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Autore Discussione: Roberto COTRONEO.  (Letto 34431 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 16, 2009, 11:32:44 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Se San Tommaso D'Aquino salva la pubblicità atea


«La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona, è che non ne hai bisogno».

È la frase di una campagna pubblicitaria che apparirà sugli autobus di Genova dal prossimo chiesta dall’Unione atei, agnositici e razionalista (Uaar). È una frase apparsa anche sugli autobus di Londra, e su quelli di Barcellona. Ma leggermente diversa. In catalano è: «Probablemente dios no existe deja de preocuparte y disfruta la vida». In inglese invece è: «There’s probably no God, now stop worryng and enjoy your life». Nel resto d’Europa, in omaggio a patristica e scolastica, la frase è più sfumata. “Probabilmente”. E senza vezzi, slogan o espressioni accattivanti. Da noi c’è il giochetto della cattiva notizia e della buona notizia, che dovrebbe catalizzare l’interesse del pubblico. Ma l’affermazione è netta. Dio non esiste. Su questo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, tramite gli uffici che si occupano di pubblicità ingannevole e pericolosa sta esaminando il caso.

Ora la vicenda è comica, grottesca e francamente mostra quell’ottusità tipica di molti atei e razionalisti. Se altrove c’è la probabilità che dio non esista, da noi la cosa è assodata. È un aergomento interessante. Si può stabilire la non-esistenza di Dio? Se così è, per chiunque abbia sfogliato un solo libro di filosofia, vuole dire che allo stesso modo si può stabilirne la sua esistenza. Che di questioni ontologiche come queste si debba occupare una commissione che di solito valutà la bonta dei biscotti, degli pneumatici e della maionese, non è male. L’idea che Dio non esiste, e che questo debba essere pubblicizzato, non solo è offensivo per chi ci crede, ma soprattutto è indimostrabile. Anselmo d’Aosta provò a fare il contrario con quattro enunciati, le cosiddette prove a priori, la più convincente delle quattro è: «Tutto ciò che esiste, o esiste in virtù di qualcosa, o esiste in virtù di nulla. Dunque, dato che ciò che esiste in virtù del nulla è il nulla stesso, e dato che qualcosa esiste, ciò esisterà grazie a un Essere supremo, l'essere in virtù».

La questione è controversa. Kant non prese per buone le prove di Anselmo. Hegel (e prima di lui Cartesio e Duns Scoto), le accettò pienamente. Non sappiamo che farà l’autorità, e il presidente Antonio Catricalà. Se la decisione verrà presa tenendo conto del “Proslogion” di Anselmo, o se si proverà a ritornare alla tradizione filosofica greca, rianalizzando attraverso gli “Analitici primi” di Aristotele, tutti i processi logici e arrivando all’idea di motore immobile ripresa da Tommaso d’Aquino (“Omne quod movetur ab alio movetur”), che enunciò cinque prove dell’esistenza di Dio, nella “Summa teologica”. Ma è proprio con Tommaso d’Aquino che l’Autorità del Mercato potrebbe trovare un cavillo teologico per approvare la campagna pubblicitaria degli atei. La quinta prova di Tommaso è quella detta dell’intelligenza ordinatrice. Ovvero le cose del mondo tendono a un fine, sia quelle organiche che quelle inorganiche. Ma le cose inorganiche sono prive di coscienza, dunque è necessaria una intelligenza superiore che attribuisca a loro un fine. Questa intelligenza ordinatrice per Tommaso d’Aquino è Dio.

Beh, è appurato che gli autobus siano privi di coscienza, e se questa campagna deve tendere a un fine, non è certo quello di una intelligenza ordinatrice. Dunque se Dio esiste allora, come si direbbe oggi: rema contro. Perché smentirebbe la quinta prova di Tommaso sulla sua stessa esistenza. A meno che, come al solito, non si tratta di controinformazione. A che pro? Ai dietrologi teologici l’ardua sentenza.

da unita.it
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:42:31 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo



Gaza, la guerra delle ipocrisie e della falsa politica



Oggi le bombe israeliane sono cadute su una scuola dell’Onu. Ancora morti, e ancora morti civili e bambini. È una brutta guerra, quella della striscia di Gaza. E si potrebbe obbiettare che tutte le guerre sono brutte. Ma questa è ancora più brutta, perché vive di condizionamenti esterni, di ipocrisie, di falsa politica. Hamas è un’organizzazione terroristica, che minaccia da sempre Israele e non solo. I pacifisti israeliani per una volta non protestano su questo attacco. È difficile pensare alla vita quotidiana in quelle zone standocene comodamente in poltrona, senza che un missile sparato all’improvviso ti arrivi sulla testa. E stava diventando una situazione insopportabile.

Ma quello che sta accadendo nella striscia di Gaza non è degno di un paese civile, e come tutti ricordiamo, nell’unico paese democratico del Medio Oriente. Non è tollerabile che l’Occidente faccia dei distinguo su una guerra che uccide civili, e moltissimi bambini. Non voglio spiegazioni sull’utilità dell’intervento finché gli israeliani continuano a sparare su tutto, compresi i giornalisti che vogliono attraversare una parte della striscia di Gaza. Non è una guerra che possiamo comprendere. Perché qui non si può comprendere, mai. E non si tratta di essere filopalestinesi o filoisraeliani, non c’entrano le posizioni, le vicinanze e le lontananze. Si tratta di capire se tutto questo porterà a un processo di pace in Medio Oriente, oppure no. E anche i bambini sanno che la risposta è un no. E che questa guerra riaccende un odio che durerà decenni.

