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Autore Discussione: Giuseppe Alberto FALCI. Pd, Renzi: si chiude un ciclo, sì al congresso prima ...  (Letto 5551 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Febbraio 13, 2017, 11:23:36 pm »

Pd, Renzi: si chiude un ciclo, sì al congresso prima del voto
«Chi perde dia una mano, non scappi con pallone»


Pubblicato il 13/02/2017
Ultima modifica il 13/02/2017 alle ore 21:56

Giuseppe Alberto Falci
Roma

La relazione del segretario Matteo Renzi supera la prova della direzione nazionale del Pd con 107 voti favorevoli. L’ex premier chiude «un ciclo» - iniziato il 15 dicembre del 2013 quando, ricorda, «presi il partito al 25%» e che nell’unica consultazione nazionale, le elezioni europee del maggio del 2014, il suo Pd ha superato il 40%. Al centro congressuale di via Alibert, a pochi metri dai palazzi della politica, si consuma il primo tempo fra le anime del Pd. Con un discorso di circa un’ora Matteo Renzi annuncia l’apertura della fase congressuale, condanna chi in queste settimana ha promosso «caminetti e riunioni di corrente», chiaro riferimento ai sommovimenti di Dario Franceschini e Andrea Orlando. E mostra poi lealtà a Paolo Gentiloni: «Non sono io a decidere la durata del governo, sarà una valutazione che dovrà essere fatta da chi ricopre ruoli istituzionali».  
 
Renzi: “Si chiude un ciclo”
La relazione che mette sul tavolo Renzi parte da lontano. In particolare l’ex premier si sofferma su quello che sarebbe successo dopo il 4 dicembre, ovvero all’indomani della sconfitta referendaria: «Ho già ammesso i miei errori, ma da quel giorno le lancette della politica sono tornate indietro». Il Parlamento, è l’accusa dell’ex sindaco di Firenze, «non è nemmeno riuscito ad eleggere il presidente della commissione affari costituzionali del Senato». Deputati e senatori in sala si guardano sbalorditi. Qualcuno della minoranza si lascia scappare: «Pensasse ai suoi di errori». Di certo c’è che da oggi inizia una nuova fase del renzismo. L’ex premier lo dice senza mezzi termini: «Io non dico `vattene´ dico `venite´. Discutiamo, vediamo chi ha più popolo con sé. Aiutateci a cambiare, portateci le vostre idee. Lo dico anche a chi sta fuori. Siamo una forza tranquilla, vi aspettiamo nel confronto democratico non nella battaglia del fango». Quelli che evocano la scissione sono avvisati: «Chi perde non deve scappare portandosi via il pallone». Ma in sala i mugugni e le facce storte hanno la meglio sugli applausi, la relazione del segretario almeno sottotraccia non trova riscontro. Pier Luigi Bersani, ex segretario e leader di un drappello di parlamentari, blinda l’esecutivo Gentiloni: «La prima cosa che dobbiamo dire al mondo è quando si vota. Non mi si dica Matteo che è roba da addetti ai lavori. Non mi si dica giugno, settembre... ma guarda che mettiamo l’Italia nei guai. Diciamo agli italiani che garantiremo la conclusione della legislatura. Non possiamo parlare come la sibilla lasciando sul governo la spada di Damocle che un giorno (il premier, dr) si dimette in streaming».

Bersani: “Pd garantisca voto 2018, guai se lasciamo dubbi”
La minoranza interna propone di votare un documento che chiede tempi lunghi per il dibattito e il voto per la leadership, non prima del 2017, ribadendo di «sostenere il governo fino al 2018». Ma il documento non viene messo ai voti dalla maggioranza renziana. E scatena l’ira di Miguel Gotor: «Non fanno votare un ordine del giorno che prevede di ribadire la fiducia della direzione al governo Gentiloni». Quando inizierà il congresso Michele Emiliano sarà della partita. Il governatore della Puglia interviene attorno alle 18. In camicia bianca e giacca - qualcuno lo irride sussurrando che «Michele si veste come i renziani» - Emiliano striglia l’ex premier: «Non so come si fa a fare il congresso senza sapere qual è la legge elettorale. Escludo che si possa farlo ad aprile, senza conoscere la legge elettorale, che roba è? È una di quelle cose che fa rischiare la scissione».  

