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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 79729 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Dicembre 23, 2007, 11:02:15 pm »

Racconto di Natale

Furio Colombo


Ogni Paese, in Europa, ha una sua tradizione per celebrare il fine d’anno e il solstizio d’inverno, una tradizione a volte ancora segnata da tracce di riti e usanze pagane che si intravedono dietro la festa cristiana. Di solito ogni tradizione si compone di due narrazioni, una di cattiveria e di egoismo, l’altra di buoni sentimenti, che poi generano doni.

Nella buona letteratura europea è toccato a Charles Dickens il compito di unire le due storie: l’uomo cattivo e insensibile agli altri, tormentato dai fantasmi del suo egoismo, alla fine deve cedere alla spinta non resistibile della bontà.

Dickens era uno scrittore realistico, con forte coscienza sociale, si direbbe oggi. Ma quel racconto, quando il cattivo signor Scrooge non riesce più a tener testa al fiume di buoni sentimenti, è sempre una fiaba? Non sempre. A volte è politica.

Per esempio la Svizzera. Forse non c’entra il Natale. Ma il governo e il Parlamento di quel Paese hanno deciso, nei giorni scorsi, di rimuovere il signor Blocher dal compito di capo del governo che gli era stato assegnato dopo una clamorosa vittoria elettorale. Blocher è un miliardario e un razzista, ha finanziato senza limiti la peggiore campagna elettorale del suo Paese, ha vinto con largo margine e si è insediato al centro del potere. Ma qui comincia il secondo racconto. Blocher ha coperto la Svizzera di manifesti in cui compare il volto di un immigrato nero e la frase «non venire, qui morirai di fame». Per dire: «Noi, a te, non daremo lavoro». Chi concepisce manifesti del genere ha anche un suo linguaggio da cui non può separarsi. E dunque la Svizzera - che pure aveva votato Blocher dopo essere stata travolta da un’ondata di paura per lo straniero - ha dovuto chiedersi se accettare come identità del Paese quei manifesti, quelle parole, quel personaggio. Ha deciso di no. Ha chiesto a Blocher di farsi da parte, anzi glielo ha imposto. Il suo partito ha vinto e potrà indicare un’altra persona per guidare il governo. Ma non Blocher, non il peggio. Un Paese ha una dignità e un’immagine che non possono coincidere con la visione rigorosamente razzista del miliardario Blocher.

È lo stesso percorso lungo il quale, anni fa, ma in questa stessa imperfetta Europa contemporanea, i francesi hanno detto no al razzista Le Pen e gli austriaci si sono liberati di un premier come Haider. La democrazia arriva carica di errori ma, specialmente se assistita dal Babbo Natale della stampa libera, sa dove scaricare il carbone e come sgombrare il campo da ciò che offende i cittadini e il comune senso del pudore. È lo stesso percorso, il racconto di Natale con il cattivo che deve arrendersi al bene, che si è compiuto in questi giorni in California. Nella prima parte del racconto il presidente americano Bush oppone il suo veto alla legge «socialista» appena approvata dal Congresso che prevede cure mediche gratuite per tutti i bambini d’America. Ma la seconda parte del racconto è la più interessante: il governatore Schwarzenegger, repubblicano come Bush ma umano come il Congresso democratico, ha presentato la sua legge salva-bambini. Tutte le cure sono gratuite e durano finché dura la malattia, non fino alla scadenza dell’età infantile.

L’Italia entra in questa tradizione della storia buona di Natale con la tenacia e la bravura con cui ha proposto - e ottenuto da un primo voto della Assemblea Generale dell’Onu - la sospensione delle esecuzioni (moratoria) della pena di morte nel mondo. Ha usato un misto di tenacia e prudenza, di ostinazione e rispetto, di gentilezza e fermezza che onora il Governo italiano e l’azione del suo ministro degli Esteri (altri governi, distratti o neghittosi, non si erano mai impegnati tanto). Ma senza dimenticare che quel modello di comportamento ha la sua impronta originaria nella storia dei radicali di Pannella e Bonino, tante battaglie perdute, tante battaglie mai finite, alcune vittorie che hanno cambiato il Paese Italia. Una, quest’ultima, che - dalle tre stanze di una stradina di Roma, potrà forse cambiare il mondo. Non c’è esagerazione nel dirlo, soltanto cronaca, cronaca di Natale, se pensate quanto ha contato il simbolo di una «Marcia di Natale» contro la pena di morte a cui ha partecipato anche Giorgio Napolitano che allora non era ancora Capo dello Stato.

Ma poi l’Italia ne esce bruscamente con alcune vicende diverse e tristi, altrettanto coinvolgenti perché in nessuna di esse si vede l’uscita di sicurezza, quell’esito inaspettato e risolutivo che tutte le tradizioni narrative hanno sempre proposto.

La prima vicenda riguarda l’orrore del lavoro oggi in Italia, quel padre che, accanto al figlio morto bruciato a Torino, rimprovera se stesso per avere esortato suo figlio ad accettare il lavoro alle acciaierie ThyssenKrupp. «È un lavoro fisso, dura tutta la vita» avrà detto il padre che vedeva intorno le fila sconsolate dei ragazzi precari. La vita, nel caso di quel ragazzo e dei suoi compagni morti bruciati, è durata solo 26 anni.

E diciamo la verità. Quella vicenda l’abbiamo celebrata come una disgrazia grave ma che nella realtà può sempre accadere. Si fa un funerale in televisione, si fa un minuto di silenzio e poi si va al prossimo convegno sul costo del lavoro, sulla competitività e sulla celebrazione della flessibilità come sola strada - ti dicono - che porta al futuro.

Possibile che tanti esperti, anche con rilevanti curricula accademici, non si siano accorti che, togliendo ogni attenzione rispetto, rilevanza del lavoro, visto come «problema» invece che come l’altra parte del capitale, si semina morte? Possibile che non si veda il filo di connessione fra lo screditamento sistemativo del lavoro, presentato come la retroguardia frenante di imprese che altrimenti prenderebbero il volo, e il moltiplicarsi dei morti, che si accumulano anche mentre sono in corso celebrazioni di altri morti? In questa vicenda la seconda parte della storia - per esempio un convegno in cui almeno simbolicamente imprenditori ed esperti si occupano delle condizioni del lavoro, oggi, in Italia, non gente di sinistra, solo gente normale - continua a mancare. E il Natale di chi lavora, affannato anche dalla impennata dei costi di tutto, rimane disadorno.


* * *


Poi c’è la Lega. Parlo del partito di Bossi, della sua vitalità tetra e punitiva, sempre in cerca del peggiore alleato e del nemico da indicare alla folla. La Lega è il braccio armato di Berlusconi. Rappresenta tranquillamente le cose peggiori, nel più squilibrato dei modi (nel senso di incoerente, contraddittorio, pericoloso). Ma i leghisti dicono anche le cose più disumane, sicuri che tra minacce fisiche e intimidazioni a giornali spaventati dal boicottaggio, la passeranno liscia anche quando superano un segno che nessun paese europeo si sentirebbe di tollerare. Il segno lo hanno certamente passato nella loro manifestazione di Milano a sostegno dei “sindaci padani”. Che cosa vuol dire oggi, in Italia, «sindaco padano»? Vuol dire assumersi l’autorità, che non hanno, di espellere chi vogliono, quando vogliono, di proibire ai bambini immigrati la scuola e persino l’asilo, un tipo di barbarie di cui non si ha notizia in tutto il mondo civile. Basta dichiarare che le persone, le famiglie espulse, non hanno lavoro certo e reddito fisso, come tutti gli immigrati del mondo. È una regola che avrebbe cancellato tutta l’immigrazione italiana, irlandese, ebrea nell’America di cento anni fa, ovvero coloro che, con genio e lavoro, hanno fatto grande e unico quel Paese. Sarebbe importante leggere la storia di quelle ondate di immigrazione. Negli Stati Uniti, si studia fin dalle scuole elementari: quasi nessuno, di quei disperati immigranti, ha avuto per anni un lavoro fisso o un reddito certo, due tratti che sono per forza estranei alla vita dei poveri in cerca di sopravvivenza, anche perché, nel mondo disordinato di allora, nel mondo disordinato di adesso, tra necessità e pregiudizio, tra bisogno di sopravvivenza e ricerca di qualcuno che faccia mestieri che nessuno fa, il raccordo si forma faticosamente e senza simmetrie istantanee, che sono pura finzione.

Le patetiche figure dei cosiddetti «sindaci padani» che preparano il clima per disumane iniziative tipo Gentilini e Borghezio, vengono avanti con la sciarpa verde invece della sciarpa tricolore, che indossano i sindaci italiani. E’ un gesto che non potrebbero compiere in nessun altro angolo d’Europa. E in mezzo a loro, come in un vecchio film di Bob Hope, ma senza allegria, spuntano le facce dei patriottici esponenti di Alleanza Nazionale La Russa e Ronchi. Applaudono e approvano (cosa c’è di meglio di uno sfregio al Tricolore per le due faccine del partito nazionalista italiano?) e dicono ai giornali con una voce sola: «i rapporti con la Lega sono sempre stati ottimi». Sul fondo si ode la folla che urla «secessione, secessione».

Qualcuno più attento di loro (fra i grandi quotidiani italiani, Alessandro Trocino, Il Corriere della Sera, 17 dicembre), si è accorto dell’altro grido della folla leghista: «Montalcini fa in fretta, c’è Biagi che ti aspetta». Ma la maggior parte dei giornali, benevoli e guardinghi come al solito, quando trattano della Lega, saltano le invocazioni barbare e i ricorrenti riferimenti ai fucili e si sentono più al sicuro descrivendo così il capo lega Bossi, inventore della peggiore e più umiliante politica italiana: «Mezzo toscano in bocca, la voce roca per il gran freddo, il leader della Lega si affaccia sul palco in piazza del Duomo per gli auguri di Natale e cantare “Oh mia bela madunina”». Potrebbe essere, per un lettore inconsapevole della cattiveria volgare che dilaga in Italia, il ritratto di un Pertini o di un Altiero Spinelli in versione popolare. Eppure - mentre la folla ripete «Montalcini fa in fretta, c’è Biagi che ti aspetta» - il capo del braccio armato di casa Previti e casa dell’Utri scandisce: «Il Paese è stufo di illegalità, non toccate i sindaci padani se no mi muovo io...». Un po’ imbarazzante,d’accordo, se non ci fosse anche la minaccia fisica. Bossi sta di nuovo annunciando che dispone di squadre pronte a mobilitarsi. Verranno avanti dalla mucillagine, la metafora triste con cui De Rita e il Censis hanno descritto l’Italia di oggi. Certo l’Italia di Bossi.


* * *


Intanto al Senato, il capo lega padano Castelli si alza ogni cinque minuti per difendere con furore e passione l’ex comandante italiano della Guardia di Finanza, il generale Speciale, più noto per le sue vacanze in aereo di Stato che per le sue battaglie alla malavita. E mentre la vera Guardia di Finanza alacremente lavora (e con successo) a stanare evasori miliardari, Castelli e l’intero gruppo degli allegri senatori leghisti - che applaudivano in prima fila a Venezia, quando Bossi spiegava come usare la bandiera italiana nel cesso - si alzano come una squadrone di fedeli alla patria e alla tradizione nazionale, per elogiare, esaltare e invocare il generale disubbidiente. Certo non celebrano le tasse, che maledicono in ogni altro intervento, spiegando che Padoa Schioppa e Visco e le tasse hanno ridotto il Paese in rovina. Le loro invocazioni inneggianti a un ex generale della Repubblica italiana la cui unità essi tuttora contestano si deve al comprensibile furore per un mancato golpe. Nel cielo vuoto della cattiva politica i tratti di volgarità si riconoscono affini e si associano in un vincolo fondato sulla invettiva.

«Montalcini fa in fretta, c’è Biagi che ti aspetta». Come vedete la storia italiana di Natale non finisce bene, non per ora, non con questa gente, non in questo Natale. Ed è ancora più triste, in giorni come questi, che i difensori degli embrioni e della famiglia non abbiano sentito il bisogno di schierarsi subito dalla parte degli immigrati che stanno per essere deportati dai sindaci in sciarpa verde, se scoperti ad essere poveri.

Ed è triste che finora non abbiano avuto nulla da dire sulla infinita volgarità della folla (che forse, per fortuna, non era folla) di piazza del Duomo, a Milano. Non sto cercando il lieto fine che non c’è. Sto dicendo che se coloro che si stringono intorno al Papa si ritrovassero a anche intorno alla comune difesa di alcuni grandi valori umani, comincerebbe la costruzione del legame di cui abbiamo disperatamente bisogno.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 23.12.07
Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.03   
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« Risposta #46 inserito:: Dicembre 30, 2007, 04:39:49 pm »

La moratoria americana

Furio Colombo


C´è una guerra che continua in America, almeno secondo il presidente Bush che ha appena firmato un rifinanziamento per restare in Iraq contro il parere del suo Parlamento, e in attesa che un nuovo presidente trovi una via d´uscita.

Ma c´è una guerra che finisce in America, quella contro la pena di morte, con le sue centinaia di caduti. Giornali e televisioni, da un lato all´altro del Paese, da una parte politica all´altra, chiudono l´avventuroso 2007 con queste tre notizie.

La prima è che due importanti Stati americani, il New Jersey e il Minnesota, hanno abolito per legge le esecuzioni capitali. Fatti come questo sono un sintomo e un simbolo.

La seconda è che dovunque negli Usa, salvo che nel Texas, meno del 40 per cento degli americani è adesso in favore della pena di morte. È un crollo senza precedenti del sostegno di cui finora ha goduto la morte legale.

La terza è che la Corte Suprema - che pure è a forte maggioranza conservatrice - ha accettato di dibattere una questione essenziale delle esecuzioni capitali: se non siano troppo crudeli. La domanda può apparire strana e futile, ma è l´esito di un percorso abile scelto dagli avversari dei boia. Infatti la Costituzione americana vieta che una pena, qualsiasi pena, sia «inutilmente crudele». Coloro che si oppongono alla pena capitale negli Usa hanno deciso di dibattere non il principio ma la modalità: sia iniezione che sedia elettrica sono tormenti prolungati - e non istantanei come si crede - dunque di una evidente, inaccettabile crudeltà.

Scrive il New York Times del 26 dicembre: «Stiamo andando verso una vera e propria moratoria». Non credo che usi la parola a caso. La parola del resto si ascolta con frequenza in televisione con o senza riferimenti alla straordinaria iniziativa italiana (Partito Radicale più governo) e al successo di tale iniziativa all´Onu.

In ogni caso la moratoria americana sta avvenendo in modo più rapido del previsto: tutti gli Stati americani - tranne il Texas - hanno diminuito in pochi anni le esecuzioni in modo formale, dichiarando l´alt per legge, o di fatto, perché sempre meno condanne vengono eseguite. E sempre meno leader politici (nessuno questa volta fra i candidati democratici) si fa campione attivo della pena di morte perché i sondaggi lo avvertono che - misteriosamente - si è perduto il sostegno.

Qui vale la pena di ricordare un intervento pubblico del responsabile dei rapporti con l´Europa al Dipartimento di Stato, pubblicato in Italia il 23 dicembre. Il funzionario del Dipartimento di Stato John R. Smith, nella sua dichiarazione, sembrava irritato dal successo della moratoria proposta dal Partito Radicale in Italia, diventata impegno italiano, poi consenso europeo, poi voto delle Nazioni Unite. Stranamente Smith, evidentemente ignaro di quanto i giornali americani avrebbero pubblicato appena pochi giorni dopo, ha deciso di interpretare la moratoria della pena di morte come un gesto antiamericano. Eppure è vistosamente chiaro a tutti il contrario. I sostenitori degli Stati Uniti e della sua cultura non vogliono vedere quel Paese nella stessa lista dei peggiori e più assidui protagonisti della pena di morte nel mondo come il Pakistan, alcuni Paesi arabi e africani e la Cina. Ma il diplomatico americano diceva anche: «È una piccola irrilevante questione che forse mobilita l´Europa ma che non interessa gli americani». Spesso l´ideologia è cieca perché abbagliata dalle sue persuasioni. Sono bastati pochi giorni perché diventasse evidente l´errore di un presunto esperto.