Tutti i giornali del mondo, a cominciare dal “New York Times”, sono durissimi con gli isrealiani. Tutti quelli che si occupano di questioni medioorientali, storici, analisti politici, intellettuali sanno che le ragioni di Israele, che ci sono, non bastano ora, come non bastavano all’inizio dei bombardamenti. E che lo scempio di quello che avviene lì non può avere nessuna giustificazione. Ma Lucia Annunziata, ad “Anno Zero” doveva poter parlare, e dire quello che pensava. E Michele Santoro non può rispondere a una argomentazione legittima con le parole “fesserie” o “ne trai qualche vantaggio”, che tra l’altro è una diffamazione grave, e perdipiù nel servizio pubblico. Ha fatto bene l’Annunziata ad andarsene, e siamo alle solite alle prove tecniche di una democrazia incerta, in un paese che sta scivolando nel ridicolo e nel grottesco.

da unita.it
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 19, 2009, 03:05:56 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

L'antisemitismo e Israele, D'Alema contro Gasparri

Lo scambio di battute, riguardo Israele e l’antisemitismo, tra Massimo D’Alema e Maurizio Gasparri è abbastanza interessante. D’Alema ricorda che la destra italiana è sempre stata antisemita. E su questo credo che non si possa metterlo in dubbio in alcun modo. L’antisemitismo della destra è un dato verificabile, chiaro, ed è presente ancora oggi. Gasparri risponde che lui è sempre stato con Israele, e che suo padre aiutava gli ebrei. E poi termina con una frase di alto profilo politico: «Vada a fare la valletta da Santoro».

Ora dire a un ex presidente del Consiglio, e a un ex ministro degli Esteri di andare a fare la valletta è una battuta degna di un ragazzotto adolescente. Mentre il racconto degli aiuti agli ebrei rientra perfettamente in quella specie di oleografico quadretto degli “italiani brava gente”. Di quelli che ancora oggi dicono che le leggi razziali furono “un errore”. E non dicono: “una vergogna della nostra storia”. Di “quelli che”, come direbbe Enzo Jannacci, hanno avuto pur sempre uno zio o un nonno o un vicino di casa che gli ebrei gli ha aiutati. Ma ipocritamente dimenticando che gli ebrei italiani sono finiti ad Auschwitz non soltanto per i nazisti, ma con la collaborazione attiva ed entusiasta di molti dei nostri.

Ora, che si venga a dire che la destra non è stata e non è antisemita, è esattamente complementare a dire che non è antisemita la sinistra. E che non c’era uno strisciante e per certi aspetti indicibile antisemitismo nel vecchio Pci. Soprattutto tra gli stalinisti. Se ne incontrano ancora, sono i più trinariciuti, quelli cresciuti nella disciplina rigida di partito. Gli antisemiti a sinistra li vedi oggi. Quelli che dicono che “gli israeliani sono sionisti assassini”, come ha sostenuto Paolo Ferrero, segretaerio del partito di rifondazione comunista. Dimenticando che gli israeliani non sono assassini. Ma che sono un paese democratico, che ha un governo, e un’opinione pubblica esasperata e sotto il tiro di Hamas da troppo tempo, ma che sta reagendo con una guerra vergognosa e inconcepibile, che va fermata in tutti i modi. Una guerra vergognosa come quella di Bush all’Iraq. Peccato che gli striscioni contro il presidente che falsificò le prove contro Saddam erano “Contro Bush”, e non contro gli “Americani assassini”. Mentre nel caso di Israele, nessuno scrive: “Via Olmert dal governo”. No, gli striscioni della sinistra radicale, la migliore erede di certo antisemitismo della sinistra italiana, mettono tra gli assassini tutti i cittadini di un paese, e un movimento della storia come il sionismo. Se non è antisemitismo questo.

da unita.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 26, 2009, 10:06:15 am »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Berlusconi, il raccontatore di barzellette


Credevo che le barzellette su ebrei e campi di concentramento non le raccontasse più nessuno, eccetto gli antisemiti, i neonazisti, o gli imbecilli patentati, o gente che non ha mai superato la prova di ammissione alla scuola radio elettra. Ero convinto che nel mondo normale non ci fosse più nessuno che avesse il coraggio di raccontare storielle di quel genere.

Ma avevo sottovalutato Berlusconi. Ora, la barzelletta sugli ebrei che ha raccontato l’altro giorno a Nuoro, e che non riporto per una questione di principio, è particolarmente volgare. Non è divertente perché, come tutti questi tipi di barzellette, tocca una tragedia colossale, che ha cambiato i destini del mondo, e fa orrore scherzare sui morti dell’olocausto.

Ma fin qui è facile. Lo sappiamo tutti. E solo i ragazzini possono raccontare di tanto in tanto barzellette del genere, perché ancora sfuggono al dolore, esorcizzano la paura del mondo scherzando con le tragedie. Poi, un po’ più adulti, passata quella fase balorda e creativa che è l’adolescenza, passa anche questo. A Berlusconi non è passata. E non è passata perché in lui ci sono tutti, ma proprio tutti, i luoghi comuni degli anni Sessanta. Si dirà: nei luoghi comuni degli anni Sessanta ci sono le barzellette sugli ebrei? Nel mondo degli anni Sessanta ci sono soprattutto le barzellette. E in certi casi anche le barzellette sugli ebrei.

