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Autore Discussione: Roberto COTRONEO.  (Letto 37064 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 25, 2008, 05:23:12 pm »

Undicietrenta,

Ma questo non è il nulla

di Roberto Cotroneo


Questa mattina, con orrore, tutti i giornali hanno commentato la notizia dei quattro ventenni che hanno bruciato un clochard. La parola d’ordine, di tutti, è che questi ragazzi rappresentano “il vuoto”. Perché hanno detto che lo hanno fatto “per divertirsi”, perché non appartengono a nessuna organizzazione politica estremista, razzista o xenofoba, perché sono ragazzi “normali”: un elettricista, un ragazzo che lavora in un laboratorio di analisi, un altro che fa lo studente. Ormai purtroppo si ragiona per parole d’ordine collettive, e per paradigmi condivisi. Ma non è vero che questi ragazzi sono il vuoto, non è vero che fanno tutto questo perché vivono in un benessere assoluto, non è vero che sono annoiati, viziati. Purtroppo sarebbe semplice se così fosse, orrendo ma semplice. Il problema dei quattro ragazzi non sta nel fatto che non gli hanno dato i libri giusti quando erano piccoli, che non hanno avuto una figura di riferimento, un professore, un sacerdote, un maestro di arti marziali, che gli cambiasse la vita. E non sta solo nell’uso diffuso da parte di molti ragazzi di quell’età di stostanze stupefacenti, pasticche e alcol. Questo lo stabiliranno le investigatori. Si saprà se hanno bruciato il clochard perché erano sotto gli effetti di droghe sintetiche, oppure no.

In realtà, e spiace deludere tutti quelli che ripiegano sulle formulette sociologiche del vuoto e delle assenze di valori, questi ragazzi i valori ce li hanno. Si portano appresso il disprezzo, si portano addosso la violenza originaria maschile da raid, da guerra, da rastrellamento. Le donne non compiono quasi mai reati di questo genere, possono uccidere persino i propri figli, ma le azioni da branco sono quasi inesistenti. Gli uomini sì, e nella storia queste cose le hanno fatte sempre i giovani di quella età, che è l’età in cui si va in guerra, che è l’età della crudeltà. Sono sempre accadute, purtroppo, e obbediscono a comportamenti razzisti, al sadismo puro. Fossero ragazzi vuoti non si scomoderebbero: sono ragazzi pieni di rancori, di sospetti, di disprezzi, ragazzi che hanno ereditato discorsi e comportamenti collettivi antichi e ripetuti che vengono da molto lontano, e non sono affatto della loro generazione, anzi. Quei padri, quei nonni di questi ragazzi che li definiscono vuoti, dovrebbero andarsi a rileggere i libri di storia, anche di storia italiana. Dovrebbero rivedersi i documentari sulle nostre guerra coloniali, per capire cosa i giovani di allora erano capaci di fare e hanno fatto. Non è la società contemporanea a generare queste cose, è la violenza originaria, come la chiamerebbe René Girard. È una cultura perversa, altro che il vuoto.


25 Nov 2008
da ww.unita.it
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 28, 2008, 06:03:06 pm »

Undicietrenta, e ora bisogna spiegare e capire

di Roberto Cotroneo


Nessuno mi toglie dalla testa che un ex deputato di Rifondazione Comunista, nota con il nome d’arte Vladimir Luxuria, che partecipa a un reality televisivo e lo vince, non sia una notizia da prima pagina dei giornali, e neppure da seconda. Nessuno mi toglie dalla testa che sia una notizia da trafiletto su pagine interne. E nessuno mi toglie dalla testa che è patetico dichiarare, da parte di un ex deputato, che gli italiani votando per lei per il reality hanno dimostrato di essere maturi. E di essere assai poco omofobi. Il punto è che l’onorevole Guadagno dopo un’esperienza parlamentare avrebbe fatto meglio a non partecipare a un reality, oppure se il suo mondo più congeniale era quello dei reality, avrebbe fatto meglio a non candidarsi e farsi eleggere alla Camera.

Nessuno mi toglie dalla testa che la notizia patetica del dirigente di estrema destra della Basilicata che offre 1500 euro per chi, in cinque piccoli comuni, darà il nome ai proprio figli di Benito e Rachele non vale neppure un trafiletto in fondo a destra. Perché non è vergognoso, non è spiritoso, non è interessante, e non è neppure folcloristico. Non è nulla, in realtà.

Nessuno mi toglie dalla testa che dopo quanto accaduto ieri a Mumbai, dopo tutto quel sangue, dopo che si è preso atto, ancora una volta di quanto i temi seri, quelli veri, entrano nella nostra vita e li sconvolgono, bisognerà cominciare a ripensare a quali sono davvero le notizie che hanno un senso, e servono a qualcosa: ovvero a spiegare a persone che non capiscono, che sono stordite dalla violenza, cosa sta accadendo e perché.

Nessuno mi toglie dalla testa che bisogna reinventarsi la vera gerarchia delle notizie, bisogna fare un lavoro complesso, che non è solo la scelta delle notizie da pubblicare oppure no, ma è soprattutto la capacità di avere, sapere riconoscere, e imporre un paradigma vero. Di fronte a tutto quello che sta accadendo e che accadrà c’è soltanto una soluzione: pensare all’informazione e ai giornali in un modo davvero nuovo, che non è solo quello più serio e più responsabile, ma è quello che porta a capire davvero, è quello che non pensa che tutto sia una notizia, basta che interessi i lettori.

28 Nov 2008
da unita.it
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« Risposta #17 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:08:51 pm »

Undicietrenta, E su internet si cliccano stupidaggini

di Roberto Cotroneo


Tutto è davvero molto interessante. E persino grottesco. L’altro giorno Aldo Grasso dalle colonne del “Corriere della Sera” faceva notare che il “Porta a Porta” di Bruno Vespa del 27 novembre scorso, non aveva trovato di meglio che affrontare il tema: «Gli italiani sono contrari al nudo in tv?».
Radunando, a esprimersi sul tema, noti opinion leader come Alba Parietti, Lory Del Santo, Sergio Mariotti, in arte Klaus Davi, Silvana Giacobini, Stefano Zecchi, Roberto Gervaso, Eleonora Daniele, Giancarlo Magalli, Barbara Chiappini. Va be’ non c’è niente di nuovo in questo ma soltanto la solita vecchia storia. Nel mondo accade di tutto, la Rai è servizio pubblico, i telespettatori si fermerebbero volentieri ad ascoltare gente intelligente che spiega loro da che parte va il mondo, e invece siamo alle solite coscie lunghe, e parole in libertà.

