogni occasione l’inclinazione delinquenziale dei partigiani. Quanti saranno stati motivati ad andare a votare per il nascente Partito Democratico dalla «iniziativa Storace» contro la decenza, la Costituzione, la democrazia?

Lui, Storace, non è materiale da museo. Lui è qui, adesso, molto attivo, molto impegnato e poiché si è finalmente separato da An, di cui evidentemente non può più sopportare la mania di rispettare le regole, cerca una base e tenta un colpo: l’adunata dei veri fascisti.

Intendiamoci, l’idea non è nuova. Aveva sfiorato anche Alessandra Mussolini quando se ne era andata da An sbattendo la porta perché An le pareva insopportabilmente staccata dal passato, quel passato. Ricorderete che la signora si era subito associata con alcuni arnesi che negano la Shoah o affermano - dopo sei milioni di morti - di non avere notizie sicure di quell’evento.

Alcuni di loro, credo con imbarazzo di Fini, hanno pensato bene di unirsi, il 13 ottobre, al corteo An di Roma con croci celtiche, saluto romano e altri inequivocabili simboli di un’idea di «ordine pubblico» e di «sicurezza» molto diversa dal dibattito che, con le stesse parole, si svolge nella cultura democratica.

Pensate che anche alcuni coloriti partecipanti a quella sfilata non abbiano indotto alcuni di noi, magari disorientati e incerti, ad unirsi al voto?

Ma, l’ambizione di Storace è più ardita e diversa. Il suo «outing» con la deliberata provocazione tipica del gerarca prima maniera (insulto alla donna che per giunta è colta, democratica ed ebrea) è un segnale per dire «fascisti, a noi!». Per questo gli importano poco i giudizi severi dei suoi ex colleghi. Per questo inveisce contro il Presidente della Repubblica. Lo stanno disturbando con le loro fisime democratiche mentre lui sta facendo lavoro politico. Infatti quando lui dice «destra» non intende la Borsa o il tasso di interesse, o le priorità delle imprese o la prevalenza del mercato. Intende «quella destra» che col mercato non aveva niente a che fare, se mai con i fasci e le corporazioni. E il consenso lo otteneva, come lui ha cercato di fare se Rita Levi Montalcini fosse stata sola e l’Italia in cauto silenzio, in modo più sbrigativo.

Perché parlarne oggi? Perché oggi è il 16 ottobre, giorno che ricorda per sempre la caccia agli ebrei di Roma nelle strade del ghetto, la cattura di più di mille di essi nel cuore di questa città . Ricorda che quasi nessuno di essi è tornato. Perché il 15 ottobre il Corriere della Sera ha spiegato e documentato il ruolo dei fascisti e dei delatori italiani in quella notte di indimenticabile orrore (solo la comunità di Sant’Egidio, ogni anno, conferma il ricordo con una fiaccolata in silenzio, dedicata a tutti i negazionisti).

Perché quando sfilano i giovani con il saluto romano e la croce celtica, celebrano quel passato e lo celebrano dalla parte di coloro che hanno arrestato e deportato uomini, donne, vecchi e bambini nella notte romana, e in tutta Europa, aiutati da delatori e collaboratori fascisti, nel vasto silenzio di tutti gli altri.

Perché, rivolgendosi in quel modo, con quelle parole e quella conferma di brutte intenzioni sia alla signora Levi Montalcini (di cui si deprecano persino gli anni, che invece in tribù meno barbare sono ragione di prestigio e di festa) sia al Capo dello Stato, la ragione era: chi deve intendere intenda, fra un saluto romano e un atto di vandalismo alle tombe. Qui - ci dice Storace - si sta costruendo un progetto politico.

Perché parlarne oggi? Perché oggi è il giorno di nascita, con tanti cittadini e nel migliore dei modi, del Partito Democratico, che è la casa della Costituzione e del tesoro di democrazia e di difesa risoluta della democrazia accumulato nell’Italia resa libera dalla Resistenza in questi decenni.

Prendiamo atto del progetto Storace; prendiamo atto che le sue parole, il suo modo di esprimersi e ogni sua battuta sono un manifesto politico.

Nonostante ciò, la prima buona notizia è che è nato il nuovo Partito Democratico, che su fatti come questi non si distrae.

La seconda buona notizia è che in questo impegno, sulla scena politica e parlamentare italiana oggi, per fortuna, non siamo né isolati né soli.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 16.10.07
Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.56   
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 22, 2007, 09:11:02 am »

