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Autore Discussione: Beatrice RUTILONI Fibrillazioni, voci, smentite. Verso la Direzione di lunedì  (Letto 4402 volte)
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« inserito:: Febbraio 13, 2017, 12:49:20 pm »

Focus
Beatrice Rutiloni - @bearuti
· 8 febbraio 2017

Fibrillazioni, voci, smentite. Verso la Direzione di lunedì

Oggi prevale la road map elezioni nel 2018 e Congresso anticipato

A quattro giorni dalla direzione di San Valentino al Nazareno le acque nel Pd restano agitate e non è semplice decrittare i vari segnali.

E se, come diceva Agatha Christie, un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, allora possiamo ben concludere che i segnali che si susseguono in queste ore tra i corridoi della Camera sono la conferma di una linea che sta cercando di imporsi con sempre più decisione, quella che fa capo al partito del voto 2018. “Andrà a finire che invece del premier voteremo il candidato del Pd a giugno”, sussurra un parlamentare. Uno dei tanti.

Il primo indizio arriva ieri pomeriggio: è sconvocata l’assemblea dei parlamentari a Montecitorio, in cambio ci sono due riunioni di corrente, quella di ieri in Senato dei franceschiniani e degli orlandiani, mentre i bersaniani che si sono dati appuntamento alla Camera domani alle 14,30.

Il secondo indizio è un Bersani che in tarda mattina passeggiando sul tappeto rosso del Transatlantico detta ai cronisti la sua road map: congresso a giugno e voto nel 2018.

Il terzo indizio arriva a metà pomeriggio: un documento firmato da 40 senatori di sostegno al governo Gentiloni. Dentro c’è un po’ di tutto: una spruzzata di franceschiniani, un tot di turchi, qualche bersaniano. Per dire: da Cirinnà a Chiti, passando per Manconi, Puppato e Fabbri. “Vogliamo rappresentare plasticamente la capacità di riunirsi del Pd, siamo la trasversalità che allontana la scissione”, la spiega così Vannino Chiti, tra i firmatari dell’appello.

Tre indizi fanno una prova? Non è dato saperlo ma molto sembra far credere che il voto a giugno si allontani, al netto delle dichiarazioni della renziana Anna Ascani che ribadisce la necessità di tornare alle urne in primavera dopo aver armonizzato la legge elettorale.

Eppure tra le voci che si rincorrono in serata ce n’è una che sovrasta le altre e che vede tra le mosse possibili di Renzi anche quella delle dimissioni, per aprire la fase congressuale, contarsi e solo dopo, tornare al voto. Voci però seccamente smentite dagli uomini del segretario.

Non è l’unica smentita della giornata: Orlando ha sgombrato il campo dall’ipotesi di volersi candidare al congresso e Martina ha negato incontri carbonari sul futuro del Pd.

Ed è il capogruppo Rosato a dare la cifra della direzione di lunedì: “Primo punto, tutti si devono sentire a casa, secondo punto: lavoriamo a un confronto sulla legge elettorale che può essere fatto in un mese e mezzo al massimo, se c’è la volontà”. La linea del segretario dunque resta questa, al di là delle cospirazioni e dei retroscena.

Da - http://www.unita.tv/focus/fibrillazioni-voci-smentite-verso-la-direzione-di-lunedi/
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 21, 2017, 12:24:07 am »

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Beatrice Rutiloni - @bearuti - · 20 febbraio 2017

L’ultimo valzer della scissione
Non è chiaro come è quando verrà annunciata la scissione

La partita è chiusa, sono le parole nette di una fonte bersaniana a mettere fine alla manfrina della scissione. Se qualche dubbio poteva ancora sorgere da qui alle prossime ore sul destino del Pd, questo appare fugato dalla rivelazione non tanto di una mancata presenza alla direzione convocata per domani al Nazareno, affidata alle parole di Nico Stumpo via agenzie stampa, quanto dalla strada intrapresa che ormai appare senza ritorno. Al netto dei “non so” di Emiliano.

Alea iacta est, si dirà. Eppure è nei dettagli che si annida il diavolo e qualche domanda ancora rimane senza risposta. Ad esempio: i bersaniani hanno annunciato che non si presenteranno in direzione domani e invece i seguaci di Emiliano, Boccia e Ginefra in primis, cosa faranno? A leggere le dichiarazioni del presidente della commissione Bilancio a Montecitorio che dice “domani abbiamo l’ultima possibilità di salvare il Pd” e aggiunge “mi auguro che Renzi parli in direzione”, pare proprio che nella minoranza a tre teste vi siano alcuni distinguo. Almeno uno, quello che porta il nome di Michele Emiliano. Sono in molti nella maggioranza a scommettere che il presidente della Puglia non lascerà il Pd mentre quello della Toscana, Enrico Rossi, avrebbe già scelto di lasciare la casa dei democratici così come i bersaniani.

Resta il punto del come. La scissione deve assumere una forma e dunque si dovrà tradurre in un atto concreto: la minoranza dovrà dunque ratificare i lanci di agenzie e i tweet con un gesto, che potrebbe essere la formazione di nuovi gruppi parlamentari. Il numero di deputati e senatori dati in uscita dal Pd va dai venti ai quaranta, a quanto si apprende da fonti della minoranza. Si aprirebbe poi il caso delle presidenze di Commissione per Epifani e Boccia. C’è poi la delicata questione della commissione Affari Costituzionali dove un futuro gruppo della nuova sinistra potrebbe contare su quattro ex-Pd: Agostini, Bersani, Giorgis, Lattuca, tanti da spostare gli equilibri interni.

