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« inserito:: Novembre 15, 2007, 11:02:05 pm » |
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Cossiga, strategia della nebbia
Nicola Tranfaglia
Sogno o son desto?
Non so per quale ipotesi propendere, leggendo con una certa attenzione l’intervista che sul Corriere della Sera, con la penna di Aldo Cazzullo, ha dato ieri l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga a proposito del caso Moro.
L’on. Cossiga che, nel marzo-maggio 1978, ricoprì l’incarico, cruciale e decisivo, di ministro dell’Interno nel governo Andreotti e, per cinquantacinque giorni, diresse (del tutto, inutilmente) le indagini sul rapimento di Aldo Moro nell’agguato di via Fani da parte delle Brigate Rosse, interviene ora sul più diffuso quotidiano del nostro Paese per smentire la recente testimonianza dell’on. Giovanni Galloni. Quest’ultimo, un mese fa, durante la presentazione del libro di Giuseppe De Lutiis, aveva riaffermato la sua convinzione della presenza della Cia nell’affare complesso legato al rapimento e all’assassinio successivo dello statista cattolico.
Galloni aveva detto allora (il 22 ottobre scorso) che gli americani sapevano dove Moro era prigioniero. Ma Cossiga che, con i servizi segreti americani era in stretti rapporti (come nell’intervista ha riaffermato) esce in affermazioni incredibili e non supportate da alcune prove per ribaltare completamente quello che è emerso nei trent’anni dagli otto processi svolti dalla magistratura sul caso e dalle ricerche storiche che si sono accumulate in tutto il periodo, oltre che dalle inchieste parlamentari protratte fino all’altro ieri. La versione ultima, offerta ora da Cossiga e trasmessa ai lettori del Corriere e di tutti quelli che la riprenderanno nei prossimi giorni, chiama in causa il supposto silenzio del Pci che «in mille sapevano dov’era. Non i vertici del partito - dice Cossiga - non Berlinguer e Pecchioli ma i capi sindacali nelle fabbriche conoscevano la verità e tacquero». Secondo l’ex presidente, che chiama in causa l’ex brigatista Gallinari, «i comunisti e più ancora il Kgb hanno alimentato la leggenda nera della P2; ma i piduisti che facevano parte del comitato di crisi del Viminale erano tutti protetti di Moro. Ed erano filoamericani. Del resto l’unico suggerimento che mi venne dagli americani fu di aprire la trattativa con le Br per farle venire allo scoperto».
Con simili affermazioni, Cossiga allontana da sé tutti i sospetti che ancora gravano, dal punto di vista storico, sul suo ruolo di ministro dell’Interno durante quei drammatici giorni, giacché assolve otto su dieci membri del Comitato di crisi del Viminale legati alla P2 in quanto «protetti di Moro» e cade subito in una grave contraddizione perché sostiene che erano tutti filoamericani ma dimentica che Moro era, in quel momento, in grave contrasto con il Dipartimento di Stato americano per la politica di compromesso storico con il Pci. E allora i casi sono due: o non erano protetti di Moro o, se lo erano, non potevano essere filoamericani, come sostiene Cossiga.
La seconda affermazione, assai dubbia, dell’intervistato (la leggenda nera della P2 sarebbe stata una costruzione del Pci e del Kgb) ma come si fa a dire una cosa simile se la commissione di inchiesta su Gelli e la sua loggia è stata voluta dal presidente del Consiglio Spadolini e se quella commissione che dichiara fuori legge la loggia è stata presieduta dalla democristiana Tina Anselmi e non certo da un parlamentare comunista? Si potrebbe ancora continuare con altri esempi dell’intervista che, dal punto di vista delle ricerche storiche e dei processi sul caso Moro appare del tutto infondata.
Nella sua lunga intervista, Cossiga sostiene che gli americani non erano per nulla interessati al caso e che inutilmente l’allora ministro dell’Interno tentò di farli partecipare alle ricerche. Moro, secondo Cossiga, era stato il fondatore di Gladio in Italia e la preoccupazione maggiore del ministro è che rivelasse i segreti che in pochi conoscevano di quella vicenda. Il generale Dalla Chiesa, secondo l’ex presidente, avrebbe consegnato a Craxi e ad Andreotti, le carte scomparse dei suoi interrogatori e aveva come referente principale il segretario socialista da cui si aspettava un incarico di governo. Peccato che di tutte queste cose molti dei protagonisti (se si esclude l’on. Andreotti) non possono più parlare, per confermare o smentire, semplicemente perché non sono più in vita.