Una giornata particolare

Furio Colombo


Sembra impossibile ma ciascuno purtroppo - anche senza volerlo - sta facendo la sua parte così come gli era stata assegnata dal capo-comico Berlusconi. Prima di offrire una mia lista di personaggi e interpreti della commedia triste mi preme una precisazione: non sto dando giudizi, non ne ho alcun diritto. Non mi riferisco in alcun modo alle intenzioni personali. A volte nobili, a volte meno (se non altro perché non chiare) dei vari protagonisti. Non giudico le persone, mi limito a contestare la coincidenza quasi perfetta di una serie di iniziative politiche. Osservando la scena si nota (per parte mia con stupore o dolore o allarme) che alcuni pezzi del centrosinistra, che è stato annunciato dai quattro milioni di votanti volontari nelle primarie per Prodi, sostenuto da diciannove milioni di elettori nelle ultime elezioni politiche, da cinque milioni di lavoratori nel referendum su impiego, pensioni, previdenza, dai tre milioni e mezzo che hanno partecipato alle primarie del Partito Democratico, alcuni pezzi del centrosinistra vanno a collocarsi - indipendentemente da ciò che pensano di fare - esattamente dove il copione di Berlusconi li aspettava, fuori dal loro schieramento in posizione vistosa e simbolica di protesta. Si possono avere le intenzioni più miti quando si riunisce una folla per marciare come forma di ammonimento a un governo. Ma il simbolo chiave resta il dissenso. Naturale che Berlusconi osservi le mosse e dica: siamo quasi pronti.

La mattina del frizzante sabato 20 ottobre si apre con una netta dichiarazione di Giorgio Cremaschi, il Segretario Fiom, dunque sinistra pura. Dice «questo governo non è meglio di Berlusconi, nessuna differenza. Anzi, è peggio».

Caratteristica della frase è una clamorosa ambivalenza. Sembra incoraggiare la diffusa opposizione a sinistra nei confronti della legge Biagi, che era solo un tassello del progetto Berlusconi di accodarsi alla destra del mondo per liquidare l’intralcio del lavoro e le pretese dei lavoratori. Invece porta un clamoroso tributo a Berlusconi. Dichiararlo uguale o migliore di Prodi vuol dire sdoganarlo in pubblico, vuol dire liquidare illegalità e conflitto di interessi, ricchezza immensa, oscura e manovre anche più oscure - perché su scala internazionale - di quella ricchezza. Vuol dire proclamare, mentre è alla testa del gruppo di operai più agguerrito, che è Prodi che si deve combattere, non Berlusconi. Poteva l’uomo di Arcore aspettarsi di più? Cinque anni di contrasto appassionato e civile contro il berlusconismo - contrasto che era già stato tante volte disapprovato, come ricorderete, dalla sinistra moderata, ora è svilito e ridicolizzato dalla sinistra più militante.

Intanto Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, che quando era in questo giornale (dopo essere stato un bravo e innovatore condirettore) diceva spesso a Padellaro e a me di non esagerare nei titoli contro Berlusconi (ricordate il famoso incubo della “demonizzazione” e la ricorrente domanda: «ma cosa farete dopo, senza Berlusconi?» problema, che - come vedete - non si pone) finalmente ha trovato un nemico. Si chiama Prodi, e lui allegramente lo sfotte in una spensierata conversazione su Il Riformista (20 ottobre). Dice di averlo trovato «cupo, triste» e di avergli dato appuntamento per la manifestazione anti-legge Biagi «alle tre, davanti a Feltrinelli, vedessi mai». Dunque apprendiamo che finalmente «Prodi è cupo e triste» dunque sulla porta e si può cominciare a scherzare pubblicamente su di lui. Un punto segnato, ma da chi? Di nuovo siamo in perfetta coincidenza con il copione Berlusconi e non c’è bisogno di fare il processo alle intenzioni (che sono certo le migliori del mondo del lavoro) per notare che, di nuovo, l’uomo di Arcore, l’uomo dello stalliere mafioso Mangano, degli associati Previti e Dell’Utri, del clamoroso licenziamento in tronco di giornalisti e comici, l’uomo del controllo assoluto dei media non poteva desiderare di più. Lui ha scritto le parti in commedia di gente che spinge troppo a sinistra e finisce per rompere. Qui invece, gli compaiono Cremaschi con rabbia e Sansonetti ringiovanito e festoso per dire: «ok, Prodi, basta così. Adesso ci pensiamo noi». Non è esattamente il copione ma dubito che Berlusconi sarà deluso di questa variazione.

Infatti, ci pensano come? Osserviamo bene la scena. Ma, prima cosa, devo spiegare ai lettori perché ho scritto, poche righe più sopra “legge Biagi”. So benissimo che non si chiama così, che è la legge 30 sul precariato. So che a chiamarla “legge Biagi” era stato lo scherzo macabro di Maroni (l’autore della legge) e di Berlusconi, del suo sottosegretario sacconi e di Berlusconi che con quella legge speravano di mettersi in coda alle destre del mondo che ne avevano abbastanza del costo del lavoro, qualunque costo che non siano la delocalizzazione in Romania o gli acquisti del già fatto in Cina al prezzo di centesimi invece che di euro o di dollari. Ricordiamo tutti che la strada è stata aperta, nel mondo industriale avanzato, da Ronald Reagan quando, pochi giorni dopo il suo insediamento, ha risolto una vertenza licenziando senza liquidazione tutti i controllori di volo d’America, e assumendo, subito e da solo, una nuova generazione di bravi e sottomessi lavoratori senza diritti. Questo, come tanti esperti ci dicono, a cominciare dal moderatissimo ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, non era il disegno di Biagi. Marco Biagi (che intanto era minacciato, aveva chiesto più volte la scorta, era stato giudicato un rompiballe dal ministro dell’Interno Scajola, che avrebbe dovuto proteggerlo) aveva disegnato solo la prima arcata di un ponte. Ma il suo ponte, la sua visione, erano ben più vasti. C’era bisogno di garanzie, contrappesi, sostegni per non fare entrare l’Italia nell’era di Reagan descritta così accuratamente da Michael Moore con la frase: «Diritti? Nessuno».

