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Autore Discussione: Alessandro TROCINO.  (Letto 10841 volte)
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« inserito:: Novembre 15, 2007, 09:13:43 am »

«Dopo 13 anni rompo il silenzio. Il mio lavoro? Istituzionale, non politico»

Letta: «Sulle riforme vasta coalizione»

L'ex braccio destro di Berlusconi a Palazzo Chigi: «Paese in declino, definire insieme le regole del gioco»

 
MILANO — Lo Stato è la sua fede, il silenzio la sua preghiera. E se Berlusconi è stato a lungo il suo datore di lavoro, le capacità di dialogo con l'opposizione e l'ecumenismo sono il suo mestiere quotidiano. Difficile trovare qualcuno che riesca a scalfire l'immagine che Gianni Letta ha creato intorno a sé in 13 anni di lavoro tenace e certosino.

«Il monumento vivente della differenza tra il fare e il parlare» (copyright di Pierluigi Bersani) viene regolarmente omaggiato a destra e a sinistra, ricevendo attestati di stima trasversali, da Montezemolo a Epifani, da Veltroni (che lo vorrebbe in un governo di centrosinistra) a Parlato (che visse con lui i giorni drammatici del sequestro di Giuliana Sgrena). Tutt'al più qualche ironia sugli eccessi di compostezza e «zuccherosità». O qualche dubbio che tanta «cortesia » sia davvero assimilabile a «bontà politica»: «Anche quando si deve uccidere un uomo — disse una volta — non costa nulla essere gentili». Solo Bettino Craxi riuscì a definirlo, in un eccesso d'ira, «insolente». E Lucio Colletti spiegò ironicamente che «i suoi nemici mortali sono gli spigoli dei tavoli».

Ora, dopo anni di ostinato silenzio, Letta decide di uscire allo scoperto in un libro di Luigi Tivelli, Chi è Stato - Gli uomini che fanno funzionare l'Italia (Rubbettino-Rai Eri). Una lunga intervista, nella quale racconta di sé, ma soprattutto lancia una proposta destinata a fare molto discutere. Letta chiede alle parti politiche di creare «una vasta coalizione» per le riforme istituzionali e invita gli italiani a «riscoprire la passione civile»: «Occorre definire insieme le regole del gioco, risolvere alcuni dei problemi fondamentali dai quali dipende il futuro del Paese. Questo l'appello che mi piacerebbe sentire con una voce sola, destra e sinistra per una volta insieme».

SERVITORE DELLO STATO
«Per la prima volta, caso unico in 13 anni, — spiega — ho accettato di parlare del mio lavoro a Palazzo Chigi, infrangendo la regola di riserbo e di silenzio che mi ero dato». Letta si riconosce appieno nella figura del civil servant, di cultura anglosassone, o nei grand commis dell'esperienza francese. I nostri «grandi servitori dello Stato»: «Non ho mai fatto vita di partito, né mi sono mai presentato alle elezioni. E ho rinunciato al perverso gioco delle agenzie che isterilisce il nostro lavoro». Berlusconi chiese il suo aiuto nel '94, ma Letta non condivise la sua scelta di scendere in campo. Restò in azienda con Confalonieri e solo più tardi si decise ad affiancarlo. Ma sempre con spirito bipartisan: «Perché ho sempre concepito e svolto il mio lavoro come istituzionale e non politico». E anche perché, a quanto si racconta, il presidente Scalfaro così si rivolse a Berlusconi: «Non si sogni di andare a Palazzo Chigi senza l'aiuto di Gianni».

Uomo all'antica, specialista in diplomazia verbale ma anche in concretezza, Letta racconta il suo debito nei confronti di alcuni uomini dell'impresa privata: «Enrico Pozzani, Giorgio Schanzer e Carlo Pesenti. Pozzani, un imprenditore milanese che alla capacità manageriale univa una forte spiritualità, fu per tanti anni il Presidente dei Cavalieri del Lavoro. Avrebbe voluto che lasciassi il giornale (il Tempo) per andare a lavorare con lui». E poi Schanzer, «discendente di un'antica famiglia che portava nel sangue i canoni del buon governo dell'Imperatrice Maria Teresa e che aveva dato all'Italia un non dimenticato Governatore della Banca d'Italia». Infine Pesenti: «Da lui ho imparato il valore dell'impegno, della tenacia e un'inesauribile voglia di fare. Tutti requisiti che lo hanno portato ad essere in quegli anni, con Agnelli, la personalità più rappresentativa dell'industria italiana ».

LA SACRALITA' DEL PARLAMENTO
Letta racconta di aver «visto da vicino la classe politica della Prima e della Seconda repubblica». E qualche nostalgia traspare. Per esempio per quella «compostezza austera, ispirata e suggerita dalla solennità del luogo» che si respirava allora: «Quando entravi in Parlamento sentivi che eri nel cuore delle Istituzioni, il simbolo e la sede della rappresentanza democratica». Altri tempi, sospira Letta: «Oggi si entra e si esce dall'Aula senza cravatta e magari in jeans e maglietta, con i sandali. Ti accompagna un vociare e un disordine» che hanno fatto perdere «la sacralità del luogo». Verrebbe da chiedersi, dice, «se non sia anche qui la differenza tra la Prima e la Seconda repubblica. E come meravigliarsi allora di quel modo chiassoso e irriverente, spesso rissoso, che caratterizza gli scontri tra maggioranza e opposizione».