L’ex sindaco di Bari evoca il congresso fra settembre e ottobre e il ritorno alle urne a scadenza naturale della legislatura. Ma l’intervento che lascia il segno, perché registra un cambio di sentiment nella galassia renziana, è quello di Andrea Orlando. Il ministro della Giustizia replica a Renzi: «I caminetti sono iniziati perché manca una proposta politica. Le cose che hai detto oggi ci avrebbero aiutato se le avessi dette all’assemblea». Orlando non condivide la linea del segretario anche perché, spiega, «le regole del nostro congresso sono state pensate per un sistema maggioritario per legittimare il leader. Il rischio che vedo è che il Pd diventi l’epicentro dell’instabilità del sistema politica. Le primarie finiranno così per essere una sagra dell’antipolitica, il tutto consumato dentro la campagna elettorale delle amministrative».  

Poi l’ex diessino invoca una «conferenza programmatica» prima dell’apertura del congresso. Ma il vero segnale da parte di Orlando arriva quando i membri della direzione sono chiamati a votare. Il ministro non partecipa al voto, segno che qualcosa all’interno degli equilibri del Nazareno stia cambiando. Presente anche Dario Franceschini. Il leader degli ex Dc dentro il Pd non interviene. Resta silente. Salvo poi cinguettare: «Quando in un partito ci sono linee diverse, la strada giusta è un Congresso. E un confronto vero può essere anzi il modo per evitare scissioni». Per sabato e domenica prossima è convocata l’assemblea nazionale. E lì si scopriranno tempi e modi del congresso.  

Bersani: “Non facciamo cose cotte e mangiate”

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/13/italia/politica/pd-renzi-basta-rese-dei-conti-diamoci-una-regolata-1f8Q6h3P39smZFSRokKjQL/pagina.html
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 14, 2017, 05:48:07 pm »

La direzione del Pd vota la linea di Renzi: “Congresso subito”. Scissione più vicina
Emiliano: «Mi candido alla segreteria, è necessario»

Pubblicato il 13/02/2017
Ultima modifica il 14/02/2017 alle ore 06:20

Giuseppe Alberto Falci
Roma

La relazione del segretario Matteo Renzi supera la prova della direzione nazionale del Pd con 107 voti favorevoli. L’ex premier chiude «un ciclo» - iniziato il 15 dicembre del 2013 quando, ricorda, «presi il partito al 25%» e che nell’unica consultazione nazionale, le elezioni europee del maggio del 2014, il suo Pd ha superato il 40%. Al centro congressuale di via Alibert, a pochi metri dai palazzi della politica, si consuma il primo tempo fra le anime del Pd. Con un discorso di circa un’ora Matteo Renzi annuncia l’apertura della fase congressuale, condanna chi in queste settimana ha promosso «caminetti e riunioni di corrente», chiaro riferimento ai sommovimenti di Dario Franceschini e Andrea Orlando. E mostra poi lealtà a Paolo Gentiloni: «Non sono io a decidere la durata del governo, sarà una valutazione che dovrà essere fatta da chi ricopre ruoli istituzionali». 

La relazione che mette sul tavolo Renzi parte da lontano. In particolare l’ex premier si sofferma su quello che sarebbe successo dopo il 4 dicembre, ovvero all’indomani della sconfitta referendaria: «Ho già ammesso i miei errori, ma da quel giorno le lancette della politica sono tornate indietro». Il Parlamento, è l’accusa dell’ex sindaco di Firenze, «non è nemmeno riuscito ad eleggere il presidente della commissione affari costituzionali del Senato». Deputati e senatori in sala si guardano sbalorditi. Qualcuno della minoranza si lascia scappare: «Pensasse ai suoi di errori». Di certo c’è che da oggi inizia una nuova fase del renzismo. L’ex premier lo dice senza mezzi termini: «Io non dico `vattene´ dico `venite´. Discutiamo, vediamo chi ha più popolo con sé. Aiutateci a cambiare, portateci le vostre idee. Lo dico anche a chi sta fuori. Siamo una forza tranquilla, vi aspettiamo nel confronto democratico non nella battaglia del fango». Quelli che evocano la scissione sono avvisati: «Chi perde non deve scappare portandosi via il pallone». Ma in sala i mugugni e le facce storte hanno la meglio sugli applausi, la relazione del segretario almeno sottotraccia non trova riscontro. Pier Luigi Bersani, ex segretario e leader di un drappello di parlamentari, blinda l’esecutivo Gentiloni: «La prima cosa che dobbiamo dire al mondo è quando si vota. Non mi si dica Matteo che è roba da addetti ai lavori. Non mi si dica giugno, settembre... ma guarda che mettiamo l’Italia nei guai. Diciamo agli italiani che garantiremo la conclusione della legislatura. Non possiamo parlare come la sibilla lasciando sul governo la spada di Damocle che un giorno (il premier, dr) si dimette in streaming».