Dunque Marco Biagi, che non aveva alcuna protezione, stato ucciso come D’Antona, mentre il suo lavoro era tutt’altro che finito, perché i criminali, oltre che criminali, sono anche stupidi e ciechi.

Berlusconi e Maroni hanno colto la palla al balzo. Invece di commettere l’errore pesante e volgare commesso contro Olga D’Antona («si tratta di un regolamento di conti interno alle sinistre») si sono impossessati di un disegno non finito, non rivisto, carte e appunti di un lungo e complesso lavoro in corso, lo hanno trasformato in legge per la parte che gli interessava e gli hanno dato il nome del giurista assassinato.

Berlusconi, come in ogni altra circostanza aveva il solito scopo: spaccare l’Italia come prerequisito della sua concezione di governo.

E allora, ecco qua, ancora una volta ci è riuscito in pieno. Una parte della coalizione di sinistra se ne va per le piazze. Nel più mite dei casi dicono: ci si può fidare di questo governo? E anche chi non lo dichiara suggerisce il motto di Cremaschi « né con Berlusconi, né con Prodi ». Poiché Berlusconi, con tutta la sua ricchezza, la sua televisione e la sua generosa campagna acquisti è una presenza immanente, è il protagonista autofinanziato della vita italiana (e, a giudicare dalle frequenti e misteriose vacanze con Putin, non solo italiane) la frase vuol dire « con Berlusconi », non perché questa sia l’intenzione ma perché, se gli sgombrate il campo, questo ricco signore avrà la vita ancora più facile.

Quanto alla spaccatura - progetto chiave di Berlusconi - eccola - la manifestazione in piazza (invece che il lavoro dentro il governo e in Parlamento) ha suggerito di raccogliere la palla al balzo sul versante della presunta offesa al professore ucciso senza scorta.

E così, persone in perenne trasferta e ansiose di fare la cosa giusta nella politica, un assortimento di tipi che costituiscono la scorta fissa di Berlusconi e persino protagonisti insospettabili della politica pulita, come Pannella, si riuniscono per dire bene di quella colonna spezzata a cui viene attribuito ancora e ancora il nome di Marco Biagi, come se non fossero esistiti da un lato Milton Friedman, che ha aperto la strada al regime del lavoro selvaggio (basta verificare le condizioni, le garanzie, i sostegni del lavoro retribuito in America, ormai stabilmente privo di pensioni e assicurazioni mediche) e dall’altro Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Paul Krugman, grandi dell’economia che si contrappongono a Friedman per descrivere il danno che il capitalismo fa a se stesso quando svilisce o sottomette il lavoro. L’idea di fondo è di intimidire ciò che resta del centro-sinistra, minacciando di accostare alle brigate rosse chi difende il lavoro. O di farlo apparire, nel più mite dei casi, un ottuso conservatore, nemico della libertà. Che è, guarda caso, libertà di licenziare.

Tanta vitalità berlusconiana, e tanta e precisa coincidenza con i ruoli auspicati dallo stratega di Forza Italia (che altrimenti porterebbe a casa ben poco, con la Brambilla) dà una scossa alla impaziente flottiglia ancorata sulla destra del porto del centrosinistra (bombardato da Grillo, da Cremaschi, eletto a rappresentante esclusivo della Casta, mentre i cassieri della Casa delle Libertà si divertono a gridare Casta allo schieramento di Prodi quando non stanno insultando i senatori a vita). E ormai non puoi dire quale bandiera isseranno, e quando, i nuovi corsari del gruppo Dini. O dove imprimeranno il loro segno i due Zorro Mansione e Bordon, e a quali vedove e orfani e contadini oppressi stanno per portare soccorso.

A quanto pare l’importante è disarcionare al più presto l’unico vero male d’Italia, il Don Chisciotte Prodi e il suo Sancho Panza Padoa Schioppa.

Dopo essere scampato alla “demonizzazione”, che in tanti ci hanno così vivamente sconsigliato, come se fosse non solo impolitico ma anche immorale dire tutto il conflitto di interessi di Berlusconi e la vera natura dei suoi interessi e legami e alleati ora Berlusconi evita anche l’altro pericolo di cui ci hanno parlato tanto: il berlusconismo senza Berlusconi. Niente paura, Berlusconi è vivo e lotta insieme a molti, un po’ di qua e un po’ di là. Non è un lieto fine. Ma è tutto vero oppure ho fatto un brutto sogno?