* * *

L´America si occupa della pena di morte. L´America si interessa alla moratoria. L´America la sostiene e la vota in molti Stati. Il lugubre treno della pena di morte lentamente sta andando via.

Niente nel mondo globale avviene in un luogo solo. E forse - con tutti i suoi pericoli e le sue trappole - il mondo globale ci sta mostrando che una piccola luce accesa a Roma dalla ostinazione ormai più che decennale dei Radicali (che ha trovato fraterno sostegno nella Comunità di Sant´Egidio e poi nella politica di questo governo) ha finito per raggiungere il cuore della vita americana. In essa una lotta tenace e senza soste contro la pena di morte durava senza risultati e senza cedimenti da oltre tre decenni.

Chi osserva l´America - e chi la ama - sa che l´entusiasmo per la pena di morte si espande sempre nei periodi peggiori della storia di questo Paese. E che la presa del boia si allenta quando torna a prevalere il senso di responsabilità generosa che ha fatto degli Usa, da Roosevelt a Kennedy a Clinton non un modello imperiale ma un percorso per convivere con un po´ meno di diseguaglianze e di infelicità, e con un po´ più di rispetto. È il passaggio dall´uso del cosiddetto "hard power" che è in sé un impulso discrezionale e distruttivo, alla scelta del "soft power" fondato sulla tolleranza e la determinazione a convivere.

Ciò non vuol dire che il principio e la pratica della pena di morte siano legati alla guerra. Ma certo la guerra - come la pena di morte - è parte di una visione antica e rigida del mondo fondata sulla potenza dello Stato verso i suoi cittadini e sull´uso esterno (tra Stati) di quella potenza. E ciò non vuol dire che la rinuncia alla esecuzione capitale significa pacifismo. Il suo senso è meno automatico e più vasto. È il prevalere del dibattito giuridico sull´ultima parola del boia e del ritorno pieno della politica (opzioni, scelte, persuasioni, influenze) sull´irrimediabile colpo di maglio della guerra. In tutti e due i casi torna in scena una civiltà che preferisce, anche attraverso le lungaggini dei processi e i percorsi defatiganti delle trattative, mettere al sicuro la vita degli innocenti piuttosto che rischiarla, senza un secondo pensiero sul tavolo di decisioni che hanno l´aria di essere coraggiose e definitive ma lasciano il loro unico segno nella eliminazione delle vite umane.

È importante una constatazione: se lasciati liberi, se non incalzati da continue e pubbliche obiezioni, i sostenitori della pena di morte tendono a dare più pena di morte.

I commentatori americani della moratoria di fatto che sta avvenendo in questi mesi negli Stati Uniti hanno fatto notare la differenza di numeri di persone messe a morte in tutti gli Stati americani, a confronto con il Texas. Questo numero diminuisce di anno in anno, di mese in mese dovunque vi siano dubbi, incertezze e intensi dibattiti sulla pena capitale. E tende a salire o a restare alto e fermo (26 esecuzioni in Texas nell´ultimo anno) dove la pena di morte è ancora un mito intatto. Eppure quel mito è vistosamente sconnesso da cause e da effetti: infatti, se la pena di morte fosse efficace, il boia lavorerebbe sempre meno. In Texas lavora di più.

Le cifre sono queste: il Texas mette a morte il sessanta per cento di tutti i condannati americani. Ma adesso, mentre la moratoria americana (spinta perché negarlo dalla vittoria italiana alle Nazioni Unite?) si è messa in moto, il Texas e il numero dei suoi morti per esecuzione, appare come un monumento cupo e solitario in mezzo all´America. Quanti, per quanto tempo, vorranno essere guardie d´onore di quel monumento?

Il dibattito che ormai divampa in America e lambisce le due aree della persuasione politica, rivela un tratto umano e caratteriale interessante: i sostenitori della pena di morte tendono a rendere breve, rigido e impenetrabile il periodo fra la sentenza e l'esecuzione. In Texas i giudici rifiutano nuove prove, respingono automaticamente i dubbi attraverso meccanismi giuridici che condannano sempre i più poveri, privi di difesa, incapaci di opporsi. In ogni caso una tendenza è evidente: la sentenza di morte, per il solo fatto di essere finale, capitale, viene accettata e anzi esaltata come l´ultima parola. All´ultima parola si attribuisce qualcosa di sacro, e ogni interferenza con quell´ultima parola viene vista come futile e portatrice di disordine. Sentenza, esecuzione della sentenza e morte del condannato vengono percepite religiosamente come la conclusione, dunque la fine del male che lava il male, qualcosa di cui non si deve più parlare.

Quel che succede adesso è che un´America vigile e laica si sta staccando dal macabro fascino religioso della morte del condannato come legittima fine del dubbio. E comincia la moratoria, che nega alla radice le improvvisate dichiarazioni del funzionario Smith secondo cui essere contro la pena di morte vuol dire essere contro l´America.

***

Ma questo - esattamente come ciò che era accaduto quando l´opinione pubblica americana guidata da Bob Kennedy si era separata dalla guerra nel Vietnam - è anche un dibattito sull´uso della potenza come risposta definitiva.

Non c´è risposta finale e definitiva ai tormenti del mondo, compresi quelli che hanno coinvolto l´America con il terrorismo, gli attentati riusciti e quelli sventati. La risposta - proprio per chi è titolare della potenza - è in un esemplare percorso di conoscenza, diplomazia, valutazione e comprensione politica, volontà di capire e di essere capiti, ostinazione ad arginare il peggio e a diminuire il pericolo invece di rispondere portando altro pericolo.

È il modo ragionevole e civile in cui - invece dell´ultima parola - c´è la parola che continua, il legame fra umani che non si spezza perché, anche nelle condizioni più difficili, non si spezza l´umanità dell´uno e dell´altro, e non si decide di gettare in mezzo alla mischia gli innocenti. Il rischio inaccettabile di uccidere un innocente, il non diritto di eliminare un colpevole, i due principi che hanno messo in moto la moratoria radicale, poi quella italiana, poi quella europea e - adesso, come si vede - quella americana, sono principi che diventeranno la politica di un mondo globale, dove le parti sono capaci di guardarsi negli occhi? Diciamo che - se non è ancora la promessa di un nuovo mondo, è l´augurio e l´attesa del Nuovo Anno - diciamolo nonostante i tremendi delitti politici e quotidiani che continuano a irrompere sulla scena.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 30.12.07
Modificato il: 30.12.07 alle ore 10.23   
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 05, 2008, 06:46:45 pm »

Il vecchio e il nuovo

Furio Colombo


Iowa. Prima prova delle primarie democratiche americane. Ha vinto Barack Obama, giovane, senatore, nero, e vera sorpresa della vita pubblica americana. Attenzione. Sorpresa non è la sua vittoria, che almeno in questa prima prova non era affatto improbabile. Sorpresa non è che un giovane politico nero abbia vinto in uno Stato americano agricolo, conservatore e quasi senza neri. Sorpresa è che la gente dello Iowa, o almeno la minoranza che ha partecipato ai cosiddetti caucus, abbia scelto il più nuovo, il meno «politichese» dei partecipanti alla gara.

Poi bisognerà domandarsi come è avvenuto che un senatore celebre, corteggiato, citato, amato, molto «dentro» la vita politica washingtoniana, sia stato accolto come un «nuovo», come una alternativa capace di oscurare non solo la navigatissima Hillary Clinton ma anche il combattivo John Edwards, personaggio politico che ha scelto una posizione che l’Europa definirebbe «di sinistra».

Forse, per capire, ci aiuta uno sguardo all’esito delle primarie repubblicane, lo stesso giorno, nello stesso Stato. La prova, su quel versante, è più dura. I candidati non possono essere «per Bush» la cui impopolarità è abissale anche fra i conservatori. Ma non possono essere «contro Bush», o mostrare troppo distacco perché, con tutti i suoi errori, Bush è pur sempre modello indiscutibile di politica conservatrice. Che poi quella politica continui a dare esiti e risultati drammatici (la Borsa è nel panico, i fondi immobiliari hanno scosso la fiducia di buona parte degli elettori di destra, per la prima volta in molti anni la disoccupazione torna a salire) tutto ciò ha costretto i candidati repubblicani a tentar percorsi di colore o a esibire proprio gli aspetti di solito non adatti a diventare candidato preferito. Giuliani ha un passato di divorzi tempestosi e non privi di scandalo, con colorite narrazioni delle ex mogli.

Mitt Romney è di religione mormone, una setta cristiana di origine relativamente recente (poco più di un secolo) che permette (secondo alcuni predicatori) la poligamia.

L’anziano senatore John McCain ha avuto l’idea non proprio popolare di aumentare le truppe americane in Iraq e in Afghanistan. Ma il problema con cui si confronta e che lascia perplessi anche gli elettori teoricamente favorevoli, è un insuperabile ostacolo: non esiste più la coscrizione militare obbligatoria in America. Come aumentare da un giorno all’altro le dimensioni di una armata professionale basata sull’arruolamento volontario che oltre cinque anni di guerra, finora senza uscita, hanno di fatto bloccato, perché sempre meno giovani si arruolano in guerre lontane con motivazioni confuse e tuttora senza esito?

Resta il «nuovo» della destra americana, il reverendo Mike Huckabee, già predicatore battista, già gradevole cantante e suonatore di chitarra (temi strettamente religiosi) già governatore dell’Arkansas, lo stesso Stato di cui era stato governatore Bill Clinton. E infatti Huckabee ha vinto. A destra. Ha vinto perché, come Obama sulla sinistra, appare coerente, nuovo, estraneo allo establishment. E con l’aria di promettere qualcosa non ancora enunciato, ma che viene percepito come diverso.

Può essere utile notare le affinità fra i due vincitori. Entrambi hanno preso posizioni sorprendenti e tendenzialmente sgradite per la maggioranza dei loro elettori. Huckabee, che pure è un conservatore di destra, ha scelto di sostenere le cure e le medicine gratuite per i bambini americani, una decisione contro cui tutta la destra americana, e tutte le compagnie di assicurazione di quel Paese, si battono con accanimento e larghezza di mezzi.

Barack Obama, che pure rischiava di apparire ostile alla maggioranza nera dei soldati americani, ha votato contro la guerra e ha mantenuto quella posizione benché il rischio di apparire antipatriottico e «disfattista» anche agli occhi di molti elettori democratici era molto grande. Contro sondaggi favorevoli alla guerra fin quasi all’ottanta per cento, Barack Obama ha mantenuto la sua decisione antiguerra. Le vicende gli hanno dato ragione, le stesse vicende che adesso sono un imbarazzo da giustificare per Hillary Clinton e per John Edwards.

Dunque hanno vinto, a destra e a sinistra, le due figure più nitide, più chiaramente distinguibili nell’affollato orizzonte politico americano, quelle intorno a cui - prendere o lasciare - c’era (c’è) meno ambiguità e più chiarezza.

La domanda cruciale adesso è: che cosa conta, quanto conta questa vittoria?

Di certo rende più intensa l’attenzione su due figure che adesso appaiono sicuramente di primo piano. La vittoria dello Iowa però è molto più importante per Huckabee che per Barack Obama.

Huckabee viene dal freddo della scarsa notorietà e del colore locale e diventa di colpo personaggio nazionale. Nessuno dei suoi avversari appare una vera minaccia.

Giuliani è troppo newyorkese e troppo divorziato. McCain è troppo militare. Mitt Romney è religioso come Huckabee, ma viene da un angolo angusto e discusso della fede cristiana. Tutti restano in corsa ma Huckabee è certo in testa, al momento.

Obama è in testa ma con due prove dure ancora da superare. La prima è: i neri d’America fino a che punto lo sentono come il loro candidato, dal momento che il giovane senatore ha tanto successo con i bianchi, e soprattutto con l’establishment bianco? Se i neri gli si stringono intorno rischiano di farne un campione minoritario. Se restano a distanza potrebbe mancargli una parte cruciale di elettorato.

La seconda prova è Hillary Clinton. Battuta, ma fino a quando? E non avrà ottime occasioni di risalita proprio perché è un personaggio politico più eclettico e flessibile, più agile di fronte al mutare di umore dell’opinione pubblica, in un’epoca storica in cui tutto cambia continuamente?

Il confronto è appena iniziato. Le prossime primarie del New Hampshire, storicamente fonte di indicazioni preziose, ci diranno ciò che lo Iowa ancora non ci ha detto. Chi sta davvero cercando l’America come nuovo leader?

Una cosa è certa. È un Paese fortunato. Ha uno schieramento di candidati di sinistra e di destra che meritano attenzione. E nessuno di essi possiede metà delle televisioni del Paese. Altrimenti non potrebbe candidarsi.


Pubblicato il: 05.01.08
Modificato il: 05.01.08 alle ore 13.59   
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 06, 2008, 11:46:50 pm »

La famiglia riposi in pace

Furio Colombo


Comincerò dal motore caldo che muove, in questi giorni, la Repubblica italiana e l’intero schieramento della sua politica. Ogni Paese, per ragioni mediatiche, per ragioni politiche, e in dialogo con la sua opinione pubblica, ha un motore caldo che per certi periodi fa girare notizie, impone attenzione, determina aggregazioni e contrapposizioni. In Usa sono le elezioni primarie per interpretare il futuro, il Francia è la fluviale conversazione su Sarkozy: così originale e macho, è molto meglio o molto peggio dei suoi compassati predecessori?

In Inghilterra è lo stallo fra due partiti rispettabili e stimati, laburisti e conservatori. Il dibattito è come distinguerli. In Germania la «conservatrice» Angela Merkel è così social democratica da costringere i socialdemocratici doc a spostarsi a sinistra. Insomma Paesi fortunati, dove la politica è un’attività seria, dove nessun miliardario estroso fonda un partito, lo lascia a una badante, e poi se ne va alle Bahamas.

In Italia è diverso. In Italia il miliardario, che indossa un girocollo tipo architetto geniale, e continua a ripetere, con lo stesso sorriso (che in omaggio alla festa dell’Epifania, qui non sarà descritto) le stesse cose sui comunisti che se ne devono andare perché solo lui è degno di governare, può benissimo godersi la vacanza. Infatti gli hanno appena consegnato e attivato un motorino che ronza in ogni angolo della Repubblica e rende i migliori cervelli occupati e preoccupati. L’hanno chiamato «la moratoria dell’aborto». E passi per il plagio al successo dei Radicali italiani e del Governo per il voto ottenuto all’Onu: sì alla moratoria mondiale della pena di morte.

Quello che interessa e che intriga è il senso e la ragione stessa di esistere del marchingegno. Persino il Papa - certo il Cardinale Ruini - ha certo pensato che si trattasse di una nobile discesa in campo di certi laici, un tempo spericolati, in difesa del divieto assoluto e perenne dell’aborto. Invece no. L’aborto è un imballaggio, destinato se mai a inquinare il paesaggio come gli imballaggi che assediano la periferia di Napoli.

Dentro l’imballaggio, di cui tutti discutono con vampate di cultura teologica che passa trasversalmente da un versante politico all’altro e converte ex fascisti della prima ora e marxisti ante-marcia (prima cioè del ’68), c’è una geniale macchinetta.

Appena liberata dal venerabile involucro, ha un solo scopo, che è insieme missione politica e scherzo goliardico: spacca il Partito democratico. Il marchingegno funziona così, per chi casca nel gioco, un po’ ignobile ma pensato con estro tanto malevolo quanto geniale: divarica le sponde (quella vagamente laica e quella vagamente religiosa) del Partito democratico, accende improvvisi intransigenti furori, che, come scintille di un incendio estivo, si propagano in modo quasi istantaneo a ogni altro punto dello schieramento politico. Le azioni si fanno concitate, i linguaggi sgradevoli, le minacce dilagano dalla intimidazione a non restare nello stesso partito fino alle ipotesi di tradimento, ma anche all’accusa di ateismo come cancro della politica, alla minaccia dell’inferno come destinazione naturale dei miscredenti. Si intravede la fine, che è proprio quella voluta dalla macchinetta avvelenata: il peccato mortale. Piuttosto che stare insieme con gli atei con inclinazioni assassine, è meglio tradire e “votare con loro”.