La barzelletta è una forma di piccolo cabaret per persone comuni. Alcuni attori hanno inventato un genere vero e proprio, si pensi a Gino Bramieri e al grande Walter Chiari. Le edicole delle stazioni, fino a trent’anni vendevano libri su libri con “le migliori” barzellette. Da leggere, certo, ma anche da raccontare, alle cene, agli amici. Le cene brillanti di un certo tipo di mondo, popolare e goliardico, erano fatte da chi raccontava l’ultima, quella più divertente, quella mai sentita. Spesso raccontate male, spesso raccontate per mostrarsi brillanti e seduttivi, o per sugellare allegramente un accordo aziendale a una cena di lavoro. Tra queste c’erano quelle sugli ebrei. Barzellette che si raccontavano più a bassa voce, che rientravano in quell’indifferenza e quella ferocia di un paese, che si era lasciato alle spalle la guerra e i suoi orrori, in tutti i modi possibili. Ma barzellette che provenivano da un humus antisemita che non ha mai abbandonato grandi parti della popolazione del nostro paese, e che appartiene tanto alla destra quanto a una certa sinistra.

Oggi le barzellette non le racconta più nessuno, fanno parte di un paese che non esiste più. E che ha imparato a ridere con cose più intelligenti. Berlusconi da uomo degli anni Sessanta, continua a raccontarle. Pensa che lo rendano simpatico. Come i cummenda del boom economico.

da unita.it
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 29, 2009, 06:32:00 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Impronte, ora tocca ai leghisti


Uno se la immagina la scena, per certi aspetti persino apocalittica.
Novecento tra deputati e senatori, in fila, come gli immigrati a New York all’inizio del secolo, di fronte a un addetto, seduto a un tavolino improvvisato in Transatlantico (e che sia un Transatlantico è decisamente evocativo): nome, cognome e poi il dito indice della mano sinistra, per prendere l’impronta digitale. Immagine che evoca a tutti, ovviamente, ben altre situazioni, questure, caserme dei carabinieri, carceri. Invece no. Questa è tecnologia signori. Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma questa è scienza, non fantascienza. E allora ecco il sistemino per non far votare gli onorevoli colleghi in aula al posto dell’onorevole collega che non c’è ed è assente. Sta per partire la più convinta offensiva contro i pianisti, ovvero coloro che votano al posto degli altri, che la storia dei due rami del Parlamento ricordi, a memoria costituzionale. Alla modica cifra di 550 mila euro, battuta facile a spese dei contribuenti, impediamo la frode a danno dei cittadini, ora dopo le porte di casa che si aprono con le impronte digitali, abbiamo anche il voto a Camera e Senato con le impronte digitali. Sennò, come si dice proprio a Roma, non se ne esce.

L’immagine non è delle più etiche. Se signori adulti, se i rappresentanti dei cittadini, e i legislatori, vanno costretti alla correttezza con metodi che stanno a metà tra Matrix e i controlli degli uffici immigrazioni vuol dire che le cose non vanno troppo bene. Anzi. Ma almeno una piccola soddisfazione ce la possiamo togliere: vedere i leghisti che le impronte digitali volevano prenderle ai bambini Rom, in fila e metterci il loro, di indice della mano destra e a sottoporsi al controllo e al riconoscimento. Ma se non dovesse bastare? Se trovano un escamotage per farla franca? Scannerizzano il dito, mettono assieme una diavoleria che aggira il problema? La faccenda è seria. Si potrebbe provare con la moviola in aula, ad esempio: con alcuni commessi arbitri (dotati di cartellini gialli e rossi) che esaminano le immagini e vedono se la mano dell’onorevole collega supera il confine del suo scranno ed entra in fuori gioco sull’altra tastiera. In caso di violazione ripetuta potrebbe scattare la squalifica, per una o due sedute successive. Oppure, con il progredire della scienza e della tecnologia, si potrebbe fare qualcosa di ancora più preciso, non so un lettore del Dna semplice e immediato che appena voti ti dice chi sei, le malattie ereditarie, la mappa cromosomica, il livello di colesterolo, e il voto all’emendamento, tutti assieme, che sarebbe anche una bella comodità. Oppure risolvere il problema alla radice: dichiarando ineleggibile qualunque cittadino italiano che abbia conseguito nei conservatori italiani il diploma in pianoforte. Aspettiamo di capire. E soprattutto di vederli, tutti là, a metterci il dito, come San Tommaso. Ma in questo caso c’è poco da crederci.

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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:33:42 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Internet, sessualità e pedofilia


Domani a Palermo sarà presentato il tredicesimo rapporto dell’Osservatorio internazionale di Telefono Arcobaleno sullo sfruttamento dei bambini su internet. I dati, poco conosciuti, sono agghiaccianti: Oltre 36 mila bambini sono stati scambiati in internet 20 miliardi di volte per alimentare il mercato della pedofilia on line. Il 42% ha meno di 7 anni e il 77% meno di 9 anni. Telefono Arcobaleno, in 13 anni ha effettuato 228.079 segnalazioni, e solo nell’ultimo anno ne ha inoltrate più di 3.500 al mese, con punte di oltre 300 in un solo giorno, che nell'84% dei casi hanno portato alla chiusura dei siti nel giro di 48 ore. In questo ultimo anno sono aumentati, ben 7.639, i siti legati al pedobusiness che fanno parte di una galassia ben più vasta di 42.396 siti a contenuto pedopornografico. E naturalmente le possibilità di intervento da parte della giustizia sono scarse, lunghe, e lasciano gran parte dei responsabili impuniti.