Voci di una diaspora dei parlamentari si inseguono da settimane, da molto prima dell’assemblea di domenica. Segno che la scissione non dipendeva da nulla: era stata già decisa, Potere del proporzionale? Sono in molti a malignare che la vera strategia dietro la divisione del Pd sia il calcolo dovuto alla legge elettorale: con il sistema attuale la scissione conviene a tutti, è il ritorno delle correnti che fa ragionare gli osservatori su una riedizione della prima Repubblica. Dove i leader, purtroppo, erano tutti vestiti di grigio.

Da - http://www.unita.tv/focus/lultimo-valzer-della-scissione/
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 01, 2017, 04:56:08 pm »

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Beatrice Rutiloni - @bearuti
· 28 febbraio 2017

Quota 400 mila. Ultimo giorno di tesseramento, Congresso al via
Dati in linea con il 2015. Trend di iscrizioni in crescita.

Nell’ultima giornata del tesseramento, in vista del Congresso del Pd, l’ex segretario Renzi posta la sua su Instagram e scrive “Da noi, solo da noi, #unovaleuno”. E l’ex segretario Bersani conserva la sua in tasca: tessera rinnovata nel circolo della sua Piacenza a giugno 2016 e , a quanto risulta, non ancora restituita.

La quota è 400 mila. Tanti dovrebbero essere gli iscritti al Pd, nell’ultimo giorno utile per iscriversi a partecipare alle convenzioni provinciali e nazionale, la prima fase del Congresso, riservate agli iscritti. Il termine scade alla mezzanotte del 28 febbraio. Dati in linea con il 2015, quando le tessere furono 395.320, non sfonda il tesseramento on line che copre una quota del 3% delle tessere. Per avere numeri ufficiali occorrerà però aspettare qualche giorno, un tempo utile alla macchina del territorio per chiudere le procedure, terminare i conteggi e spedire i dati finali a Roma.

Eccola, dunque la platea congressuale del Pd: chi avrà sottoscritto la tessera potrà votare i candidati segretari e le piattaforme da essi presentate nei propri circoli. A questa prima fase congressuale seguiranno le convenzioni provinciali e la convenzione nazionale e infine, le primarie dove, a differenza delle convenzioni, votano tutti, iscritti e non iscritti al partito.

Un anno particolare quello del 2016 per il tesseramento, con due variabili che hanno influito sulla campagna, spostando più in là di un paio di mesi il termine ultimo e chiudendo il 28 febbraio invece che alla fine di dicembre. La raccolta delle firme per il referendum costituzionale e le successive elezioni amministrative hanno infatti rallentato il tesseramento tra maggio e luglio che ha poi recuperato terreno nei mesi successivi.

Una macchina organizzativa importante che appoggia sull’ossatura del partito nel territorio: 6500 circoli, 115 federazioni provinciali, 21 regionali e 4 ripartizioni estere. Ancora numeri e curiosità: dal 2014 ad oggi il trend è in costante crescita con 20 mila persone in più che hanno scelto di avere la tessera in tasca. L’anno boom per il Pd è il 2009 con circa 800 mila iscritti, dimezzati nel 2010.  In genere le annate dei congressi portano tesserati: nel 2013 gli iscritti furono 500 mila. C’è da dire che in quattro anni è cambiato il mondo e il modo di partecipare e sostenere la vita di un partito non è più la stessa: il Pd ha incassato 580 mila firme a sostegno del referendum sulla Costituzione e 550 mila italiani hanno scelto di destinare il due per mille in dichiarazione dei redditi ai democratici.

La platea congressuale, dunque sembra essere, questa: la carica dei 400 mila sceglierà il suo segretario. I quattro candidati Renzi, Emiliano, Orlando e Carlotta Salerno guardano però alla vera sfida, le primarie del 30 aprile, dalle quali dipendono il vincitore e gli equilibri dell’Assemblea nazionale chiamata a votare il segretario nel caso in cui nessun candidato superi il 50 per cento.

i tempi del congresso:

il 6 marzo è l’ultima data utile per presentare una candidatura, dal 20 marzo al 2 aprile si svolgeranno le riunioni di circolo. Il 5 e il 9 aprile è la volta delle convenzioni provinciali e nazionali, il 30 aprile si celebrano le primarie con cui si scelgono i delegati e il segretario che viene proclamato il 7 maggio, nella prima riunione dell’Assemblea Nazionale. Nel caso in cui nessuno dei candidati ottenga la maggioranza assoluta dei voti si va al ballottaggio in Assemblea.

DA - http://www.unita.tv/focus/quota-400-mila-ultimo-giorno-di-tesseramento-congresso-al-via/
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 12, 2017, 04:24:12 pm »

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Beatrice Rutiloni  @bearuti  · 8 maggio 2017

Il Pd pronto a vedere le carte dei Cinquestelle
Legge elettorale elezioni
Accelerazione sulla legge elettorale?

 
Una cosa è certa: nessuno vuole morire di proporzionale. E comunque: chi vuole vincere non ci sta a campeggiare nell’attesa di un risultato pieno di veti, inciuci e accordi. Le alleanze del dopo, i matrimoni di interesse combinati non piacciono né al Pd né al M5S. E su questa stretta via si potrebbe trovare l’accordo per una legge elettorale d’ispirazione maggioritaria. Se Renzi aveva detto domenica in Assemblea che l’onere della proposta toccava a chi aveva aveva affossato la Riforma costituzionale e successivamente l’Italicum, condannando il Paese a un ritorno al passato della Prima Repubblica, non si sono fatte attendere molto le reazioni dalle parti dei Cinquestelle.