Di fronte a una miriade di affermazioni e rivelazioni in parte credibili ma non provate, in parte niente affatto verosimili, Cossiga non cita elementi in grado di stimolare nuove indagini o di rintracciare fonti non consultate. Ma, dal suo racconto, appare una chiara difesa dell’operato di Andreotti e del suo governo, come del ministero dell’Interno gestito dal ministro democristiano ma si addossano tutte le colpe al partito comunista, guidato da Berlinguer e dal Kgb sovietico. Così gli Stati Uniti e i suoi servizi segreti che, da quasi quarant’anni, erano in rapporti assai stretti con la Dc e i suoi governi ed avevano da tempo il timore di un ingresso dei comunisti nel governo Andreotti, per l’intervistato, non si sarebbero occupati del sequestro e, all’opposto i comunisti che avevano deciso di accettare l’incontro con la Dc, avrebbero invece comunicato con i brigatisti.
Ma come è possibile sostenere, dal punto di vista storico ma anche logico e razionale, tesi di questo genere senza uno straccio di prova? E può il più diffuso quotidiano italiano, con tutte le sue conoscenze e il suo archivio, dare tanto spazio e tanto peso a una intervista senza fare le domande necessarie per far notare a Cossiga le molte contraddizioni del suo discorso invece che limitarsi a registrare passivamente quello che l’ex presidente afferma? C’è da chiedersi come tutto questo possa accadere trent’anni dopo quelle drammatiche vicende.
Pubblicato il: 15.11.07 Modificato il: 15.11.07 alle ore 9.21 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 06:36:09 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 04, 2007, 11:22:42 pm » |
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Disturbo bipolare
Nicola Tranfaglia
Quel che si sta giocando in queste settimane non è tanto la partita della legge elettorale prossima ventura ma, a stare alle cronache politiche più attente e agli avvenimenti più significativi, quanto la scomposizione e la ricomposizione di quelle che erano, fino a ieri, la coalizione di centro-destra e quella di centro-sinistra. A destra è morta - sembra in maniera definitiva - la cosiddetta Casa delle Libertà dopo la fiammata a San Babila di Silvio Berlusconi, con successivo (ma forse effimero, ritorno indietro) sulla nascita del Partito popolare della libertà e il più che mai incerto destino di Forza Italia.
Nel centro-sinistra, invece, c’è stata la svolta del governo Prodi che sopporta sempre più di malavoglia l’apporto della sinistra mentre qualcuna delle sue componenti sembra oscillare tra l’irritazione per i corposi segnali di scarso gradimento da parte del Pd e la ricerca per la nascita della Federazione della sinistra di cui vedremo la settimana prossima (l’8 e il 9 dicembre) le prove decisive di unità. Siamo giunti, insomma, al massimo della incertezza, anche se i quattro partiti della sinistra hanno detto esplicitamente che voteranno tutti alla Camera la legge finanziaria già approvata al Senato.
Ma, al di là di questi ultimi avvenimenti, non c’è dubbio che, al centro dei contrasti, resta la legge elettorale che porterà al voto gli italiani nel 20011 o tra qualche mese, secondo gli auspici e le intenzioni dell’opposizione. Dietro la legge elettorale si sta giocando il tentativo di una parte cospicua di uomini e di forze politiche che spingono verso il bipartitismo e di un’altra parte che vuol difendere l’attuale bipolarismo e limitarsi ad eliminare l’eccessiva, attuale frammentazione.
Non che bipartitismo e bipolarismo siano necessariamente in contrasto ma il tentativo attuale di passare a un sistema interamente proporzionale senza premio di maggioranza e con un forte sbarramento contro i partiti minori potrebbe provocare, con uno sbarramento assai alto, la sconfitta elettorale delle aggregazioni minori e la riduzione del sistema dal bipolarismo a un bipartitismo più o meno forzato. In altri termini a uno scontro o coalizione più o meno provvisoria tra il Pd da una parte e il Ppl dall’altra.
Certo è in gioco, con probabilità più grandi di qualche mese fa, la nascita di una «Cosa bianca» con vocazione di centro e una «Cosa rossa» con vocazione di alleanza con il Pd o con la tentazione di tornare all’opposizione. Ma questo aprirebbe la strada a un governo di coalizione tra il Pd e il Ppl oppure a un governo di alleanza tra uno dei due grandi partiti con la Cosa bianca. Dipenderà tutto dai risultati delle due formazioni più piccole, sicuramente la «Cosa bianca» e la «Cosa rossa», a determinare le aggregazioni finali ma i due partiti maggiori avranno (come si ripete in questi giorni) le mani libere per rivolgersi all’una o all’altra, pur di ottenere la maggioranza dei seggi in parlamento, anche se l’Italia è stato un paese storicamente poco adatto a due soli partiti.