“Loro” sono i devoti e cristianissimi sospetti di mafia, condannati per corruzione di giudici, eletti e rieletti nonostante imputazioni e condanne, una allegra banda di male accasati che vivono con altre mogli, generano affettuosamente e altrove altri figli, raccomandano alla televisione di Stato ragazze del mercato privato, dopo avere verificato di persona il prodotto alla Farnesina, quando erano accampati in quel Ministero.

E qui diventa chiaro un fatto insolito a cui non si era pensato. Non è Il Foglio, docile e sottomesso credente, che segue il Papa. È il Papa - o almeno i suoi cardinali prestati alla politica - che segue Il Foglio. Riconoscono la genialità del marchingegno, la trappola del tradimento annunciato, che non è cattiva volontà di questo o quel senatore (senatrice) credente. È una sorta di obbligo prefigurato che al momento giusto - quando c’è, mettiamo, un solo senatore dell’Unione in più in Aula - fa scattare fuori dalla scatola il dio di cartone del premiato giornale.

Infatti Dio non c’entra niente e non ha mai detto né dice tutte le sere, in tutti i telegiornali, qualunque sia la notizia, che Prodi deve andare a casa.

Questa che stiamo discutendo, anche se in apparenza riguarda - ci dicono - le vite innocenti dei nascituri, in realtà è niente altro che la voce e la volontà di Berlusconi travestita da voce e volontà di Dio. Non l’aborto, intendiamoci, che è un indecente pretesto. Non l’angoscia e il dilemma delle madri e il severo e immutabile ammonimento della Chiesa. Qui si gioca una sola vita, quella di un secondo governo Berlusconi, che speriamo non nasca mai (ricordate? Crescita zero!). È anzi la miglior ragione per restare abortisti.

Su tutto il resto l’importante discorso è grande, civile, aperto e - come dice Marco Cappato a nome dei Radicali - non ci sono totem e non ci sono tabù (salvo il rispetto - questo sì, non negoziabile, del diritto delle donne a decidere sul proprio corpo).

Ma sulla gestazione di un Berlusconi bis che potrebbe tornare a mettere fuori la testa, con la maglietta girocollo e il sorriso-vendita, la risposta, sia teologica che pratica, non può che essere no.


* * *


«Noi vogliam Dio» dice un inno cristiano che è un atto di fede. Ma possibile che Dio voglia Berlusconi? Infatti un conto è permettere, per ragioni imperscrutabili, cose tremende nell’altra vita. Un conto è organizzarci per volerle adesso, in Italia, a breve scadenza. E qui bisogna dire che la crociata del finto aborto, del tradimento indotto nei credenti, e del vero esito programmato, che è la liquidazione di Prodi, una crociata farsesca che sta già mobilitando nobili discussioni, fieri scontri e - finora - solo poche denunce per la incredibile messa in scena, difficilmente proponibile in Paesi meglio serviti da stampa e Tv indipendenti, bisogna dire che questa crociata non è isolata.

Il Papa sarà anche - come è lecito pensare - un lettore ammirato del Foglio (ammirato, se non altro, dal cubo di Rubik che, su questo argomento Il Foglio ha inventato). Ma di suo fa davvero - e con grande autorità - tutto il possibile per spaccare il neonato Partito democratico e per indurre le sue componenti altrettanto nobili ma profondamente diverse, a scontrarsi e - se Dio vorrà - a dissociarsi.

Come lo fa? Ma, per esempio, con l’affermazione molto celebrata ma certamente stravagante secondo cui «negare la famiglia minaccia la pace» (titolo del Corriere della Sera, 2 gennaio). Un bel colpo in più alle coppie di fatto descritte come una minaccia di guerra.

Vero, i titoli estremizzano. Le frasi esatte sono «la famiglia naturale fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna è culla della vita e dell’amore, e insostituibile educatrice alla pace».

È evidente che questa prima frase, che viene interpretata come un precetto e un comandamento, sia niente di più di un benevolo augurio per la istituzione famiglia che - insegna la vita, ma anche le statistiche, ma anche i commissariati di polizia, ma anche i tribunali, ma anche le cronache - è la più ambigua delle istituzioni umane nel senso che - come anche la letteratura dimostra - è il migliore e il peggiore contesto sociale che si conosca. Si presta alla esortazione, alla protezione, a un intenso lavoro per allargare il meglio e ridurre il peggio.

Non si presta a servire da modello assoluto. Nessun riscontro fattuale, statistico, sociologico ci dice che lo è. Al contrario, molto di ciò che sappiamo della famiglia è una collezione di promesse, speranze, pericoli, fallimenti e tragedie. La stessa definizione di famiglia offerta come unica dal Papa è in sospeso nei secoli fra donne schiave, condannate a lungo, anche nei Paesi cristiani, per colpe da cui gli uomini sono sempre stati esenti, e donne partner che co-decidono delle scelte di casa e dei figli; fra donne fattrici di figli quasi fino alla morte e donne apprezzate (ma poco, ma tardi) per le loro qualità di persone.

Ma c’è una seconda frase che è certamente ispirata a buoni sentimenti ed è certamente non vera: «Lo stesso amore che costruisce e tiene unita la famiglia, cellula viva della società, favorisce l’instaurarsi fra i popoli della terra di quei rapporti di solidarietà e di collaborazione che si addicono a membri della unica famiglia umana». Eppure Ratzinger dovrebbe aver presente la storia esemplare della famiglia Goebbels, una famiglia molto legata e affiatata in cui il padre e la madre hanno ucciso i loro quattro bambini col cianuro «perché non cadessero in mani comuniste». E sono state una infinita catena di buone e amorevoli famiglie cristiane a rendere possibile l’individuazione, l’isolamento, l’arresto, la deportazione, lo sterminio di una infinita catena di buone e amorevoli famiglie ebree, senza alcuna esclusione per i bambini.

Chi indebolisce la famiglia, questa grande e ambigua istituzione umana? Lo dice di nuovo il Papa: i colpevoli sono coloro che hanno in mente strane e peccaminose aggregazioni alternative, come due che si amano e non si sposano o (Dio ce ne scampi e liberi) due che si amano e sono dello stesso sesso. Ecco, ci dice il Papa, i nemici della pace. E’ una affermazione senza alcun fondamento perché non si sa di quale pace Benedetto XVI stia parlando. Non ha mai visto il Papa in quel telegiornale della sera che, ci dicono i quotidiani il Pontefice non perde mai, la tragica fierezza della madre del kamikaze (che a volte è un bambino) quando avvengono i lugubri festeggiamenti dopo “il martirio”?

È vero che la famiglia umana può essere «comunità di pace», vorremmo dire al Papa con tutto il rispetto del mondo, dopo avere ricordato terribili fatti veri del passato e dei nostri giorni. Ma è vero di qualunque famiglia umana in cui c’è amore, rispetto, lealtà e legame profondo. È il mondo in cui i sofferenti come Piergiorgio Welby non vengono lasciati morire di dolore e poi abbandonati fuori dalla chiesa senza una parola di conforto e di solidarietà per la famiglia.

Forse è il caso di ricordare che ci sono famiglie esemplari e famiglie di mafia, famiglie che danno la caccia agli zingari e famiglie che li accolgono. E famiglie che accettano e amano e sostengono i loro figli omosessuali e le loro unioni, famiglie fatte, allo stesso modo, di amore e di pace.

Come sarebbe bello, anche per un non credente, sentirsi dire che la pace non si fonda sulla apartheid dei veri credenti, e che l’amore non è l’esclusiva di certe persone e di certe famiglie e di certe unioni, però non di altre, che invece devono essere considerate pericolose perché nemiche della pace. Riesce difficile anche a un non credente (per ragioni di carriera ormai ce ne sono pochissimi) immaginare un Dio stizzoso che caccia dalla sua porta chi non corrisponde nei dettagli all’identikit che viene fornito ogni giorno, come regola di comportamento politico, al governo italiano dalla presente Chiesa di Roma e dal quotidiano Il Foglio.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 06.01.08
Modificato il: 06.01.08 alle ore 15.07   
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« Risposta #49 inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:26:16 am »

Pd, per un codice morale

Furio Colombo


Mi confronto con la diffusa definizione di «temi eticamente sensibili». Ci dicono che sono questioni e argomenti che una parte di noi, nel Pd, dichiara non negoziabile neppure da mettere in discussione, per ragioni superiori ed estranee alla politica. Oppure, lasciando uno spiraglio di speranza, dichiara risolvibili con una «sintesi». Ma, poiché si tratta di atti e fatti che devono essere previsti o vietati in modo chiaro e inequivocabile dalle leggi della Repubblica, la «sintesi» non facilita ma blocca ogni decisione fra le due scelte giuridiche del permettere e del vietare. Confonde il dibattito di persuasioni e di idee, sempre nobile, civile, e utile, con i doveri dell’impegno di fare le leggi, dove invece una decisione esclude l’altra.

Per questa ragione mi sento di dire che ogni aspetto della vita pubblica (di questa ci stiamo occupando) in cui ci si assume la responsabilità di cambiare la vita degli altri è tema eticamente sensibile. E che non è di alcun aiuto tracciare una linea che separa alcuni argomenti intoccabili da tutti gli altri impegni di libertà e responsabilità. Come non è di aiuto immaginare un’area laica indicata come limitata, e minore, rispetto a visioni più autorevoli.

Ciò porta a una deformazione della vita politica e a una mutilazione dei doveri decisionali che sono tipici di tale attività. Per queste ragioni ho scritto e inviato al comitato etico del Pd, di cui faccio parte, il contributo che segue.



1 - Il Partito democratico è laico. Laico è sinonimo di democratico. Nessuno può imporre o sovrapporre precetti, comandamenti o istruzioni sul fare o applicare le leggi fuori dal processo democratico.

2 - Il rispetto per la religione, i suoi valori, precetti e indicazioni si manifesta prima di tutto attraverso il rifiuto di mischiarla, confonderla o sovrapporla alla politica, al processo di dibattito e di confronto, alle forme democratiche di decisione.

3 - Ogni gara a mostrare fedeltà e ubbidienza alle gerarchie religiose come modo di acquisire approvazione e legittimazione è estraneo alla vita politica, organizzativa, operativa del partito democratico che ha come riferimento le istituzioni della Repubblica, le cariche elette, le strutture parlamentari e l’organizzazione di partito.

Proprio come ha detto il primo ministro socialista spagnolo Zapatero ai vescovi Rouco-Varela e Garcia-Gasco che, nel “giorno della famiglia” dei Cattolici spagnoli lo avevano accusato di «violazione della democrazia e dei diritti civili» a causa delle due leggi sui matrimoni gay e sui divorzi rapidi.

4 - Ogni proposta, dibattito, incontro di lavoro, discussione, decisione del Partito democratico, ad ogni livello della sua struttura esecutiva, saranno noti, annunciati e trasparenti, e saranno sempre portati a conoscenza degli elettori e di tutta l’opinione pubblica orientata verso il Pd, attraverso l’annuncio e, alla fine, il resoconto dell’evento, attraverso la pubblicazione in rete e in ogni altra forma disponibile di comunicazione. Per la prima volta nella vita italiana i cittadini interessati al lavoro del Partito democratico potranno partecipare, rispondere, interferire.

Trasparenza è moralità.

5 - Interessi, ragioni e pressioni di ogni tipo, anche se legittimi, rischiano di deviare il percorso decisionale di un partito o di deformarne l’immagine. Ciò avviene soprattutto nelle questioni che hanno a che fare con l’economia, la produzione di ricchezza e la protezione della ricchezza acquisita. Per difendersi da spinte squilibranti e da risposte discontinue, il Pd si doterà di carte programmatiche che indicano preventivamente i suoi punti di sostegno, equilibrio, garanzia e le sue regole di condotta, in modo da evitare clientele, imposizioni padronali e atteggiamenti di pretesa o ricatto basati sullo scambio.

Chiarezza è moralità.

6 - Il lavoro in tutte le sue forme e livelli, è il punto di riferimento fondamentale del Pd, che riconosce nella buona organizzazione, nell’adeguata formazione, nell’equa retribuzione, nel sistema di premi e garanzie, nella fine della precarietà, nella ricostituzione di un legame saldo tra lavoro e cittadinanza, in moderni e adeguati ammortizzatori sociali, i tratti di civiltà a cui il Pd vuole contribuire e alla cui costruzione partecipa.

La difesa del lavoro è moralità.

7 - I cittadini hanno il diritto di essere informati. Il Pd si impegna nella difesa di questo diritto che vuol dire libertà dalla manipolazione, dalla omissione deliberata, dalle censure di tutti i tipi, dalle propagande travestite da notizie persino se a proprio favore. Il rigore nel proteggere e garantire la disponibilità continua e immediata di notizie verificate - unica barriera contro le due pratiche corrotte del pettegolezzo giornalisticamente diffuso e dei fatui talk show che si trasformano in servizi alla persona dei partecipanti e sono fabbrica di esasperata antipolitica - deve diventare rigoroso e austero impegno quotidiano del Pd che mette i cittadini informati, e non gli esibizionisti della telecamera, al primo posto del diritto all’informazione. E restituisce ai giornalisti seri e professionali il dovere di ordinare e spiegare le notizie.

L’informazione piena, sobria e corretta è moralità.

8 - L’Italia esce da un periodo violentemente conflittuale di vari centri di potere, compresi centri istituzionali, e l’intero sistema giudiziario del Paese. Imputati di alto livello economico e politico hanno cercato di screditare e di rifiutare giudici e giudizio e, quando necessario per risolvere casi personali, hanno cambiato le leggi accorciando i temini di prescrizione, cancellando reati gravi come il falso in bilancio, autoesentandosi dal giudizio, persino quando la legge “ad personam” mentre risolveva il problema per uno provocava disastrosi esiti per la giustizia in numerosi altri casi.

Il Pd è il nuovo partito testimone di un’epoca di limpida e rigorosa separazione dei poteri in cui non è consentito alcun attacco, screditamento o tentativo di inceppare la giustizia. Vige la Costituzione, la giurisdizione del giudice naturale, le leggi, comprese quelle che dovranno essere ripristinate.

Rispetto delle istituzioni e piena autonomia della giustizia sono moralità.

9 - La scuola è il punto più alto e ambizioso nel progetto di un’epoca nuova per un grande Paese democratico. Scuola come luogo e incontro gentile e civile di diversità; scuola come curriculum di apprendimento; scuola come rapporto solidale fra generazioni e passaggio di consegne culturale; scuola come luogo e ambiente formativo in cui nasce il cittadino e si forma la persona capace di invenzione e di innovazione.

Anche con limitate risorse in ogni altro settore, niente può - nella concezione etica del Pd - essere risparmiato per la scuola, perché la buona scuola produce risorse più di ogni altra attività umana. E perché assolve al compito di grande valore morale di liberare ogni cittadino dal peso e dalla catena di ciò che non sa e non potrà sapere.

La buona scuola, impegno preminente del Pd, è moralità.

10 - Il diritto alla salute viene visto spesso come reclamo. Il Pd pensa che proteggere l’integrità fisica dei cittadini incarni i principali valori e diritti sanciti dalla Costituzione. La crescita sicura dei bambini, la protezione delle donne specie nel ciclo della maternità e della libera scelta, la prevenzione medica per tutti come politica, la garanzia di salvare sempre gli anziani dalla solitudine e dall’abbandono, il diritto al testamento biologico come riconoscimento della libertà e dignità della persona, tutto ciò è l’irrinunciabile patrimonio morale di cui il Pd intende, con il voto e con il sostegno degli elettori, dotare l’Italia.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 13.01.08
Modificato il: 13.01.08 alle ore 15.23   
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« Risposta #50 inserito:: Gennaio 17, 2008, 11:05:00 pm »

Danielle Gardner, l’amica americana

Furio Colombo


Richard Gardner il professore intelligente e colto, umano e arguto, che è stato ambasciatore americano a Roma, ha portato legami amichevoli e aperto strade, diceva sempre che sua moglie Danielle era la sua co-ambasciatrice.