Ma proprio questa mattina, girando per i siti dei giornali mi sono accorto che la notizia più cliccata del sito online del “Corriere della Sera”, dai navigatori della rete, è quella pubblicata qualche ora fa, e ripresa non si sa da chi. Si narra, in questa curiosa notiziola, che in Uganda è meglio non accettare offerte seduttive da parte di avvenenti fanciulle. Si tratta di un trucco, le fanciulle si spalmano il seno e il corpo di un potente sedativo, e il malcapitato dopo pochi minuti, entrando in contatto con la pelle della fanciulla, sviene e viene derubato.

E pensare che le notizie da cliccare dovevano essere altre. Il pericolo di una guerra (tra l’altro devastante) India-Pakistan, la strage in corso in Nigeria tra musulmani e cristiani, che ha fatto quattrocento morti, Microsoft, che in barba a qualsiasi posizione dominante, che si sta per comprare Yahoo per soli 20 miliardi di dollari. Berlusconi, che in barba alla sua posizione dominantissima raddoppia l’iv alle pay-tv. Ma tutte queste sono notizie, non sono chiacchiericcio, non sono il fondamento di quella beata irresponsabilità che attraversa sia l’informazione che l’intrattenimento in Italia ormai da quasi un decennio. Se Vespa può mandare in onda una trasmissione trash e inutile è proprio perché c’è gente che anziché cliccare sulla Nigeria quando va su internet, per capire cosa accade, perde tempo a leggere che in Uganda le donne rapinano i gonzi occidentali con i sedativi sulla pelle. «Finora sono trentotto le donne fermate», trentotto in tutta l’Africa, trentotto in tutto il mondo. Poco più in là, in Nigeria, centinaia di persone si massacrano, in un altro continente, l’Asia, è accaduto qualcosa di gravissimo. Ma noi ascoltiamo ancora la Parietti e clicchiamo sulle stupidaggini. Ma possiamo diventare un paese normale andando avanti così?


01 Dec 2008
da unita.it
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 02, 2008, 06:22:43 pm »

Undicietrenta, ma ci stanno raccontando ancora delle favole

di Roberto Cotroneo


Ho sempre pensato che il vero potere in televisione, il potere di orientare politicamente le persone, il potere di spostare le opinioni, non viene dai programmi di informazione, neppure da quelli più seguiti. E non viene neppure dai telegiornali. Ma viene dalle fiction. E dal modo in cui le fiction hanno riscritto la storia del nostro paese, dando verità televisive che rimangono impresse.

Parlo delle fiction sui papi, sugli uomini politici, sui sacerdoti, su tutto quanto è possibile sceneggiare con un risultato retorico, dolciastro, impreciso. L’ultima andata in onda, quella su Paolo VI (interpretato da Fabrizio Gifuni, prodotto dalla Lux Vide di Ettore Bernabei), l’ennesima, è ancora più interessante delle altre, perché come tutti sanno Papa Montini fu uomo assai problematico, non troppo popolare, schivo. Come si diceva allora: un papa intellettuale, che ha cambiato la sua chiesa, ma lo ha fatto attraverso decisioni per nulla spettacolari, e soprattutto assai poco visibili.

Dunque una fiction su Paolo VI poteva essere una scommessa semmai per un film alla Francesco Rosi, non per un fumetto impreciso, e in alcuni punti decisamente didascalico. Invece si è deciso di cambiare, e questo accade ormai da anni, le carte in tavola, si è deciso di ignorare la storia e di trasformarla in una paginetta rassicurante. Ma per chi? E questa è la domanda più interessante. Una propaganda per i più giovani? O invece un’operazione nostalgia messa assieme alla meglio? Direi la seconda ipotesi. Quello che colpisce è soprattutto una cosa: queste fiction non sono pensate per i più giovani, quelli che magari non conoscono la storia, e forse non hanno mai sentito parlare di Paolo VI.

Sappiamo bene che i più giovani non vedono le fiction della televisione generalista. Queste fiction sono pensate per gli anziani, per quelli che c’erano, per quelli che hanno visto, e hanno vissuto quegli anni. Ma li hanno vissuti alla fine. È un modo per risistemare tutto. Per aggiungere gli anelli mancanti, per dare un’idea ancora più salda e ancora più rassicurante a certi eventi. Così il dramma di Montini sull’uccisione di Aldo Moro, con cui inizia la fiction, è un dramma patinato, e invece quello fu l’evento che peggiorò le sue condizioni di salute, e il Montini giovane diventa un barricadero, quasi un sacerdote di frontiera.

Nell’epica delle fiction tutti sono semplici, lineari e comprensibili, e le contraddizioni non sono una costante dell’esistenza, ma solo una sorta di mal di testa, che alla fine passa. E non può non passare. E poi dicono che nessuno è più capace di raccontare le favole.


02 Dic 2008
da unita.it
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 02, 2008, 11:54:57 pm »

Quando la politica arriva su Facebook

Roberto Cotroneo


Le strade della politica sono infinite. E non soltanto perché ormai si parte in pullman per toccare tutte le città e parlare con la gente, ma anche perché si utilizza quello che genericamente chiamiamo internet. E in particolare si utilizzano i Social Network. Ovvero quei siti dove le persone si parlano, si conoscono e si scambiano informazioni. Roba per studenti giovani, dei college americani, che hanno inventato un modo per ritrovarsi tra vecchie matricole, o vecchi laureati, sparsi in giro per il mondo. Ti iscrivevi, mettevi la tua fotografia, poi le informazioni sull'anno di laurea, l'università, il corso, il PhD, o il dottorato, e ti contattava quel vecchio amico del tuo corso, che non vedevi da dieci anni, e che magari fa il manager a Sidney, o lavora come produttore a Bollywood. Chi lo avrebbe mai detto che si poteva inventare un mezzo per ritrovarsi così facilmente. Facebook, che poi è il libro degli studenti dei college americani era questo.