Si afferma, di solito, che saranno i contenuti del programma a far decidere ai due partiti maggiori di scegliere l’uno o l’altro alleato. Ma l’esperienza della storia nazionale ci fa inclinare per un’altra ipotesi: cioè che siano invece i risultati elettorali a spingere per l’una o per l’altra soluzione. In questo senso conterà molto la composizione e l’indirizzo prevalente della «Cosa bianca»: se la coloritura sui valori e sulla lettura del passato sarà volta essenzialmente a destra, al Pd non rimarrà molta scelta tra allearsi con quest’ultima o optare per il governo di coalizione che assicurerebbe una maggioranza più ampia e sicura.
Qualcuno penserà che questa è una pagina di fantastoria.
Ma chi segue da vicino il panorama attuale della politica italiana, nota la volontà evidente da parte dei due partiti di decidere da soli le questioni più importanti come la questione elettorale e la politica economica e sociale, l’atteggiamento dei poteri forti e dei grandi mezzi di comunicazione decisi a mettere fuori gioco la sinistra, lo scontento assai evidente dei ceti medi che, più delle grandi riforme istituzionali, chiedono soprattutto un miglioramento delle loro condizioni economiche e di vita.
Pubblicato il: 04.12.07 Modificato il: 04.12.07 alle ore 9.01 © l'Unità.
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 24, 2008, 06:33:30 pm » |
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La destra e la variabile Casini
Nicola Tranfaglia
Il terremoto innescato dalle dimissioni di Mastella ha prodotto effetti maggiori per ora nella maggioranza di centro-sinistra che nell’opposizione di centro-destra. Prova ne siano le dimissioni che Prodi è sul punto di rimettere al Capo dello Stato dopo la fiducia votata dalla Camera e a cui non hanno partecipato i deputati dell’Udeur, peraltro non necessari vista la differenza di 88 voti tra la maggioranza e l’opposizione alla Camera.
Nel centro-destra anche ascoltando i discorsi dei loro leader a Montecitorio (vistosa l’assenza di Berlusconi tra gli oratori, presente al mattino per il discorso sulla Costituzione del Capo dello Stato) è emersa un’atmosfera di incertezza e di divisioni difficile da nascondere.
Si è potuto vedere che la forza politica più decisa ad andare alle urne è sicuramente la Lega che, oltre a un discorso particolarmente feroce di Maroni, ha innalzato i soliti cartelli in aula per invocare subito lo scontro elettorale. Maroni ha attaccato Prodi con una foga e un’energia che da molti mesi non si sentiva più e che fa pensare a un accordo elettorale già firmato con Berlusconi.
Altrettanto deciso è stato l’intervento di Elio Vito per conto di Forza Italia che ha manifestato tutta la fretta che ha il cavaliere di non avere più Prodi presidente del Consiglio e di sperare in una vittoria risolutiva davanti agli elettori di fronte al pericolo, annunciato, di una legge sul conflitto di interessi e alla riforma Gentiloni nel settore radiotelevisivo più volte prospettate come misure urgenti. Purtroppo simili misure, sottolineate soprattutto dalla sinistra della coalizione, sono state finora sempre rimandate a tempo più o meno indeterminato.
Alleanza Nazionale si è accodata ancora una volta alla linea di Forza Italia e il discorso di Fini ha ripercorso i temi e i toni usati dal partito maggiore del centro-destra con una minima differenza che soltanto gli osservatori più smaliziati sarebbero in grado di cogliere ma che non ha toccato l’impianto centrale dell’opposizione a Prodi. Neppure in un’occasione importante come quella attuale Fini, che deve registrare all’interno del suo partito divisioni non piccole, si è attenuto per ora a un’immagine che non esiste più della Casa delle Libertà. Lo stallo di Alleanza Nazionale continua a permanere dopo il discorso milanese in cui Berlusconi (simmetricamente a Veltroni) ha proclamato “sciogliete le righe” e annunciato la nascita di un nuovo Partito “del popolo delle libertà” di cui dopo qualche settimana non si parla più.
Su una linea nettamente diversa si è collocato invece l’intervento di Pier Ferdinando Casini per l’Udc. Nel suo discorso l’ex presidente della Camera, che deve peraltro fronteggiare una minaccia di scissione da parte della corrente che fa capo all’onorevole Giovanardi che vuole confluire nel nuovo partito berlusconiano, ha rinnovato la sua opposizione al governo Prodi e ha chiesto ai partiti maggiori di mettersi d’accordo al più presto sul modello tedesco di legge elettorale che è sostenuta da tempo dal suo partito. Ma non ha invocato con altrettanta decisione di andare alle elezioni e ha invitato Prodi a dimettersi subito e a non andare al Senato. Non ha chiuso, insomma, tutte le porte a un dialogo possibile con la maggioranza di centro-sinistra. E questa, forse, è la prova che la Casa delle Libertà non esiste davvero più.