Sono dati che lasciano sgomenti, soprattutto perché è difficilissimo capire come intervenire e come stroncare questo crimine collettivo, visti i numeri. E c’è molto da riflettere. Da molti anni sappiamo che buona parte delle molestie sessuali a minori avvengono dentro la famiglia. Ma gli scenari stanno cambiando, e senza criminalizzare un mezzo come internet, è indubbio che c’è un rapporto stretto e diretto tra molestie e nuove possibilità che dà la rete. E non solo. Purtroppo lo sviluppo di internet ha generato quello che gli psicoanalisti hanno definito con il termine: pedofilia indotta.

Ovvero la produzione in rete di moltissimo materiale video porta alla pedofilia persone che forse non lo sarebbero mai diventate, tenendo certe pulsioni insane in uno stato di latenza e lasciando inespresse queste perversioni per il resto della loro vita. I più attenti a questo problema spiegano che bisognerebbe ridurre l’esposizione della sessualità in televisione e su internet. Proprio per non banalizzare la sessualità e portare il limite di trasgressione sempre più lontano. Generando così un mondo di pedofili indotti e pericolosi.

Oggi la rete permette a chiunque, anche ai bambini, di avere accesso a materiale pornografico, liberamente e senza filtri. Per quanto ci si sforzi il fenomeno è ancora inarginabile. Ma il risultato di tutto questo porta a una crescita esponenziale del fenomeno. Serve una risposta ferma, e si devono trovare modi per impedire che questo avvenga. Per troppo tempo abbiamo sottovalutato il fenomeno, preferendo guardare all’altra faccia del web, quella positiva, quella che ci collega con il mondo, quella che permette di accedere a informazioni libere anche in paesi dove non c’è libertà di espressione e di pensiero. Questo lato oscuro e angosciante è rimasto sul fondo, come fosse un inconscio collettivo rimosso. Ora non è più tempo di aspettare. Ma una risposta ferma ed efficace alla domanda “che fare?” purtroppo non l’abbiamo ancora.

da unita.it
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« Risposta #36 inserito:: Febbraio 11, 2009, 12:36:41 am »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Eluana e le macerie di un paese


Ora rimangono soltanto le macerie di un paese. Adesso che Eluana è morta, assistiamo una parte di paese sfrangiato, privo di pietà, opportunista. Con minuti di silenzio che suonano di opportunismo, battaglie etiche che vanno a perdersi nel calcolo delle opportunità, delle alleanze, o del piacere o no al Vaticano.

La povera Eluana è stata usata su tutto, lei con la sua sofferenza, per tentare di scardinare la Costituzione Italiana, per arrivare a uno scontro politico, per attaccare il Presidente della Repubblica. La crudeltà delle parole irresponsabili è quasi intollerabile.

“Avvenire” di oggi arriva a dire che Beppino Englaro, padre di Eluana, «si è fatto giudice e boia». C’è un clima orrendo che non ha nulla a che fare con il rispetto della vita, e non ha a niente a che spartire con l’etica e la buona fede.

Gente come Maurizio Gasparri aveva ancora una volta l’occasione per tacere e non l’ha fatto, gridando: «Assassini» nell’aula del Senato. Andava rispettato il dolore di un padre che ha attraversato una tragedia con coraggio e immenso dolore per 17 anni, calpestando e stracciando tutto. Senza remore e con un cinismo che non ha eguali.

Ma era prevedibile che sarebbe accaduto questo. Perché il centrodestra, perché questa classe dirigente, non sia riuscita, pur su posizioni che potevano essere non condivisibili ma legittime, ad avere la capacità di tenere questa vicenda nell’ambito del dibattito etico e morale, oltre che giuridico, è facilmente comprensibile. Perché non è classe dirigente, perché sono crudeli e in cattiva fede. Perché sono accecati dal potere. Perché è solo questo che conta.

Ieri a Palazzo Madama è finita quasi in rissa. Il presidente della Camera Gianfranco Fini dà dell’irresponsabile «che dovrebbe imparare a tacere» al suo compagno di partito Maurizio Gasparri. E ha fatto bene. Ma è un teatrino già visto, visto tutte le volte che questa maggioranza scorge la possibilità di strumentalizzare qualsiasi episodio. E lo fa attraverso una cultura che gli è propria, una cultura da bulli rionali, che si riempiono la bocca di parole che non sono le loro, che non appartengono alla loro cultura: «Io sono una persona responsabile che rispetta dalla più alta istituzione all’ultimo cittadino su un letto di ospedale», grida il solito Gasparri. Parole di niente, utili soltanto per accendere la bagarre in un’aula che aveva chiesto semplicemente un minuto di silenzio.

Ieri in Senato si è messa in scena l’anima e la cultura di questa gente. «La cultura della vita e non della morte», dice Silvio Berlusconi. Utilizzando tre parole, cultura vita e morte, che dette in questo contesto e in questo modo servono soltanto ai sondaggisti per capire quanti punti si guadagnano nel voto cattolico.

Ignorando che buona parte del mondo cattolico, nelle stesse condizioni, si sarebbe comportato come Beppino Englaro.

da unita.it
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 14, 2009, 12:13:14 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Se la censura è solo censura


Bisogna guardare al fondo delle cose per capire davvero cosa accade. Accade ad esempio che il senatore D’Alia, dell’Udc ha preparato un emendamento detto anche “ammazza Facebook”. L’emendamento dice che, di fronte a casi estremi, come le pagine del social network che inneggiano all’antisemitismo, all’odio razziale, o quelle dei “fan” di Totò Riina, il Governo ha il potere di oscurare le pagine del web. Raccontata così non possiamo che essere tutti d’accordo. Ci fa decisamente orrore che si possa inneggiare all’odio razziale o che ci siano delle persone che aprono fan club di capi mafiosi. In realtà però l’emendamento D’Alia ha qualcosa di inquietante.

