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Autore Discussione: Gilberto Corbellini e Chiara Lalli. Una morale della concretezza  (Letto 2319 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2017, 11:41:36 am »

Una morale della concretezza

Di Gilberto Corbellini e Chiara Lalli 04 febbraio 2017

Non esistono modi oggettivi per stabilire che un’etica è più giusta o funzionale di un’altra in assoluto, anche se comprendiamo che è un tratto psicologico-sociale adattativo autoingannarsi, cioè credere che i propri giudizi debbano essere presi in considerazione e rispettati o addirittura che siano universalizzabili. Da questo punto di vista, Immanuel Kant aveva colto un’aspirazione umana più intuitiva che razionale. Purtroppo, ma anche per fortuna, veniamo al mondo con disposizioni sia benevole sia malevole. Possiamo essere più o meno predisposti a farci guidare da sentimenti morali di fondo che sono passati al vaglio della selezione naturale e hanno aiutato i nostri antenati a sopravvivere, cioè a lasciare una discendenza di cui siamo temporaneamente parte.

Ha una valenza solo retorica far riferimento a cadute tragiche dell’etica medica (le idee e le pratiche messe in atto dai medici sotto il regime nazista sono il caso più eclatante) come scenari in qualche modo disumani o da prendere come tipologia di confronto per giudicare l’accettabilità di qualche particolare scelta o intervento medico. «Lo facevano i nazisti e quindi è male», non può essere però un argomento intelligente contro qualche atto medico. Perché i nazisti mangiavano, dormivano, facevano sesso, stringevano amicizie e rapporti affettivi. Quindi i nazisti erano persone del tutto normali e la loro etica era un’etica normale in quanto possibile, e possibile in quanto conteneva elementi molto umani sul piano psicologico. Gli stessi elementi che sono alla base della nostra etica. Così come una persona razzista o omofoba non è diversa da chi non trova rilevanti, sotto nessun punto di vista delle relazioni sociali, il colore della pelle o le preferenze sessuali – con l’eccezione, dei razzisti e degli omofobi psicopatici.

Cosa cambia allora? Semplicemente le esperienze, le conoscenze e le capacità cognitive, si potrebbe anche dire una maturità epistemologica fondata su un pensiero critico, che permettono di rendersi conto che le credenze razziste e omofobe sono sbagliate. La capacità di valutare e usare criticamente i fatti consente di non restare schiavi di opinioni o pregiudizi falsi. Ci sono almeno due esperimenti sull’autorità, quello di Stanley Milgram e quello di Philip Zimbardo, che hanno dimostrato come anche le persone più «normali» possano trasformarsi in carnefici. E quella cosiddetta nazista non era altro che una possibile strategia comportamentale adattativa, in un dato contesto socio-economico e geopolitico, e considerato che la continuità della specie e della vita prevalgono, nella logica dell’evoluzione, sugli interessi individuali. Per favore niente accuse di relativismo, perché si tratta se mai di una posizione riconducibile al nichilismo morale.

Nelle controversie bioetiche si può arrivare a riconoscere precisamente quali scelte siano da ritenere più legittime e quali meno o per niente, in base alla valutazione dei danni e dei soddisfacimenti che possono derivarne. Questo ovviamente se si prende per valido il sistema di valori morali che governa gli ordinamenti sociali liberal-democratici. Se si assoggettano questi valori a qualche ideologia o credenza religiosa, allora si decide ipso facto di ridimensionare il ruolo e lo spazio decisionale per la propria capacità di autodeterminazione. Una possibilità senz’altro comoda, e anche quella che viene più naturale. Il nostro ragionamento non porta a un maggior controllo e limitazione della libertà (in genere così è inteso il compito della bioetica), ma consiglia di ampliarla, usando informazioni e conoscenze scientifiche come ausili. In altre parole, pensiamo che una maggior libertà nelle decisioni relative a riproduzione, cure e morte non aumenti i danni, ma al contrario produca esiti migliori.

Sappiamo però che si tratta di un risultato non scontato, e che la possibilità che le scelte risultino moralmente migliori, che perseguano cioè soddisfacimenti ragionevoli e non giustificati sulla base di pregiudizi o intuizioni autoingannevoli, dipende dalla qualità cognitiva del processo decisionale. Abbiamo abbondanza di prove che il miglioramento morale umano è stato possibile soprattutto grazie alla diffusione sociale di un’istruzione scientifica che addestra al pensiero astratto e ipotetico, che consente di immaginare scenari sulla base delle informazioni e delle esperienze, e quindi di prendere decisioni criticamente consapevoli, controllando gli impulsi emotivi e cercando di valutare le conseguenze delle proprie scelte. In tal senso, la ricerca scientifica e, soprattutto, il metodo scientifico non dovrebbero proprio essere visti come minacce contro le quali scagliare, come spesso accade, batterie di ragionamenti bioetici in astratto.

Si sarà già capito che abbiamo posizioni abbastanza definite in materia di bioetica. Mirando a dare strumenti per costruire posizioni autonome, vorremmo mettere nelle mani delle persone una procedura per controllare quando la nostra posizione realizza l’obiettivo di aumentare il benessere individuale e di una comunità. Non siamo quindi neutrali recensori di posizioni bioetiche ma proponiamo una «bioetica per perplessi». Una bioetica minima che vuole aiutare a capire quando ci sono buoni e validi motivi per impicciarsi nelle scelte degli altri, e quando l’analisi razionale del contesto decisionale suggerisce di lasciar perdere, cioè di lasciare libere le persone. Non ci interessa elencare una rassegna esaustiva degli argomenti, che possono essere anche molto complessi, per stabilire la liceità o illiceità etica di una specifica scelta. Pensiamo piuttosto che una cornice, dotata di profondità storica e di riferimenti normativi, e che semplifichi i ragionamenti, consenta di riportarli agli elementi sia intuitivi sia controintuitivi che si confrontano nella discussione bioetica, tenendo conto del fatto che in bioetica quel che viene proposto come razionale è molto spesso una razionalizzazione di qualche pregiudizio.

È del tutto legittimo voler mettere un’etichetta al nostro modo di concepire la bioetica, e quindi anticipiamo da subito che si tratta, oltre che di una bioetica minima, anche di una bioetica libertaria e razionale (o argomentativa). Per dirla in un altro modo, rifiutiamo la diffusa distinzione tra bioetica laica e bioetica cattolica (o religiosa): la distinzione rilevante è tra una bioetica logicamente e scientificamente solida, ovvero fondata su buoni argomenti e sulle conoscenze naturalistiche che riguardano il comportamento umano, e una fallace e contraddittoria.

Pensiamo che sia soprattutto attraverso un uso pertinente e controllato delle conoscenze e delle informazioni che le persone diventano meno manipolabili dai contesti e dagli altri. E il punto di vista liberale, in generale e quindi anche l’atteggiamento libertario, per le sue origini e caratteristiche di funzionamento come modello di organizzazione di società umane in condizioni non naturali, è metodo e non ideologia. Il nostro scopo, insomma, non è vendere soluzioni preconfezionate, ma indicare come arrivare più correttamente a un una decisione soddisfacente, e anche difendibile logicamente o razionalmente, in condizioni che sono in continuo e imprevedibile cambiamento, nonché circoscritte e singolari.

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