Pubblicato il: 24.01.08 Modificato il: 24.01.08 alle ore 12.41 © l'Unità.
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 10, 2008, 07:51:43 pm » |
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Pdl: il partito che non è mai partito
Nicola Tranfaglia
Tra le forze politiche italiane, dopo lo sconcerto dei giorni successivi alla conclusione della crisi del governo Prodi che ha condotto allo scioglimento delle Camere dopo soli venti mesi, è subentrato l’affanno per preparare lo scontro del 13-14 aprile. Nello stesso tempo, incominciano a succedersi le scene di un confronto che userà tutti i mezzi di comunicazione, a cominciare dal più potente, quello televisivo, per convincere l’elettore.
Il leader del Partito Democratico ha messo a punto una scelta adatta a suscitare emozioni e un dibattito interno in quella che è stata per un quarantennio una coalizione decisiva della politica italiana, il centro-sinistra.
Come è noto, Veltroni ha proclamato di voler «andar da solo» (il Pd rispetto ai vecchi alleati) alla Camera come al Senato. Lo ha detto scontando che, alla Camera, ottiene il premio di maggioranza (340 seggi) la lista o la coalizione di liste che ha avuto il maggior numero dei voti, grazie al “Porcellum” di Calderoli e prevede o spera di ottenere un risultato migliore della nuova lista di Berlusconi che si chiamerà Popolo della libertà e includerà non soltanto Alleanza Nazionale ma anche, probabilmente, l’Udeur di Clemente Mastella, la Destra di Storace e altri partitini della Destra estrema come quello di Alessandra Mussolini e altri vecchi e nuovi neofascisti.
Al Senato, sempre per il “Porcellum”, il premio di maggioranza si applica a livello regionale e, dunque, sarà distribuito in maniera difforme da regione a regione e la possibilità di ottenere la maggioranza con una sola maxi-lista rispetto alla coalizione di centro-destra è più difficile. Potremmo, dunque, trovarci di fronte a due risultati opposti nell’una e nell’altra Camera: con una larga maggioranza di Berlusconi al Senato e una maggioranza del Pd alla Camera, qualora risultasse la lista più votata.
Ma al di là di proiezioni, del tutto ipotetiche a quasi settanta giorni dal voto, la decisione di Veltroni sta suscitando all’interno del nuovo partito, discussioni accese. Molti tra gli ex popolari, pur favorevoli all’andare da soli, ritengono che una simile scelta, se non accolta e rilanciata dall’altro schieramento, sia destinata a rivelarsi una sconfitta, aggravata dai probabili risultati del Senato dove lo scontro è davvero impari e assomiglia alla corsa di uno contro tutti, un po’ come nelle pellicole ormai tramontate del west americano.
A “soccorrere” Veltroni in questa sfida, è arrivato nei giorni scorsi l’avversario principale del Partito Democratico, Silvio Berlusconi, che ha annunciato di voler presentare Forza Italia con Alleanza Nazionale, l’Udeur fedifraga dell’alleanza di centro-sinistra. Ma basta rifletterci un momento per dire che siamo di fronte a una pura mossa propagandistica del Cavaliere, a una “bufala” vera e propria.
Assai diversa è la condizione dei due leader. Berlusconi sa, e i suoi alleati glielo hanno ricordato più volte nell’ultimo anno, ricco di scontri e di colpi di scena, che questa è l’ultima volta in cui potrà gareggiare come leader, anche per ragioni di età e, del resto, è nota l’aspirazione del fondatore di Forza Italia di concludere la sua carriera ascendendo alla Presidenza della Repubblica.
A differenza di Veltroni, dunque, Berlusconi rischia tutto nelle prossime elezioni e non può perdere la partita. Di qui una scelta prudente come quella di accumulare il massimo potenziale di voti, mettendo insieme diciotto partiti che partono dal centro-destra di Mastella alla destra estrema di Storace, Mussolini e altri ancora.
Certo fa impressione che Alleanza Nazionale e gli altri alleati di Berlusconi dopo esser stati definiti «ectoplasmi» dal Cavaliere nel famoso discorso del predellino di piazza San Babila ed esser stati virtualmente gettati nel cestino da Berlusconi qualche mese fa(se si esclude l’Udc di Casini che potrebbe forse allearsi con la Rosa Bianca di Tabacci e Baccini) ritornino disciplinati all’ovile per la battaglia elettorale e accettino di farsi guidare da un nuovo partito che accoglie nel suo seno Forza Italia e di fatto conduce Alleanza Nazionale allo scioglimento a breve scadenza, e che a sua volta si federa con quei “moderati” della Lega Nord di Umberto Bossi.