Vediamo di capirci. Intanto definire l’emendamento di D’Alia come “ammazza Facebook” è decisamente riduttivo. Capisco le mode, e tutto questo parlare dei social network, ma la rete internet non è solo Facebook, anzi, è assai più preoccupante – come scrivevo qui qualche giorno fa – il mercato pedopornografico che circola in rete. La rete internet è tutto, anche il peggio, ma soprattutto è una possibilità immensa di produrre notizie, informazioni, scambio di opinioni, per moltissimi che non avrebbero altri accessi e possibilità. Facebook è una macchina strana. Tutti possono accedervi, e tutti possono mettere quello che vogliono. Se potessimo fare un paragone il più calzante è certamente quello dei muri dei palazzi. Se leggiamo su un muro una scritta razzista, o un’istigazione alla violenza, ci auguriamo che possa essere prima o poi cancellata. Ma non abbattiamo interi quartieri delle città soltanto perché qualcuno può scrivere sui muri delle case.

Invece questo emendamento porta esclusivamente a questo. Dietro si scorge una censura chiara, che si può estendere a qualsiasi cosa. Se quattro imbecilli scrivono o pubblicano pagine indecorose, possiamo decidere che da domani nessuno è più libero di scrivere? E poi chi deciderà questo? Se si apre un fan club su Che Guevara, qualcuno può alzare il dito e dire che il Che, ministro di un governo dittatoriale come quello cubano, non può avere un fan club. Nessun paese democratico al mondo ha un livello di censura preventiva, dei governi, di questo genere. Queste sono cose che accadono in Cina, o in Birmania.

Capisco la buona fede. Capisco che Facebook, che ha una sede legale negli Stati Uniti, spesso non interviene. Ma la rete non è Facebook, è molto di più. E la censura invece è soltanto censura. E sarebbe un errore gravissimo se passasse un emendamento del genere.

da unita.it
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 18, 2009, 07:31:46 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


Mina e la banalità


Per un mese è stato un tam tam abbastanza stucchevole. Mina torna a Sanremo ma in video, perché Mina, dal vivo non si mostra. E questo video è un evento, finalmente, dopo tanti anni. Canterà “Nessun dorma” dalla “Turandot” di Giacomo Puccini. Sui giornali si leggevano articoli su articoli, su come, perché e in che modo Mina si sarebbe mostrata. Devo dire, ma credo che fosse un ragionamento troppo originale per un paese prevedibile e noioso, che fosse una strategia, un modo per sviare. Una romanza celebre, cantata da tutti, e soprattutto dai tenori che la sanno cantare, per nascondere qualcosa d’altro, una vera sorpresa, che non è Puccini, ma è una canzone di Mina che nessuno si aspetta, che può emozionare il pubblico. Ho pensato persino che Mina alla fine non avrebbe cantato “Nessun dorma”, ma forse un brano di Fabrizio De André, morto da dieci anni, e ormai diventato un cantautore di culto per molte generazioni.

Ma ieri all’apertura del Festival mi sono accorto che al prevedibile e banale non c’è mai un limite, e non c’è mai un limite neppure agli spot pubblicitari e alle operazione commerciali. Il video di Mina era un video per il suo nuovo disco: il video prodotto con tutti i crismi, quello che serve a promuovere i dischi.

La romanza era proprio “Nessun dorma”, e l’effetto non dava nessuna sorpresa e nessuna emozione, talmente evidente era che quel video serviva a promuovere il nuovo album della cantante. E c’è da chiedersi se non si poteva fare di meglio. Se, visto che c’erano, non si poteva convincere Mina a fare un video di quelli veri, di quelli che si girano per pubblicarli poi su YouTube: senza fronzoli, senza registi di clip che lavorano a un montaggio costruito.

Ma un video semplice, pochi strumenti acustici, una canzone ben scelta, e la sua voce e la sua fisicità. Qualcosa di autentico, girato senza stacchi, come se Mina fosse là all’Ariston, come tutti, anche se soltanto attraverso un video. Persino una registrazione fatta in casa e imperfetta.

Ma proprio per questo vera. E invece abbiamo visto un grande spot e basta girato per il disco di Mina che sta per uscire, e come se non bastasse anche un grande lancio dello sceneggiato Rai sulla vita di Giacomo Puccini con Alessio Boni, che andrà in onda a breve, pubblicizzato proprio negli intervalli del Festival.

È stata un’occasione persa, ma anche lo spirito di questi tempi dove non si fan niente per niente, e contano le promozioni e non certo le emozioni.