La minoranza interna propone di votare un documento che chiede tempi lunghi per il dibattito e il voto per la leadership, non prima del 2017, ribadendo di «sostenere il governo fino al 2018». Ma il documento non viene messo ai voti dalla maggioranza renziana. E scatena l’ira di Miguel Gotor: «Non fanno votare un ordine del giorno che prevede di ribadire la fiducia della direzione al governo Gentiloni». Quando inizierà il congresso Michele Emiliano sarà della partita. Il governatore della Puglia interviene attorno alle 18. In camicia bianca e giacca - qualcuno lo irride sussurrando che «Michele si veste come i renziani» - Emiliano striglia l’ex premier: «Non so come si fa a fare il congresso senza sapere qual è la legge elettorale. Escludo che si possa farlo ad aprile, senza conoscere la legge elettorale, che roba è? È una di quelle cose che fa rischiare la scissione». 

L’ex sindaco di Bari evoca il congresso fra settembre e ottobre e il ritorno alle urne a scadenza naturale della legislatura. Ma l’intervento che lascia il segno, perché registra un cambio di sentiment nella galassia renziana, è quello di Andrea Orlando. Il ministro della Giustizia replica a Renzi: «I caminetti sono iniziati perché manca una proposta politica. Le cose che hai detto oggi ci avrebbero aiutato se le avessi dette all’assemblea». Orlando non condivide la linea del segretario anche perché, spiega, «le regole del nostro congresso sono state pensate per un sistema maggioritario per legittimare il leader. Il rischio che vedo è che il Pd diventi l’epicentro dell’instabilità del sistema politica. Le primarie finiranno così per essere una sagra dell’antipolitica, il tutto consumato dentro la campagna elettorale delle amministrative». 

Poi l’ex diessino invoca una «conferenza programmatica» prima dell’apertura del congresso. Ma il vero segnale da parte di Orlando arriva quando i membri della direzione sono chiamati a votare. Il ministro non partecipa al voto, segno che qualcosa all’interno degli equilibri del Nazareno stia cambiando. Presente anche Dario Franceschini. Il leader degli ex Dc dentro il Pd non interviene. Resta silente. Salvo poi cinguettare: «Quando in un partito ci sono linee diverse,la strada giusta è un Congresso. E un confronto vero può essere anzi il modo per evitare scissioni». Per sabato e domenica prossima è convocata l’assemblea nazionale. E lì si scopriranno tempi e modi del congresso. 

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« Risposta #2 inserito:: Marzo 16, 2017, 05:06:07 pm »

Orlando lancia la sfida: “La politica è parlare, spiegare, ascoltare”
«Non possiamo non dire niente per due mesi sulla legge elettorale

Pubblicato il 12/03/2017
Ultima modifica il 12/03/2017 alle ore 17:54

Giuseppe Alberto Falci
Roma

Al teatro Eliseo, alle dieci del mattino, lo aspettano come fosse il salvatore. Perché Andrea Orlando, per dirla con la signora Emma - mai iscritta al Pd, ma da sempre elettrice del centrosinistra nelle sue varie forme - «il ministro è la pacatezza, lo spessore, il garbo profondo che risponde alla sfacciataggine del bullo di Firenze». In due parole, Orlando è l’anti Renzi. 