Per chi vuole apparire moderato e centrista e sensibile alla scelta del Partito Democratico di Veltroni è, nello stesso tempo, un trucco per apparire a la page e una truffa per l’elettore che pensa di andare a votare per Forza Italia e si trova l’espressione intera della destra peggiore affiorata negli ultimi anni.
Pubblicato il: 10.02.08 Modificato il: 10.02.08 alle ore 8.01 © l'Unità.
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 25, 2008, 05:40:39 pm » |
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Manovre al centro
Nicola Tranfaglia
Da quando l’on.Casini, seppure con un certo, imperdonabile ritardo, ha lasciato Berlusconi al suo destino (dicendo tra l’altro che non sopporta più il Cavaliere e i suoi programmi di governo) gli eredi della Dc si sono messi in agitazione e lavorano per costruire una nuova coalizione che sia fuori dei più grandi partiti (il PD e PDL)nel tentativo di formare in Italia una forza intermedia tra la destra di Berlusconi che accoglie Alleanza Nazionale, Azione Sociale della mussolina, e quella estrema che si raccoglie, con la Fiamma Tricolore di Romagnoli, nella Destra di Francesco Storace.
In realtà non è proprio di centro, perché l’UDC di Casini continua a proclamare la sua fedeltà a una linea di centro-destra e continua a trattare con quella Rosa Bianca di Tabacci e Baccini, di due parlamentari cioè che, proprio un mese fa, avevano lasciato Casini per collocarsi su una piattaforma che sembrava ormai lontana dall’UDC sostenitrice del centro-destra berlusconiano.
La trattativa continua ed è probabile che possa concludersi positivamente, visto che la Rosa Bianca sembrava nelle sue prime uscite porsi su una linea in qualche modo equidistante dai due grandi partiti. E Casini, a sua volta, aveva escluso future alleanze con il PDL.
Quello che è certa è l’esclusione da parte di tutte e due le forze di Clemente Mastella e della sua Udeur che,dopo essersi arruolato tre anni fa nel centro-sinistra di Prodi, ne è uscito clamorosamente ricoprendo il ruolo del killer qualche settimana fa nel voto al Senato che ha fatto cadere il governo di centro-sinistra.
Intervistato qualche giorno fa, Mastella ha chiarito di aver lasciato il governo per l’avvenuta approvazione da parte della Corte Costituzionale del referendum elettorale e per la costruzione del Partito democratico deciso, per bocca del suo leader, ad affrontare da solo le elezioni politiche (ma non quelle amministrative in giro per la penisola).
Il leader dell’Udeur ha, in realtà, sovravvalutato le indagini su di sé e la sua famiglia, pensando di suscitare nell’opposizione di centro-destra la condivisione della protesta contro la magistratura, senza rendersi conto in tempo che proprio Berlusconi era ormai teso a imitare Veltroni superando la frammentazione della sua coalizione e badando, prima di tutto, a inglobare Alleanza Nazionale, piuttosto che essere attratto da un’operazione assai meno interessante come quella di assorbire la piccola Udeur di Mastella, per giunta mostratasi, in questi anni, disposta a passare dall’uno all’altro schieramento per ragioni di convenienza.
Al di là della vicenda che ha fatto trovar Mastella inviso agli amici e ai nemici suoi e costretto a correre con assai poche speranze da solo, resta il fatto che il negoziato tra Casini e Pezzotta, per quanto non facile, sembra ormai vicno a una conclusione positiva.
Su quel negoziato ha pesato la diffidenza che i leader della Rosa Bianca non possono non avere verso un leader che, per quattordici anni, ha seguito con grande docilità il fondatore di Mediaset, che lo ha appoggiato al governo senza mai differenziarsi sul piano del programma come dell’attività legislativa, e che in varie occasioni non ha mai accettato proposte che gli venivano dal nuovo centro che si andava formando in questi anni, evitando fino all’ultimo di accogliere gli ami attraenti che gli sono venuti anche di recente dal presidente del Senato Marini.
Di qui la difficoltà iniziale di formare una coalizione con la Rosa Bianca che, invece, ha rotto con decisione con il partito di Casini, mostrando di voler aggregare forze che potevano subire l’attrazione della novità, forse più nel centro sinistra che altrove. L’ultimo è stato Ciriaco De Mita, un leader da non sottovalutare per la sua intelligenza politica e la quantità dei suoi seguaci in Campania.