Era una affermazione non tradizionalmente diplomatica, ma giusta. All’indimenticato lavoro di ambasciatore americano in Italia (un periodo terribile nel pieno degli anni di piombo) Gardner ha potuto aggiungere uno di più raro: la vitalità impetuosa eppure rigorosamente corretta della «co-ambasciatrice» Danielle che gli ha conquistato la simpatia calorosa di mezza Italia e il rispetto attento degli altri.

Danielle, apparentemente frivola, esuberante, e in realtà molto saggia (quattro anni di vita e di lavoro a Roma senza ingerenze e senza interferenze, rapporti sempre in chiaro, un periodo di correttezza esemplare), una signora italiana di grande famiglia ebrea veneziana, è morta ieri mentre era, insieme al marito, al centro di una piccola festa per loro e intorno a loro, a New York.

Non è solo affetto e amicizia che mi induce a ricordarla oggi su questo giornale. Verso i Gardner - e dunque non solo Richard ma anche verso Danielle - c’è un debito di gratitudine e amicizia di molti italiani che vorrei condividere. E un debito personale che vorrei ricordare.

Gli anni dei due Gardner sono stati anni di lavoro instancabile nel tessere nuovi rapporti, nuove amicizie, nuovi legami e anche nuovi contatti e nuovi ascolti, che prima non c’erano mai stati. Sono stati gli anni di una politica aperta e liberal nella concessione dei visti, anni di incontri senza precedenti, anni di visite e di scambi negli Stati Uniti, che hanno immensamente migliorato i rapporti veri - non solo quelli di forma e di cerimonia - tra la complicata, conflittuale Italia e la grande potenza americana. Sono gli anni delle visite americane al Council of Foreign Relations di Giorgio Napolitano.

Napolitano era il solo parlamentare italiano (e l’unico del Pci) ad avere rapporti e scambi con il mondo accademico americano. L’Ambasciatore Gardner ha unito due percorsi separati, quello accademico e quello diplomatico, e aperto passaggi di rispetto, attenzione, capacità di capire e comunicazione a due vie che prima non c’era. Ma qui va collocata la presenza geniale e intelligente di Danielle, italiana che non intriga in Italia ma aiuta a capire, non chiude porte ma le apre. E benché abbia tanti amici personali, decide di essere amica di un Paese, non di un gruppo scelto. E non ha mai confuso la vita sociale con la vita politica.

Una volta, in casa mia a New York, Giancarlo Pajetta, che era venuto con la delegazione italiana alle Nazioni Unite, era intento a spiegare a Richard Gardner, che non aveva riconosciuto, il suo giudizio sull’Ambasciatore americano a Roma e i suoi “errori”. Danielle, cauta, divertita, traduceva Pajetta per il marito con attenzione e precisione, badando come sempre a non interferire. È toccato a Gardner rivelare: «Sono io l’Ambasciatore. Mi dica dove sbaglio». E ne è nato un lungo rapporto rispettoso e cordiale.

Ma il debito personale è anche più grande. Devo a Dick e Danielle l’avere conosciuto e viaggiato, negli Usa e nel mondo, con Jimmy Carter, prima candidato e poi presidente.

Devo a loro l’incontro con un giovane senatore ignoto, Al Gore, che entrambi hanno indicato e presentato, con più di un decennio di anticipo, come il futuro presidente degli Stati Uniti. È una scommessa riuscita, visto che Gore è stato vice presidente degli Stati Uniti, ha di fatto vinto contro George W. Bush (la decisione a favore di Bush è stata della Corte Suprema, non degli elettori) ed è poi diventato Premio Nobel per la pace.

Se Danielle a Roma ha cambiato, accanto al marito ambasciatore, i rapporti veri e profondi fra i due Paesi, Danielle a New York è stata l’indimenticabile padrona di una casa in cui per decenni si è incontrato il talento e l’intelligenza del Partito Democratico e della cultura democratica americana.

Per questo il ricordo affettuoso è molto di più di un ricordo. È gratitudine e ringraziamento.

Pubblicato il: 17.01.08
Modificato il: 17.01.08 alle ore 8.24   
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 21, 2008, 12:09:06 am »

L’odore del diavolo

Furio Colombo


Vedo un problema per i giornalisti che verranno dopo (alla fine un dopo ci sarà) e dovranno spiegare l’applauso che ha coperto la voce di Clemente Mastella mentre - alla Camera dei Deputati - ha lanciato la sua invettiva contro i giudici. Certo, in quella voce di un uomo che stava dimettendosi da ministro della Giustizia, era umano che vi fosse tensione, rabbia, indignazione, furore. Ciascuno ha diritto di sentirsi innocente e ingiustamente perseguitato, offeso se la famiglia è coinvolta, aggressivo nell’impeto di difendersi. E tutti noi siamo vincolati alla presunzione di innocenza.

Un dignitoso, riservato silenzio sarebbe stato il naturale comportamento di un’istituzione che rappresenta tutto il Paese che l’ha votata. Invece un applauso concitato, tonante, assolutamente compatto ha fatto irruzione come accade solo durante i concerti, quando un solista o un direttore d’orchestra hanno superato le soglie della bravura, e non resta che lo slancio dell’emozione per gridare «Bravo!». Vorrei esserci - in quel dopo che verrà - per capire come quella sequenza incredibile - tutta la Camera dei Deputati che porta in trionfo una persona pur sempre indagata - sarà spiegata in qualche programma tipo La storia siamo noi a cura del nipote di Minoli.

Forse dovranno invitare qualche storico che adesso è alle elementari, sempre che l’Italia, in quel futuro che non vedo vicino, sarà tornato un Paese normale. Altrimenti si continuerà a mentire. Altrimenti si creerà una particolare cerimonia religiosa nella vecchia redazione del Foglio, diventata nel frattempo una chiesa, per celebrare l’anniversario della cacciata del Papa dall’Università La Sapienza. Ci saranno immagini, ripetute all’infinito, dei giovani con la bocca bendata. E sarà spiegabile - perché la storia spesso è alterata - come mai si è potuto dire che un illustre personaggio che rifiuta un invito è un personaggio «cacciato», «censurato», «costretto a tacere», lui che ha parlato, parla e parlerà più di ogni “celebrity” al mondo (a confronto il presidente degli Stati Uniti vive in clausura).

Enessuno ricorderà un curioso dettaglio andato completamente perduto già oggi, figuriamoci nella storia. «Censura» sarebbe stato svilire e cacciare i professori e gli studenti che si sono opposti al Papa- docente. Certo, su di loro è calato il maglio del disprezzo, il vero disprezzo, da parte di tutti, come se invece di esprimere dissenso in un ateneo avessero bestemmiato in chiesa. Infatti il direttore di Radio Maria ha potuto dire pubblicamente - e senza provocare veglie - che «intorno a loro si sente certo l’odore del diavolo».

Poi la rinuncia del Papa a fare lezione è stata rovesciata in «proibizione di parlare», come se la sola condizione per parlare fosse il tripudio universale e preventivo e l’assoluta certezza che chi dissente taccia per sempre. Mi domando se in quel futuro lontano in cui l’Italia tornerà capace di una rappresentazione libera e critica di se stessa, qualcuno avrà conservato la registrazione di una serata di Porta a Porta che pure sarebbe molto importante per gli storici che verranno, per metterli in grado di domandarsi: «come è stato possibile?», e forse per guidare bus di studenti verso ciò che resta dello studio di Bruno Vespa, fra i ruderi di Saxa Rubra. Un esperto - se ci sarà - di questi giorni incomprensibili, potrà indicare: lì sedeva quella sera Marco Pannella, che è stato trattato come un malato di mente dai sostenitori del Papa (tutti i presenti compreso un attivissimo conduttore che incalzava e accusava, e la sola attonita eccezione dei professori atei Odifreddi e Cini, identificabili per l’odore del diavolo) mentre documentava le enormi percentuali di tempo riservate al Papa in tutti i media, circa un terzo delle notizie dal mondo trasmesse agli italiani. È stato a quel punto - ricorderanno gli storici - che un alto prelato del tempo, presumibilmente cappellano della televisione pubblica (o guida spirituale del celebre talk show di quei tempi bui) ha potuto ammonire Pannella, che forse era considerato un reietto e un disturbatore abituale dell’universale consenso: «Noi non abbiamo bisogno di digiunare per ottenere spazio in televisione».

Col tempo si capirà che la frase aveva un significato chiaro, anche se un po’ sarcastico. Significava: «Non si agiti, Pannella, tanto noi, con la scorta armata e agguerrita dei credenti di carriera, facciamo quello che vogliamo per tutto il tempo che vogliamo».

Invece, sul momento, e in quello studio, è stata accolta come un mite ammonimento pastorale. E la regia si è sempre preoccupata di mandare in onda, oltre alle dure sgridate ai laici di un conduttore evidentemente toccato nel vivo dei suoi sentimenti religiosi, il sorriso di compatimento che l’on. sen. prof. Buttiglione dedicava al folle Pannella (mentre leggeva i dati incontrovertibili del tempo sterminato dedicato dalla televisione di Stato al Papa) al suo sguardo di difesa e diffidenza verso i luciferini docenti del male Odifreddi e Cini che stavano profanando lo studio tv, a quel tempo una sorta di cappella consacrata alle sole verità consentite.

Ma grande sarà, in quel futuro fortunato e lontano, anche la difficoltà di commentare e spiegare il tripudio di una immensa folla accorsa in piazza San Pietro domenica 20 gennaio per dare tutto il sostegno al Papa e ascoltarlo finalmente e liberamente parlare esattamente come accade a grandi folle bus trasportate ogni domenica, ogni mercoledì e in ogni altro santo giorno infrasettimanale, più tutti i telegiornali che Dio ci manda.


***


Ma questo è il sogno di un futuro che non è neppure in vista. Stretti fra il sostegno al Papa, che pure dice quando vuole quello che vuole interferendo nella libertà, nelle decisioni e nelle leggi della nostra vita come nessuno, da quando esiste la democrazia e la separazione tra Stato e Chiesa ha mai potuto fare; e la solidarietà a Mastella di cui aspettavamo al Senato la legge che avrebbe vietato ai giornalisti di pubblicare notizie certe, legali, documentate, con l’indicazione della fonte (la celebre legge anti intercettazioni), ci sentiamo un po’ soli, come credo tocchi a coloro che non riescono a dare una ricostruzione logica ai fatti che ci travolgono.

Sono certo che i lettori mi perdoneranno se - in questo presente disorientamento - parlerò d’altro, cercando di dimostrare che questo parlar d’altro ha un suo senso che ci riguarda.

Un film mi ha aiutato ad attraversare, con pensieri, ricordi e riflessioni utili, questi giorni di significati rovesciati, immagini capovolte e fatti noti a tutti però negati. È il film La Signorina Effe di Wilma Labate. Dirò perché. Perché è molto raro che un film rivolto al passato sia a suo modo profetico; perché individua il vero confine fra un prima e un dopo che ha cambiato la storia; perché sembra che riguardi Torino e la Fiat e invece racconta e spiega il mondo, dalla fine del posto di lavoro fisso al crollo dei mutui detti “future" e "subprime"; perché la traccia sentimentale che sembra sovrapporsi a quella sindacale e politica individua in realtà istintivi percorsi di salvezza verso un piccolo "noi" privato mentre finisce qui un "noi" grande come il mondo, la vita degli altri, gli ideali per cui impegnarsi insieme.

Io non so quanto sia consapevole la bravissima Wilma Labate di avere fatto il ritratto di un’epoca, di un grandioso e cupo momento di transizione nel mondo che va molto al di là di una storia d’amore ai cancelli di Mirafiori a Torino.

Quello che accade è che la vicenda collettiva (che riguarda tutti a Torino, tutti a Detroit, tutti a Tokyo, tutti in Svezia, tutti in Inghilterra, persino tutti in India) è l’impetuosa corsa di un fiume che trascina via non solo ogni ostacolo sindacale ma anche le vite private di coloro che nel film sono i protagonisti e nella vita sono coloro che ciascuno di noi ha conosciuto sui posti di lavoro. Il volto della ragazza intelligente e in cerca di una sua vita, contesa fra un ingegnere e un operaio, che in apparenza racconta la storia principale del film, in realtà galleggia fra i detriti dell’inondazione che spazza via ogni argine. Spazza via l’ingegnere, l’operaio, gli operai, i quadri, buona parte dei manager, tutti coloro che credevano di sostenere il nuovo mondo spregiudicato e moderno o quello di prima, oscillante fra il buon lavoro e il sogno di una vita più piena, libera e personale.

Nel film di Wilma Labate - sequenza dopo sequenza di vicende che sembrano solo la storia di qualcuno - va via il lavoro, le sue garanzie, la sua dignità, la sua certezza, gli equilibri faticosamente trovati fra chi investe danaro nell’impresa e chi affitta la vita all’impresa chiamata lavoro. I giocatori-lavoratori hanno creduto di rilanciare ma sono stati prontamente avvertiti che era finita un’epoca, compresi gli impegni presi, le parole date, e le varie immaginazioni e attese per il futuro.

Ciò che accade è insieme privato ed enorme. Trovo strana, e nello stesso tempo esemplare, la coincidenza che ho dovuto notare tra il film appena visto la sera del 16 gennaio, e un articolo che occupava quasi tutta la pagina 6 dell’International Herald Tribune del 17 febbraio dal titolo «Un modo di vivere scompare mentre scompaiono gli operai del Mid West». Mid West vuol dire Chicago, Detroit, Ohio, vaste pianure costellate di fabbriche. Quelle fabbriche chiudono perché il lavoro ormai si fa altrove. L’articolo si conclude con la frase del capo squadra Jeffrey Evans, 49 anni, appena “messo in libertà”: «ho ceduto la mia casa, buttato le chiavi al nuovo proprietario. Ho guidato fino a casa di mia madre, mi sono ubriacato e sono andato a dormire». Questa è solo una di una ventina di storie esemplari, uomini e donne che hanno lavorato bene, lasciati all’improvviso senza lavoro, più giovani e più anziani di Jeffrey Evans. E non sai se tra loro c’è una Signorinaeffe, un operaio e un ingegnere che l’avrebbero voluta e lei che cerca da sola il suo destino. E non sai neppure se sia una fortuna o una disgrazia che il loro lavoro fisso e relativamente ben pagato (14 dollari all’ora) sia durato più a lungo di quello della Signorinaeffe e dei suoi compagni.

Di certo, per tutti coloro che chiamavamo “i lavoratori” è passata l’onda lunga della svalutazione e della irrilevanza. Ti devi domandare come sarà il futuro senza operai o con operai messi continuamente in concorrenza con rumeni e cinesi in una corsa sfrenata verso il lavoro a costo zero. Di certo, sia nel film di Wilma Labate che nelle praterie americane, non trovi leader politici. Nel film italiano, certo, ci sono repertori filmati di un passato (i picchetti con Berlinguer ai cancelli di Mirafiori) la cui fine è stata formalmente certificata. Nell’articolo - che pure è scritto mentre l’America è in piena campagna elettorale - non c’è alcun riferimento politico o sindacale, neppure come rimpianto.

Non sappiamo per chi pensi di votare Jeffrey Evans. Sull’orlo di un evento che cambia il mondo di tutti e certo ha cambiato il suo, lui ci dice che, a 49 anni, è tornato dalla madre, si è ubriacato ed è andato a dormire.

È la stessa intuizione - un po’ sociologica e un po’ poetica - delle ultime scene del film italiano. Solitudine. In quella solitudine non c’è la politica. La politica non dice, non vede, non guida, non sente, non dà un senso al caotico precipitare di eventi. Forse, da noi in Italia, siamo talmente schiacciati tra il Papa e Mastella che il lavoro diventa solo una questione di contratti che non si rinnovano e le morti sul lavoro sono il destino.

Come la spazzatura, riguardano solo coloro che sono coinvolti nella sequenza sgradevole. Resta il vuoto. Resta la solitudine. Restano le notizie inventate o insensate che ci riversano addosso ogni giorno per tenerci occupati. Non è una buona vita. E non è una buona politica. Mi servono, per spiegare quello che ho cercato di dire, due frasi che l’ex senatore Goffredo Bettini ha detto alla Repubblica il 19 gennaio: «Siamo di fronte a un Paese diviso, incarognito, avvelenato. Allora o il Pd ribalta questa situazione o non ha senso che esista. O ridà speranza all’Italia o fallirà nella sua missione».