Qui Verdini e Alfano vengono considerati «compari di Berlusconi», e sia solo un caso figlio dell’emergenza e della instabilità se ieri con Letta e Renzi, e oggi con Gentiloni, siano al governo con il Pd. Tutto ciò non si verificherà nella prossima legislatura, annota il barbuto Sergio, perché «con Andrea non ci saranno larghe intese. Quelle le vuole solo Renzi che ha già un accordo con Berlusconi». 

Minuto dopo minuto il teatro di via Nazionale si riempie del popolo di un centrosinistra alternativo all’ex sindaco di Firenze e distante diverse miglia dalla kermesse del Lingotto. Minuto dopo minuto cresce l’attesa per l’arrivo del guardasigilli Orlando, candidato alle primarie del 30 aprile che milita a sinistra da quando aveva i calzoni corti: «Chiesi di iscrivermi al Pci all’età di tredici anni». 

Nicola Zingaretti, padrone di casa della kermesse a sostegno di Orlando, viene accolto da mille strette di mano e pacche sulla spalla. «Ah Nicola, te ricordi quanno te sostenni per le provinciali?». In camicia celeste, giacca blu e jeans, Zingaretti non si sbottona con cronisti e spiffera che «Andrea sta arrivando». Intanto sfilano Cesare Damiano, la sottosegretaria Sesa Amici, l’ex renziana Gea Schirò Planeta, Elisa Simoni e Aurelio Mancuso.

Tutti accomodati nelle prime due file. Pochi metri più dietro si scorge Franca Chiaromonte, figlia d’arte, che tiene a far sapere che «Andrea è il miglior ministro della giustizia». Alle 10 e 40 ecco Orlando con il codazzo di telecamere e cronisti che provano a scippargli una dichiarazione. Lui non si scompone e tira dritto, saluta Zingaretti e si accomoda in prima fila. La regia lancia “Born to run” di Bruce Springsteen, «una canzone - dice Zingaretti - che incita tutti a cambiare l’esistente». E se il governatore del Lazio apre le danze spiegando le ragioni del suo sostegno ad Orlando («servono leader che uniscono non capi che impongono»), per sentire il guardasigilli bisogna attendere le 11 e 35.

La platea eterogenea in cui si alternano capelli grigi e clarks a più giovani al primo giro di boa nel Pd, non rivolge sguardi al telefono e si concentra ad ascoltare «Andrea». L’ex Ds inforca gli occhiali, osserva il pubblico e inizia con una battuta: «Cari compagni, adesso si può dire, no?». Risate e applausi. 

Simonetta, democratica in tutte le stagioni, si lascia andare con l’amica Anna: «Meglio di così non poteva iniziare». 

Parte da lontano il ministro che iniziò a frequentare il «partito» dall’età di tredici anni da quando conobbe Guelfo Delrio, «un saldatore di una azienda di La Spezia che ogni giorni mi chiamava per dirmi cosa pensava la signora della porta accanto o il ristoratore sul partito». Ecco, sottolinea Orlando, «la politica è parlare, spiegare, ascoltare». Sottotitolo non rivelato, non si fa colpi a tweet e di prese di posizioni che lasciano ferite e causano le scissioni. 

Il discorso di Orlando è una critica spietata a Renzi e al renzismo. «Ho visto che si dice che ci sarebbe un complotto dell’establishment contro il Pd. Sarebbe il primo auto-complotto della storia». E ancora: «Non possiamo non dire niente per due mesi sulla legge elettorale. Se la legge elettorale non cambia o si torna a votare entro sei mesi o si fanno le larghe intese e io non voglio né l’uno né l’altro». 

Secondo Orlando, dopo la debacle del 4 dicembre l’autocritica non è stata sufficiente. «In alcune realtà del mezzogiorno il risultato è stato 90 a 10 per il No, ci rendiamo conto?». Eppoi c’è un elemento che ha determinato la crisi attuale del Nazareno: il risultato delle europee del 2014, il 40,8% «c’ha dato alla testa» allontanando il Nazareno dalla realtà. L’obiettivo resta sempre Matteo Renzi. «Un partito - insiste - non è credibile se non lo è nella Capitale d’Italia. Se dovessi diventare segretario non starei lontano dalle vicende di Roma». Quando pronuncia queste parole si raggiunge il picco di applausi. Poi la chiosa: «Gli uomini nascono liberi ed uguali». Fra i partecipanti in tanti si accorgono che Orlando, da diversamente renziano, oggi si pone come l’unica alternativa credibile a Matteo Renzi. E alla domanda perché abbia preso le distanze dall’ex premier «Andrea» non si scompone e rilancia: «È una conseguenza di questi anni di governo». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/12/italia/politica/orlando-la-politica-parlare-spiegare-ascoltare-kIGj6rOVMGfP14UnfrN8EP/pagina.html
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 30, 2017, 12:27:48 pm »