Neppure quelle musicali, perché “Nessun dorma” non è proprio una romanza adatta alla voce di Mina.

da unita.it
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:27:22 am »

Undicietrenta

di Roberto Cotroneo 

 Sanremo o Oscar, vincono gli affari


C’è uno scollamento ormai, di cui nessuno tiene più conto. Gli 8 Oscar a “The Millionare”, il film indiano su Bollywood, ha deluso i cinefili, che avrebbero voluto fossero premiati film più importanti. Sabato sera, una parte di spettatori del Festival di Sanremo, che ha avuto un trionfo di ascolti, sono rimasti delusi scoprendo che le tre canzoni in finale erano le più facili e le più popolari. Tra i big di Sanremo avrebbero preferito altri brani, non certo il ragazzino Marco Carta che cantava una canzone che fa il verso a un Baglioni d’annata: orecchiabile e banale. Per non parlare della canzone di Povia o quella di Sal Da Vinci. Ma bisogna tener conto che i premi importanti ormai obbediscono a una logica che è innanzi tutto di tipo commerciale, e non qualitativa. Vale per tutto. Si premia ciò che piace al pubblico, e i festival e i premi funzionano come amplificatori del successo. Al punto tale che il premio più importante al mondo, il premio Nobel per la letteratura, è rimasto l’ultimo premio marziano, e gli accademici di Svezia vengono considerati degli alieni che anziché scegliere i grandi nomi, importanti, di cui si parla molto, continuano a premiare scrittori di cui si sa poco e che pochissimi hanno letto. Ovvero Le Cleziò che prevale su Philip Roth.

Dovrebbe funzionare come il Nobel, ma così non funziona più. A Los Angeles “The Millionare” batte "Il curioso caso di Benjamin Button" di David Fincher. E per tornare a Sanremo non vincono Patty Pravo o Francesco Renga che portano due canzoni sofisticate e non banali. Tra i giovani di Sanremo vince la deliziosa Arisa, con un brano che avrebbe potuto cantare il Trio Lescano cinquant’anni fa, e non quella straordinaria voce di Simona Molinari, forse la miglior scoperta di questo Festival di Sanremo. Ma è inutile continuare a pensare che i premi, i concorsi, i festival siano l’espressione di un élite di critici ed esperti che, pedagogicamente, segnala al pubblico la qualità dove il pubblico non ha gli strumenti per trovarla. Ma gli affari sono affari: si punta su quelli che venderanno. O perché fanno polemica sui gay, o perché hanno il bacino di ascoltatori di Gigi D’Alessio (Sal Da Vinci che cantava una sua canzone) o perché funziona il fenomeno “Amici” di Maria De Filippi per Marco Carta. E da domani “Amici” sarà il programma che ha trasformato in un big uno sconosciuto e gli ha fatto anche vincere Sanremo. E stupirsi vuol dire soltanto non saper leggere veramente gli eventi. Se tra venerdì e sabato scorso, a Festival ancora aperto, si andava sul più grande negozio on line di musica del mondo, iTunes Music Store, dove si comprano al computer canzoni e album, si scopriva che le canzoni di Povia e Marco Carta erano già prime in classifica tra i brani più scaricati. Quelli che cercano la qualità più alta devono trovare altre strade, come sempre. Nel cinema, nella musica, nella letteratura. E forse è giusto così.

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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:50:58 am »

Undicietrenta

di Roberto Cotroneo 

 Un'Italia alla Superciuk


Per chi è cresciuto con i fumetti degli anni Settanta, ricorderà che esiste un albo che si chiamava Alan Ford, disegnato e sceneggiato dalla coppia Magnus & Bunker. Era un fumetto assai divertente e surreale dove un gruppo di investigatori privati sgangheratissimi cercava risolvere casi al limite del comico. Tra questi il caso di un personaggio avvinazzato chiamato “Superciuk”, uno che beveva vino dal bottiglione, e poi andava a rubare ai poveri per dare ai ricchi. Oggi tutti i quotidiani del mondo, compresi i tre maggiori quotidiani italiani, hanno un titolo soltanto: “Obama: più tasse per i ricchi”. Ovviamente non c’è alcuna demagogia in questa scelta, ma un serio lavoro sulla spesa pubblica e sulla leva fiscale per ridistribuire. Paga chi sta meglio, paga chi ha tratto un giovamento negli ultimi anni, paga chi attraverso questo giovamento ha contribuito alla crisi in cui ci troviamo oggi.

Per il rilancio delle energie alternative ed ecologiche, e la estensione della sanità a tutti, Obama non solo non aveva alternative, ma ha messo in opera il programma elettorale che lo ha portato alla presidenza. Gli americani lo stanno capendo, e nessuno pensa che il presidente Obama sia un pericoloso sovversivo che odia i capitalisti, e punisce onesti cittadini che hanno speculato e guadagnato molto. Non c’è una strumentalizzazione ideologica. Da noi invece le tasse le pagano soprattutto i nuovi poveri, ovvero i lavoratori dipendenti, per gli altri è un gioco di prestigio che nella maggior parte dei casi, tra cavilli, vie di uscite e commercialisti abilissimi porta a dichiare assai meno di quello che si guadagna.

Ma non è soltanto questo il punto. Gli Stati Uniti sono pronti a un requilibrio, chi ha redditi più alti è pronto a fare la sua parte. Loro hanno la certezza di vivere in un paese che è il loro paese. Dove le dietrologie non servono, servono i progetti. Da noi nessuno tenterebbe di agire sulla leva fiscale per ridistribuire. Il centro destra perché rappresenta banalmente gli interessi di tutti quelli che hanno redditi e stili di vita alti. Il centro sinistra, per far dimenticare un passato ferocemente anticapitalista non oserebbe esporsi a una polemica di questo genere. Il risultato è che guardiamo Obama e pensiamo che è un leader vero, che dice esattamente quello che fa. E un po’ di invidia ti viene

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« Risposta #41 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:45:00 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 

"Studenti guerriglieri", in una frase la tragedia di un paese ridicolo


La tragedia di un paese ridicolo. Quello che Renato Brunetta ha dichiarato ieri sui manifestanti della Sapienza, oltre a essere irresponsabile ha qualcosa di paradossale. Un ministro che definisce guerriglieri i giovani dell’Onda, poi si rende conto di quello che ha detto, e si corregge: «non son degni di essere definiti guerriglieri, sono soltanto quattro ragazzotti».