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 21.10.07
Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.12   
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« Ultima modifica: Novembre 08, 2007, 07:44:23 am da Admin » Registrato
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 22, 2007, 09:14:44 am »

L'equilibrio vestito di rosso

Vincenzo Vasile


Le avete ascoltate le interviste tv durante il corteo di ieri? Non si erano mai contati tanti simpatizzanti e sponsor di destra per la sinistra radicale. Piazza San Giovanni, presentata come l’epicentro del terremoto che potrebbe abbattere Prodi, ha profondamente deluso, invece, le aspettative di chi scommette sulle fibrillazioni del governo. Tranne la ineffabile «precaria» che ha issato lo slogan masochista «ridateci Berlusconi», il senso politico della manifestazione è stato minuziosamente recintato da gran parte dei dirigenti delle forze che hanno promosso l’evento: non una manifestazione contro il governo, né tanto meno una spallata.

Piuttosto, la rappresentazione di temi obiettivi e valori che provengono dalla piattaforma programmatica della coalizione di centrosinistra. Una spinta potente certo, ma non per fare cadere il governo: Prodi vada avanti.

Si potrà discutere all’infinito se abbia pesato su questo esito realistico lo sfogo giornalistico dello stesso presidente del Consiglio sui pericoli immanenti di rendersi strumento del “complottone”; o su quanto abbia inciso la levata di ingegno di un padre nobile della caratura di Pietro Ingrao, che alla vigilia della manifestazione ha evocato - invece delle modifiche del protocollo del Welfare, che porrebbero questa sinistra in rotta di collisione con il sindacato e con la maggioranza di coloro che hanno risposto alla consultazione - temi alti e questioni grandi come «la fine della guerra in Iraq e le rivendicazioni di libertà e di riscatto dei lavoratori».

In ogni caso si è trattato certamente di una profonda e meritoria correzione in extremis dei toni e delle velleità che stavano dietro alle prime intenzioni dei promotori, angustiati da un’irrimediabile vocazione minoritaria, e ancora caoticamente coinvolti nelle traversie della futuribile Cosa Rossa; e si è trattato di una tardiva presa d’atto del risultato del referendum nei posti di lavoro, e fors’anche di un effetto indotto dal successo delle primarie del Partito democratico.

Naturalmente una gestazione così confusa e contraddittoria ha avuto i suoi effetti negativi: per genericità e spirito ultra-identitario sembrava, per la verità, la manifestazione di una forza di opposizione; e invece almeno quattro ministri hanno legami più o meno profondi con questa piazza; e non è un caso che essi abbiano avuto qualche difficoltà a motivare la loro assenza e insieme la loro solidarietà. Romano Prodi tira, dunque, un sospiro di sollievo, promette di “ascoltare”, anzi di continuare ad ascoltare, “quel popolo”. Ma non è affatto detto che il premier possa superare con uno sforzo soggettivo, con uno scatto di reni volontaristico i vincoli finanziari e politici che finora hanno impedito risposte più soddisfacenti. E per paradosso tanta gente in corteo forse diventa parallelamente anche un problema - da interpretare, da rappresentare, da dirigere - per chi finora può essersi illuso di svolgere il proprio ruolo di ala sinistra della coalizione, limitandosi ad attizzare ai margini del campo di gioco il fuoco sotto il crogiolo dei delusi e degli insoddisfatti.

Pubblicato il: 21.10.07
Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.09   
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 27, 2007, 11:12:56 pm »

Notte della vergogna

Furio Colombo


Annotate la data perché se è importante ricordare ciò che onora un Paese, è anche più importante non dimenticare le date della vergogna, persone, circostanze e situazioni che disonorano tutti. È accaduto, durante una notte lunga e confusa, litigiosa e violenta, al Senato della Repubblica italiana. Come molti sanno è un luogo di gloriosa tradizione ma, di recente, mal frequentato. È un luogo rischioso per una signora di 98 anni Premio Nobel per la Medicina e senatrice a vita che si è avventurata nell’Aula dopo le nove di sera del 25 ottobre per adempiere al diritto-dovere del suo seggio e votare la legge n. 1819 detta «Interventi urgenti in materia economico-finanziaria».

Ecco che cosa è accaduto: quando la senatrice Levi Montalcini è entrata in Aula è esploso un urlo di rabbia e un coro di invettive da tutto il lato del Senato occupato dai senatori della Casa delle Libertà. Forse non tutti hanno partecipato al coro osceno, ma quasi nessuno se ne è dissociato. La ragione della rabbia? Da tempo è in corso al Senato una campagna di intimidazione violenta per impedire che i senatori a vita partecipino alle votazioni. Benché tale loro diritto sia stabilito in modo esplicito dalla Costituzione.

I nostri oppositori della Casa della Libertà sono sotto stretti ordini. Berlusconi aspetta la spallata, ovvero un tonfo della maggioranza al Senato. Berlusconi non ama aspettare. La spallata non arriva. E i senatori a vita sono un ostacolo.

Come il fascismo insegna, la violenza serve. Alcuni senatori a vita preferiscono non esporsi più nell’Aula del Senato che dovrebbe onorarli. La notte del 25 ottobre la senatrice Levi Montalcini ha sfidato uno dei locali peggio frequentati di Roma. Prima sono venuti gli insulti e si può capire la rabbia: quell’esile signora quasi centenaria, entrando in Senato ha fatto cadere la possibilità della spallata notturna.

