Politica
Voto, suffragio universale e democrazia ‘borghese’ di Manzoni
Di Otello Lupacchini | 16 novembre 2016
Giusfilosofo e magistrato
“La vittoria di Trump è fra gli eventi più sconvolgenti della storia della democrazia europea e americana, e del suffragio universale che non è sempre stata una storia di avanzamento… Ma anche foriero di grandissime conseguenze negative per il mondo”. Queste parole dell’ex Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, a proposito del risultato delle presidenziali americane, alle quali ha fatto eco la preoccupazione di Fabrizio Rondolino: “Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale”. Si tratta dell’inquietante lascito di una tradizione formatasi a cavallo tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, in diverse forme e varianti conservatasi per il resto dell’Ottocento, riemersa più volte nel corso del Novecento e che permane ancora ai giorni nostri.
La stessa tradizione per la quale, almeno in Italia, ma potremmo dire anche in Europa, i climi d’opinione si sono mostrati sempre più spesso ostili al concetto della “contrattazione” e, specularmente, più sintonici con posizioni variamente riconducibili al paradigma del cosiddetto “decisionismo”. Lo confermano l’instaurazione del leaderismo in politica e la privatizzazione della forma-partito; il tramonto delle “relazioni industriali”, l’esaurimento dei cosiddetti “corpi intermedi”; il ripudio della concertazione come schema di governo; la riforma, in senso verticistico, del diritto del lavoro e dell’ordinamento scolastico; l’indebolimento del potere legislativo nei confronti dell’esecutivo e del maggior partito di cui questo è espressione; il depotenziamento delle funzioni di controllo attraverso l’attenuazione, parziale o totale, della loro terzietà.
Basti pensare, a tale ultimo proposito, alla riforma del Senato, con i rappresentanti di questo ramo del Parlamento, che verrebbero nominati proprio da quegli stessi enti, come regioni e città metropolitane, su cui i senatori dovrebbero esercitare la propria funzione di controllo. Si tratta di cambiamenti non semplicemente rubricabili all’ambito di una generale deriva autoritaria o, peggio, reazionaria della società italiana: tali processi non sono promossi e gestiti esclusivamente da forze politiche espressamente antiprogressiste, essendo invece molti i cittadini d’orientamento riformista e progressista che si riconoscono in tali tendenze, le quali s’iscrivono in quel filone politico-culturale proprio della tradizione storica italiana, che concilia obiettivi di tipo riformatore con mezzi operativi di carattere verticistico: il modernismo paternalista.
Questa impostazione, particolarmente sintonica con la cultura cattolica, trova il suo manifesto ideologico nei Promessi Sposi. Il romanzo di Alessandro Manzoni, infatti, non è soltanto un’opera d’arte, ma uno strumento ottimamente forgiato per un’operazione di egemonia politico-culturale di altissima qualità. Fu Antonio Gramsci a definire, per primo, paternalistica e aristocratica la simpatia del Manzoni verso gli “umili”; una simpatia, scrisse, analoga alla “benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali“.
Giudizio ripetuto da Alberto Asor Rosa, per il quale gli “umili”, cioè Renzo e Lucia, sono rappresentati come ingenui, “che mai potrebbero arrivare alla verità o marciare sulla giusta strada, senza che una guida illuminata (il padre Cristoforo o il cardinale Federigo) non provvedesse a indicargliela; mentre il dramma spirituale, l’intima conquista della fede, sono ancora una volta riservati a un personaggio, l’Innominato, che è un tipico eroe delle classi alte”.
Due, da sempre, gli orientamenti, nell’ambito del modernismo paternalistico, quello moderato e quello radicale o democratico, ma, almeno all’inizio, le analogie politiche tra l’uno e l’altro sono numerose, riscontrabili sia sul piano degli scopi generali, quali il fine patriottico, lo scopo costituzionale, gli obiettivi di modernizzazione, sia su quello dei mezzi, degli strumenti e dei programmi per conseguire quegli scopi.
Una sola la discordanza, da sempre presente e percepibile: i secondi, seppur con qualche incoerenza, erano per una partecipazione attiva dei ceti popolari al processo di modernizzazione del Paese; i primi non nutrivano fiducia nella capacità di auto-coscienza politica esprimibile dalle classi popolari.
Oggi i due orientamenti tendono all’omologazione: ai ceti popolari va senz’altro il sostegno e la sincera simpatia dell’establishment, a patto, però, che accettino di essere eterodiretti da una “leadership esterna”, espressa dai settori più illuminati e progressisti del ceto borghese. Ovviamente non è cosa da poco, ma tale atteggiamento politico non può essere etichettato tout court come conservatore bensì, semmai, come progressismo paternalistico o verticistico. Esattamente come paternalistico e verticistico era stato il filone anticonservatore Sette-Ottocentesco.
Di Otello Lupacchini | 16 novembre 2016
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