Le parole di Brunetta come ormai sembra normale e consueto in questo paese sono decisamente senza senso. Non si definiscono guerriglieri degli studenti, soprattutto perché non è il caso di mettergli in testa l’idea che magari lo sono davvero. E questo sarebbe decisamente un guaio. Se un ministro definisce guerriglieri dei manifestanti, che spesso sono ragazzi, è assai probabile che ti venga voglia di farlo, il guerrigliero. Se dopo poco li definisci quattro ragazzotti, perché «non son degni di essere definiti guerriglieri». Il pasticcio ha qualcosa di grandioso. Perché intanto i guerriglieri non sono di per sé dei personaggi necessariamente etici, e di norma i guerriglieri non sono dei combattenti per la libertà, ma gente che fa la guerriglia, dunque che utilizza un metodo di combattimento assai preciso.

Ora, è vero che il guerrigliero tra i guerriglieri, l’icona del guerrigliero, è quella di Ernesto Guevara, detto il “Che”; ma il mito di Guevara, con gli anni qualche appannamento lo ha avuto, e questo non significa in generale che i guerriglieri siano categoria di persone buone e giuste, se siamo – come spero che siamo tutti – dei pacifisti. Ma Brunetta pensa che per essere guerriglieri si debba «essere degni», dunque nel suo criticare l’Onda ha mostrato una perfetta anima da sabotatore della pampa, da tiratore scelto nella giungla, da incursore con il coltello tra i denti delle foreste tropicali.

Mai lo avrei detto, e mai avrei pensato che in Brunetta tutto questo potesse avere una mitologia inaspettata. La dignità del guerrigliero è una nuova perla della compagine governativa. E mica va sottovalutata. Non son degni «i ragazzotti» dell’Onda di essere «guerriglieri». Quello è troppo. Certo che sì. Perché se stai in un paese ridicolo, ci devi stare fino in fondo.

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« Risposta #42 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:27:43 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


Berlusconi, il vecchio


Però qualche domanda bisognerebbe farsela. Perché dopo l’intervento di ieri di Berlusconi al congresso della Pdl ci sono alcune cose che stridono tra loro. Ogni volta che definiamo Silvio Berlusconi un uomo dell’antipolitica, un disco rotto che ripete sempre le stesse cose, uno che si occupa soltanto dei suoi affari e lo fa con assoluta determinazione, un narcisista che fa gaffe su gaffe, che ricorre alla chirurgia estetica in modo evidente e grottesco, che non ha niente in cui una persona con un minimo di buon senso possa riconoscersi, e parlo anche di persone di destra; ogni volta dicevo che si incomincia questo discorso c’è un politico, un sociologo, un analista politico di fine lettura, un giornalista attento ai fenomeni di massa che ti rimprovera: nessuno di voi ha capito Berlusconi, perché Berlusconi è uno che intercetta l’elettorato, perché Berlusconi è una sorta di rabdomante, uno che trova l’acqua nei deserti, perché Berlusconi è uno che vince sempre, e se vince un motivo ci sarà. E soprattutto: perché Berlusconi è la modernità, è uno che ha trasformato in vecchio tutto quello che c’era prima; non solo ha spazzato le ceneri del vecchio centro destra, ma ha messo in una vetrinetta antica l’intera sinistra.

Va bene. Non si è capito nulla, e forse le cose stanno proprio così, ma il Berlusconi di ieri non è uno che intercetta, ma è uno che è rimasto uguale al paese del 1994, è uno che torna ancora a dire che questa sinistra non cambierà, è uno che – in un mondo profondamente cambiato da allora – usa gli stessi stilemi, gli stessi luoghi comuni e agita gli stessi fantasmi di quando scese in campo, di quando entrò in politica. E allora? Se vince con questo armamentario, se le armi sono sempre le stesse non vuol dire che lui è moderno, che lui è il futuro, e non lo abbiamo capito.

Ma vuol dire che probabilmente esiste un elettorato di centro destra, quel 51 per cento a cui aspira Berlusconi, che è ancora più vecchio del suo leader, che è più ignorante, che pensa ancora alla sinistra come a qualcosa di cattivo. Forse non è Berlusconi l’elemento modernità, ma Berlusconi è soltanto un po’ meno vecchio dei suoi elettori, che sono culturalmente e socialmente decrepiti. Invecchiati con le sue televisioni. Intercettati da sua Emittenza, come veniva chiamato un tempo, nel modo più prevedibile possibile. Altro che modernità. Forse per disinnescare Berlusconi bisognerebbe fare in questo modo. Continuare a far passare un messaggio, vero, non di propaganda: Berlusconi è vecchio, e sono vecchi tutti quelli che stanno accanto a lui. Non è il nuovo, è il vecchio. E ieri questa vecchiaia politica e culturale si è vista tutta.

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« Risposta #43 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:23:50 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


Il terremoto e le polemiche inopportune


Nella tragedia del terremoto in Abruzzo i soccorsi sono efficaci, la solidarietà è commovente e il nostro paese è veramente unito. C’è una sola nota stonata in tutto questo: la polemica sul fatto che il terremoto si potesse prevedere, e che in realtà non è stato ascoltato il tecnico (che i giornali hanno definito uno scienzato, e poi hanno scritto che era un ricercatore del Cnr, entrambe le cose non vere) poi denunciato per procurato allarme.