L'inventore può vantare anche una data di fondazione. Facebook è stato fondato il 4 febbraio 2004 da un ragazzino di soli 19 anni: Mark Zuckerberg, studente ad Harvard, esattamente per questo scopo. In un paio di mesi, su Facebook si sono iscritti anche quelli dell'Mit, e via allargando. Per capire le dimensioni del fenomeno in meno di quattro anni, il sito Facebook vale più di 18 miliardi di dollari e ha 120 milioni di iscritti. Il primo uomo politico che ha capito l'importanza dei social network, è il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama che ha 1.945.000 sostenitori. Ma ora sta succedendo qualcosa anche in Italia. Non solo Facebook sta contagiando studenti e comuni cittadini che si vanno a cercare i vecchi amici persi nei trasferimenti di città, o chissà dove, ma è diventato un punto di riferimento per la politica, soprattutto quella di sinistra, e in particolar modo quella vicina alle varie anime del partito democratico.

Il primo è stato Walter Veltroni, ufficialmente convinto dalla figlia, ma anche attento da sempre ai nuovi mezzi della rete. Veltroni è iscritto a Facebook non come "personaggio pubblico", non con un profilo vetrina, con i fan che si iscrivono (per fare un esempio, come Steve Jobs, o George Clooney) ma con un profilo personale, che secondo la leggenda gestisce lui stesso. Amici: circa 4800. Cosa significa? Significa che uno si iscrive a Facebook, mettendo nome cognome, un indirizzo mail, e possibilmente la fotografia (su Facebook ci si mette la faccia), poi cerca Veltroni, e gli chiede di diventare amico. Con ogni probabilità la risposta sarà affermativa. E a quel punto la pagina di Veltroni sarà visibile: visibile quello che scrive, visibile la sua bacheca, dove si può commentare la politica, quello che accade, e magari anche protestare.

C'è lui dietro il profilo Facebook? Veltroni sostiene di sì, altri dicono che un paio di persone curano il suo profilo di Facebook, la verità, come sempre, sta probabilmente nel mezzo. Ma l'ingresso di Veltroni sul Social Network più popolare del momento, ha portato a un gioco di emulazione che stupisce. Se si va a cercare, si trovano altri politici, incominciando da Pier Ferdinando Casini, presente, anche lui, su Facebook con un profilo personale, e una fotografia dove sfoggia un giubbottino di pelle molto giovanile. Casini ha circa 900 amici ma interagisce poco. In realtà sono tutti messaggi di augurio scritti da fan e da attivisti politici. Anche Enrico Letta è su Facebook, 2000 amici, circa, mette ogni tanto pensieri rapidi su ciò che pensa, e informa su tutto quello che ha fatto, oltre ai suoi incarichi di ministro, la passione per Dylan Dog e per il Subbuteo, gioco da tavolo che pratica ancora oggi. Su Facebook c'è anche Antonio Di Pietro, che legge direttamente i messaggi, e risponde. E questo era immaginabile.

E su Facebook ci sono Capezzone e Gennaro Migliore, già capogruppo di Rifondazione alla Camera, e il presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti. E ci sono i giornalisti: c'è Bruno Vespa e il direttore editoriale del "Tempo" Roberto Arditti, c'è il vicedirettore del "Corriere della Sera" Pierluigi Battista, c'è Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Purgatori e Marina Valensise, e il direttore di "Europa" Stefano Menichini, il vicedirettore di "Repubblica" Massimo Giannini. E c'è Carlo Freccero, l'editore Alberto Castelvecchi, il regista Ferzan Ozpetek, lo scrittore Giorgio Faletti. Non sono profili messi a caso, c'è ormai un collegamento autentico tra le persone, che senza Facebook sarebbe stato impensabile. Non c'è Massimo D'Alema, ma ci sono gli uomini che sono stati con lui per molto tempo: Fabrizio Rondolino, Claudio Velardi, Gianni Cuperlo, Andrea Romano, tutti presenti e attivi su Facebook. Quello che accade in questa rete è curioso. Perché Facebook è sostanzialmente democratico ed è un modo, in fondo, per capire gli umori delle persone, attraverso la rete di internet. La condizione è che l'identità sia certa, e che non si utilizzi il network per scopi non consentiti.

Anzi, Facebook ha regole così rigide che basta sbagliarsi una volta e ti cancellano. Ma è evidente che questa volta non siamo di fronte a uno dei tanti giochi della politica per rendersi un po' più visibili, ma c'è qualcosa di più. È vero che Facebook annulla le distanze, e sembra seguire dei fili che prima non esistevano, è quasi una lobby che si regge molto sulla scelta di essere presenti su un network, che si muove in modo autonomo e cresce di continuo. Negli ultimi tempi in molti si sono piacevolmente stupiti di trovare tra i profili Facebook il presidente emerito della Repubblica Carlo Azelio Ciampi. È proprio lui? L'elenco degli amici dice che sono circa 300 e la maggior parte sono studenti e giovani. Il mistero rimane. Ma se davvero il presidente Ciampi, dall'alto del suo ruolo e dei suoi anni avesse deciso di farsi un profil su Facebook, vorrebbe dire che la febbre da social network è ormai salita al massimo.

www.robertocotroneo.net

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.32   
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 03, 2008, 11:59:04 am »

Undicietrenta, Quando un paese è in declino

di Roberto Cotroneo


C’è un piccolo dato, nel nostro paese, che spiega meglio di altri che le cose non vanno proprio. Eurostat ha pubblicato proprio ieri ieri i dati che riguardano la diffusione di internet in Europa. Siamo al terz’ultimo posto. Dopo di noi ci sono soltanto Romania e Bulgaria. Il dato già così è sconcertante, ma c’è di più, dal 2007 a 2008 abbiamo perso un punto di percentuale: ovvero nel 2007 accedevano alla rete il 43 per cento degli italiani, mentre nel 2008 accedono il 42 per cento. È un calo unico, che non si ritrova i nessun paese d’Europa. Per intenderci: l'Olanda è al 86 per cento, Norvegia e Svezia all’84, Danimarca 82 per cento, Lussembeurgo 80 per cento, Germania 75 per cento, Regno Unito 71 per cento. Con una media europea del 60 per cento. Tutti i paese europei, compresa Bulgaria e Romania sono comunque in crescita. Noi no.