Ma c’era una ragione in più a motivare stizza, rancore e violenza dei peggiori esponenti della casa della volgarità, rigidamente agli ordini di Berlusconi. Quella notte un buon numero di articoli della legge in votazione e degli emendamenti a quella legge riguardavano stanziamenti (modesti, purtroppo) per la ricerca scientifica.

A dare il segnale del mobbing ha provveduto subito il senatore Castelli. Ha trattato l’argomento così (i lettori potranno verificare sul sito del Senato): «la Levi Montalcini è venuta a incassare il premio dei suoi voti per il governo di centrosinistra». Da scienziata, la Nobel Levi Montalcini lavora tutt’ora alla Fondazione «European Brain Research Institute». È uno dei centri di eccellenza del mondo a cui il governo italiano ha rinnovato un modesto sostegno.

Ma per capire l’evento è necessaria la scena. L’ex ministro della Giustizia della Repubblica italiana ha dedicato foga, rabbia, volgarità e tutti gli argomenti che vengono in mente a un uomo come lui, gettandoli contro la signora che il Presidente Ciampi aveva nominato senatore a vita come forma alta di onore per qualcuno che ha onorato l’Italia nel mondo. In quell’Aula è stata trattata da tutta una parte del Senato come una ladra.

Ma questo è solo l’inizio di una notte di umiliazione e vergogna per tutti coloro che, in Senato, non sono a disposizione (letteralmente giorno e notte) di Berlusconi.

Prende infatti la parola il senatore Nitto Palma per ammonire col dito e sgridare (lui, Nitto Palma) la Nobel Levi Montalcini con questo argomento «Cara signora, lei se lo è andata a cercare. Invece di stare al di sopra delle parti (espressione che significa la intimidazione: “rinunci al suo diritto”, ndr) si è messa a votare. Dunque non si aspetti gli onori di casa».

Tra le varie voci maschili e femminili del mobbing fascistoide, spicca il “ritorno di Storace” al quale non dispiace ripetere alcune delle frasi apparse sul suo sito e ripetute pubblicamente. Ecco il più tipico dei suoi signorili argomenti: «come era contenta e come ringraziava la signora Levi Montalcini quando riceveva i contributi della Regione Lazio, ai miei tempi». Inutile sottolineare la profonda volgarità della frase, ancora più grande se si ricorda dove e contro chi è stata pronunciata.

Rita Levi Montalcini guardava incuriosita e senza timore lo strano aggregato di esseri stralunati detto “Casa delle libertà” che stava conducendo l’aggressione. Forse stava pensando a quanto possa essere elementare e primitiva la macchina del cervello umano, che lei ha studiato così a lungo.

Poi la signora si è alzata e ha chiesto di intervenire. Non una parola per i teppisti dello strano e mal frequentato locale di Roma detto Senato. Con voce appena un po’ emozionata ha detto grazie al governo e alla maggioranza per il contributo, per quanto modesto, alla ricerca scientifica. E ha annunciato che per quel punto della legge non avrebbe votato.

Lezione inutile, direte. Ma la notte è andata avanti nella incupita frustrazione della spallata che non è venuta. Il padrone sarà stato deluso. Ma è gente che ci riprova. Non alla spallata, un obiettivo finora sempre mancato. Ma gli insulti. Sono - alcuni di loro - gente molto impegnata nel peggio, con il privilegio di non avere un’immagine da salvare. La Casa delle libertà e la sua sottocasa detta “la Lega” non avrà scrupoli. Se qualcuno dei senatori a vita oserà ancora presentarsi a votare, sa che cosa lo aspetta.

Nella notte della vergogna in Senato alcune voci sono intervenute a difesa. Ma il timore di rendere impossibile la continuazione dei lavori e dunque la votazione, ha prodotto una conclusione triste. Il Senato non ha condannato la violenta e volgare messa in scena per intimidire (invano, per fortuna) la signora del premio Nobel che onora il Senato. La vergogna è grande e una domanda pesa come un macigno: è possibile che debba funzionare così il Senato, nella democratica Repubblica italiana nata dalla Resistenza, ai nostri giorni?

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 27.10.07
Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.47   
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 28, 2007, 05:48:35 pm »

Nel giorno del Pd

Furio Colombo


Tutto o niente. È in questo paesaggio aspro e quasi privo di vie d’uscita che nasce il Partito Democratico sabato 27 ottobre a Milano, nel padiglione 16 della Fiera, Prodi sul palco che parla del presente, Veltroni del futuro. Due discorsi esemplari. Ma adesso viene il fare.

Tutto o niente. Qui nessuno può restare a mezz’aria e farsi giudicare «così così» o «non male». Questa è la scommessa finale per quella parte democratica e antifascista di italiani che hanno accettato di arrivare fin qui. Tutto vuol dire fare differenza nella vita e nella politica. Tutto vuol dire che niente può restare come adesso, un tempo fermo e pericoloso. Alla fine della giornata di nascita del Partito democratico vi sono state amarezze, dissensi, contraddizioni. Almeno così ha fatto sapere Rosy Bindi, con alcune ragioni politiche (le sue), con alcune ragioni che suonano vere.