Luigi Di Maio si era detto “sinceramente aperto a un confronto con il Pd” specificando che “in questo momento vogliamo scrivere le regole del gioco insieme al partito di maggioranza, e lo vogliamo fare per due ragioni. C’è stato l’appello di Mattarella che chiede di fare una legge elettorale in modo che ci sia chiarezza sul risultato dopo le prossime elezioni, e poi il Paese è in grave crisi e non possiamo permetterci nuove elezioni politiche in cui ancora una volta si partorisce un risultato incerto”.

A Di Maio per il Pd rispondeva Matteo Richetti: “Se il vicepresidente della Camera Di Maio e il M5S fanno sul serio e sono pronti ad assumersi fino in fondo la responsabilità di una legge elettorale condivisa, allora è possibile costruire in tempi rapidi un terreno di intesa. L’importante è che l’impostazione, anche per le liste, conservi un impianto maggioritario e che garantisca governabilità come chiesto dal segretario Renzi. Nessun ritorno a logiche da proporzionale e restituzione di un risultato chiaro rispetto alle scelte dei cittadini. Su questo siamo pronti ad un lavoro responsabile e proficuo”.

Fin qui tutto bene. E ora?

“Siamo disponibili a lavorare seriamente a un accordo con i Cinquestelle: in questa settimana i vari gruppi politici saranno ascoltati dal presidente della Commissione Affari Costituzionali per cercare un punto di sintesi tra le varie proposte depositate”, dice un deputato renziano. “Presenterò il testo base solo dopo aver svolto il giro di incontri con i gruppi parlamentari, come avevamo concordato in Commissione quando mi era stato chiesto il rinvio di una settimana della presentazione del testo” spiega il relatore alla legge elettorale e presidente della Commissione Affari costituzionali, Andrea Mazziotti. “Il testo base della legge elettorale arriverà giovedì. Si tratterà del frutto della mediazione che stiamo avendo con tutti i partiti” specifica il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato.

Contatti informali, abboccamenti, accelerazioni, accorciamenti delle distanze. Ecco quello che sta accadendo in queste ore.

La proposta di legge che piace ai Cinquestelle è quella a firma Gian Mario Fragomeli, sottoscritta da molti renziani, tra cui Malpezzi e Rotta e per questo indicata come erede dell’Italicum.

In sostanza, la proposta di legge propone l’Italicum modificato sulla base delle osservazioni fatte dalla Consulta stessa. Da segnalare, innanzitutto, la riproposizione del ballottaggio. Si tratta di un sistema maggioritario, ma qualora nessun partito dovesse vincere, allora scatterebbe il proporzionale puro. Quanto al secondo turno, viene introdotta la soglia minima del 20% per potervi accedere. Inoltre, viene previsto un quorum di validità del ballottaggio, pari al 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto. Il ballottaggio scatta se nessun partito o lista raggiunge il 40% dei voti sia al Senato che alla Camera, soglia necessaria per poter ottenere il premio di maggioranza. Il premio resta alla lista e non viene assegnato alla coalizione, come chiesto ora da diverse forze politiche. La soglia di sbarramento in ingresso è del 3% e viene uniformata per i due rami del Parlamento. Se invece nessun partito vince al primo turno, si svolgerà il ballottaggio: chi ottiene il 37% in entrambe le Camere, incassa il 52% dei seggi.

I paletti ci sono, le carte sono in tavola, per ora coperte, nonostante le dichiarazioni. Da parte del M5S ci sarebbe un veto sul premio di colazione, e preferirebbero estendere il modello uscito dalla sentenza della Consulta anche al Senato, anche se come dice Di Maio sono disposti a discutere di eventuali correzioni “nell’ottica della governabilità, che significa che uno vince le elezioni e può realizzare un programma elettorale”.

Per il Pd è fondamentale mantenere un sistema maggioritario che garantisca governabilità al Paese. Dunque stando alle dichiarazioni odierne un’intesa sembrerebbe possibile. Sulla carta, l’intesa è possibile.

E questa potrebbe essere una settimana buona per l’accelerazione: giovedì infatti è atteso il testo base in commissione Affari costituzionali di Montecitorio.

Da - http://www.unita.tv/focus/il-pd-pronto-a-vedere-le-carte-dei-cinquestelle/
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 17, 2017, 10:56:19 pm »

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Beatrice Rutiloni - @bearuti
· 13 giugno 2017

Giustizia e conti pubblici, una doppia fiducia per testare la tenuta del governo
Riforma penale alla Camera e manovrina al Senato. Test per il Governo

Come era facile immaginare dopo la débâcle della legge elettorale e le potenti scosse nella maggioranza, il governo Gentiloni riparte all’insegna del voto di fiducia con due provvedimenti delicati e urgenti che mettono subito alla prova la tenuta dell’esecutivo. Anche se pare di capire che il trasversale partito del non voto ha già avuto la meglio su quello che voleva correre alle urne, mandando la legge elettorale a farsi benedire.

Doppia fiducia, dunque: domani sera sul ddl penale alla Camera e con ogni probabilità giovedì sulla manovrina al Senato.
Il troppo Vietnam di questi ultimi tempi, con lo showdown sulla legge elettorale, la rottura del patto a 4 e ancor prima le piccole scosse di pezzi che fin qui sostenevano apertamente l’esecutivo, come Mdp e i centristi, hanno convinto il governo che per evitare che lo scontro politico-elettorale facesse saltare riforme e provvedimenti della massima urgenza, fosse necessario prendere la via breve della questione di fiducia.