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 20.01.08
Modificato il: 20.01.08 alle ore 15.50   
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« Risposta #52 inserito:: Gennaio 25, 2008, 04:58:07 pm »

Per futili motivi

Furio Colombo


Prodi esce dall’Aula con la dignità con cui era entrato mentre un’opposizione volgare e fascistoide esulta come alla fine di una brutta partita. Ma vediamo la storia della giornata dall’inizio.

Alle tre del pomeriggio una folla disorientata attende intorno al Senato di sapere il destino di Prodi. Uno mi dice, senza animosità e senza amicizia: «Io non so chi vince o chi perde, oggi, ma in qualunque caso non vi accorgete che non contate niente? Quelli che contano intanto stanno svuotando le Borse, stanno cambiando i prezzi, raddoppiano il costo delle case. Sono loro che comandano. Sono loro che decidono. Voi, quando va bene, siete come le piante in un corridoio, degli ornamenti, e quando va male, come oggi, vi cambiano».

C’è un po’ di confusione, un po’ di tensione. È impossibile rispondergli. Come fai a dargli torto se illustri notisti politici e addirittura intere compagini editoriali sembrano non avere notato che i conti pubblici sono in ordine e non lo erano, che le entrate fiscali sono robuste, e non lo erano, che contratti come quello dei metalmeccanici che poteva spaccare il Paese, sono stati firmati?

È vero, conta poco la politica senza l’opinione pubblica e conta poco l’opinione pubblica senza la televisione e la stampa. E aiutano poco la televisione e la stampa se diventano, per comodità e per progetto, la casa del conflitto, il luogo di scontro dei politici trasformati in gladiatori invece che il crocevia in cui si incontrano i portatori di opinioni diverse e le spiegano in modo chiaro e senza condurre un continuo gioco al massacro.

Una ragione il mio interlocutore tra la folla intorno al Senato ce l’ha: una brutale tempesta economica, una sorta di si salvi chi può, imperversa nel mondo e sbatte contro le porte dell’edificio Italia.

L’edificio non è così debole, né così indifeso. O almeno, non lo era fino a ieri sera. Un governo, che a volte appare introverso e noioso, non ha mai smesso l’ingrato impegno intrapreso di mettere in ordine la casa dell’economia.

La tempesta che si sta scatenando nel mondo ci avrebbe trovato, almeno, con le porte sorvegliate. C’è differenza fra congiunture difficili e momenti di rischio totale. Il mio interlocutore fuori dal Senato, che ha fatto anche un elenco di nomi di coloro che, in Italia, decidono il nostro futuro invece dei politici, non sa che adesso stanno per avere le mani molto più libere. Le hanno avute per i cinque hanni in cui ha governato Berlusconi e si è ammassato di tutto, dall’immondizia (la crisi inizia proprio nel 2001) al debito, dallo sperpero delle risorse ai condoni fiscali (in modo da avere le entrate tributarie più basse della storia italiana). Ma niente è successo di cui si possa dire: ecco, comincia qualcosa di nuovo.

D’accordo, questo governo è quasi afasico, e in un’epoca in cui le comunicazioni contano al punto da essere continuamente alterate e taroccate, non è un problema da poco. E tuttavia, nonostante il buon lavoro di 20 mesi (vedi il Financial Times e il Wall Street Journal il governo che ha chiuso il buco e incassato le tasse, sta cadendo.

Una volta entrato nell’aula del Senato mi accorgo, ascoltando, che cade - in un momento molto grave nel mondo - per futili motivi. Fate l'elenco di coloro che fanno mancare il voto al Governo di Prodi e avete una immagine più squallida del non dimenticato evento del 1998, non sto parlando di Calderoli e Castelli. Quella è gente che preannuncia la rivoluzione e fa sapere che sta cercando le armi. Continuiamo pure, per salvare l'immagine del Paese, a far finta di credere che siano compagnoni scherzosi invece di un serio pericolo per le questure. Ma questo è il loro livello e il loro mestiere: una politica che ha le impronte - già debitamente schedate - del deputato Borghezio.

Non sto parlando dei discorsi finto-dolenti e finto-decenti delle varie componenti della Casa delle Libertà che - gira gira - gravitano sempre, tutte, verso il vulcano spento di Berlusconi. Sto parlando dei futili motivi di Mastella che si vendica su Prodi per le presunte offese fatte alla moglie. Sto parlando dei Senatori di Mastella, che litigano a rischio infarto per l'onore della moglie di Mastella, come in un film di Germi.

Sto parlando di Lamberto Dini. Su quale palcoscenico recita? In quale dramma? Con quale ruolo? Per quale pubblico? Quando dice «noi» visto che il suo partito sono tre e uno non lo segue e l'altro non partecipa al voto, di quale «noi» sta parlando? Forse le sue ragioni non sono così futili, ma niente, tranne il no è trapelato del suo discorso, niente è trapelato che si possa eventualmente citare in una nota, carattere corsivo a piè di pagina, in un libro di storia.

Poi c'è lo scampanio della sinistra-sinistra. Impegna il suo prestigio, che non è da poco, nell'accusare come unico vero nemico il Partito democratico. Possibile che persone di grande, indiscutibile esperienza politica guardino il mondo dalla feritoia stretta di una rivalità occasionale, mentre qui cade un governo che sembra «fare poco per il lavoratori» ma - nel drammatico dopo - lascerà un rimarchevole vuoto e un pauroso sbandamento a destra, la destra economica che decide? In una cosa hanno ragione. In tanti - anche nella maggioranza che finisce adesso - hanno lamentato la palla al piede della sinistra, e preannunciato mille volte la caduta del governo per colpa e azione malevola della sinistra. E invece sono sfilati, a uno uno, tutti i «volenterosi» di destra della maggioranza che finisce.

E, a uno a uno, per futili motivi e per non sempre chiare ragioni private, hanno offerto, la loro mano ben tesa a Berlusconi, hanno bruscamente voltato le spalle a chi aveva dato loro uno spazio politico che - spiace per loro - non avranno mai più. Alla fine, nel brutto show, torna a farsi avanti, sia pure con esuberanza un po' consumata, il corpo di ballo della compagnia Berlusconi. Arriva fino al punto da stappare bottiglie in aula come in una festa un po’ volgare delle matricole ricordando sempre che, «prima di tutto viene il rispetto per le istituzioni».

È una replica triste e dobbiamo domandarci che cosa abbiamo fatto per meritarcela. Nota bene. Tutto ciò avviene esattamente come e quando aveva predetto Berlusconi. Bisogna riconoscere un po’ di ragione alla persona che mi ha fermato fuori dal Senato: il potere dei soldi fa miracoli.



Pubblicato il: 25.01.08
Modificato il: 25.01.08 alle ore 15.08   
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« Risposta #53 inserito:: Gennaio 28, 2008, 12:01:49 pm »

Italia contro Italia

Furio Colombo


Oggi è il “Giorno della Memoria”. C’è chi si domanda se sia una formalità, una cerimonia, l’occasione di un bel discorso nell’Aula Magna. C’è chi teme che tornare al passato divida e riapra non solo immagini di tragedia e dolore ma anche di spaccatura fra combattenti (memoria di combattenti) di una parte e dell’altra. C’è chi suggerisce che tutti i combattenti, finita una guerra sono uguali e tanto vale darsi la mano e andare avanti con la vita. C’è chi sostiene che tutte le vittime sono uguali e poiché qualunque morte è una perdita immensa, non è il numero che fa differenza. Onore a tutte le vittime, e la vita continua.

C’è anche chi pensa (e si è dato da fare moltiplicando i Giorni dedicati alla Memoria e al ricordo) che ci sono stati tanti eventi spaventosi nel mondo e di tutti occorre farsi carico, siano le vittime o i colpevoli di una parte o dell’altra. Se ci sono stati i campi di Hitler ci sono stati anche quelli di Stalin e le Foibe di Tito. Dunque o tutti o nessuno.

È comprensibile che - col tempo - i fili degli eventi si mischino spesso in confusi gomitoli. C’è chi sospetta l’uso - come si dice - strumentale. E chi teme che si alzino voci “buone” ma così generiche, così sbiadite nella condanna di tutti i mali e nella esaltazione di tutto il bene, da risultare afone.

Per questo esiste “Il Giorno della Memoria”. Ripeterò per i più giovani, per chi arriva adesso a rendersi conto dell’evento, che la data è il 27 gennaio, il giorno in cui i cancelli della città-sterminio di Auschwitz sono stati abbattuti dai soldati russi (allora si diceva “sovietici”) mentre avanzavano da Est verso Berlino (americani e inglesi venivano avanti da Ovest e da Sud stavano liberando la Francia e l’Italia), e la guerra stava per finire in pochi mesi, cancellando dal mondo il fascismo e il nazismo.

È vero, ben presto il mondo si sarebbe reso conto che crimini

di massa erano stati commessi e hanno continuato ad essere commessi per decenni dentro quell’Unione Sovietica che aveva pagato un prezzo immenso per ridare libertà al mondo contro il nazismo e il fascismo (20 milioni di morti russi) ma negando la libertà a se stessa.

Ma alcuni di noi non sono mai caduti nella trappola di dedicarsi per prima cosa ai crimini del Paese che allora si chiamava Urss. Perché?

Perché alcuni di noi si rendevano conto che, durante i regimi liberticidi che hanno portato alla Seconda guerra mondiale e alla distruzione dell’Europa, due Paesi si erano macchiati di un delitto più grave di ogni altro delitto. E’ un delitto che si dirama, come una spaccatura immensa e pericolosa, nel passato e nel futuro della convivenza europea.

Dal passato ha tratto l’orrore del pregiudizio che esige il sangue. Nel futuro ha iniettato un veleno che può restare inerte a lungo, e poi ricominciare la sua azione mortale nei luoghi,nei gruppi, nelle condizioni più inaspettate.

Per questo il “Giorno della Memoria” - che è stato il mio impegno principale quando ero deputato dell’Ulivo nelle tredicesima legislatura e che è stato approvato prima dalla Camera (unica legge approvata all'unanimità) e poi dal Senato nell’anno 2000 - ha come punto di riferimento la Shoah, insieme al ricordo di tutti coloro che hanno pagato con la vita la loro coraggiosa opposizione politica o la loro presunta diversità.

Ho risposto giorni fa alla domanda degli studenti in una Università americana. Perché in Italia? Perché adesso?

La prima risposta meraviglia un poco chi è abituato dalla maggior parte dei film a vedere soldati, uniformi e insegne tedesche intorno alla deportazione e allo sterminio di sei milioni di donne, uomini, bambini (inclusi neonati, vegliardi, malati e morenti) cittadini di ogni Paese d’Europa condannati a morire perché ebrei.

La risposta è: perché la Shoah è un delitto italiano. L’Italia nel 1938 ha approvato le più crudeli e totalitarie leggi razziali d’Europa, il Parlamento fascista italiano le ha approvate con esultanza. Il Re d’Italia - unico re d’Europa - le ha firmate e rese esecutive.

Giovedì scorso, nel ricordare il triste evento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato il senso e la portata di quelle leggi: «Hanno aperto le porte all’Olocausto».

Il Capo dello Stato ha colto il senso e la ragione della legge che istituisce il Giorno della Memoria: abbandonare l’idea che un conto sono le leggi razziali, cattive ma senza vere conseguenze nel destino delle persone, e un conto sono i campi di sterminio che gravano sul passato e sulla coscienza tedesca.

Il nesso stretto, il rapporto tragico ed evidente tra causa e effetto, mette in evidenza un aspetto che la storiografia italiana, nell’immenso groviglio di fatti tragici che sono la Seconda guerra mondiale, ha trascurato. La Shoah, dettagliato e accurato progetto criminale per lo sterminio di un popolo, non avrebbe potuto essere imposta con tanta forza alla classi dirigenti e alla sostanziale accettazione delle classi medie di tutta l’Europa occupata, se l’Italia non fosse apparsa, non solo come alleato della guerra ma anche come partner del grande delitto di massa. Nel famoso e tragico «asse Roma-Berlino» l’Italia era l’altra mano del persecutore, una presenza e una partecipazione che certo faceva il suo effetto su tutte le altre aree occupate e governate con leader fantocci e gaulaiter. Fino al punto che non è fuori posto domandarci: sarebbe stato possibile imporre e realizzare in tutta l’Europa il progetto persecutorio se l’Italia non avesse avuto parte attiva - dalle leggi razziali alla strage di Meina, alla Risiera di San Sabba, alle spietate deportazioni iniziate a Roma, a pochi metri dal Vaticano e dai palazzi del potere romano, la notte del 16 ottobre 1943, nel silenzio di tutti?

Si dirà che il silenzio era imposto. Ma altrove - come nella Bulgaria fascista - la classe dirigente, pur soggetta al dominio tedesco e italiano, si è opposta. «Non toccherete i nostri cittadini» ha proclamato il presidente fascista della Camera bulgara Dimitar Peshev, dando prova della sua normalità psichica e del suo coraggio morale.

Ecco un senso del Giorno della Memoria: l’immensa offesa all’Italia e ai suoi cittadini - tutti - spingendo una parte di essi nel ruolo delle vittime (7.000 non sono tornati) e l’altra in quello dei persecutori.

È vero che tanti non si sono prestati al macabro gioco e alcuni hanno rischiato la vita per salvare altre vite. Ma ciò non cancella le leggi, la loro enormità, la loro portata. La consegna da parte di italiani agli esecutori tedeschi di cittadini italiani privati di ogni diritto e difesa è un progetto che ha lasciato la sua impronta di morte su tutta l’Europa anche a causa, per colpa, responsabilità del ruolo italiano. E’ questo il fatto tremendo da ricordare.

Perché adesso? Mi hanno chiesto gli studenti americani. La risposta è questa. Perché qualcuno, anche in buona fede, pensa a una cerimonia di scuse o a una commiserazione del dolore o alla benevola partecipazione al lutto di altri, alla ingiustizia che altri hanno patito e a cui si vuole che - simbolicamente, a tanti anni di distanza - si dica no.

Invece è proprio adesso, mentre si mischiano freneticamente le carte in tavola e ci si affretta a riconoscere torti (che però sono ferite di una guerra finita) pur di non rinvangare il passato e si invoca una bella stretta di mano fra parti che storia e destino avevano contrapposto, proprio adesso è il momento di dire: attenti a non scrivere un’altra storia. Nella storia vera la ferita spaventosa è stata inflitta all’Italia offrendo senza vergogna i propri cittadini alla persecuzione straniera e alla volontà di persecuzione e di morte di un altro Paese, le cui regole l’Italia aveva scrupolosamente adottato e perfino aggravato. L’Italia si è piegata e spezzata in un modo che ne ha deformato l’immagine. In questa immagine orrenda, un misto di opportunismo, servilismo, paura e razzismo autentico, non è possibile - e non è permesso - separare una parte del fascismo dall’altra. Ogni nostalgia le richiama tutte. Perché erano tutti cittadini italiani coloro che sono stati offerti come vittime. E tutti fascisti italiani gli esecutori.

Erano infatti cittadini italiani i volenterosi collaborazionisti che hanno eseguito, spesso anticipando le richieste degli aguzzini, ed erano cittadini italiani coloro che hanno scrupolosamente taciuto, compresi coloro che avrebbero potuto - almeno nel 1938 - essere ascoltati nel mondo. Il silenzio italiano è stato completo e agghiacciante.

Il Giorno della Memoria è un processo al silenzio. È il silenzio di un passato che non può essere perdonato.

Occorre impedire che diventi una cerimonia. Il processo al silenzio è aperto oggi per ieri ma anche oggi per domani. Perché mai più il Paese Italia si presti ad essere il luogo di una viltà così grande. Il Giorno della Memoria questo ricorda: un delitto italiano contro l’Italia e i suoi cittadini. Non lasciatevi dire che sono cose passate.

Pubblicato il: 27.01.08
Modificato il: 27.01.08 alle ore 6.52   
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« Risposta #54 inserito:: Febbraio 01, 2008, 06:01:25 pm »

L'innocente

Furio Colombo


Ogni mattina coloro che ascoltano la rassegna stampa di Radio Radicale vengono ammoniti da Massimo Bordin, direttore di quello straordinario maxi-giornale, a non fidarsi di titoli e occhielli.