Eppure non ci sarà un secondo appello e neppure una uscita di sicurezza. Questo non potrà essere un percorso esitante. Anche per chi si dichiara per prima cosa moderato, non c’è niente di moderato nel senso di cauto, di limitato, nel senso di «un po’ più, un po’ meno». Questa volta è tutto o niente, perché la politica rischia di finire qui, l’antipolitica è brutale, la scena è ingombra di macerie del berlusconismo che non finisce e delle macerie di un’altra Repubblica, che nessuno ha ancora spazzato. Anzi è in corso un recupero celebrativo di salme, di nomi, di riti, fascismo incluso.


Il cumulo delle delusioni è grandissimo, il compito è quasi impossibile. Cancellare tutto come su una lavagna, per cominciare da capo. Si può fare?

Io qui racconto un primo giorno di vita, un po’ l’ho vissuto e un po’ me lo invento. Lo faccio come si fa, decenni dopo, con certi eventi della storia. Lo faccio per mettere insieme fatti veri e speranza, attesa e promessa, ciò che è accaduto e ciò che vogliamo che accada.


* * *


È una sala vasta quella in cui è nato, sabato 27 ottobre a Milano il Partito Democratico che ha proclamato segretario Walter Veltroni, dopo il discorso di Prodi. È una folla molto grande questa assemblea di migliaia di persone, che certificano, confermano, annunciano. Non è una festa. È un incontro di emergenza. Infatti non c’è nessuno, qui dentro, che non si renda conto che stiamo ancora camminando al buio lungo un percorso incerto di cui non siamo in grado di inventariare e misurare i formidabili ostacoli.

Ciò che hanno detto Prodi e Veltroni i lettori lo sanno o lo leggono in questo stesso giornale: sopratutto hanno detto di sapere bene da che punto stiamo partendo. È un punto di pericolo. Hanno detto con chiarezza dove tentiamo di andare. C’è fervore, passione, c’è la piena persuasione di fare la cosa giusta un momento prima che sia troppo tardi. Il dove andare è semplice e immensamente difficile: una normale repubblica democratica libera dalle lobby degli affari e dei gruppi di interessi, libera dal governatore miliardario che, con la forte persuasione della sua ricchezza, è impegnato in una frenetica campagna acquisti di pezzi della Repubblica, dovunque l’acquisto possa produrre squilibrio e danno. Questo lo aggiungo io. Sto dicendo ai lettori lo spirito, l’impegno, la motivazione con cui ho partecipato alla giornata di Milano, che è la stessa con cui, nelle primarie, mi sono unito alla «sinistra per Veltroni». C’è un’Italia pulita che ha eletto Prodi, poi ha scelto Veltroni, e che vuole continuare a tenere indietro l’Italia illegale, anzi a permettere che si espanda l’Italia legale, rimuovendo il blocco elettorale, il blocco mediatico, il blocco del continuo flusso del voto di scambio, il blocco dell’ uso ridicolo o sprezzante delle istituzioni, il blocco degli interessi di alcuni.

Questo non vuol dire che l’Italia dei cittadini sia spaccata alla maniera desiderata da Berlusconi e - in una certa misura - imposta dai suoi sottopadroni, dai suoi giornalisti, dai suoi giornali (anche qui non c’è una demarcazione precisa, i giornalisti di stretta osservanza berlusconiana sono più dei giornali che fanno capo ad Arcore). Il compito immane è liberare il paese dal sortilegio mediatico che, con grande bravura, Berlusconi e i suoi hanno imposto al Paese. Il sortilegio è questo: ogni corteo che si mette in strada per qualsiasi ragione o motivazione viene dirottato fra i nemici di Prodi e persuaso che Prodi è il nemico. O almeno che non c’è differenza fra Prodi e Berlusconi.

Persino la questione della «casta», che è supremamente rappresentata dalla vasta legione straniera di ex, dentro le mura della Casa delle libertà, è stata afferrata e trasformata con bravura in insulto continuo contro la coalizione dell’Ulivo. Il vorace populismo berlusconiano riesce infatti a impossessarsi di ogni accusa che lo riguarda per poi usarla con efficacia contro l’avversario, come in un horror di fantascienza.

Aiuta, spesso, il silenzio del governo dell’Unione, e la loquacità incontenibile - e ben sostenuta dai media- di Berlusconi e dai suoi cloni. Aiuta la continua pioggia acida di annunci, premonizioni e celebrazioni di crolli che finora non sono avvenuti. Aiuta un senso di solitudine che è palpabile dove prima c’erano i militanti Ds.


* * *


Qualcosa è iniziato e farà differenza. Cercherò di raccontarlo così: una voce chiara, che è libera dagli assillanti, continui gravami di governo, parlerà per la parte del Paese che si è messa in cammino verso la ricerca necessaria, però un po’ folle, di una nuova politica. Quella voce si impegna a non essere mai ambigua, mai ambivalente, mai schermata, mai politichese.