Tra i tassisti di Roma: “Uniti contro il governo”.
Ma il sindacato più grande non aderisce alla protesta

Pubblicato il 23/03/2017 - Ultima modifica il 23/03/2017 alle ore 16:17

GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA

Niente bombe carta, ma compostezza e profilo basso. Questa volta il corteo dei tassisti che da piazza Colosseo sfila fino a piazza Venezia non registra atti da guerriglia. Ma procede con passo felpato perché, come ironizza Antonella, tassista da circa 20 anni, «non sono più abituata a camminare visto che sto più di otto ore al giorno in macchina. Guardate infatti quanto sono grassa…». Battute a parte, resta la distanza tra le posizioni del governo e il fronte dei tassisti. Un fronte che si sbriciola perché il sindacato più grande, Uritaxi, non aderisce alla protesta. Gianluca Z., che fa questo mestiere da più di dieci anni, mostra il cellulare e dice: «In questo momento per andare da Roma a Fiumicino con Uber ci vogliono circa 140 euro, ci stanno a prendere in giro». L’obiettivo resta Uber e il governo Gentiloni perché, secondo i manifestanti, il risultato raggiunto è insufficiente: «Ci stanno devastando in tutto e per tutto. Questo governo deve andare a casa perché non pensa a chi fa onestamente il proprio mestiere». 
 
Il tenore delle voci che si registrano attraverso il corteo non muta. Tutti prendono di mira Linda Lanzillotta, la senatrice dem che secondo i manifestanti avrebbe presentato un emendamento a favore di Uber. «Il governo continua a non ascoltarci. Per noi la legge 21/92 non deve essere toccata». A un certo punto prende la parola il sindacalista della Cgil Nicola Di Giacobbe. Capello bianco, baffo dello stesso colore, abito grigio. Di Giacobbe mette subito in chiaro che «i tassisti sono uniti». Rimarca questa posizione perché a piazza Venezia le defezioni sono più delle presenze. Stefano, tassista infuriato con i vertici sindacali, non la manda a dire a Di Giacobbe: «Ma che sta’ a di’? Secondo me dovremmo bloccare tutta la città, il raccordo anulare, così vediamo come va a finire». 
 
Fra i pochi manifestanti presenti, poco meno di un migliaio, serpeggia una forte insoddisfazione. Perché «con questi numeri – è il ragionamento del solito Stefano – il governo ci prenderà in giro un’altra volta». Passano i minuti e la manifestazione continua a scemare. «Ao’ annamo a magnare che è meglio». Nel frattempo a Termini uno dei tassisti oggi in servizio viene riempito di applausi dai clienti. «E dovevate vede’ stamattina a Tiburtina. Ci voleva l’applausometro». Anche se alla stazione Tiburtina, secondo alcuni indiscrezioni, stamane alcuni tassisti sarebbero addirittura venuti alla mani. Il motivo? Uno di loro non avrebbe aderito allo sciopero. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/23/italia/cronache/tra-i-tassisti-di-roma-uniti-contro-il-governo-ma-il-sindacato-pi-grande-non-aderisce-alla-protesta-8mg0hgu1cqRPfZrIwO1NDJ/pagina.html
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 03, 2017, 04:41:56 pm »

Stefano Parisi pone le basi per una costituente di centro
L’ex candidato a sindaco di Milano fissa la data delle primarie: l’8 ottobre

Pubblicato il 01/04/2017
Ultima modifica il 01/04/2017 alle ore 20:58

GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA

In una location storicamente adorata dai socialisti, Stefano Parisi, che fu del Psi, pone le basi per una costituente di centro. Si candida a leader di questa nuova compagine, e fissa la data delle primarie, l’8 ottobre. 