Questo dato sembra piccolo e non lo è, ed è un segnale sul perché siamo un paese in declino. L’utilizzo di Internet, come accesso a informazioni, come miglioramento della qualità della vita attraverso l’informatizzazione dei gesti quotidiani, è un fatto ormai acquisito. Non utilizzare la rete è per certi versi una nuova forma di analfabetismo. E soprattutto avere solo il 31 per cento di famiglie che utilizzano la banda larga contro il 48 per cento della media europea è un altro dato sconfortante.

I motivi sono vari. La miopia di non aver incoraggiato la banda larga, e questo vale per tutti i governi degli ultimi dieci anni, le tariffe di internet ancora troppo alte, più alte di quelle degli altri paesi europei. La scuola che sulla tecnologia e sull’uso della rete ha fatto soltanto piccoli passi, e poco efficaci.

Ma soprattutto siamo un paese culturalmente vecchio, che ha meno curiosità verso il mondo, che non sente il bisogno di confrontarsi, che non ha nessuna voglia di andarsi a cercare informazioni, di leggere, di usufruire di una posta immediata ed efficace. Di navigare e trovare nuove cose. Siamo un paese ignorante e diffidente, dove la rete non viene considerata una ovvia opportunità, oltre che una comidità, ma viene vista come un surrogato della vita, un modo per perdere tempo. E c’è un secondo aspetto che spiega bene cosa siamo diventati. Siamo il primo paese in Europa per diffusione di telefoni cellulari. E gli ultimi per diffusione di internet. Non informazione e qualità. Ma chiacchiera con il cellulare attaccato all’orecchio, e poca voglia di informarsi e capire cosa avviene nel mondo. Peggio di così…


03 Dic 2008   
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 08, 2008, 06:15:12 pm »

Undicietrenta, la vitalità dell'Italia? È finita nel '68

di Roberto Cotroneo 


Ho appena finito di vedere un bel documentario, che deve ancora uscire nelle sale e in dvd, di Gianni Borgna, intitolato “Città Aperta. Vita culturale a Roma dal 1943 al 1968”. Realizzato tutto con i filmati dell’Istituto Luce. Ed è un documentario che fa riflettere.

Intanto perché si vede una vitalità culturale straordinaria del nostro paese. Una vitalità che comincia subito, in un paese ancora distrutto, nel senso vero della parola. Dal cinema neoralista ai capolavori di Federico Fellini, alla Commedia all’Italiana, dai primissimi premi Strega, agli artisti di via Margutta, alle riviste letterarie. Nel documentario ci sono immagini sorprendenti, si vedono e si sentono parlare uomini, intellettuali di cui non si conosce più la voce, forse neppure il viso, se non in foto piccole e sbiadite in bianco nero: Silvio D’Amico, Alberto Savinio, un giovane Giorgio Bassani, e Carlo Emilio Gadda, con il suo accento milanese. Si vede dipingere negli atelier di allora Giorgio De Chirico, Carlo Levi e Renato Guttuso. C’è il giovane Moravia, con Elsa Morante, e poi con Dacia Maraini, che è poco più che una ragazza. C’è Pier Paolo Pasolini, sull’aereo che lo porterà in Israele a girare “Il vangelo secondo Matteo”, che dice: «Questo film non concede niente allo spettatore, ma proprio perché non gli concede niente, gli dà tutto».

Eppure, nonostante sia un bellissimo documentario, soprattutto per le molte parti inedite, questo “Città Aperta” va oltre, non so quanto volontariamente o involontariamente, e apre un nodo importante, che non è ancora stato affrontato nel modo più giusto. Il nodo del 68.

Il film di Borgna finisce proprio nel 1968, un attimo prima della contestazione, e finisce con una frase di Parise, che racconta con nostalgia di come era Roma un tempo e guarda a i nuovi giovani, alle nuove generazioni: «E così guardandoli, mi viene da pensare a Roma quando l’avevo conosciuta io, che era pur sempre quella, ma diversa: forse perché ero io più giovane e mi sembrava meno vecchia. Forse perché, nonostante “La Dolce Vita” che l’aveva così ben ritratta, c’era, anche ne “La Dolce Vita”, un rimasuglio di qualche cosa di agricolo, di laziale, insomma di paesano.

Furono, quello che si dice, i migliori anni della nostra vita. Ora, a piazza del Popolo, a via del Babbuino, a piazza di Spagna, avvicinandomi allo studio vedevo e sentivo scomparso del tutto non soltanto quel mondo e perfino quelle persone, come se fossero morte, e sostituite immediatamente da individui di altra specie».

L’intuizione di Parise è la stessa di Pasolini. Ed è il dubbio di oggi, quando ci accorgiamo che dal 68 in poi il nostro paese non ha più prodotto, per anni, nulla di culturalmente rilevante, e ha fermato il paese. E la provocazione è questa: il 68 è stato un movimento sostanzialmente reazionario che ha interrotto tutti i processi di modernizzazione della cultura italiana, che erano vivi e straordinari fino al 1967. Nell’arte, nella letteratura, nella musica, nel teatro, tutto era stato fatto e scritto nel decennio che andava dal 1957 al 1967. Poi solo il buio, slogan e nessuna preparazione culturale. Perché il 68 è stato la reazione di una borghesia mediocre e inadeguata, che in nome della fantasia al potere, ha trovato il modo per cancellare ogni forma di competenza e di meritocrazia, a danno, e su questo Pasolini aveva capito tutto, delle classi più meritevoli e talvolta semplicemente più disagiate.

08 Dic 2008
da unita.it
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 17, 2008, 03:42:30 pm »

Undicietrenta, Bossi e Berlusconi uniti dal sangue

di Roberto Cotroneo


È una agenzia di mezzanotte, la fonte è Agi. Si tratta di poche righe. Le riporto fedelmente. «Pdl: Berlusconi a Bossi, noi uniti col sangue.

(Agi) Roma 16 dicembre: “Noi siamo uniti col sangue. Non ci divideranno mai, non ci riusciranno mai”.
Cosi Silvio Berlusconi durante la “cena natalizia” del pdl rivolto verso il leader della Lega Umberto Bossi.
“Il male non trionferà”, ha sottolineato il Cavaliere».



Parole qualunque, affettuose, dette a una cena di Natale? Chi può dirlo. Ci sono alcune cose in questa brevissima agenzia, sperduta nel mare delle altre notizie e degli altri lanci, come un dettaglio, una vaghezza messa lì, che spiegano non soltanto un mondo, ma una maniera di pensare, un’idea della storia, della politica, lontana, e persino sconvolgente.