Ieri il tecnico del Gran Sasso, Giampaolo Giuliani, ha rilasciato un’intervista a Bruno Vespa per “Porta a Porta”. È apparso come un uomo provato e perbene, che era certamente convinto di quello che diceva. Convinto di poter prevedere quanto stesse accadendo attraverso la lettura dei suoi strumenti: i sismografi e il rilevatore di radom, la radioattività che a volte preannuncia la possibilità di forti terremoti. Ma hanno ragione gli scienziati in tutto il mondo: non c’è purtroppo alcuna possibilità di sapere con certezza né il luogo in cui ci sarà un terremoto, e tantomeno quando.

È una tragedia nella tragedia lasciar pensare che non è stato fatto nulla per salvare persone che alle tre di notte sono rimaste uccise, ferite e senza casa per un terremoto. Ed è una tragedia che possa sorgere il dubbio che ci sia stata, di fronte a un terremoto, la superficialità di non considerare dei dati che preannunciavano il disastro. Ma non è vero, non è possibile ed è noto a tutti.
Perché è accaduto? Perché non rendersi conto che il problema non è tanto prevederlo, il terremoto, quanto forse non aver lavorato abbastanza per consolidare gli edifici situati in zone sismiche? Ma anche dire che, come ha fatto il geologo Franco Barberi, che in Giappone o a Los Angeles, una scossa di quella intensità non avrebbe «fatto neanche un morto», è un modo sviante di affrontare il problema. Los Angeles non ha un centro storico con edifici di quattro secoli fa, ha edifici modernissimi costruiti apposta per reggere l’urto dei terremoti. Los Angeles non è un paesino dell’Abruzzo. È vero che la prefettura doveva tenere, che l’ospedale non poteva lesionarsi in quel modo.

Ma le fatalità esistono, la storia dei luoghi ha un peso. E non si può sempre pensare che la responsabilità è di qualcuno solo perché non si riesce ad accettare che i movimenti dei subcontinenti sono impossibili da controllare e tantomeno da fermare. Non era il momento di dare voce, mentre ancora si estraggono i corpi dalla macerie, a teorie pseudoscientifiche che non hanno un fondamento. Se ne potrà discutere, si potrà cercare di capire, ma solo dopo, più avanti: perché può anche accadere che un tecnico abbia trovato un modo per capire meglio l’imprevedibilità dei movimenti tellurici. Ma ieri no. Ieri era sbagliato, sbagliato che i giornali e le televisioni abbiano ripreso con tanto interesse quell’episodio. Ma la teoria del complotto, degli scienziati chiusi a riccio che non vogliono riconoscere il lavoro di una persona isolata e in buona fede, la favola del potere degli scienziati contro il talento di un uomo solo, non era e non è assolutamente opportuna. E soprattutto è ingiusta.


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« Risposta #44 inserito:: Aprile 14, 2009, 03:02:08 pm »

Undicietrenta

di Roberto Cotroneo 


Quell'ospedale inagibile e sconosciuto al Catasto


Sembra una storia già scritta, ma ogni volta è lo stupore il primo sentimento che provi. L’ospedale dell’Aquila era inagibile, non disponeva del certificato di agibilità (l’atto che attesta la sicurezza, l’igiene e la salubrità dell'edificio). Di più, era anche sconosciuto al catasto, nel senso che quel grande complesso, costruito con un costo di 200 miliardi di vecchie lire, per una spesa prevista invece di 11 miliardi, non era nelle carte catastali, dunque non esisteva. Non è un dato da poco, è la fotografia di un paese purtroppo, dove le regole, quelle basilari del vivere civile, quelle che ogni cittadino è tenuto a osservare, per certe cose non valgono nulla. L’ospedale, e lo sappiamo bene, è venuto giù, la notte della prima scossa, creando un doppio dramma: per i degenti all’interno e per chi si è ritrovato a non avere una struttura a cui appoggiarsi nel momento del massimo bisogno.

Ora diranno tutti che la magistratura farà il suo lavoro e che i responsabili pagheranno. Non c’è dubbio, o meglio, qualche dubbio c’è, visto come vanno le cose nel nostro paese. Ma rimane una consapevolezza, che c’è un dramma anteriore a tutto questo, una malattia italiana che è come una maledizione. Il non rispetto del senso delle regole. L’idea che una comunità ha dei doveri, a tutti i livelli, e deve attenersi a normative. L’idea che ci sono sempre scorciatoie, vie di fuga e superficialità. L’idea che – come qualcuno dice – sotto una certa asticella ci si può andare sempre e comunque.

In questa settimana abbiamo visto un paese solidale, una protezione civile efficiente, aiuti organizzati e spontanei: nei momenti di emergenza questo paese dà il meglio di se stesso. Sono banali e persino strumentali le polemiche su questo. Ma siamo come un iceberg: quando accadono queste cose viene in superficie il meglio, ma sotto c’è un continente antico di superficialità, malaffare e cinismo. Quello dei piloni di cemento con la sabbia di mare, quello di case moderne costruite da poco che vanno giù, mentre rimangono in piedi i vecchi palazzi. Quello che risparmia sulla sicurezza. Quello che non ritiene che l’edificio di un ospedale debba essere il primo degli edifici a esigere l’agibilità. Passerà l’emergenza, inizierà quel lungo percorso dove il futuro potrà apparire solo alla fine del tunnel. Non è lecito dubitare che si tenterà di fare il meglio. Ma è la cultura di un paese che va cambiata, di un paese allergico alle regole, e persino al buon senso.

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