Hotel Ergife, zona sud della Capitale. La convention parisiana è fissata per le 15, ma già attorno all’ora di pranzo c’è aria di fibrillazione perché, annota Felice da Agrigento, «oggi rinasce il centrodestra». 
 
Nella hall dell’albergo passeggia Alberto Bombassei, patron della Brembo e oggi parlamentare di “Civici e Innovatori”. Il quale non si sbilancia sul progetto del manager: «Sono amico di Stefano da diversi anni. Ci conosciamo dai tempi di Confindustria. Ma sono qui in veste di osservatore. Aspetto di sentire qual è il progetto politico prima di proferire verbo e aderire a qualsiasi cosa». Sorride Bombassei quando poi il discorso vira su Silvio Berlusconi, l’eterno leader del centrodestra: «Fra Parisi e Berlusconi si è consumato un amore iniziale. Ma voi lo sapete come finisce con il Cavaliere, è sempre così...». 
 
In fondo, il flusso di gente che varca l’ingresso dell’Ergife per applaudire Parisi ha nostalgia del Silvio Berlusconi che nel ’94 decise di scendere in campo per «evitare che il Paese finisse ai comunisti». Ci sono imprenditori, liberi professionisti. C’è quel ceto medio che ha sempre spinto per la ricchezza e per la meritocrazia. 
 
Non mancano però le facce di un centrodestra ormai diviso in mille rivoli. Ecco dunque sfilare Gabriele Albertini, da sempre tifoso di «Stefano»: «Sarà lui - afferma alla Stampa - il leader del nuovo centro». Eppoi ci sono Maurizio Sacconi, Raffaele Bonanni, l’ex ministro all’Ambiente Corrado Clini, il siciliano Nello Musumeci, e anche il verdiniano Ignazio Abrignani. Spazio anche a pezzi del mondo cattolico come Luigi Amicone, oggi consigliere comunale di Milano, e Gianluca Cesana, leader laico di Comunione e Liberazione.
 
C’è questo e tanto altro nella mega sala dell’Ergife, dove siedono oltre 130 circoli di Energie per l’Italia e dove Emanuele, speaker per un giorno, annuncia che «a Gela c’è stato il record di iscritti». Un’affermazione che lascia di stucco una signora ben vestita munita di borsa griffata che sogghigna: «Ma Gela non è uno dei comuni della Sicilia con il più tasso di criminalità? Annamo bene...». Riccardo Puglisi, economista, entra in punta di piedi e sarà una della voci che scalderà la platea con un intervento sulla moneta europea. Defilato Claudio Scajola, che preferisce tenersi distante dalla prime file. La gente lo riconosce e viene riempito di abbracci. «Ho controllato bene dalla posizione in cui mi trovavo. C’erano persone che provenivano da tutte le parti d’Italia, e ho visto anche molteplici facce di Fi che mi hanno accolto con tanto calore». Ma il progetto di Parisi risulta compatibile con il Cavaliere? L’ex coordinatore di Fi ne è più che convinto: «Compatibilissimo. Mi auguro che sia un’ulteriore passo avanti per ricostruire il centro dello schieramento. Perché oggi al centrodestra manca il centro». 

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« Risposta #5 inserito:: Aprile 09, 2017, 05:31:29 pm »

Patto Renzi - Cardinale per battere i Cinquestelle in Sicilia

Pubblicato il 08/04/2017

GIUSEPPE ALBERTO FALCI

Aspettando che vinca le primarie del Pd Matteo Renzi studia già da segretario. E a pochi giorni dalla tappa finale del congresso, l’ex premier guarda con un certo interesse alle regionali siciliane. Da sempre definito il “laboratorio politico del Paese”, nell’isola il rinnovo del Parlamentino è fissato per il prossimo 5 novembre. La partita siciliana è il primo vero test prima delle politiche del 2018. Nell’isola il clima continua a surriscaldarsi. Vittorio Sgarbi, in passato sindaco di Salemi, si dice pronto a scendere in campo: «Mi candido a presidente della regione siciliana». Mentre il governatore uscente Crocetta potrebbe candidarsi ugualmente senza il sostegno del Pd. 