Nella politica moderna, o meglio nella politica tout-court non ci si unisce con il sangue, ci si unisce per un progetto, per un’idea della società, per fare guadagnare ancora più soldi a quelli che già ne hanno, o per fare la rivoluzione proletaria, oppure “In God We Trust”, che è il motto nazionale degli Stati Uniti. Ma essere uniti nel sangue significa un’altra cosa. Ha a che fare con il divino e con il misticismo del Santo Graal. Termine che ha la sua origine, e il suo significato, nel Sangre Real, nel sangue del Cristo, raccolto nella coppa. Il sangue fuoriuscito dalla lancia conficcata nel costato.

E l’unione con il sangue ha radici arcaiche, e ha a che fare con il simbolismo del sacrificio. Passa da un cristianesimo esoterico e al limite dell’eresia, è presente tra i Catari, e arriva fino a noi, attraverso anche giuramenti di vario tipo. È impressionante quanto detto da Berlusconi anche per altri due motivi. Il primo è il riferimento al male, che «non trionferà», senza che si riesca esattamente a capire se il presidente del Consiglio si riferisce al male biblico, al male della tradizione cristiana, o a un male laico: il male radicale e assoluto di Kant, o quello di Rousseau. O se invece è spinto da un afflato poetico montaliano, e parlava del male di vivere: «spesso il male di vivere ho incontrato era il rivo strozzato che gorgoglia…».

Sicuramente quello di Berlusconi nella cena di Natale è un pastrocchio mescolato, dove il male va a braccetto con il Graal, il sangue serve a unire, e va di pari passo con le ampolle dell’acqua del fiume Po di Umberto Bossi. Perché sia Bossi che Berlusconi non sanno che buona parte dei riti magici precristiani, venivano compiuti da sacerdoti con il sangue e con l’acqua (e talvolta con il latte). Che il capo di Forza Italia e il leader della Lega siano uniti con il sangue, è una notizia che nessuno sospettava, ed è l’ennesima conferma che siamo un evoluto e limpido paese europeo.

Riguardo al fatto che nessuno potrà separarli, questa è tutta un’ altra storia, e siccome è già accaduto, fossi in Berlusconi la mano sul fuoco non ce la metterei. Nonostante il patto di sangue.


17 dicembre 2008
da unita.it
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 19, 2008, 09:20:33 am »

Saviano «popstar» all’Ateneo: ossia, la forza di Gomorra

di Roberto Cotroneo


Roberto Saviano? C’è già Saviano? Si è visto il film con noi?

Ma tu l’hai letto? No è troppo lungo, ma il film sì che l’ho visto. L’Università Roma Tre, sulla via Ostiense, è già in subbuglio da ieri mattina, da quando con un passaparola veloce si sa che lui, Roberto, l’eroe che ha scrittoGomorra, sarà da loro a parlare e a rispondere alle domande e far vedere delle fotografie durissime, che in parte aveva mostrato già a Mantova, al Festival delle Letterature. Fotografie di morti ammazzatidi camorra e parole che sono sempre le stesse, molto dure, e che stanno facendo di questo ragazzo, ormai famoso in tutto il mondo, un’icona della lotta alla criminalità organizzata; un fenomeno poco letterario emolto pop. Domande e fotografie shock utili a sentirsi un po’ più forti, assieme a lui, di fronte a quello scempio della legalità, a quella terra di nessuno su cui ha scritto un poderoso volume che ha superato il milione di copie vendute.

“La sala dell’aula magna (circa 550 posti) era strapiena emolti ragazzi sono rimasti fuori: ieri all’Università Roma Tre Roberto Saviano ha incontrato gli studenti. Molti di loro hanno letto solo il suo libro.

”COME BONO VOX

Tutti si agitano per vederlo meglio. Le ragazze gridano come di fronte a una popstar. E lui che arriva: così giovane e così segnato, perché lo sguardo di Roberto Saviano è sempre quello, lo sguardo di un uomo che ha imparato a convivere con una minaccia costante. E che non ha ancora assimilato fino in fondo questa condizione nuova, he è al tempo stesso esaltante e opprimente. Esaltante nel vedere tutti questi ragazzi che lo applaudono come fosse Bono Vox. Opprimente, perché tutto questo ha un prezzo, il prezzo di una libertà, il prezzo di uno scrittore che ormai si è allontanato senza scampo da quel sogno antico di essere scrittore fino in fondo, che Saviano aveva quando mandava i primi racconti alla rivista Nuovi Argomenti. E ora? Ora nel vederlo tra i suoi fan, nel vederlo raccontare la morte,mostrando fotografie dove i bambini sono in prima fila davanti ai cadaveri, capisci che forse serve anche questo. Che forse nel lungo periodo uno come Leonardo Sciascia ha fatto di più per la coscienza civile di questo paese,ma poco importa. Saviano sta sensibilizzando masse di giovani che in lui vedono uno scrittore coraggioso. E forse dopo Gomorra leggeranno altro, e dopo il filmdi Matteo Garrone cercheranno quelli di Damiano Damiani, di Elio Petri, di Francesco Rosi. La letteratura centra poco in tutto questo. Lo spettacolo molto di più. Ma il nodo futuro di Saviano è tutto qui: nella consapevolezza che il ibro successivo, il prossimo, com- porterà uno strappo rispetto a Gomorra. E lì si tratterà davvero di capire se sarà un Gomorra bis, e allora avrà poco senso, o se invece scriverà di altro, e a quel punto tutto cambierà, tutto quel sentire, quell’empatia, quell’entusiasmo che si percepisce qui, oggi pomeriggio, non potrà ripresentarsi allo stesso modo, dovrá diventare un’altra cosa. IL

LIBRO UNICO

Attorno a tutto questo Roberto Saviano non c’è dubbio sia assolutamente carismatico, e le sue parole sono magnetiche. Ma il dubbio è sempre lo stesso, è il dubbio che ti viene guardando tutti loro, tutti questi ragazzi che hanno 19, o 20 o 21 anni. Cosa hanno letto prima di Saviano? E così glielo chiedi. Hanno letto poco o nulla su questi argomenti. E cosa leggeranno dopo? Quello che Saviano scriverà per loro, forse. Ed è così, il talento di Roberto inizia e finisce con loro. E inizia e finisce con lui. In un luogo altro dove si soffre, dove si ha paura, dove ci si indigna, dove la vita cambia, dove i ragazzi che sono nati nei regni dove imperano con il terrore i Casalesi, e sono fuggiti a studiare fuori, anche aRoma, dicono: perché se qualcuno scrive di questi orrori, questi orrori debbono permanere? Perché la letteratura non è salvifica, per una volta? E perché la scrittura non aiuta? Perché la denuncia non dà i suoi frutti? Perché Gomorra non ci ha liberati dal male, quasi fosse un libro sacro?