Del resto quello che, in un certo senso, può unire le due formazioni è la questione cattolica, la particolare vicinanza alla Chiesa e alla sua morale, anche se resta il fatto che esponenti cattolici sono presenti, e non in piccola misura, nel Partito democratico di Veltroni e, a quanto pare, non hanno nessuna intenzione di abbandonarlo.
Certo, l’ingresso a sorpresa dei radicali ha suscitato immediatamente proteste in quella parte dei teodem come la senatrice Binetti e l’on. Enzo Carra che hanno partecipato al Family Day e che guardano con sospetto al programma del nuovo partito nella parte in cui si parla di Dico e di coppie di fatto anche omosessuali.
Ma, a mio avviso, è difficile che simili, prudenti concessioni sui temi eticamente sensibili possano provocare fuoriuscite da un partito che ha, al suo interno opinioni assai diverse, unificate dalla parte centrale del programma, tanto più nella fase elettorale decisiva del confronto con un PDL, ormai spostato decisamente a destra.
Pubblicato il: 25.02.08 Modificato il: 25.02.08 alle ore 8.34 © l'Unità.
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 09, 2008, 08:51:45 pm » |
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Il Cavaliere delle due Leghe
Nicola Tranfaglia
Alle battute di Umberto Bossi gran capo della Lega Nord sui fucili da imbracciare contro le schede elettorali, dimenticando che sono l´espressione letterale della legge-porcata del senatore leghista Calderoli, ora si aggiungono quelle di Lombardo, leader del movimento per le autonomie che vuole conquistare la Sicilia per conto di Berlusconi.
Le une e le altre sono, più che una battuta, il frutto dell´atteggiamento politico delle due Leghe, quella del Nord e quella del Sud, che usano l´arma del federalismo per annunciare la loro battaglia contro "Roma ladrona" e l´unità d´Italia.
E dimenticano una verità storica fondamentale: è stata la Chiesa cattolica e non altri ad opporsi per molti secolo all´unificazione del regno italico. Peccato che ora i leghisti si aggrappino, come del resto tutta la destra, alla persistente influenza del Vaticano per vincere le elezioni che altrimenti sarebbero appalto di altre e opposte forze politiche. È una delle molte contraddizioni che in queste settimane di campagna elettorale emerge con forza.
Mai come questa volta, il destino del cosiddetto Popolo della libertà che raggruppa Forza Italia e Alleanza Nazionale con l´appoggio della fascista Alessandra Mussolini e di altri piccoli partiti dipende chiaramente dai risultati che la Lega Nord conseguirà soprattutto in Veneto e in Lombardia e da quello che il partito di Lombardo riuscirà ad ottenere in Sicilia cercando di ridurre ai minimi termini la forza residua dell´Unione di centro di Pier Ferdinando Cassini.
Questa volta, insomma, il Cavaliere non potrà negare nulla a Bossi come a Lombardo. Avendo già assorbito Alleanza Nazionale di Fini e tutti gli altri della Destra con l´eccezione di Storace, Berlusconi dipenderà in maniera essenziale dai voti leghisti alla Camera e ancor più al Senato. Non a caso, di fronte ai fucili, si è lasciato prima sfuggire qualche frase sullo stato di salute di Bossi, poi ha dovuto rettificare perché non può correre il rischio di aprire un fronte polemico con l´alleato essenziale.
Avremmo insomma, se Berlusconi diventasse di nuovo presidente del Consiglio, una situazione in cui sarebbe Bossi a consigliargli e poi a pretendere l´uscita dal quadro costituzionale invece di un Casini che, nel quinquennio berlusconiano, ha spinto il pedale, sia pure debolmente, sul piano della moderazione e del rispetto delle istituzioni.
Del resto, nelle parole del capo della Lega Nord, come di quelle di Lombardo, c´è evidente lo spirito della secessione antiunitaria che ha percorso tutta la storia della Lega e che esalta i peggiori egoismi localistici delle regioni ricche economicamente ma arretrate sul piano civile che si è espresso ormai da più di quindici anni nelle piazze come nel parlamento nazionale.
Certo, dal punto di vista mediatico, il ricorso ai fucili e alle marce leghiste sulla capitale fa sensazione e riempie le prime pagine dei giornali e delle televisioni ma non può avere effetti concreti: è come se si giocasse una partita di calcio con i regolamenti da tempo concordati e improvvisamente entrasse in campo una squadra di picchiatori armati di bastoni che vuole risolvere la partita attraverso l´aggressione fisica. In un mondo normale sarebbe cacciata dal campo e probabilmente costretta a non entrare più.