Troppi regolamenti di conti tradotti in voti segreti. Bastava vedere questo dato: di oltre 600 emendamenti presentati alla riforma penale e un centinaio approvati, ben il 70% erano a scrutinio segreto. Mettici il pressing del guardasigilli che dopo mille giorni di ping pong Camera-Senato-Camera (il primo voto sul ddl Orlando è datato agosto 2014) e la concomitanza di un probabile e imminente giudizio negativo dell’Ocse sui tempi troppo stretti per la prescrizione, ed ecco che si è arrivati alle 15.20 di oggi pomeriggio quando la ministra per i rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro poneva la fiducia sul ddl penale.

La ragione è chiara: “Siamo in dirittura d’arrivo di questa legislatura e poniamo la fiducia perché se la riforma venisse modificata alla Camera tornerebbe al Senato e finirebbe su un binario morto”, dice Walter Verini, parlando a Montecitorio.

Soddisfatto il ministro Orlando che passeggia sul tappeto rosso del Transatlantico: “La fiducia è  la condizione per arrivare all’approvazione di un provvedimento che era partito più di tre anni fa”, dice il ministro della Giustizia che certamente porta a casa un buon risultato personale. Con due punti fondamentali: l’aumento dei tempi per la prescrizione ma soprattutto la delega al governo sulle intercettazioni.

E’ quest’ultimo il tema che più fa litigare la politica, visto che la riforma penale prevede limiti più stringenti all’utilizzo non solo e non tanto delle conversazioni telefoniche, ma del potentissimo Remote Access Trojan, un tipo di malware che permette a chi indaga di entrare letteralmente nei telefonini e nei computer di chi è sotto inchiesta, per poter accedere a ogni informazione contenuta nei dispositivi e finanche manovrarli, ad esempio inviando mail. Nella legge delega sarebbero previsti alcuni paletti all’utilizzo del Rat, come il tipo di reato e l’esclusione dalla pubblicazione di materiale non inerente alle indagini, come le foto private.

Un minuto dopo la richiesta del voto di fiducia va in scena la protesta dei Cinquestelle che espongono cartelli in aula sui bavagli al Parlamento. Un vero e proprio show che la deputata del Pd Giuditta Pini racconta così: “È una messinscena a favore di like: hanno urlato e alzato cartelli sul processo penale, nel tentativo di sviare il discorso dei media sul risultato amministrativo”. Un giochino che ormai si conosce bene, spiega ancora Pini: “Funziona così: preannunciano la diretta Facebook e poi, invece di utilizzare il canale istituzionale della Camera, organizzano un live via smartphone. Peccato che una volta che il governo ha posto la fiducia, questo tipo di iniziativa non possa più incidere sulle decisioni della Camera. Serve solo a moltiplicare i like e le condivisioni sui social network”.

Ora, che il M5S voti contro il governo pare abbastanza scontato, ma che lo faccia Mdp, che pare intenzionato a non votare la doppia fiducia appare molto più strano. Non tanto sul provvedimento di correzione finanziaria che contiene gli odiatissimi nuovi voucher, su cui già il 31 maggio scorso gli scissionisti dem uscirono dall’aula, quanto sulla riforma del processo penale, visto e considerato che Mdp aveva invece votato la fiducia in commissione al Senato allo stesso, identico testo che verrà sottoposto allo scrutinio dell’aula nelle prossime ore.

Vedremo se i rumors che danno Mdp uniti a M5S e alle altre opposizioni contro la riforma penale saranno confermati domani, quando, dopo il dibattito che avrà inizio alle 11 e le successive dichiarazioni di voto arriverà il voto finale, atteso in serata.

Da - http://www.unita.tv/focus/giustizia-e-conti-pubblici-una-doppia-fiducia-per-testare-la-tenuta-del-governo/
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 25, 2017, 04:29:58 pm »

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Beatrice Rutiloni @bearuti  · 19 giugno 2017

Orfini: “Meccanismi quasi eversivi”. Domani se ne discute in Senato
Attesa per il dibattito sul Cda della Centrale acquisti della PA

“La vicenda Consip? C’è un’indagine in corso che sta rivelando sorprese, con meccanismi quasi eversivi, con pezzi di apparati dello Stato che falsificano le prove per cercare di fare arrestare il padre dell’ex premier, una roba abbastanza enorme di cui si parla poco”, così il presidente del Pd Matteo Orfini, alla vigilia della seduta in Senato sulle mozioni che riguardano i vertici Consip.

Se il Cda della società pubblica è di fatto decaduto non lo sono le mozioni che chiedono l’azzeramento delle posizioni apicali della centrale di acquisti della Pubblica Amministrazione.

Sette mozioni che per il settanta per cento chiedono quello che si è già verificato in queste ore: il presidente di Consip Luigi Ferrara dopo essere stato prima ascoltato e di seguito iscritto dalla Procura di Roma nel registro degli indagati (gli inquirenti non sarebbero convinti della sua versione dei fatti nel filone dell’indagine che riguarda la fuga di notizie sull’inchiesta) si è dimesso e così ha fatto la consigliera del Tesoro Marialaura Ferrigno. Il Cda è di fatto azzerato. In piedi resta solo l’ad Luigi Marroni, insieme alle mozioni in Senato.

La cosa si spiega così: Marroni è formalmente dimissionario poiché il Cda è decaduto, ma c’è una differenza (che vale anche molti soldi) tra dimettersi volontariamente e licenziarsi. Quindi, riferiscono i maligni che pure sottolineano il buon lavoro di Marroni: perché non farsi mandare a casa dalla politica? Dal canto suo il Senato, dove da sempre la maggioranza soffre, ha tutto l’interesse a prendersi la scena con un dibattito caldo come quello su Consip, dove rimbalzerà un nome fra i più vicini a Renzi: quello di Luca Lotti.