CAMBIARE LEGGENDO

E lui, mentre lascia l’aula tra gli applausi, ormai lo sa, e sembra dirlo a tutti loro in silenzio. È un cammino lungo, fatto più di domande vere che di risposte. Per una platea che non sa quanto i libri non siano altro che domande senza risposte. Perché le risposte arrivano sempre dopo, e solo se i libri sono capaci di cambiarti davvero. Gomorra può essere uno di questi libri.

18 dicembre 2008
dal blog di Roberto Saviano
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 21, 2008, 10:23:00 am »

Undicietrenta, Pd e questione morale.

Quando un partito dei cittadini?

di Roberto Cotroneo


Succede di tutto, è in corso una direzione del Partito Democratico che si preannuncia drammatica, il paese sta cambiando. Fausto Bertinotti, riguardo al caso sugli appalti e la politica, da vecchio politico quale è (ed è un titolo di merito) dice che purtroppo la colpa sta nel pensare che gli amministratori siano dei politici e nel non aver messo al centro del lavoro politico un’idea strategica e fondata della società. Così siamo passati dai partiti azienda ai partiti degli assessori e dei sindaci, e naturalmente anche ai partiti degli ex Pm, e raramente si ha il privilegio di trovarsi di fronte ai partiti dei cittadini.

È ancora presto per capire fino in fondo quello che accadrà, ma certo un senso di desolazione ha lasciato il posto allo sgomento e a un’incertezza profonda. L’unica certezza che abbiamo, quel poco che ci rimane, ci è data dal solito film di Natale di Neri Parenti, con Christian De Sica e con Massimo Ghini, con Michelle Hunziker, con le ragazzine carine, le gag, le battute e quant’altro. In questo paese dissestato, in bilico, la Filmauro, casa di produzione di Aurelio De Larentis, è pronta a invadere i cinema con 820 copie di questo “Natale a Rio”. Immancabile come una rata delle tasse, buono per incassi record. Solo che se devi essere trash, devi esserlo fino in fondo. Tutti gli attori nella conferenza stampa si sono affannati a spiegare che visti i tempi, vista la crisi, visto che il «paese è più nevrotico», questa volta i protagonisti non fanno i fedifraghi, traditori, volgaroni, ma fanno i papà seri che dialogano con i figli. E il modello è più sul genere Blues Brothers, e sono finiti quegli anni lì, quando c’era Boldi e tutto il contorno. Per fortuna nessuno ha tirato fuori l’impegno, o l’esigenza di un cine-panettone adeguato ai tempi. Anche se ci è mancato poco.

Ma il fatto sconsolante di dover vedere i cinema natalizi monopolizzati dal film “Natale a Rio”, e persino in versione moraleggiante-light, sarebbe ben prevedibile se non ci fosse un elemento che fa riflettere. Christian De Sica, figlio del grande Vittorio De Sica, in un’intervista a proposito di questo film conclude in questo modo il suo ragionamento: «il film di Natale mi ha dato tantissimo. Grazie a questa scelta ho cominciato a fare teatro, mi hanno chiamato altri registi, ho scritto un libro. Se mai avessi voluto fare “Ladri di biciclette” a quest’ora sarei un fallito». Se suo padre avesse fatto, ai tempi di “Ladri di biciclette”, questo ragionamento, saremo ancora al cinema dei telefoni bianchi. Mala tempora.

19 dicembre 2008

da unita.it
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 22, 2008, 03:07:42 pm »

Undicietrenta: le classifiche dei personaggi pù influenti del mondo


di Roberto Cotroneo


Tutti gli anni “Newsweek” pubblica “The Global Elite”, e ogni volta, con la classifica dei 50 personaggi più influenti del mondo, si esercitano tutti a capire perché quello non c’è, e quell’altro sta troppo in basso. È il destino delle classifiche: tutte. Ma “The Global Elite” è un bel termometro se lo si va a leggere non per capire chi sta su e chi sta giù, e nemmeno per decidere chi manca. Ma per vedere chi c’è nel senso delle categorie. Certo, colpisce che il Dalai Lama sia soltanto al quaranteseiesimo posto. Soprattutto dopo tutto quello che è accaduto con le Olimpiadi in Cina. Che Obama bin Laden tenga saldo il posto 42, che i “Clintons” siano in coppia sul 13 e il 14, che Khamenei appaia alto, al numero 11. Si accorgeranno tutti che Gordon Brown è settimo, Angela Merkel è ottava, Vladimir Putin è nono, e Nicolas Sarkozy è addirittura terzo, dietro Barack Obama, che è l’uomo più influente del mondo, e il presidente cinese Hu Jintao che è il secondo. Non fosse stato “Newsweek” ovviamente il primo posto sarebbe andato a Hu Jintao, e non a Barack Obama, che sarebbe arrivato secondo, ma forse è giusto così.

Mancano gli italiani, o meglio, manca l’italiano, nel senso totale del termine, sia quello antropologico, che quello politico: Silvio Berlusconi non c’è. Non c’è né perché è potente, e né perché è ricco. Non c’è neanche Luis Zapatero, ma non è ricco, lui. Non c’è la Regina Elisabetta, e stupisce un po’. Ma ci sono Lula, presidente del Brasile e c’è Sonia Gandhi, questo per capire quali sono i paesi che conteranno davvero.
Noi non contiamo nulla. E pazienza, lo sapevamo. Ma ci sono due cose che colpiscono molto. La prima è più facile. Il trentasettesimo posto di papa Benedetto XVI. Contro il posto numero 34 di Steve Jobs. Il papa è molto basso in classifica per essere il papa mentre l’uomo che ha inventato il sistema Apple è molto in alto. Colpisce che non ci sia Bill Gates, che ha il novanta per cento di quota di mercato, contro il dieci scarso di Apple. Ma solo gli ingenui non hanno capito che i veri intellettuali sono quelli che inventano i sistemi operativi dei computer, e non più quelli che scrivono libri di filosofia e di politica. E Jobs non è solo un grande sacerdote di un modo di vedere il mondo, ma anche il tramite per imparare a vederlo (e ad ascoltarlo, con il iPod, e a venderlo con il negozio on line di musica iTunes Music Store).