Certamente non tutti, nella vivace e piena vita democratica a cui ci aspettiamo di partecipare, saranno sempre d’accordo su tutto. Non comincia una stagione di unanimismo, ma di partecipazione. Il requisito è che il filo della comunicazione non si aggrovigli e non si spezzi mai. Nelle vicende della politica è importante sapere tutto in tempo, avere spazio per contribuire, tempo per dissentire. . È molto più importante che non sapere, sapere dopo, avere solo la possibilità di adeguarsi o staccarsi. In altre parole, non è della voce unica che va in cerca il Pd ma della voce chiara che mantenga sempre vivo il progetto e il disegno a cui si lavora, così che la partecipazione, in tutte le sue forme, sia possibile e sia cercata sempre. Così che le proposte si conoscano, superando la barriera del blocco mediatico e del costante gioco al massacro.

Quel blocco e quel gioco si fondano sulla maledizione dei talk show, quasi tutti una anomalia e una eccezione italiana rispetto a tutto il mondo democratico. Infatti, solo in Italia i protagonisti eletti della politica vengono esibiti come materiale di spettacolo, a volte con regole truccate e con esiti pre-concordati, come hanno dimostrato le trascrizioni di telefonate fra un noto giornalista tv e un noto leader politico di destra.

Finisce da questo momento l’esclusiva di cui ha goduto fino ad ora Berlusconi: decidere a quale gioco si gioca oggi, quale evento domina la giornata, quale denuncia diventerà titolo nei due terzi dei giornali e nei «lanci» di apertura dei Tg.

D’ora in poi - senza mai adottare lo stesso linguaggio che incoraggia disprezzo - per ogni notizia falsa ci sarà una risposta precisa.

Finisce anche l’altra esclusiva: inventare, se occorre anche dal niente (giornali e giornalisti complici non mancano) una «emergenza» che costringe a tenere a bada per tutto il tempo i pitt-bull dalla Casa delle libertà, con il loro carico di finte denunce, di numeri falsi, di allarme fra i cittadini. In questi casi (che sono quasi quotidiani) montagne di energie si sprecano, disperdendo intanto la guida e la credibilità.

Tutto ciò non può accadere se una grande forza politica propone e conduce il suo disegno in modo che si rovesci la sequenza che ha segnato per anni la politica italiana: dove si va, che cosa si fa, di che cosa si discute, lo decide alla giornata, e secondo i propri interessi, Silvio Berlusconi, da solo. O almeno, così è stato fino ad oggi.

Ma la affollata assemblea di Milano, che annuncia la nascita del Pd, disegna anche lo spazio e il profilo di un nuovo territorio politico, o meglio inizia a tracciare quel disegno. Si può essere in ansia: sarà abbastanza grande questo territorio? Sarà abbastanza grande da accogliere quei milioni di cittadini che hanno detto in tutti i modi la loro speranza, hanno portato nella nuova casa un carico di storia e un carico anche più grande di motivazioni e di attesa? La domanda riguarda il lavoro in corso, il lavoro che comincia adesso, dopo la posa della prima pietra, dopo l’evento di sabato mattina. Ha una grande importanza per svelare il volto del nuovo partito. È importante affinché finisca il tipo di dichiarazione politica che fa oscillare la nuova immagine tra centro (vecchio o nuovo) e sinistra, non tanto nel senso ideologico del passato, quanto con riferimento agli impegni fondamentali del neonato Pd: lavoro, scuola, protezione della salute, precariato, pensioni, pace, Europa, difesa dello stato laico, decisioni su Stato e mercato.

È importante perché consente alle forze politiche impegnate nelle stesse battaglie e animate dalle stesse attese e tensioni, di sapere bene, con evidenza e chiarezza, con chi si misurano, si confrontano, si alleano. Più netto sarà il nuovo profilo, più facile e naturale, ritrovarsi e capirsi, scoraggiando o rendendo inutile la manovra e l’espediente come politica.


* * *


Il nostro Paese finora è stato sfortunato, e la sua sfortuna continua persino quando è al lavoro un governo onesto che sta alacremente riparando i danni peggiori. È il danno di una politica che, quando non è avvelenata e non è teatro, è troppo piccola. Qui sta la vera sfida accettata sabato mattina dalla assemblea del Pd e dal suo segretario che ha assunto ieri il suo impegno: allargare il cerchio, aprire i percorsi, sfondare l’assedio di un nanismo claustrofobico, disegnare uno spazio politico molto più ambizioso e più grande. Così grande da restituire le giuste dimensioni ai personaggi della destra italiana, protezionista, corporativa o non del tutto (non tutti) separata da un brutto passato. Sono dimensioni piccole, sono figure bonsai che non compaiono neppure sul fondale europeo, che non dovrebbero più essere in grado di tenere in ostaggio il Paese Italia.