Spesso fa notare che virgolettati e affermazioni drammatiche come colpi di gong non ci sono nel testo. Sono solo una trovata per costringere alla lettura.

È un po’ quel che succede con un articolo di Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore, pag. 1 e 11 dal titolo: «Una sinistra malata di antiberlusconismo». Il titolo calza perfettamente col testo anche se - come i lettori hanno già capito - non c’è alcun rapporto con fatti e persone (salvo due o tre) di questo paesaggio politico e appare quindi più un interessante racconto (nel senso di fiction) che un commento politico. L’occhiello a pag. 11 però esagera e mi induce a una difesa dell’autore. Non dice mai, nel testo, che «nell’attuale maggioranza ci sono elettori disposti ad assolvere munnezza e magistratura pur di tener lontano Berlusconi» anche perché la frase è incoerente. Mancherebbe il rapporto causa-effetto. Nessuno deve assolvere la magistratura (né lo direbbe se resta in ambito costituzionale) e nessuno ha collegato Berlusconi - vicino o lontano - alla discariche campane.

Però è vero che Franco Debenedetti denuncia una caccia a Berlusconi, nella sinistra italiana, di cui non vi sono molte tracce, tanto è vero che l’ex senatore diessino rampogna nessuno in particolare e si rammarica senza alcuna citazione, dichiarazione o evento da esibire come dimostrazione. Persino io, faccio ora notare a Franco Debenedetti, che ha voluto condividere con il Sole 24 Ore la sua ansia e la sua condanna per l’antiberlusconismo, persino io mi autodenuncio: in quasi due anni non ho detto una sola volta il nome di Berlusconi al Senato.

Se interessa al mio interlocutore, ci sono un paio di ragioni che non depongono a favore di una mia ritrovata mitezza ma servono a capire l’epoca che abbiamo trascorso. Debenedetti, da ex senatore Ds attivo e scrupoloso, nel suo periodo e nel suo buon lavoro conosce l’ambiente. Ma, devo dirgli, solo in parte.

Questa volta non potevi parlare a causa delle urla scomposte e continue fondate sulla ripetizione infinita della negazione di legittimità sia del governo sia della maggioranza. Entrambi venivano continuamente dichiarati “frutto di broglio”. Nei rari momenti di semi-normalità e di relativo silenzio era il tuo gruppo che ti supplicava (ognuno di noi) di tacere, di rinunciare anche di fronte alla pioggia di insulti su Rita Levi Montalcini o sui presidenti emeriti Scalfaro e Ciampi. Avevamo una capogruppo, Anna Finocchiaro, che parava i colpi con dignità e il massimo di pacatezza possibile - a volte di fronte a vere e preoccupanti esibizioni di squilibro e di patologica concitazione, in momenti tragici e in momenti di farsa. La ragione del silenzio forzato che ci veniva richiesto: cercare di calmarli per riuscire a votare.

L’ultima seduta del Senato, ricordo all’amico Franco Debenedetti, è stata una triste “compilation” del Senato in cui abbiamo vissuto. Un senatore tenta di comportarsi con libertà e decoro e viene aggredito al punto di essere portato in barella fuori dall’Aula.

Il senatore aggressore non smette di urlare le peggiori invettive e per essere meglio capito fa con le dita il gesto della pistola. Un altro senatore, già noto per le sue stranezze getta in aria fette di mortadella, brandisce bottiglie di champagne e - per completare l’effetto della “diretta” sugli atterriti cittadini italiani - grida e ripete al collega privo di sensi «squallida checca». Un altro ha fatto roteare lo champagne prima di stapparlo in modo da ottenere un violento schizzo di schiuma da buttare in faccia e sulle divise dei commessi, come un padrone alticcio e bizzarro.

Ora tutti noi - a parte il senso di imbarazzo e di vergogna - sapevamo che i nostri colleghi non sono matti. Eseguivano ordini. Ordini di chi? Come tutti sanno, uno solo in Italia dispone del potere e dei mezzi per indurre persone - molte delle quali sono privatamente rispettabili - a comportarsi pubblicamente, deliberatamente in un modo indecente che avrebbe stravolto ogni italiano di sinistra e di destra.

L’ordine era che niente sarebbe stato abbastanza volgare o abbastanza insultante per celebrare il funerale politico di Prodi.

Coloro che hanno avuto la sventura di assistere al giorno più brutto e più triste della Repubblica (perché le istituzioni erano attaccate da dentro, non da misteriose mani assassine estranee i cui delitti hanno rinsaldato le istituzioni) hanno ancora negli occhi la scena della «squallida checca», della mortadella lanciata in aria (ed esibita penosamente sulle loro stesse facce) dei lavoratori del Senato inzuppati dal lancio di champagne. Ora un serio e saggio ammonimento li raggiunge con una firma illustre dalla prima pagina del Sole 24 Ore: alla fine di due anni di insulti continui a Prodi (ricordate il “mascalazone bavoso” titolo di un editoriale de Il Giornale?) nell’Italia della Commissione Telekom Serbia e della Commissione Mitrokin, entrambe destinate all’eliminazione politica dell’allora candidato Prodi, adesso ci dicono: «Basta tormentare Berlusconi!».

C’è un che di misterioso in questo autorevole ammonimento. Perché, al massimo, ha solo due destinatari: Marco Travaglio, ed io, se non tenete conto del mio doveroso silenzio al Senato (per non dire dello scriteriato direttore di questo giornale).

Vi ricordate di un attacco o denuncia o anche di vaghi riferimenti ai passati reati di Berlusconi da parte di altri? Avete notato un qualche rapporto fra quanto sei a sinistra e quanto sei antiberlusconiano? Se non sbaglio non è Travaglio a sedere con onore accanto al conduttore nel talk show Otto e mezzo. Ah, dimenticavo Marco Pannella. Da solo osa scrivere «la iattanza berlusconiana indice una nuova marcia su Roma con milioni di convocati televisivi... le demenziali minacce di Berlusconi non vanno più tollerate ...».

Non ci risulta una corsa a sottoscrivere questa solitaria condanna di Pannella che ricorda Emilio Lussu nella sua «Marcia su Roma e dintorni». Gira e rigira siamo in quattro, forse cinque. A pensarci bene è un onore quell’editoriale del Sole 24 Ore. A meno che Franco Debenedetti non sappia qualcosa che noi non sappiamo.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 31.01.08
Modificato il: 31.01.08 alle ore 8.35   
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« Risposta #55 inserito:: Febbraio 02, 2008, 08:56:29 pm »

Una questione di memoria

Furio Colombo


Due lettere inviate a Sergio Romano al Corriere della Sera, e la risposta netta (contro il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah) dell’ambasciatore-scrittore ci aiutano a far luce su equivoci, errori di informazione, errori di percezione, e un fondo di malumore per tutta questa attenzione dedicata agli ebrei. Il fatto è che anche fascisti e tedeschi avevano dedicato molta attenzione a questi cittadini del nostro e di tutti gli altri paesi europei, e a molti sembra inevitabile (cerco di dire con mitezza) ritornare sull’argomento.

Ma andiamo con ordine. Le due lettere, scelte probabilmente fra le tante che saranno state scritte a Sergio Romano nell’occasione del 27 gennaio, toccano entrambe il tema sollevato alla Camera, in lunghe discussioni orientate a un perenne rinvio. Perché solo gli ebrei e le altre vittime (soldati, politici, omosessuali, zingari) dell’universo concentrazionario fascista nazista e non le altre vittime di Stalin, della Cina, dell’orrore comunista? È un argomento già molto usato in passato e ha avuto, con la pazienza e l’attenzione che merita, mille volte risposta. E non risposta di indifferenza a quei gravi delitti ma una obiezione precisa e incontrovertibile, nel paese di Nicola Pende (il manifesto degli scienziati italiani sulla razza, che dichiara estraneità, inferiorità e pericolo degli ebrei) e di Giorgio Almirante (autore ed organizzatore della rivista La difesa della razza, forse la più crudele e diffamatoria in quegli anni di dilagante antisemitismo europeo).

Le due lettere a Sergio Romano, che appaiono, con evidenza scritte da persone non giovani (dunque con più probabili ricordi personali)e dotate solo di argomenti di destra (basta con i delitti fascisti, occupiamoci una buona volta di quelli comunisti), sono travestite di finto candore. Chiedono una risposta che essi stessi offrono: ma come? Con così tanti delitti di Stalin e Tito, c’è ancora chi riempie la testa alla gente con le leggi razziali di Hitler e Mussolini? «Le leggi razziali italiane? Sono state poca cosa», aveva detto a suo tempo Vittorio Emanuele Savoia, quando si dubitava della sua conoscenza della storia e non ancora della sua tempra morale. Nel rispondere alle due lettere, Sergio Romano non sceglie l’indecoroso percorso Savoia. Offre una rapida e corretta ricostruzione di eventi (un elenco di crimini in Europa e poi fino a Mao, a Ho Chi Min, e stupisce che non abbia incluso i Khmer Rossi della Cambogia). Ma raggiunge la stessa conclusione. In tre punti.

Primo, al Parlamento italiano Sergio Romano dichiara che avrebbe votato contro la legge che istituisce il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah perché nel mondo è accaduto ben altro.

Secondo, indica come cattivi maestri, con il dovuto disprezzo, «i professionisti della memoria antifascista». Posso permettermi di credere che si riferisse a me come estensore e prima firma del testo di quella legge. E posso dire che in quel gruppetto, fra coloro che non dimenticano Via Rasella, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la strage delle famiglie ebree di Stresa, la razzia del 16 ottobre a Roma, sotto le finestre del Vaticano, i sette Fratelli Cervi (la lista sarebbe immensa perché un professionista della memoria antifascista ricorda tutto, specialmente se in quel tempo ha vissuto), mi trovo in buona compagnia. La sola che desidero.

Terzo, Sergio Romano sceglie di ricordare che al momento del voto alla Camera «Lucio Colletti ha votato contro». Aggiunge: «Anch’io avrei votato contro», presumibilmente per non essere - Dio ci scampi - scambiato per un professionista della «memoria antifascista» che, nella sua narrazione, appare un disturbo petulante nella buona vita italiana.

L’opinione è sua. Brutta ma rispettabile. Il ricordo è sbagliato. Colletti (che voleva una mozione, non una legge) non ha votato contro. Si è astenuto. L’ astensione, secondo il regolamento della Camera, non impedisce di dichiarare la legge, come risulta dagli atti, votata all’unanimità. La legge che istituisce «Il giorno della memoria» in Italia è stata infatti votata all’unanimità perché tutti i miei colleghi di allora, da sinistra a destra hanno accolto i due argomenti che sono stati proposti nella perorazione (la ricordo come una supplica) finale. È stato detto: gli orrori del mondo sono tanti e spaventosi, ma la Shoah, oltre a essere un crimine unico, è un delitto italiano. Nulla di ciò che è accaduto poteva accadere senza le leggi razziali italiane. E infatti nella Bulgaria fascista i tedeschi, neppure nell’impeto di violenza finale del 1943-45 hanno potuto arrestare un solo cittadino ebreo di quel paese perché il leader fascista bulgaro Dimitar Peshev aveva detto «No, mai in questo paese».

Ma ho potuto ricordare un altro fatto. In quell’aula di Montecitorio, da quegli stessi posti in cui stavamo seduti noi, un altro parlamento italiano aveva votato all’unanimità le leggi di Mussolini. Ho chiesto, come un piccolo segno che non avrebbe cancellato nulla ma sarebbe stato un simbolo per i più giovani, di votare anche noi all’unanimità. Così è accaduto. Un cittadino italiano e soprattutto uno storico, dovrebbe trarre un motivo d’orgoglio da questo piccolo evento. Sergio Romano, che pure è uno storico stimato e rispettato, sceglie invece questa frase: «Abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica».

Lotta politica ricordare il delitto di persecuzione dei cittadini italiani ebrei (e - con il concorso dell’Italia - di tutti i cittadini ebrei d’Europa)? Romano chiama alla lotta: «Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina». Sono certo che gli storici risponderanno.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 02.02.08
Modificato il: 02.02.08 alle ore 8.38   
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« Risposta #56 inserito:: Febbraio 03, 2008, 07:40:50 pm »

La corsa all´indietro

Furio Colombo


Alcune sere fa, in una riunione di lavoro dell´Aspen Institute dedicata alle elezioni americane, hanno parlato il giovane democratico Nelson Cunningham, già consigliere di Clinton alla Casa Bianca, e il meno giovane Repubblicano Richard Burt, già consigliere di Bush padre e ambasciatore di Reagan. Avevano visioni chiare e diverse: Burt ha detto di credere possibile una vittoria del senatore Mc Cain. Cunningham è restato in bilico fra i due grandi del Partito Democratico, Barak Obama e Hillary Clinton. Ha previsto che, nella catena di 22 elezioni primarie che avranno luogo nel "supermartedì" del 5 febbraio, il risultato sarà quasi pari. Dunque prospettive interessanti per un Paese fortunato che - anche quando attraversa brutte stagioni - sa distaccarsi in modo netto (quasi un impulso fisiologico) dal passato. Sia Cunningham che Burt, nella serata di Roma, hanno concluso con una frase quasi identica: «il Paese è diviso fra liberal e conservatori. Ma un sentimento netto e forte unisce tutti gli americani. Tutti si sentono sollevati di non dover votare un´altra volta George W.Bush». La salvezza di un Paese è nel suo futuro e l´America ancora una volta lo sta dimostrando.

Qualcuno ha potuto dire ai due ospiti che noi, l´Italia, siamo spinti a correre al più presto alle urne per votare di nuovo l´epoca logora, finita, e persino triste nelle sue immagini (questa volta il protagonista si presenta senza il famoso sorriso commerciale) del fallimento italiano, che si chiama Berlusconi.

Quasi ogni sera, come nelle sequenze di un teatro di avanguardia che conta sugli accostamenti folli e le parole insensate per creare sussulto e sorpresa, appaiono nei telegiornali appositamente imbanditi, i volti di Schifani, di Cicchitto, di Bondi che ripetono la stessa frase, davvero degna di Ionesco: «Non c´è più tempo. Il Paese vuole andare subito al voto». In un Paese vivace, conflittuale e molto espressivo, se c'è una cosa che i cittadini non hanno mai chiesto, preoccupati come sono della dura crisi economica che sta arrivando è di correre subito a votare perché «non c´è più tempo».

Non tutti gli italiani hanno l´età di Berlusconi - che patologicamente lo angoscia nonostante il trucco pesante e i capelli asfaltati - e non tutti gli anziani pensano che si debba far ricadere sui più giovani il dramma e il prezzo della loro uscita di scena.

Romano Prodi, ad esempio, benché un poco più giovane, non calcolava il tempo su se stesso. Aveva già detto che, finito il mandato, avrebbe lasciato libero il campo. E intanto contava il tempo sulla progressiva (e finora efficace) riparazione del grande danno economico inflitto all´Italia dai cinque anni di governo di un centro destra unico al mondo, tutto teso a risolvere i casi giudiziari del capo (con successo, si deve dire, perché hanno cambiato le leggi) ma poco preoccupato di conti, tasse, buco del deficit e caduta del Pil. Una volta deciso che governare vuol dire spettacolo e audience, allora bisogna ammettere che la cartapesta di Pratica di Mare è un buon inizio; il pestaggio selvaggio di ragazzini di mezza Europa che dormono in una scuola di Genova (con uccisione, per quanto accidentale, di uno di loro) è stato grande teatro (il "teatro della crudeltà" tanto raccomandato da Artaud); i licenziamenti di personaggi autorevoli, credibili, in vista, un eccellente modello per i media (che ne sono tuttora ispirati); l´istituzione di commissioni-calunnia come Telekom-Serbia e la celebre Mitrokhin, segnata da arresti di consulenti e delitti di testimoni, un buon modo perché nessuno si possa sentire al sicuro; le leggi ad personam, preparate ad una ad una con cura per far fronte a diversi processi detti "persecuzioni", del capo, una buona strada perché uno, almeno, si senta sicuro. Faceva un certo effetto, nelle scene di telegiornale del processo Sme, in cui l´imputato è stato assolto per avere cambiato in tempo la legge che lo avrebbe condannato, notare le figure degli illustri difensori, i penalisti Ghedini e Pecorella, uno senatore, l´altro deputato, entrambi attivi e capaci nelle rispettive Commissioni Giustizia, (uno presidente di tale commissione) in modo da preparare per tempo al mattino, da influenti parlamentari, le norme che avrebbero usato in tribunale nel pomeriggio.