Perché rinunciare a un’occasione così ghiotta? Qualche ora di accuse sul caso Consip sembrano un buon modo per picconare il segretario del Pd e dare qualche bordata al governo Gentiloni. Non sembra sufficiente, al momento, che le mozioni non abbiano più motivo di essere. Di ritirarle non se ne parla, anzi. Da Quagliariello, promotore della prima mozione su  Consip, sottoscritta anche dal M5S, a Forza Italia, fino a Mpd e Sinistra Italiana, è un coro unanime che continua a chiedere l’azzeramento di vertici che si sono già dimessi.

Dal canto suo, il Pd riformula la propria mozione e la presenta insieme agli alfaniani di Ap, che ritira la propria, e al gruppo delle Autonomie: non si chiede più l’azzeramento dei vertici ma il rinnovo, in tempi celeri, degli stessi.

“Ribadisco che si sono dimessi per non indebolire il lavoro prezioso di Consip. Quello che ha accelerato la situazione è la legittima mozione del Parlamento. Quindi venendo incontro al segnale politico, ma ribadendo la difesa di Consip è stato deciso da parte del Mef di accelerare il ricambio”, così ha detto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.

Ora la palla spetta al presidente del Senato Piero Grasso, assoluto giudice di questa vicenda: “Decide lui, ma mi sembra che rispetto alle mozioni il caso sia risolto, visto che le mozioni chiedevano la sostituzione dei vertici e il Cda è decaduto”, spiega il capogruppo dem a palazzo Madama Luigi Zanda.

E anche se ci sarebbe il buon senso, o anche semplicemente la voglia di non impegnare il Senato in un dibattito che rischia di avere come unico scopo quello di fare il processo a Renzi via Lotti, il presidente Grasso sembra avere una via molto stretta: “O convoca una capigruppo per discutere della attualità delle mozioni alla luce dei nuovi fatti, oppure viene in aula e ci dice che le mozioni sono decadute come il Cda di Consip, anzi, insieme a questo. Ma francamente la vedo dura e noi non abbiamo intenzione di tirarlo per la giacca…”, spiegano fonti parlamentari.

Dunque: salvo sorprese, domani alle 11 inizia la discussione sulle mozioni. Poi il presidente deciderà se la vicenda è chiusa oppure se e quali mozioni mettere ai voti. Il punto è che alcune mozioni chiedono espressamente la testa di Lotti, come quella di Mdp. E i grillini sono tornati all’attacco chiedendo le dimissioni del ministro.

Peccato che il Senato abbia respinto la richiesta di sfiducia contro il ministro dello Sport il 15 marzo scorso. Grasso permetterà che a distanza di soli tre mesi l’aula che presiede si esprima ancora una volta su una domanda che, senza fatti nuovi, risulta sempre la stessa?

Da - http://www.unita.tv/focus/avanti-con-le-mozioni-per-sfiduciare-un-cda-gia-decaduto/
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 16, 2017, 05:15:22 pm »

Interviste
Beatrice Rutiloni @bearuti  · 14 luglio 2017

Gramsci, che parla di noi

#Democratica cover Gramsci-mostra

Sinistra, libertà, uguaglianza. La rinascita gramsciana secondo il presidente della Fondazione, Silvio Pons
 
C’è da dire che Antonio Gramsci è diventato un’icona pop. Come la Marilyn di Andy Warhol o il Che sulle t-shirt dei sognatori di tutto il mondo, così, con quella sua faccia da “intellettuale organico”, Gramsci è diventato il volto più noto della politica con la P maiuscola, quella che mescola pensiero, studio, serietà, passione. Sobrietà.

Gramsci come il nuovo idolo di una generazione un po’ nerd, che da ogni angolo del mondo ritrova in quel modernissimo sguardo la propria fuga dal presente. L’ultimo degli utopisti, con quegli occhialetti tondi che sono passati da John Lennon a Harry Potter, è oggi più celebrato di Lenin: quattro anni fa nel Bronx, l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione The Gramsci Monument, un luogo di aggregazione che ha ospitato reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari. Dalla casa museo di Ghilarza, in Sardegna, dove Gramsci visse la sua infanzia, sino a New York, la miniera gramsciana sembra arricchirsi di anno in anno. A dimostrazione del fatto che l’eredità culturale, quando è viva, è come un classico: non muore mai, anzi, rinasce nella memoria.

A ottant’anni dalla scomparsa dell’uomo politico, definizione che nella sua massima espressione riunisce tutte le altre, quella di filosofo, storico, linguista, giornalista e scrittore, resta molto di Gramsci: restano le sue bellissime lettere private, che esprimono l’uomo, e restano i Quaderni, tradotti in tutto il mondo e aperti mille volte nella vita. Di quelle letture che prendi e riprendi perché sempre ti dicono, un po’ come la Recherche di Proust. E rimane l’impressione di Gramsci, la stessa cifra inquieta e ordinata del suo volto è nella sua pagina scritta, con quella indimenticabile grafia, piccolissima, precisa, di un uomo che sa che il tempo non si spreca e non si perde.

Uno dei più grandi conoscitori dell’opera gramsciana è Silvio Pons, storico dell’Europa orientale, tra i massimi esperti del comunismo internazionale e presidente della Fondazione Gramsci.

Viene da chiedere, oggi che è il 14 luglio, anniversario della Rivoluzione francese, quanto vale la libertà.