La seconda cosa che colpisce è il posto numero 41. Dove c’è un nome Shahrukh Khan. Non è un principe indiano ricchissimo, non è un leader mondiale, o un banchiere, non è un politico. È un attore adorato e assolutamente venerato del cinema indiano, quello che chiamiamo Bollywood. Sta davanti al Dalai Lama, e a Osama bin Laden. E soprattutto dimostra quale sarà il cinema più importante del pianeta. Anche se noi, qui in Occidente, non lo abbiamo ancora capito.


22 dicembre 2008     
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 24, 2008, 05:31:03 pm »

Undicietrenta, Povia e la sua canzone volgare e pericolosa

di Roberto Cotroneo


Ma ora, dico, ma ci può occupare di Povia a Natale, e anche dopo Natale? Povia, il noto autore di “Quando i bambini fanno oh”, e “Vorrei avere il becco”?, un cantante di Sanremo che pensa che i gay sono malati e dunque vanno guariti. Ma soprattutto: ma con quale buon senso si può mandare a cantare uno che dice cose del genere in un festival più nazional-popolare che più nazional-popolare non si può? Nessun buon senso a pensarci bene. Anzi, una fatastica trovata degna di questi tempi deficienti. Perché le opinioni intellettuali di Povia sono merce poco interessante, e non risulta che i suoi testi siano entrati nella tradizione della canzone d’autore. Non risulta neppure che Povia abbia studiato con Derrida, e forse neppure che abbia studiato molto. Risulta un’altra cosa: che Povia ha più volte espresso apprezzamenti per le teorie di uno strano tipo, come se ne incontrano spesso nell’America integralista, che di nome fa Joseph Nicolosi. Uno che pensa che i gay si guariscono. E persino Povia ne ha guariti almeno due, e ora sono sposati.

Ora ognuno è libero di pensare quello che vuole. E se Povia pensa di guarire i gay pazienza, c’è tanta di quella gente al mondo che pensa cose strane, che uno più o uno meno, non fa la differenza. Il problema è un altro. Puoi mandare a Sanremo uno così? A cantare questa canzone intitolata “Luca era gay”. No che non puoi. Sanremo è un festival di canzoni stinte, di arrangiamenti che sono sempre gli stessi, di artisti che vanno e vengono senza troppa passione. Di giovani cantanti che sembrano già vecchi, e di vecchi cantanti che vogliono sembrare a tutti i costi giovani. Povia non c’entra nulla. È un reazionario, ma con i capelli lunghi, che fa politica. E Paolo Bonolis non può essere così miope da non capire che così non funziona, e che a Sanremo ci puoi mandare vecchie e nuove glorie che cantano la stessa canzone, che fa rima con cuore, con amore, con tutto quello che ti pare. Poi prendi due a caso, e gli fai cantare una bella canzoncina contro la guerra e la fame nel mondo, la miseria, la violenza alle donne. Giusto per mettere su un colonnino sui giornali. Per una manifestazione che non sa di nulla.

Ma questa di Povia è volgare e persino pericolosa. Gli facciamo raccontare a milioni di telespettatori che i gay son dei malati? In un paese moderno e civile? Nel 2008? Sulla rete ammiraglia del servizio pubblico Rai? Se è una trovata pubblicitaria per ridare ossigeno a un festival ansimante e tramortito, nessuna giustificazione: si tratta di una trovata volgare e indegna. Se invece non la è, allora preoccupiamoci, davvero. Siamo alla frutta. Capisco l’Arcigay che vuole impedire che Povia canti quella canzone. Ma se alla Rai rinsaviscono all’improvviso, e se ne accorgono, forse questa farsa grottesca si potrà impedire. Riguardo a Povia, troverà un’altra canzone più consona. E se ha solo quella, vuol dire che se ne farà volentieri a meno.


24 dicembre 2008
da unita.it
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 30, 2008, 09:54:45 am »

Unidicietrenta, i bambini davanti a internet e tv

Sarebbe facile bollare come la solita boutade la richiesta del ministro della Cultura britannico Andy Burnham, in un’intervista al “Daily Telegraph”, di monitorare internet e vietarlo ai minori quando è opportuno. Come è facile ironizzare con il ministro Sandro Bondi quando dice che nei telegiornali c’è una quota di violenza che non è concepibile e giustificabile dal diritto di cronaca, e può turbare profondamente i più piccoli. In realtà i due aspetti sono assai ben collegati. Il diritto di cronaca è sacrosanto, e spesso le immagini più crude sono la dimostrazione che la notizia vale il servizio, e dunque si trasmettono. E la libertà di navigare per il web è difficile da limitare, sia dal punto di vista tecnico, sia da quello giuridico.

Ma il problema esiste. Notizie che raccontano quanto accade nel mondo vanno date, anche se è Natale, e anche se gli israeliani bombardano la striscia di Gaza. Poi li vedi i bambini colpiti e feriti negli ospedali improvvisati, e talvolta vedi il dolore e persino la morte. Su internet, basta andare su alcuni siti e non ti fanno mancare nulla: decapitazioni, morte, orrore, e naturalmente molta pornografia, non filtrata e a gratis. Bisogna rassegnarsi, è un fatto che appartiene alla cultura di un’epoca. La medicalizzazione della malattia, la morte nascosta negli ospedali ha spostato in un luogo remoto la visione della morte da parte dei bambini. Un tempo vedevano morire nonni e parenti nei loro letti, e si abituavano lentamente. In Occidente le guerre hanno allontanato violenza e orrore, per fortuna. Ma fino a settanta anni fa potevi correre tra cadaveri e feriti sotto le macerie delle città. Non c’era internet a mostrarti l’orrore che corre per il mondo, perché lo avevi in casa, purtroppo. Oggi siamo un mondo privilegiato che sposta un po’ più in là paura e la violenza. Però queste cose accadono. A Gaza esistono, in Afghanistan si muore per un nulla, le donne vengono lapidate ancora oggi, e persino le esecuzioni pubbliche sono ancora una realtà. Non fa bene vedere certe cose, ma il novanta per cento del mondo ci convive, e senza scaricarsi il video, o guardarsi il telegiornale, ma in diretta. Ancora fino a qualche anno fa, come genitori, ci preoccupavamo dei cartoni animati troppo violenti, e dei serial che venivano dati in televisione. Il controllo dei programmi televisivi per i più piccoli era tra gli argomenti più dibattuti. Oggi il film di culto di buona parte dei ragazzini è “Kill Bill”di Quentin Tarantino. C’è un’abitudine al vedere la violenza, in tutti i suoi paradossi, che porta a qualcosa di catartico. Per quelli che possono permetterlo. Per i bambini e i ragazzi di mondi più lontani non c’è catarsi purtroppo, ma solo orrore quotidiano.