Il governo che ha spinto l´Italia verso la sua più pericolosa stagione di sbando, portandola sul punto di uscire dall'Europa, ha avuto, occorre ammetterlo, uno straordinario successo nei processi di Berlusconi.

* * *

A questo punto allargate un poco la scena. Sulla scena sono ricomparsi compatti, come rispondendo a un sacro richiamo della Patria, quel Pier Ferdinando Casini che aveva detto, con estremo e persuasivo buon senso a varie televisioni «ma vi pare che si possa tornare con chi ti prende a schiaffi e ti tratta come un suddito indisciplinato? Noi gli schiaffi non li accettiamo da nessuno!». Li accettano, li accettano. Ed eccoli pronti, insieme a Totò Cuffaro, che porterà i suoi cinque anni di condanna in primo grado del Tribunale Penale di Palermo in dote al senato. Ed ecco Gianfranco Fini, il volto indurito, la voce aspra come se si trattasse di conquistare Adua, il tono finalmente incattivito e incline all´insulto di chi deve avere patito molto nel fingersi soltanto innamorato, mentre Berlusconi gli fondava da un lato i "circoli della libertà" della brava e ubbidientissima Brambilla (che al primo cenno ha accettato di scomparire) e dall´altro gli andava a inaugurare con tutti gli onori la destra di Storace e del suo neo-neofascismo che finalmente ha una casa, un sostegno e niente più necessità di travestimenti e di finzioni democratiche. Sono quelli che hanno scritto su un muro di via Fontanella Borghese a Roma: «An venduta ai giudei». Erano i giorni in cui Fini ministro degli Esteri, al Yad Vashem a Gerusalemme, di fronte alla fiamma della Shoah, aveva definito il fascismo «un male assoluto» e si erano offesi a morte di questa incredibile ammissione di verità. Se ne erano andati insieme ad Alessandra Mussolini.

Adesso Alessandra Mussolini, perdonata come si usa fare sempre in Italia dopo i delitti, è tornata da Fini. I neo-neofascisti invece sono accampati con Storace, fanno il saluto romano e gridano liberamente «viva il Duce» come nel giorno delle leggi razziali. Ma niente paura. Vanno tutti insieme alle elezioni e con urgenza, "perché non c´è più tempo". Per salvare l´Italia c´è l´acume di Storace, già distintosi nel controllo della Sanità laziale, il fiuto volpino di Casini che, in fatto di soluzioni ai problemi economici, spesa pubblica, deficit e Pil, è conteso fra la Harvard Business School e il Mit di Boston, la lama tagliente di Fini che sa, lui si, come tagliare gli sprechi, e la premiata economia del condono di Berlusconi che - fra i tanti problemi che assediano l´Europa e affliggono l´Italia, incluso il mare di immondizia che ha cominciato a formarsi nei suoi cinque anni di governo (scomparirà, non temete, basta non parlarne mai più nei telegiornali) finalmente tornerà in tutti i programmi televisivi, fiction e sport inclusi. E ritornerà il buco di Tremonti, preferibilmente nel Tg 1 delle ore 20. Quanto a Berlusconi ha già scelto. La sua risposta alla grave turbolenza economica, al costo dell´energia, al degrado dell´ambiente è semplice e chiara: difesa ad oltranza di «Italia 1» e di Emilio Fede contro quei presuntuosi che credono di aver diritto, per le loro Tv oscurate, alle frequenze rubate da Mediaset. Invece - ci informano i dipendenti di Berlusconi - non saranno restituite né ora, né mai. «Non c´è più tempo», ammonisce Schifani. Del resto lo andava predicando da mesi il profeta di Arcore: otto italiani su dieci (forse otto e mezzo) annaspano verso la ciambella di salvataggio della destra, e solo la restante ciurmaglia rifiuta di formare quel bel 100 per 100 che è l´unico livello di approvazione che a Berlusconi sembra giusto.

Dimenticavo, fra i quadrunviri della imminente marcia su Roma («verranno a Roma a milioni», aveva minacciato Berlusconi mentre il presidente Napolitano era intento alle consultazioni) di citare l´eroico Bossi. Che ha dichiarato di essere pronto a farsi strada con le armi «che - ha detto - quando servono si trovano sempre».

Dovunque sarebbe scattato uno stato di emergenza, perché la frase è folle e pericolosa. Ed è vero che, a cercarle, le armi si trovano. Quello che altrove non si trova è un leader come Bossi, spalleggiato da senatori e deputati "gorilla" (nel senso di guardie del corpo) che sostengono in tutte le sedi (ovvero in tutte le Tv) le ragioni del loro leader rivoluzionario che, quando rilascia dichiarazioni che riguardano non solo la Padania ma anche il Paese straniero chiamato Italia non sempre appare in perfetto equilibrio.

Il fatto che nessuno reagisca a minacce così serie fa pensare a un diffuso senso di compatimento che mi sembra insultante e ingiusto. Mi sembrerebbe più rispettoso mettere in guardia le questure. a questo è il quadro, questo è il nuovo. Questo è ciò che l'Italia deve precipitarsi a votare perché «non c´è più tempo». Infatti se restasse questa maggioranza potrebbe essere approvata la legge Gentiloni che minaccia non l´Italia ma il dominio di Mediaset. E questo è il "wonder team" per cui non si può sprecare un minuto di tempo. E che ammonisce sgarbatamente il presidente del Senato Marini a smettere immediatamente il suo tentativo di far valere la Costituzione e di trattare tutti i partiti come se fossero aggregazioni politiche normali.

* * *

Direte (qualcuno lo dice senza ridere) «basta con l´antiberlusconismo». Poiché la destra in Italia è esclusivamente Berlusconi (chi altro sarebbe in grado di finanziare due anni di violento, continuo, ininterrotto ostruzionismo alla Camera e al Senato, senza lasciare, in due anni, la possibilità a un avversario anche mite di finire una frase?), basterà organizzarci bene, partecipare tutti e votargli contro. Non contro centri e sinistre. Contro Berlusconi. Il Pd, mi sento di dire, si è fatto avanti e ha detto «noi siamo pronti». Si può ostacolarlo o sostenerlo. Io vorrei sostenerlo. Ma una cosa è certa. Se vi preoccupa tanto l´antiberlusconismo (una sorta di ossessione come il rigetto dell´antifascismo su cui pure si è formato il meglio di ciò che siamo), votategli contro. Sparirà di colpo. Come George W. Bush, sarà soltanto una nota a piè di pagina nella storia del passato. A meno che sia iniziata una triste e paurosa corsa all´indietro.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 03.02.08
Modificato il: 03.02.08 alle ore 11.40   
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« Risposta #57 inserito:: Febbraio 08, 2008, 10:49:45 pm »

L’Italia dei ricatti e degli spioni

Furio Colombo


Qui di seguito ampi stralci della prefazione di Furio Colombo al libro di Sandro Orlando «La repubblica del ricatto» edito da Chiarelettere

Dice l’autore di questo libro: «Rispetto alla realtà c’è ben poco» perché molte prove non sono raggiungibili e molte connessioni, molte catene causa-effetto (per non parlare degli autori) restano oscure. Tenete presente questa affermazione, ovvero il limite annunciato dallo scrupoloso autore, quando leggerete queste pagine. Aver poco racconta moltissimo. E dovrebbe essere ragione grave di allarme. Racconta un paese spiato dalle sue istituzioni, ascoltato da centri illegali e privati di potentissime imprese, giocato da rivelazioni inventate, mentre avventurieri disposti a tutto preparano e denunciano finti attentati e accuse di portata gravissima.

Siamo nell’Italia di Berlusconi, ai tempi del vasto spionaggio telefonico di Telecom, ai tempi dell’ufficio riservato del Sismi (spionaggio militare) che sorveglia e pedina magistrati e giornalisti italiani. Ai tempi della commissione parlamentare Telekom Serbia, creata per mettere sotto accusa personaggi dell’opposizione di allora, come Prodi, Fassino e Dini; ai tempi della commissione Mitrokhin, che aveva come scopo di denunciare Romano Prodi come spia del Kgb. L’accusatore - un certo Scaramella - era un professore senza titolo di studio, un agente segreto senza appartenenza, un esperto senza altra esperienza che la fabbricazione di falsi, eppure consulente di punta del Senato italiano. Ma cos’altro ha inventato e fatto circolare in Italia? Per esempio ha lanciato e accreditato («da esperto») la notizia che la vita di un senatore italiano, presidente della commissione bicamerale detta Mitrokhin, era in imminente pericolo. E ha lasciato intravedere il nome del mandante: l’ex spia del Kgb Romano Prodi.

Che poi Romano Prodi - sotto accusa di una commissione parlamentare degli uomini di Berlusconi per tangenti e arricchimento illecito, appunto la Telekom Serbia - perseguito come traditore e mandante di delitti dal gruppo berlusconiano detto «commissione Mitrokhin» fosse anche il capo dell’opposizione italiana e il leader che avrebbe sfidato Berlusconi alla fine del mandato, dà a tutta la vicenda il senso di un tentato «golpe». (...)

Quello che c’è in queste pagine - e che è rigorosamente documentato con dettagli, riferimenti, dati, fatti e citazioni verificate - è il panorama di un paese medievalizzato in cui agenzie pubbliche diventano bande (il caso dello spionaggio militare che organizza un ufficio speciale per la sorveglianza di magistrati e giornalisti) e gruppi privati delle dimensioni e del prestigio della Pirelli, impiantano settori di spionaggio privato su vasta scala (vasta come la rete della Telecom-Tim, controllata dalla Pirelli) e tutto ciò in un pauroso vuoto di legalità sia pubblica sia privata.

Ma, nel suo attento e meticoloso lavoro, l’autore non si limita a constatare: benché un contributo cruciale di questo libro alla conoscenza dell’Italia contemporanea sia messo in evidenza dalla nervatura di illegalità, di iniziative arbitrarie e abusive che connettono in modo a volte oltraggioso e a volte misterioso punti alti di autorità legittima con il sottofondo di un infimo mondo fuorilegge disposto a tutto. L’importanza di questo lavoro e dell’indagine accurata di Orlando è nel far capire - anzi, nel far vedere subito - che non stiamo parlando di archeologia e neppure della ricostruzione sorprendente di un mondo finito con un regime.(...)

Quale interesse sta effettivamente servendo la commissione Telekom Serbia dal Parlamento italiano? Quanto tenta - con prove e con testi falsi - di incriminare il capo dell’opposizione Prodi e il leader del maggior partito dell’opposizione Fassino? Si tenga conto che una commissione parlamentare di inchiesta dispone di piena autorità giudiziaria; è un alto e sensibile organo dello Stato. Si tenga conto che questa commissione ha agito costantemente nel falso: false le premesse, false le accuse, false le notizie date alla stampa, falsi i testi - presentati come coraggiosi - che, in nome della verità, rischiavano la vita e, poi, smascherati, incriminati, arrestati dalla magistratura regolare, in un salvataggio in extremis che ha protetto non solo coloro che li avevano falsamente accusati, ma anche la reputazione del Parlamento, una commissione del quale era stata dirottata per un disegno estraneo al Parlamento stesso e alla legge.

Come si dice a volte delle leggi massoniche, deve trattarsi di un disegno protetto. Non solo restano oscuri i mandanti, ma non c’è traccia né di risarcimento legale per accuse gravissime e false - fatte scrupolosamente circolare su tutti i media - né di rappresentazione piena e pubblica del comportamento di una commissione parlamentare costantemente impegnata nel far valere e prevalere il falso. Ci limitiamo a constatare il fallimento del progetto, a opera della magistratura, non della politica. Subito dopo la vita continua. (...) Di nuovo restano sconosciuti l’intero progetto (da dove viene, dove va tanta mobilitazione internazionale?); e i veri mandanti - che sembrano al di sopra di chi ha cavalcato i media, con l’aria di essere san Giorgio sul punto di trafiggere il drago, e persino il boss del finto san Giorgio. Resta sul percorso la carcassa di un clamoroso falso. Resta una «grave minaccia» per la vita dei presunti inquirenti (ma opera, naturalmente, dei criminali inquisiti, leggi «Prodi»), una minaccia scrupolosamente inventata e pubblicamente sbugiardata. Resta sul campo il cadavere vero e crudelmente sacrificato di un alto «autorevole» teste della commissione in questione (il povero Litvinenko, ucciso lentamente e pubblicamente con il polonio). Resta una catasta di falsi annunci e di false notizie, mai davvero cancellate. Di nuovo, non è il Parlamento a rimuovere la sua vergogna, ma la magistratura che arresta il consulente-falsario.

Per il resto, come sempre la vita continua. Non segue una denuncia o uno scandalo; non segue nulla: tutti stanno onorevolmente dov’erano come se avere fallito nella costruzione di una vasta, costosa, falsa macchina d’accusa fosse una sorte adeguata, come avere bravamente tentato e fallito un primato sportivo. Ma la vita continua anche dopo la rivelazione di due clamorose reti di spionaggio: una pubblica, dedita a spiare - fuori da ogni legge - magistrati e giornalisti. Il suo capo è stato solo assegnato ad altro rispettabile incarico. L’altra rete (Telecom-Tim) immensa e privata, ha provocato almeno l’arresto dei suoi operatori. Ma i mandanti? E i destinatari? Qualcuno immagina che reti di spionaggio interno così mirate e così estese siano il frutto spontaneo di pochi individui troppo zelanti? E pervasi da quale zelo, al servizio di quale causa? Forse non troverete tutte le risposte, in questo libro, a causa del rigore giornalistico e dello scrupolo legale del suo autore. Ma certo trovate tutte le domande. E la mappa di molti percorsi. Per questo è inevitabile leggerlo.

Pubblicato il: 08.02.08
Modificato il: 08.02.08 alle ore 8.14   
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« Risposta #58 inserito:: Febbraio 10, 2008, 07:56:08 pm »

Il giorno delle svastiche

Furio Colombo


Nel giorno in cui ci avvertono che i nomi di docenti ebrei o ritenuti ebrei vengono indicati in un elenco su un misterioso sito antisemita, presumibilmente a cura del vasto rigurgito di destra che è rimasto tra le rovine del passato e i tentativi - sempre incompleti, a volte disastrati - di costruire una vera civiltà democratica, in un giorno così minaccioso abbiamo il dovere di allargare la brutta scena che stiamo osservando. Cercare tra i fascisti è un esercizio ovvio e però marginale, se si considera che solo pochi giorni fa abbiamo dovuto difendere gli scrittori israeliani che saranno onorati a maggio al Salone del Libro di Torino, dalla minaccia di boicottaggio (ovvero di un atto di disprezzo verso lo Stato di Israele, che di tutto ciò è simbolo, imperfetto ma pieno), e se si tiene conto che quelle minacce venivano da alcuni che sono o ritengono davvero di essere di sinistra, cioè dalla parte che ha combattuto e pagato con la vita per ridare la libertà e la dignità all’Europa senza il fascismo.

Non c’è bisogno di conferme: l’antisemitismo è vivo, sa come nascondersi, spostarsi e rinascere. E questo spiega perché alcuni di noi si sono battuti perché ci fosse un “Giorno della Memoria”; per ripensare a uno dei momenti più spaventosi di quel male, che è stato sul punto di riuscire nel progetto di sterminio di un popolo e di una cultura. Propongo che sia necessario notare un fatto che aiuta non tanto le grida di scandalo quanto la riflessione. Fatti del genere accadono in coincidenza con un espandersi, niente affatto mistico, ma esclusivamente terreno, della Chiesa cattolica come potere politico, capace di dare regole, di dettare leggi, di impartire ordini, di punire e premiare, per esempio con il voto. Qui importa notare l’intreccio fra l’allargarsi - nei fatti - di un potere temporale della Chiesa, che torna a parlare con una volontà di controllo su tutto, pensieri inclusi. E il ritorno di un atteggiamento di potenza, di intervento, di arbitrio, di coloro che colgono - nel loro modo distorto però già noto nella storia - il messaggio: si può dare la caccia, cominciando con il disprezzo, a chi non è nella Chiesa.