E’ un valore globale ed è più attuale che mai. Viviamo un’epoca di grande disordine mondiale in cui sono rimessi in discussione i principi fondamentali della democrazia. L’ultimo esempio di rivoluzione nel nome della libertà sono state le Primavere arabe che ormai abbiamo rimosse alla luce della catastrofe della Siria e di tutti gli eventi violenti che sono seguiti alla caduta dei regimi. Potremmo dire che tra la fine del Novecento e l’inizio del secolo molte comunità si sono mosse per rivendicare libertà. Non c’è stato solo il 1989 in Europa, di rivoluzioni pacifiche ce ne sono state molte altre tra i Balcani, il sud dell’Africa, fino all’Iran. Ci sono state intere comunità senza nome che hanno imposto nell’agenda mondiale una richiesta di libertà che va molto al di là della tradizione eurocentrica della rivoluzione francese.

L’egocentrica rivoluzione francese.

Dico che gli europei hanno monopolizzato alcuni valori, tra cui la libertà. La rivoluzione francese ha generato la modernità politica europea, l’evento genetico del nazionalismo occidentale. Ora siamo in un’epoca in cui Occidente e americanismo sembrano appartenere al passato e sono superati, ma una certa idea di libertà e anche di uguaglianza che può farsi riferire alla nostra storia moderna si è globalizzata. Ci sono tante rivoluzioni francesi, tra cui metto in testa la Primavera araba.

Che però è fallita.

Le rivoluzioni possono fallire ma anche il loro fallimento esprime significati importanti, soprattutto in relazione alla parte del mondo dove originano. Anzi, direi che proprio perché sono fallite dobbiamo fare ancora più attenzione. Il fantasma delle libertà moderne è ancora tra noi.

E quello dell’uguaglianza?

Molto meno, viviamo in un mondo diseguale: da una parte c’è la crescita della ricchezza globale – ma sono ferocemente contrario a chi accusa la globalizzazione di essere una portatrice di povertà – che ha seminato ricchezze nel mondo in modo diseguale. La Cina o l’India sono le nuove potenze, l’Occidente non controlla più, non influenza più. La redistribuzione delle risorse ha spostato l’asse della ricchezza da Occidente a Oriente con la dannosa conseguenza che da noi il benessere è polarizzato nelle mani di pochi e che assistiamo a un tendenziale impoverimento delle classi medie, vero fulcro della democrazia occidentale. Di fronte a tutto ciò continua a sorprendermi che la richiesta di maggiore equità non abbia ancora suscitato delle proteste sociali che era legittimo aspettarsi.

Forse è ancora presto?

Il punto è che le società oggi sono molto corporative e dunque si fa fatica a immaginare un blocco sociale e politico che ponga la questione di una maggiore uguaglianza .Vedo un fenomeno che porta sottrazione di uguaglianza ma non vedo emergere  sentimenti di protesta e contestazione, che rimangono chiusi e marginali oppure si esprimono sotto la forma dei populismi.

E che forma sociale sono i populismi?

Primitiva. Illusoria. L’idea che sia sufficiente conquistare quote di sovranità nazionale per migliorare la vita delle persone è un miraggio. Nel mondo di oggi il primato dei singoli Stati è limitato da una serie di forze che non sono contendibili dal potere di ciascuno. L’unica possibile forma di resistenza e di riforma, l’unica risposta positiva ai processi di globalizzazione è sovranazionale.

L’unica risposta è l’Europa?

Il tema di una governance globale continua ad essere un grande tema ma molto lontano da noi. L’Europa è una risposta, certo. Il processo di integrazione europea nasce come il rigetto alle guerre tra stati-nazione che hanno contraddistinto la storia del Novecento. A questo si aggiunge la consapevolezza che solo una grande area sovranazionale in termini economici, democratici e produttivi può sostenere la globalizzazione.

Il problema sono leader?

I leader sono lo specchio della società. Il punto è che non si è creato uno spazio politico legittimato e accettato da tutti. Il livello nazionale continua ad essere più forte e questo determina continue tensioni tra i singoli stati e l’Europa. Aggiungiamo che in tempi di crisi con l’ Europa debole il populismo,con la sua dote di illusione, ha una porta aperta.

Gramsci, chiuso in cella, aveva intravisto i nostri giorni: nei Quaderni parlava di mondializzazione dell’economia contrapposta alla nazionalizzazione della politica. È impressionante.

In realtà questo processo era particolarmente visibile già dopo la Prima guerra mondiale: il tempo di Gramsci è legato al nostro. Noto due cose: che la globalizzazione inizia molto prima della fine della guerra fredda poiché una crescente interdipendenza inizia già dalla fine dell’Ottocento e  che non esisteva una forma di egemonia evidente. Con il linguaggio di oggi potremmo dire che non c’era negli anni Venti e Trenta una governance mondiale, e questa è anche una tendenza del nostro secolo.

Altra tendenza del nostro secolo è la crisi della sinistra un po’ ovunque. Come se la spiega?

È un tema che ci investe e assilla da tempo. Non è una crisi recente e dobbiamo fare dei passi indietro anche se è vero che la ricetta nessuno ce l’ha. Di ragioni, invece, ce ne sono molte: c’è stata l’idea che dopo la fine del comunismo fosse possibile fare una nuova sinistra democratica, era l’epoca della Terza Via, dei Blair e dei Clinton. Un’esperienza di sinistra riformista e anti-totalitarista che si arenò alla fine del secolo. Credo che quello fu l’inizio del declino. Siamo un po’ fermi lì e penso che la sinistra oggi non abbia ancora fatto i conti con il paradigma progressista secondo cui lo sviluppo è sempre lineare e inarrestabile. La sinistra è una delle vittime della globalizzazione, ed è entrata in crisi con l’esaurirsi del welfare state. E poi, si sa, quando la politica è in crisi lo è a maggior ragione la sinistra.

La destra ne risente meno?