Questo con la Lega non succede, sia perché pochi credono a quel che proclama Bossi, sia perché il partito nordista fa parte dello schieramento di destra che fa capo al Cavaliere. Non è la sinistra radicale, già emarginata dai mezzi di comunicazione, e presentata dalla maggior parte delle televisioni e dei giornali come una forza da uccidere a tutti i costi.
Ma io credo che le battute di Bossi dovrebbero preoccupare di più il governo e le istituzioni perché segnalano una volta ancora la minaccia di alcune forze di destra di passare ai fatti se non si accettano i loro diktat.
In un Paese normale l´offesa alla Costituzione, al Governo, al Parlamento dovrebbe essere condannata da tutte le forze in campo e i colpevoli di questi reati dovrebbero essere puniti e isolati non solo da una parte dello schieramento politico ma da tutti gli altri partiti. Invece questo non è mai avvenuto e non avviene neppure adesso.
Pubblicato il: 09.04.08 Modificato il: 09.04.08 alle ore 12.51 © l'Unità.
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 21, 2008, 11:22:07 pm » |
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Perché lascio il Pdci
Nicola Tranfaglia
Dopo poco più di due anni ho lasciato il Partito dei comunisti italiani. Mi è dispiaciuto doverlo comunicare al segretario dopo una discussione che ci ha visti su posizioni diverse e, per certi versi opposte, sulla strategia da intraprendere dopo la disfatta elettorale e politica di aprile. E vorrei spiegarlo ai lettori de l’Unità che più volte mi hanno scritto anche nelle ultime settimane, dichiarandosi d’accordo o, a volte, polemizzando con miei articoli su questo giornale.
Nel 2005 accettai l’ipotesi di una candidatura nel Pdci alle imminenti elezioni politiche sulla base di tre punti essenziali: la lotta al berlusconismo che era al governo da quattro anni e stava trasformando, ma in maniera negativa, l’Italia; l’alleanza di centro-sinistra guidata da Romano Prodi; la difesa della costituzione repubblicana aggredita dalla destra di governo.
Nei due anni di presenza in Parlamento ho lavorato con lo spirito e le parole d’ordine appena citate. Qualche volta ho dissentito dalle scelte del governo Prodi sulla questione sociale, sugli accordi con il centro-destra, sulla politica estera. Ma non mi sono mai sognato di mettere in discussione il sostegno al governo Prodi o la rottura dell’alleanza di centro-sinistra, unica barriera ancora oggi ipotizzabile contro il ritorno di Berlusconi e l’assunzione invece di un cammino diritto verso un’autentica rivoluzione democratica.
Sono stato quindi deluso dalla direzione che ha assunto il Partito democratico guidato da Walter Veltroni che, nella campagna elettorale, ha attaccato soprattutto la sinistra, illudendosi di prendere così voti al centro e di vincere lo scontro con Berlusconi. Conosciamo i risultati di una simile strategia: Berlusconi ha vinto con nove punti di distacco e la sinistra di cui ho fatto parte non è più presente in parlamento.
Peraltro anche la sinistra, a mio avviso, ha sbagliato alle elezioni, costruendo un cartello elettorale e non un nuovo soggetto politico e mostrando di aver perduto i contatti profondi e continui con il suo popolo, che pure è parte importante della società italiana.
Dopo le elezioni, il Partito dei comunisti italiani ha fatto una scelta strategica che non mi trova affatto d’accordo: puntare sull’unità dei comunisti piuttosto che su un nuovo progetto di costruzione della sinistra unita. Di qui pericoli di settarismo e di isolamento piuttosto che sforzi fecondi per aprirsi alla società e alle altre forze di opposizione, a cominciare dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori. Chi scrive ritiene, al contrario, che sia necessario cominciare proprio da un nuovo rapporto più intenso e diretto con gli elettori, con i gruppi sociali interessati all’opposizione e contrari alla ulteriore berlusconizzazione del paese e con le forze politiche che lo rappresentano e che hanno raccolto quasi il quaranta per cento dei voti nelle ultime elezioni.
All’interno di queste forze politiche, la volontà di difendere la Costituzione repubblicana e la disponibilità a un’alleanza più larga, se non sbaglio, esistono ancora in contrasto a volte con i propri gruppi dirigenti e restano per me fondamentali.
A me pare che oggi, di fronte all’attacco riuscito della destra, in Italia come in Europa, che miete successi elettorali dovuti alle contraddizioni della globalizzazione e alla sterilità dei progetti di governo della sinistra, sia urgente promuovere alleanze assai larghe, capaci di mobilitare, non per via ideologica ma per via programmatica, gli interessi e i sentiementi colpiti dalla deregulation berlusconiana. Non solo comunisti (o presunti tali) ma liberali e democratici, socialisti e radicali, tutti quelli che vogliono difendere la costituzione repubblicana e lo stato di diritto di fronte alla concezione patrimoniale e personalistica della politica che è propria non solo del Cavaliere di Arcore ma di tanti protagonisti della politica attuale, soprattutto a destra.