Dopotutto veniamo a sapere che chi non è nella Chiesa è portatore di una cultura di morte. Ripeto: si intende che il messaggio è distorto e non è la prosecuzione, ma la deformazione di un clima. Però quel clima di dominio del religioso (un unico “religioso”, il cattolico, il resto è “relativismo”) esiste davvero. E davvero sfiora i confini dell’area oscura che stiamo descrivendo quando avverte, in una nuova preghiera, che gli ebrei è bene che siano convertiti. È una preghiera terribile, perché stabilisce un’unica classe di esseri umani accettabili, i battezzati. Per gli altri c’è chi avrà pazienza come la Chiesa (che - nei secoli - non eseguiva la condanna a morte di un condannato ebreo prima di averlo convertito) e c’è chi, tra i battezzati, coglierà il senso del privilegio di essere dalla parte giusta, dunque la superiorità, dunque il diritto di purificare gli ambienti (università o saloni del libro) da presenze nemiche e pericolose.

* * *

Io credo che gli amici credenti, che forse sentiranno queste parole come una offesa (invece è, io credo, una descrizione dei fatti), coglieranno il punto politico che riguarda questa campagna elettorale e che è la difesa piena e totale dello Stato laico, per ricostruire una comunità che si fondi su quella naturale amicizia, volontà di comprensione e di collaborazione reciproca che è tipica di chi, con onestà e buona fede, crede davvero e di chi chiede solo che sia rispettata la sua rispettabile dichiarazione di non credente.

Ecco perché mi dispiace che i Radicali italiani, che hanno dato nei decenni della rinata e imperfetta democrazia italiana un contributo molto grande alla costruzione del rispetto (opponendosi, per esempio, alle continue messe in scena dei finti credenti, che ricostruiscono in politica le più colorite processioni del Sud italiano) non siano parte del dibattito nella politica italiana che ha come programma di ridare un futuro all’Italia. Non mi sognerei mai di immaginare che la presenza di tanti credenti dichiarati e, come dire, professionali, nel Partito democratico siano una sorta di freno a mano tirato. Ci sono e ne hanno diritto. Ed è naturale che almeno i più “professionali” fra i credenti di cui stiamo parlando (quelli, cioè che non escono mai senza divisa) siano irritati da Bonino e Pannella, quando propongono di tracciare chiare linee di reciproco rispetto fra ambiti e responsabilità diverse. Ma non credo che quella irritazione ci debba riguardare tutti al punto da rifiutare un rapporto attivo di lavoro politico con i Radicali nel timore di offendere qualcuno.

Sono sicuro che possiamo porre fine al carnevale dei finti credenti (che, un giorno si ammetterà, sta facendo non poco danno alla religiosità, al sentimento di fede) e al carnevale degli atei devoti (rispetto al quale una giornata di Gay Pride non è che un pacato corteo). Soltanto unendo le forze di persone che si rispettano e rispettano il diritto di credere e non credere, e di ottenere certi servizi indipendentemente dalle prescrizioni religiose, si possono ottenere certi servizi indipendentemente dalle prescrizioni religiose da parte delle istituzioni a favore dei cittadini. Sono sicuro anche che soltanto insieme credenti e non credenti potranno fare muro - come nella Resistenza - per impedire l’espandersi di gruppi che credono di trovare conforto nel nuovo piglio autoritario della Chiesa e provano di nuovo a tracciare i confini fra terra benedetta e terra sconsacrata. Nella terra sconsacrata sono ammesse, più o meno in nome di Dio, le scorrerie punitive, le umiliazioni, le prove di caccia, i tentativi di negazione.

* * *

Sto parlando al Partito democratico, che ha deciso di giocare con coraggio le due carte più rischiose e più importanti nella vita e nel futuro di questa Repubblica: la carta del «correre da soli», un ricominciare da capo con tutte le persone di buona volontà, affinché si diradi almeno un poco l’aria velenosa che tanti in Italia sono costretti a respirare. E infatti questa decisione ha creato un bel tumulto nella ex Casa delle Libertà. E la reale possibilità di governare bene un Paese nel quale ci si è abituati a promettere tutto e a non rendere conto di nulla. È ciò che è stato in questi mesi il tentativo di Romano Prodi. Intorno a quel tentativo si è stretta, durante due anni, senza alcuna pausa o interruzione e senza alcun riguardo per gli interessi del Paese, la garrota di un pesante ostruzionismo che ha preso il posto della normale opposizione democratica. Sappiamo anche che in quei mesi la continuità di buon lavoro dei Radicali dentro quel governo ha evitato teatro, dispute ed esibizioni, e portato risultati.

Il più importante è una ragione di orgoglio per tutto il Paese: la “moratoria contro la pena di morte”, accettata come appello a tutto il mondo dalle Nazioni Unite. Come si ricorderà, la “moratoria” radicale è stata copiata, in modo un po’ penoso, usando la stessa parola in senso rovesciato, non come liberazione ma come divieto assoluto di decidere per le donne.

È interessante che questa copiatura a destra di un’idea originale che appartiene al mondo che non concepisce divieti religiosi, corrisponda alla copiatura della sfida di «correre da soli» lanciata da Veltroni per il Partito democratico e subito adottata (ma di nuovo male e rovesciandone il senso: correre da soli non per chiarezza ma per sottomettere almeno uno dei riottosi alleati) da quella nuova cosa detta orwellianamente “Popolo della libertà”. La coincidenza dovrebbe richiamare una naturale affinità di questa nuova avventura con chi ci aiuterebbe a tenere ben vivo il senso laico della politica e dello Stato, senza porre alcun problema di rispetto, attenzione e lavoro insieme con le persone che sono credenti in politica, e non politici del credere.

Tutto ciò è giusto e utile ripeterlo nel “giorno delle svastiche” e degli elenchi di docenti ebrei. Diciamo che c’è qualcuno che più o meno deliberatamente capisce male il messaggio di egemonia della Chiesa. Ma quella pretesa di egemonia c’è, dunque il pericolo. Dirlo significa rispettare la Chiesa quanto lo Stato. Chi ha fiducia in quello che sarà e riuscirà a fare, anche in queste elezioni, il Partito democratico di Veltroni vorrebbe porre qui, adesso, le basi quella ariosa civiltà laica in cui vivono i nostri concittadini dell’Unione Europea e quelli americani a cui abbiamo chiesto di prestarci le parole «si può».

Sì, è vero, «si può». Cominciando con il metterci in cammino insieme verso il territorio del rispetto laico, dove credere non vuol dire prevalere, dove non essere credenti o cattolici non diminuisce i diritti di nessuno, mai.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 10.02.08
Modificato il: 10.02.08 alle ore 8.02   
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« Risposta #59 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:16:35 pm »

Berlino, un Orso chiamato Rosi

Furio Colombo


Berlino ha attribuito il suo premio più importante, l’Orso d’Oro alla carriera, al regista italiano Francesco Rosi. Per gli italiani è un motivo di orgoglio. Lo è per chi non ha dimenticato che grande stagione e periodo della storia culturale italiana è stata quella affollata, con Rosi, di Visconti e Antonioni, di Fellini e di Scola, di Monicelli e di Bertolucci, un tempo in cui un rapporto stretto legava gli italiani al cinema, il cinema alla letteratura, e la pressione di narrare e rappresentare alla vita politica, agli eventi pubblici, a una sorta di militanza che, contro quanto si crede, non era necessariamente partitica, ma certo non era mai divagazione e astensione.

La giuria di Berlino ha voluto definire il ruolo di Francesco Rosi in quell’Italia, in quell’Europa, in quel periodo di lunga e salda presenza sulla scena della vita italiana.

Francesco Rosi è il regista de I Magliari, il regista de La sfida, il regista giovane che nota in modo istantaneo il nodo in cui si formano gli eventi italiani del dopoguerra, che poi diventano criminalità o impresa, banditismo o politica.

Nel cuore di una cultura elegante e amante di una certa grazia narrativa che si sta già facendo amare nel mondo, Rosi si situa a una distanza breve dalla vita. E la vita che lui vede e fa diventare film è umana, calda e brutale. Pulsa in quella vita la forza violenta di chi è deciso a sopravvivere e a vivere e a vincere, benché venga da un al di là di esistenza sociale che non ha ingressi, né scuole, né legami o garanzie o leggi. Non tanti italiani si accorgono subito di questo cinema. Ma l’Europa prende nota, colpita anche dal taglio netto di inquadrature e sequenze, che sono quello che sono, cioè realtà, senza un ornamento in più. E dalla potenza di quelle vite incolte e ordinarie che hanno la forza della tragedia. Rosi è il regista che - intorno a queste vite perdute - si impegna a vedere e a raccontare che cosa avviene in quelle esistenze quasi non raccontabili, in quelle vite di margine. E si libera di denuncia o realismo da un lato con la narrazione documentaria (quel che è vero è vero, quel che avviene, avviene) dall’altro con un senso nitido, chiaro, pedagogico della Storia che circonda e genera le storie.

C’è un punto di vista molto più grande di quella realtà. Ma è dalla parte del regista, che guarda e che trasforma la vicenda in film. Le dimensioni di quel film documento diventano quelle di un periodo della Storia, ben più grande di quelle vite, benché apparentemente non si veda.

Il capolavoro arriva presto e coglie di sorpresa soprattutto coloro che coltivano e ammirano il cinema strettamente legato ai fatti.

È Il bandito Giuliano in cui, in una serie di eventi filmati come a ridosso di ciascuno di essi, come per semplice e implacabile testimonianza, racconta di una vicenda di giovani fuori legge votati al sangue e destinati a morire, intorno ai quali, senza mai smuovere l’attenzione dai loro gesti, dai loro volti, dalle loro imprese, c’è il mondo che ha vinto e finito la guerra, c’è il rapporto fra l’Italia e gli Stati Uniti, c’è l’Italia di allora, confusione, contraddizione, negazione, abbandono, disperazione, speranza, o piuttosto promesse e attese.

C’è la storia misteriosa mai veramente chiarita del separatismo siciliano e di chi vi ha lavorato nell’ombra. C’è una Sicilia italiana e straniera, legata e respinta, abbandonata e occupata. C’è un progetto di secessione che forse non è di pochi esaltati. C’è l’ossessione di combattere i comunisti (L’eccidio di Portella della Ginestra in sequenze così perfette che ancora oggi vengono usate come se qualcuno avesse filmato il fatto nel momento in cui si è sparato sul corteo operaio e contadino del Primo Maggio) che nella parte malata della politica italiana continua da allora, pur attraversando grandi stagioni tra corruzione, ricostruzione, miracolo economico, altra corruzione, altre negazioni e segreti, altri miracoli.

La totale sorpresa del cinema, non solo italiano (Il bandito Giuliano è immediatamente un film del mondo) è nella grandezza tragica del protagonista che regge da solo e paga da solo un complotto forse vasto e potente. È nella irrilevante piccolezza del protagonista, bandito di periferia della periferia del mondo, vanesio, ingenuo, incolto, soltanto un braccio armato. In questo il film si rivela e il regista si annuncia: la forza anticipatrice, la forza profetica. Rosi, infatti, aggiunge alla fermezza documentaria del suo narrare cinematografico un senso allo stesso tempo istintivo e calcolato di organizzazione degli eventi, con l’occhio non tanto al passato quanto al futuro. Non dite «montaggio», che è solo una tecnica cinematografica. Piuttosto il senso, che appartiene all’arte, che il prima e il dopo non sono quelli della cronaca ma di una verità più profonda che diventa rivelazione. Come in una Bibbia incisa sulla capocchia di uno spillo, Il bandito Giuliano contiene tutte le storie di mafia che verranno, tutte le storie di complotto italiano che seguiranno, fino agli anni di piombo. Anticipa l’uso e la manipolazione delle vite degli altri, materiali umani mandati a morire per ragioni che non sanno, a nome di cose o persone che non si rivelano, portando e subendo orrore di cui a momenti si sentono protagonisti e di cui non sanno e non sapranno mai nulla. Quando, ne Il Bandito Giuliano i carabinieri di un’Italia che torna ad avere le sue Forze armate scendono e salgono per le stradine del paese, occupano, invadono, arrestano, penetrando nella notte in ogni fenditura di quella vita ignota a tutti, il film ti annuncia, per adesso e per dopo, che in quella folla acciuffata e ammassata sui camion militari, sono tutti complici e sono tutti innocenti. E i soldati, a loro volta, sono l’occupazione e la liberazione, tante carte a cui non sai che valore dare perché non sai chi le gioca. E c’è una profezia più netta e precisa del corpo di Giuliano ucciso, trofeo della legge che vince e cadavere della messa in scena, dove tutti, giornalisti italiani, inviati stranieri e magistrati e poliziotti, osservano ciò che è destinata ad essere la vita italiana, vera e falsa, colpevole e innocente, con una versione e con l’altra, fra strati di interessi, di rivestiture ideologiche, e la coperta corta della speranza che non riesce a nascondere quel corpo e a farci dire «meno male, è finita!».

Rosi non distoglie lo sguardo dalla realtà. E nel suo celebre film Le mani sulla città vede il cemento. Lo nota da solo e per primo come una causa di corruzione continua che in Italia sta per diventare il grande male cronico al punto che, a Venezia, quando finisce la proiezione del film che sarà Leone d’Oro, le signore milanesi in piedi, indignate usano le chiavi dell’Hotel Excelsior come fischietti per esprimere il loro disprezzo per quel film-denuncia. Forse prevedevano, che «Mani pulite» (il grido degli assessori complici della scena madre di quel film) sarebbe diventato il nome della più grande inchiesta giudiziaria sulla corruzione politica mai tentata prima. Strano regista, Francesco Rosi, che annuncia le sue storie italiane con quarant’anni di anticipo, come testimonia oggi, raccontando il cemento di Napoli,il giovane scrittore Roberto Saviano.

La performance di Francesco Rosi, regista di fatti veri e narratore visionario di eventi non ancora accaduti, si ripete con un altro dei suoi film non dimenticati, Il caso Mattei. Tutto ciò che accade oggi intorno al petrolio, fino al prezzo oggi raggiunto di 100 dollari al barile, è in quel film, in quella vita, in quella morte. Al punto che ogni tentativo di riaprire anche solo un frammento di indagine sul caso Mattei, ai giorni nostri, induce non i critici ma i magistrati a chiamare Francesco Rosi «per sapere».

Non conosco la motivazione di Berlino, mentre scrivo, non ancora. Ma credo che, nell’elenco di opere straordinarie che sono la vita e il lavoro di Rosi, abbiamo contato Cristo si è fermato a Eboli (nell’anno in cui il Senato italiano ha voluto celebrare con il nome di Carlo Levi il «Giorno della Memoria»), Tre Fratelli, documento unico sul formarsi del terrorismo visto dall’interno di una famiglia contadina-operaia. Ma anche La Tregua. Rosi è stato il solo regista a cui Primo Levi ha affidato il suo libro indimenticabile sul ritorno dall’inferno alla vita. In quel film - di nuovo - c’è l’incomprensibile catena di eventi che ha portato alla immensa fabbrica della morte, sostenuta dalla complicità del silenzio del mondo. E c’è l’imbarazzo, anzi il fastidio, di quei bravi cittadini che se ne vanno dalla piazza del mercato di Cracovia quando il giovane prigioniero appena liberato cerca di spiegare che non era stato imprigionato e destinato a morire perché «politico». Doveva morire perché ebreo. Quella è la scena in cui Francesco Rosi racconta, insieme con Primo Levi, l’inizio del dopoguerra, con le sue ombre tetre e lunghe (lo vediamo nei giorni in cui compaiono «le liste» della Sapienza di Roma, e si parla di boicottare il Salone del Libro di Torino se sarà dedicato a Israele) che incombono ancora su di noi.

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Pubblicato il: 15.02.08
Modificato il: 15.02.08 alle ore 14.43   
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