La destra è più brava, da sempre, a fare leva sui sentimenti delle persone, sulla paura. La sinistra non ha questo tipo di possibilità e quindi in mancanza di Politica, quella con la famosa P maiuscola, soffre di più.

Un suo consiglio.

Siamo sempre lì: iniziamo a rivedere il paradigma progressista. La sinistra deve vivere e deve essere contrapposta alla destra. Facciamo un errore storico se pensiamo che questi valori non esistono più.

Ha ragione. Basta vedere le reazioni alla legge contro l’apologia di fascismo. Hanno detto che è liberticida. Ed è la cosa più gentile che hanno detto.

E’ un fatto preoccupante perché si basa su una perdita di memoria: dobbiamo conservare la consapevolezza che il fascismo fu una catastrofe. Non si tratta di antifascismo di maniera ma di riaffermare la neutralità della nostra storia. Anche i valori dell’Europa sono anti-totalitari e la perdita di memoria è visibile in quello che accade in Ungheria o in Polonia. Dire che è liberticida una legge che condanna l’apologia di fascismo è contraddittorio e lo è due volte se ad esprimersi così sono coloro che sino a qualche mese fa si intestavano la difesa della nostra Costituzione.

A chi si riferisce?

Al Movimento 5 Stelle che ha fatto le barricate per una Carta che è profondamente antifascista e che, allo stesso tempo, afferma che una legge che condanna l’esaltazione del ventennio sia liberticida.

Da - http://www.unita.tv/interviste/g
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 18, 2017, 04:56:42 pm »

Interviste

Beatrice Rutiloni @bearuti  · 14 luglio 2017

Gramsci, che parla di noi

#Democratica cover Gramsci-mostra
Sinistra, libertà, uguaglianza. La rinascita gramsciana secondo il presidente della Fondazione, Silvio Pons
 
C’è da dire che Antonio Gramsci è diventato un’icona pop. Come la Marilyn di Andy Warhol o il Che sulle t-shirt dei sognatori di tutto il mondo, così, con quella sua faccia da “intellettuale organico”, Gramsci è diventato il volto più noto della politica con la P maiuscola, quella che mescola pensiero, studio, serietà, passione. Sobrietà.

Gramsci come il nuovo idolo di una generazione un po’ nerd, che da ogni angolo del mondo ritrova in quel modernissimo sguardo la propria fuga dal presente. L’ultimo degli utopisti, con quegli occhialetti tondi che sono passati da John Lennon a Harry Potter, è oggi più celebrato di Lenin: quattro anni fa nel Bronx, l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione The Gramsci Monument, un luogo di aggregazione che ha ospitato reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari. Dalla casa museo di Ghilarza, in Sardegna, dove Gramsci visse la sua infanzia, sino a New York, la miniera gramsciana sembra arricchirsi di anno in anno. A dimostrazione del fatto che l’eredità culturale, quando è viva, è come un classico: non muore mai, anzi, rinasce nella memoria.

A ottant’anni dalla scomparsa dell’uomo politico, definizione che nella sua massima espressione riunisce tutte le altre, quella di filosofo, storico, linguista, giornalista e scrittore, resta molto di Gramsci: restano le sue bellissime lettere private, che esprimono l’uomo, e restano i Quaderni, tradotti in tutto il mondo e aperti mille volte nella vita. Di quelle letture che prendi e riprendi perché sempre ti dicono, un po’ come la Recherche di Proust. E rimane l’impressione di Gramsci, la stessa cifra inquieta e ordinata del suo volto è nella sua pagina scritta, con quella indimenticabile grafia, piccolissima, precisa, di un uomo che sa che il tempo non si spreca e non si perde.

Uno dei più grandi conoscitori dell’opera gramsciana è Silvio Pons, storico dell’Europa orientale, tra i massimi esperti del comunismo internazionale e presidente della Fondazione Gramsci.

Viene da chiedere, oggi che è il 14 luglio, anniversario della Rivoluzione francese, quanto vale la libertà.

E’ un valore globale ed è più attuale che mai. Viviamo un’epoca di grande disordine mondiale in cui sono rimessi in discussione i principi fondamentali della democrazia. L’ultimo esempio di rivoluzione nel nome della libertà sono state le Primavere arabe che ormai abbiamo rimosse alla luce della catastrofe della Siria e di tutti gli eventi violenti che sono seguiti alla caduta dei regimi. Potremmo dire che tra la fine del Novecento e l’inizio del secolo molte comunità si sono mosse per rivendicare libertà. Non c’è stato solo il 1989 in Europa, di rivoluzioni pacifiche ce ne sono state molte altre tra i Balcani, il sud dell’Africa, fino all’Iran. Ci sono state intere comunità senza nome che hanno imposto nell’agenda mondiale una richiesta di libertà che va molto al di là della tradizione eurocentrica della rivoluzione francese.

L’egocentrica rivoluzione francese.

Dico che gli europei hanno monopolizzato alcuni valori, tra cui la libertà. La rivoluzione francese ha generato la modernità politica europea, l’evento genetico del nazionalismo occidentale. Ora siamo in un’epoca in cui Occidente e americanismo sembrano appartenere al passato e sono superati, ma una certa idea di libertà e anche di uguaglianza che può farsi riferire alla nostra storia moderna si è globalizzata. Ci sono tante rivoluzioni francesi, tra cui metto in testa la Primavera araba.

Che però è fallita.

Le rivoluzioni possono fallire ma anche il loro fallimento esprime significati importanti, soprattutto in relazione alla parte del mondo dove originano. Anzi, direi che proprio perché sono fallite dobbiamo fare ancora più attenzione. Il fantasma delle libertà moderne è ancora tra noi.

E quello dell’uguaglianza?