Già, il Pd. I dem sono in grande difficoltà. Il motivo? Diversi istituti di ricerca stimano il Pd sotto il 10% in Sicilia, mentre il M5s con il vento in poppa con percentuali superiori al 30%. Ma in queste ore l’ex premier prova a correre a ripari. Non è un caso che giovedì prima di incontrare i parlamentari della sua mozione al Nazareno, Renzi abbia pranzato a pochi metri dal Quirinale con Luca Lotti, Davide Faraone, e l’intramontabile Totò Cardinale, accompagnato da una delegazione del suo partitino “Sicilia Futura”. La location è “Rinaldi al Quirinale”, ristorante frequentato dagli inquilini di Palazzo Koch e da quelli del Colle. Davanti a una seppia saltata con carciofi croccanti, «Matteo» e «Totò» si sono guardati negli occhi. 
 
L’uno ha rassicurato l’altro. Renzi si fida di Cardinale, politico di lungo corso che ha attraversato la prima e la seconda Repubblica ricoprendo l’incarico di ministro delle telecomunicazioni negli anni dei governi presieduti da Massimo D’Alema. Matteo lo ritiene un conoscitore del territorio come pochi. L’ex sindaco di Firenze ha chiesto un parere sul congresso e le prossime regionali. «Sono certo che il 30 aprile la Sicilia mi farà un gran regalo. Però vi vorrei fare una domanda: alle regionali ce la faremo o vinceranno i cinquestelle?». La domanda stuzzica Cardinale. Totò si sistema la cravatta, dà un’occhiata a tutta la tavolata, prende carta e penna e inizia a sciorinare numeri che rallegrano i commensali: «Matteo, il Pd non prenderà meno del 15%, la mia lista otterrà almeno il 10%, la lista di Leoluca Orlando e dei sindaci il 10%, e un altro 10% arriverà dai centristi di Alfano e D’Alia, mi sembra che ci siamo, no? Eppoi un altro 10% arriverà dal nostro valore aggiunto che si chiama Renzi». Matteo sorride e replica così: «Mi hai convinto, ordiniamo il caffè?». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/08/italia/politica/patto-renzi-cardinale-per-battere-i-cinquestelle-in-sicilia-Rk3Cvtuq0qySi1jGpkq6XN/pagina.html
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 16, 2017, 06:01:31 pm »

Walter Verini (Pd): “E’ una dialettica fisiologica “
Pubblicato il 15/04/2017

GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA

«Più che uno scontro vedo semplicemente una normale dialettica tra il governo e il Pd». Walter Verini, parlamentare renziano, dai toni dialoganti e riflessivi, non accetta la lettura che si dà in queste ore. E sulla battaglia che dietro le quinte si starebbe consumando fra i tecnici dell’esecutivo e il segretario uscente del Pd Renzi preferisce sorridere e affermare: «Mi sembra tutto una tempesta in un bicchier d’acqua» 

E allora onorevole Verini, di cosa si tratta? 
«Le ripeto, è una dialettica fisiologica tra soggetti che hanno ruoli diversi. Padoan tratta tutti i giorni con Bruxelles e il Pd ha un orizzonte diverso. E chiedere all’Europa di cambiare, di non essere solo vincolistica e ragionieristica non significa solo fare gli interessi dell’Italia ma anche dell’Europa stessa». 
 
Orfini ha detto chiaramente: «Grazie a noi il Def è migliorato, pensavano di decidere in tre». 
«Il governo era portato a tenere più in considerazione le esigenze dell’Europa. Mentre il gruppo del Pd ha puntato su una manovra che non deprimesse la ripresa. Distinzioni che poi sono diventate complementari».
 
Se Padoan ascolta il Pd, Calenda continua a prendere le distanze dal Pd e da Matteo Renzi. Al punto che il presidente dem Orfini lo ha definito un ottimo leader per il centrodestra. 
«Mi auguro che il centrodestra trovi una leadership moderata ed europeista, e non populista ed estremista. Quanto a Calenda, essendo stato ed essendo un ministro di governi presieduti dal Pd, e rimanendo il Pd un partito a vocazione maggioritaria, non regalerei i Calenda al centrodestra». 
 
Lei ritiene ancora possibile una ricucitura tra il Pd e il ministro Calenda? 
«Avere momenti di discussioni e diversità di opinione non vuol dire necessariamente scontrarsi». 

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