Spesso a sinistra si dice che nessuno è contrario a larghe alleanze ma di fatto queste non si fanno perché la borghesia parassitaria come quella produttiva nel nostro Paese si ritrova tutta intorno a Berlusconi e al suo partito. Mi pare che si tratti di una diagnosi semplicistica e poco realistica: negli ultimi quindici anni le cose non sono andate sempre così e la sinistra ha commesso errori assai gravi che hanno provocato in più occasioni la riscoperta e il ritorno di Berlusconi, quando era già in difficoltà anche nella sua coalizione.
Il problema a me pare, piuttosto, quello di coerenza e rappresentatività effettiva delle classi dirigenti democratiche italiane in grado di mostrare, con i fatti, la loro identità come alternativa al populismo mediatico. Non possiamo dire, per l’esperienza degli ultimi quindici anni, che questo sia emerso con chiarezza e continuità. Al contrario si sono spesso verificati contraddizioni e ritorni all’indietro che hanno favorito i ritorni e i colpi di coda degli avversari, più unitari di noi, e pronti sempre a sfruttare le dispute ideologiche e personali frequenti nel centro-sinistra.
Pubblicato il: 21.06.08 Modificato il: 21.06.08 alle ore 8.14 © l'Unità.
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 15, 2009, 11:40:55 pm » |
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Partigiani uguali ai fascisti? Un'offesa di Nicola Tranfaglia Siamo di nuovo al punto di prima. Durante il quinquennio 2001-2006 che ha visto la seconda, lunga esperienza di Berlusconi alla guida del governo italiano abbiamo già assistito al tentativo di equiparare giuridicamente (dal punto di vista storico l’operazione è ancora più difficile) i combattenti della guerra partigiana, e i soldati, regolari e irregolari, della repubblica sociale italiana, gli alleati consapevoli del Terzo Reich. Quel tentativo fallì. Qualcuno direbbe: perché c’era ancora in Italia una opinione pubblica democratica o perché l’opera di berlusconizzazione del paese era ancora incompiuta? Non lo so. Fatto sta che quel parlamento alla fine aveva bloccato il progetto di legge per equiparare partigiani e repubblichini. Ora l’occasione si ripresenta e nel giugno scorso una carovana che vede in prima linea alcuni socialisti che hanno scelto la destra (come l’on. Caldoro e l’on. Barani) insieme con una truppa composta da deputati di An che sembrano in polemica aperta con le recenti dichiarazioni del loro leader, attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini. Quest’ultimo infatti è ormai approdato all’idea che l’antifascismo è un requisito essenziale della democrazia repubblicana. La carovana anzidetta è tornata alla carica con il progetto numero 1360 che accentua l’assurdità del provvedimento della precedente legislatura. Nella nuova proposta legislativa si ipotizza la costituzione di un Ordine Tricolore presieduto dal Capo dello Stato che avrebbe al suo interno l’istituto nazionale della Resistenza e quello storico della Repubblica Sociale Italiana e prevede che combattenti siano considerati non solo i soldati e gli ufficiali delle quattro divisioni di fanteria della Rsi ma anche i componenti della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere, delle Bande feroci come la Banda Carità e la Banda Koch che, nei venti mesi di guerra contro i partigiani e i civili italiani, oppositori dei nazisti, provocarono morti e lutti assai gravi nell’Italia occupata dalle truppe del Terzo Reich. Un’offesa terribile per i caduti nella guerra che liberò l’Italia dalla barbarie nazista e che vide cadere quasi duecentomila persone tra partigiani e cittadini del nostro paese. Di fronte a quello che ancora una volta, malgrado le parole di Fini, An, sostenuta da Berlusconi, vuol fare nel nostro parlamento c’è da sperare che il progetto non vada avanti. Un giurista di grande peso come Giuliano Vassalli, ex presidente della Corte Costituzionale, più volte ministro, ha dichiarato che non deve esserci «nessun riconoscimento ai repubblichini. Erano e restano nemici dello Stato». E ha ricordato: «Che cosa vogliono ancora? Hanno avuto tutto, l’amnistia di Togliatti, la legittimazione democratica immediata, l’Msi in parlamento, ora sono al potere. Eppure non esiste paese in Europa in cui i collaborazionisti dei nazisti sono stati premiati». www.nicolatranfaglia.com15 gennaio 2009 da unita.it
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