Molto meno, viviamo in un mondo diseguale: da una parte c’è la crescita della ricchezza globale – ma sono ferocemente contrario a chi accusa la globalizzazione di essere una portatrice di povertà – che ha seminato ricchezze nel mondo in modo diseguale. La Cina o l’India sono le nuove potenze, l’Occidente non controlla più, non influenza più. La redistribuzione delle risorse ha spostato l’asse della ricchezza da Occidente a Oriente con la dannosa conseguenza che da noi il benessere è polarizzato nelle mani di pochi e che assistiamo a un tendenziale impoverimento delle classi medie, vero fulcro della democrazia occidentale. Di fronte a tutto ciò continua a sorprendermi che la richiesta di maggiore equità non abbia ancora suscitato delle proteste sociali che era legittimo aspettarsi.

Forse è ancora presto?

Il punto è che le società oggi sono molto corporative e dunque si fa fatica a immaginare un blocco sociale e politico che ponga la questione di una maggiore uguaglianza .Vedo un fenomeno che porta sottrazione di uguaglianza ma non vedo emergere  sentimenti di protesta e contestazione, che rimangono chiusi e marginali oppure si esprimono sotto la forma dei populismi.

E che forma sociale sono i populismi?

Primitiva. Illusoria. L’idea che sia sufficiente conquistare quote di sovranità nazionale per migliorare la vita delle persone è un miraggio. Nel mondo di oggi il primato dei singoli Stati è limitato da una serie di forze che non sono contendibili dal potere di ciascuno. L’unica possibile forma di resistenza e di riforma, l’unica risposta positiva ai processi di globalizzazione è sovranazionale.

L’unica risposta è l’Europa?

Il tema di una governance globale continua ad essere un grande tema ma molto lontano da noi. L’Europa è una risposta, certo. Il processo di integrazione europea nasce come il rigetto alle guerre tra stati-nazione che hanno contraddistinto la storia del Novecento. A questo si aggiunge la consapevolezza che solo una grande area sovranazionale in termini economici, democratici e produttivi può sostenere la globalizzazione.

Il problema sono leader?

I leader sono lo specchio della società. Il punto è che non si è creato uno spazio politico legittimato e accettato da tutti. Il livello nazionale continua ad essere più forte e questo determina continue tensioni tra i singoli stati e l’Europa. Aggiungiamo che in tempi di crisi con l’ Europa debole il populismo,con la sua dote di illusione, ha una porta aperta.

Gramsci, chiuso in cella, aveva intravisto i nostri giorni: nei Quaderni parlava di mondializzazione dell’economia contrapposta alla nazionalizzazione della politica. È impressionante.

In realtà questo processo era particolarmente visibile già dopo la Prima guerra mondiale: il tempo di Gramsci è legato al nostro. Noto due cose: che la globalizzazione inizia molto prima della fine della guerra fredda poiché una crescente interdipendenza inizia già dalla fine dell’Ottocento e  che non esisteva una forma di egemonia evidente. Con il linguaggio di oggi potremmo dire che non c’era negli anni Venti e Trenta una governance mondiale, e questa è anche una tendenza del nostro secolo.

Altra tendenza del nostro secolo è la crisi della sinistra un po’ ovunque. Come se la spiega?

È un tema che ci investe e assilla da tempo. Non è una crisi recente e dobbiamo fare dei passi indietro anche se è vero che la ricetta nessuno ce l’ha. Di ragioni, invece, ce ne sono molte: c’è stata l’idea che dopo la fine del comunismo fosse possibile fare una nuova sinistra democratica, era l’epoca della Terza Via, dei Blair e dei Clinton. Un’esperienza di sinistra riformista e anti-totalitarista che si arenò alla fine del secolo. Credo che quello fu l’inizio del declino. Siamo un po’ fermi lì e penso che la sinistra oggi non abbia ancora fatto i conti con il paradigma progressista secondo cui lo sviluppo è sempre lineare e inarrestabile. La sinistra è una delle vittime della globalizzazione, ed è entrata in crisi con l’esaurirsi del welfare state. E poi, si sa, quando la politica è in crisi lo è a maggior ragione la sinistra.

La destra ne risente meno?

La destra è più brava, da sempre, a fare leva sui sentimenti delle persone, sulla paura. La sinistra non ha questo tipo di possibilità e quindi in mancanza di Politica, quella con la famosa P maiuscola, soffre di più.

Un suo consiglio.

Siamo sempre lì: iniziamo a rivedere il paradigma progressista. La sinistra deve vivere e deve essere contrapposta alla destra. Facciamo un errore storico se pensiamo che questi valori non esistono più.

Ha ragione. Basta vedere le reazioni alla legge contro l’apologia di fascismo. Hanno detto che è liberticida. Ed è la cosa più gentile che hanno detto.

E’ un fatto preoccupante perché si basa su una perdita di memoria: dobbiamo conservare la consapevolezza che il fascismo fu una catastrofe. Non si tratta di antifascismo di maniera ma di riaffermare la neutralità della nostra storia. Anche i valori dell’Europa sono anti-totalitari e la perdita di memoria è visibile in quello che accade in Ungheria o in Polonia. Dire che è liberticida una legge che condanna l’apologia di fascismo è contraddittorio e lo è due volte se ad esprimersi così sono coloro che sino a qualche mese fa si intestavano la difesa della nostra Costituzione.

A chi si riferisce?

Al Movimento 5 Stelle che ha fatto le barricate per una Carta che è profondamente antifascista e che, allo stesso tempo, afferma che una legge che condanna l’esaltazione del ventennio sia liberticida.

Da - http://www.unita.tv/interviste/gramsci-che-parla-di-noi/
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