Tutto ciò potrà iniziare adesso, subito, un’ora dopo l’investitura di Milano. Stando attenti a lasciar crescere la nuova vita politica dalla parte giusta, dalla parte di chi finora ha dato impegno, presenza, voto, stando attenti a non esibire di nuovo nomenklature, come in un museo che non chiude mai. Questo è un inizio, ed è bene che sia vissuto come un inizio da chi finora ha lavorato alla costruzione nuova.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 28.10.07
Modificato il: 28.10.07 alle ore 12.21   
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 31, 2007, 12:25:50 am »

Quell'elogio del giornalismo

Furio Colombo


Lucia Annunziata, editorialista de La Stampa e già direttore del Tg3, non ascolta Radio Radicale.

È un peccato, e poiché la stimo, la prego di farlo e le spiego il perché.

Varie volte al giorno quella radio trasmette uno spot in cui due attori interpretano rispettivamente Bruno Vespa, il noto conduttore di Porta a Porta, e Salvo Sottile, il noto assistente di Gianfranco Fini. Le voci sono teatrali ma le parole sono tratte dai verbali giudiziari. È la famosa telefonata, diventata pietra miliare nelle scuole di comunicazione (perfetto esempio di ciò che non si fa), in cui i due iscritti all’ordine dei giornalisti italiani discutono sul come creare intorno a Fini, allora ministro degli Esteri del governo Berlusconi, la migliore, la più adatta e favorevole trasmissione possibile.

Il conduttore offre amichevolmente tutti gli aggiustamenti immaginabili, finché, attraverso il portavoce Sottile, il ministro Fini (che, ci viene detto dai due, sta assistendo alla conversazione) accetta la composizione del gruppo «come un vestito tagliato su misura» (parole di Vespa).

Ho parlato diffusamente dello spot di Radio Radicale perché ha il merito di avere racchiuso in alcune battute, rigorosamente vere, un’intera epoca del giornalismo italiano. È l’epoca descritta dall’Economist, da Der Spiegel, dallo Zeit, da Indro Montanelli, quando ci ha raccontato come e perché ha lasciato la direzione de Il Giornale, da Enzo Biagi quando ha ricevuto la celebre raccomandata con ricevuta di ritorno perché accusato di «giornalismo criminoso».

Storie passate? Certo, per fortuna. Ma non è passato il conflitto di interessi. Sarà noioso ricordarlo, ma la vasta proprietà Berlusconi non è insediata nel campo dell’alluminio o dell’ottica (in quelle dimensioni una simile ricchezza a disposizione di un politico che guida assalti quotidiani a un governo farebbe paura comunque) ma sta proprio al centro di tutti i tipi di comunicazione italiana e, in parte, anche europea. Dunque, nel nostro Paese il potere, un potere molto pesante, è seduto sul giornalismo.

Tutto ciò è una replica a quanto Lucia Annunziata ha scritto - con vigore indignato - contro le poche e precise affermazioni sui media fatte da Walter Veltroni a Milano nel suo discorso di investitura. Riassumo le parole di Veltroni con quel tanto di parzialità che i lettori mi riconoscono: «Oggi è importante per un leader politico andare poco in televisione perché si entra in un paesaggio alterato in cui fai solo spettacolo». Veltroni ha anche accennato alla stampa scritta che monta intorno a ogni evento un “prima” e un “dopo” (anticipazioni e retroscena) che portano qualsiasi notizia e qualunque dichiarazione nella direzione voluta di volta in volta, a piacere.

Lucia Annunziata sa tutto questo perché ha fatto la giornalista in America, ha studiato giornalismo ad Harvard. In Usa ha imparato perché, nei mesi scorsi, i direttori di due grandi giornali, il New York Times e il Los Angeles Times, hanno chiesto scusa ai lettori per avere diffuso come vere notizie preparate da centri politici non giornalistici. Lucia Annunziata lo sa perché conosce la vicenda di Judith Miller, l’autorevole notista politica del New York Times che ha lavorato a una lunga campagna di disinformazione attraverso il suo giornale ignaro (notizie false ricevute da una fonte ritenuta ineccepibile) finché la brutta vicenda è stata rivelata non da inchieste giornalistiche ma da un’inchiesta giudiziaria.

Per questo, con stima e rispetto, mi sento di ritenere priva di fondamento (e - ho appena dimostrato - non solo nella vita giornalistica italiana) la frase finale dell’articolo domenicale di Lucia Annunziata: «Nella recente ondata di antipolitica è stata messa in discussione la credibilità dei politici, non dei media. Ed è attraverso i media che in questi mesi di tensione le élite di questo Paese stanno tenendo aperta una linea di contatto con i cittadini».

Saranno i retroscena abili e gustosi di Augusto Minzolini, sarà Porta a Porta e i tanti programmi simili, a garantire questo contatto? E ancora: potrebbe esserci un disordine così intenso e anarcoide nel rapporto fra cittadini e politica senza il ruolo attivo e interessato di televisioni e giornali che stanno al gioco o conducono il gioco? Infine: accade tutto ciò per un periodo così prolungato nelle democrazie su cui non grava un gigantesco conflitto di interessi nel cuore del sistema delle comunicazioni?

Pubblicato il: 30.10.07
Modificato il: 30.10.07 alle ore 11.34   
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