29 dicembre 2008
 
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 07, 2009, 12:34:17 pm »

Undicietrenta, evviva le persone non sostituibili, che fanno la differenza

di Roberto Cotroneo


In un certo aziendalismo estremo, imperante negli ultimi vent’anni esiste un detto, e una missione, che nessuno si sogna di mettere in discussione: «ognuno è sostituibile, nessuno è indispensabile». Da vent’anni in tutto il mondo i capi del personale pensano questo, lo pensano gli amministratori delegati, lo pensano tutti quelli che ritengono una cosa: in una organizzazione complessa, talvolta gigantesca, che produce in tutto il mondo, un uomo non fa la differenza, anche se è il capo di tutti. In realtà a farla sono i gruppi, le strategie, le ricerche di mercato, gli ingegneri, i grafici, insomma tutto quello che serve a secondo del prodotto.

Solo che c’è un esempio lampante, davanti a tutti, che smentisce in modo palese questa teoria. È l’esempio di Steve Jobs. Il grande capo di Apple. Appena non partecipa a un meeting internazionale, o appare in video visibilmente dimagrito, lui che ha avuto un cancro al pancreas quattro anni fa, il titolo Apple a Wall Street perde punti. Lo stesso Jobs è stato costretto più volte a scrivere lettere aperte informando, e spesso rassicurando, gli investitori, gli azionisti, e persino gli appassionati dei prodotti Apple, sulle sue condizioni di salute.

Ora l’ultimo caso: una lettera di Jobs due giorni fa dove spiega che il suo visibile dimagrimento, è dato da uno scompenso ormonale, ma che sempre è in condizione di reggere l’azienda. Ma se questo scompenso si dovesse aggravare informerà e tutti e si ritirerà.

Sono anni che in casa Apple si fa un toto-nomina di chi potrà sostituire Steve Jobs alla guida dell’azienda dei computer e degli iPod. Ma in realtà tutti sanno una cosa: nonostante Apple sia un gigante mondiale con il 10 per cento di mercato nei computer, e la quasi totalità del mercato per quanto riguarda i lettori di musica digitale, e il negozio online di musica, film e video iTunes Music Store, e nonostante la realtà di Apple non possa che essere quella complessa delle grandissime aziende, Steve Jobs la controlla la guida e la crea come una sorta di genio della lampada. Quando lasciò la sua azienda nel 1985 la Apple ebbe un crollo e rischiò di fallire. Lui tornò nel 1996, si inventò gli iMac colorati e trasparenti e poi l’iPod, ora iPhone, cambiò tutti i prodotti, la politica dei prezzi. E il successo oggi è una realtà che allora non sembrava immaginabile.

Per questo il suo dimagrimento fa scendere anche del 4 per cento le azione della Apple in borsa. Per questo tutti sanno che lui Steve Jobs è davvero poco sostituibile, e tiriamo tutti un respiro di sollievo nel pensare che gli uomini con le loro idee, con la loro originalità fanno le aziende, e talvolta da soli. E che ci sono persone non sostituibili che fanno la differenza.

06 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 15, 2009, 12:18:33 am »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo



Berlusconi e il giuramento di Obama



Che Silvio Berlusconi non vada al giuramento di Barack Obama, non è di per sé una grande notizia. Intanto perché non andò neppure al giuramento del suo amico George W. Bush, e poi perché può scegliere di non andare, e di mandare un biglietto. Non sarà certo l’unico presidente del Consiglio a non esserci a Washington il giorno dell’insediamento. Ma se si guarda bene dietro le parole che ieri Berlusconi ha detto al volo ai giornalisti mentre era nel centro di Roma a fare shopping si intravedono una serie di pensieri e di strategie. La prima. Tutta interna al nostro paese. «Io sono un protagonista, non una comparsa».

Di fronte al presidente del paese più potente e importante del mondo, di fronte al primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, Berlusconi si pone il problema di essere un protagonista? Non è una melagomania, ma è l’applicazione perfetta della battuta di Nanni Moretti (alias il Caimano) in “Ecce bombo”: «Mi si nota di più se vengo e sto in disparte, o se non vengo per niente». Non è una notizia che un capo del governo vada a Washington, è una notizia che non ci vada dicendo che lui è un protagonista e non è una comparsa.

Come sempre Berlusconi ha un curioso istinto che le persone alfabetizzate considerano becero: quello che lascerebbe pensare a una sua megalomania fuori luogo. E che invece nelle masse che lo votano e che continuano a votarlo funziona. L’istinto di spostare l’attenzione. Ora Obama è un presidente del partito democratico, e la sua elezione è il miglior spot per il partito di Walter Veltroni. Per quanto ci siano delle grandissime distanze, lo spirito, il clima, e l’humus sono gli stessi. Avere come presidente degli Stati Uniti un signore che ha pubblicato un libro tradotto in Italia, in tempi non sospetti quando nessuno ancora scommetteva su lui come presidente, con la prefazione di Veltroni, e che incarna quello spirito democratico che vorrebbe essere il sogno di una parte del centro sinistra per Berlusconi è un problema. Ed è un problema anche perché Berlusconi ha sempre fondato la sua politica estera e persino interna nell’appoggio agli Stati Uniti, anche se erano gli Stati Uniti di George W. Bush. Ora è in visibile difficoltà. E prova in tutti i modi a spostare l’attenzione. Prima con Obama abbronzato, ora con la frase: io sono un protagonista, non una comparsa. Ma tanto serve a poco.

da unita
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