E qui sta il nodo del mandato in terra di Gianni Letta, che ha deciso di intervenire proprio ora, in modo così forte, perché «la situazione del nostro Paese è drammatica. E quando la patologia altera profondamente un sistema, è necessario un intervento drastico per ripristinare l'ordinato svolgimento delle funzioni». Per questo auspica «una vasta coalizione, con un programma ben definito proprio e solo per restituire il sistema a una corretta fisiologia democratica che consenta, nell'alternanza, il formarsi di esecutivi in grado finalmente di governare un Paese seriamente riformato e capace perciò di competere liberamente in Europa». Il Gran Ciambellano delle riforme sa che evocare «una vasta coalizione » e una «coesione politica nazionale» produce spesso una reazione negativa: «Ma quei nodi bisogna scioglierli insieme. Non vorrei indicare formule politiche, o soluzioni di larghe intese. E tanto meno evocare lo spettro dell'inciucio, come fu ingiustamente catalogato il tentativo limpido avviato ai tempi della Bicamerale».

Letta, per chiarire il raggio d'azione, ricorre alla metafora calcistica: «Mai un romanista diventerà laziale. Eppure nessuno, neanche il tifoso più accanito, ha mai gridato all'inciucio se e quando la sua squadra o la sua società contribuisce, insieme alle altre, a definire le regole del gioco, a stabilire il numero e le caratteristiche dei partecipanti, l'organizzazione del campionato, il campo e l'ora della sfida».

FERMARE IL DECLINO
Uscendo dalla metafora, Letta ricorre a un esempio concreto: «Va di moda di questi tempi, guardare con simpatia (e invidia) alla Francia di Sarkozy. Prendiamo allora esempio da lui e facciamo qualcosa di simile a quello che è stato fatto con il gruppo di Jacques Attali. A chi gli chiedeva se il modello e lo spirito di quel gruppo fosse lo stesso della grande coalizione di Angela Merkel, Attali rispondeva così: "Credo di sì, tutto dipende dalle personalità coinvolte... Certi problemi non possono essere affrontati su base ideologica"». Insomma, la commissione francese e la grosse koalition tedesca sono per Letta «una bella lezione, un esempio da imitare, un modello da esportare». A meno di non volersi avviare «verso un progressivo e ineludibile declino». Perché l'Italia «ha il terzo debito pubblico del mondo, una pubblica amministrazione vecchia e obsoleta, un aumento costante della spesa pubblica che nessuno riesce a imbrigliare, un sistema istituzionale lento e complicato».

Letta ricorda le giuste denunce di Sabino Cassese e di Pietro Ichino: «Ma a nulla sono valsi i richiami e le denunce, neanche quelli delle autorità indipendenti». Allora occorre trovare una soluzione condivisa, «forse l'unica in grado di combattere l'antipolitica e il populismo, scorciatoie che non ci porteranno lontano». Resta da capire se le forze politiche, a cominciare da Silvio Berlusconi, vorranno ascoltare il campanello d'allarme suonato da Letta.

Alessandro Trocino
15 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:51:47 pm »

«In Europa serve gente come me e Tremonti»

Bossi: «Silvio, sfida Walter in tv»

Il leader della Lega: «Berlusconi vincerebbe a mani basse, è più simpatico quando non parla di politica»

DAL NOSTRO INVIATO


DOMODOSSOLA — Comincia la giornata da Alessandria, tra un «Bossi santo subito» e un «Padania is not Italy», con l'assistente premuroso che gli annoda la sciarpa di lana e una deputata locale preoccupata da Veltroni, che «sparge dolcezza e tanta gente ci casca». Finisce la serata in un teatro stracolmo a Domodossola, di fianco a Pinocchio-Veltroni di legno, ai militanti che invocano la resistenza contro «i bingo-bongo», a Mario Borghezio che inneggia ai «resistenti del Tibet», a Rosy Mauro che ce l'ha con Veltroni («Piantala di prendere per il culo il Nord») e all'anfitrione piemontese Roberto Cota, «giovane a cui abbiamo fatto bene a dare fiducia». A tarda notte, a Villadossola, un Umberto Bossi in buona forma puccia il grissino nella Coca-Cola, mangia un risotto agli asparagi e tira lunghe boccate di sigaro.

Ma come, Alemanno vi ha appena ricordato che «Roma è sacra » e lei canta in coro «Roma ladrona la Lega non perdona»?
«E allora? Non abbiamo paura di usare questo slogan e continueremo a farlo. Almeno fino a quando non trasferiranno il Parlamento a Milano. Allora smetteremo».

Nel frattempo bisogna vincere le elezioni.
«Dobbiamo sbrigarci. Le nostre imprese falliscono e i cinesi mangiano cinque volte più di prima. Carne di maiale, animali allevati a mais. E i prezzi crescono. È la globalizzazione tanto amata da comunisti e massoni».

Faccia a faccia: fa bene a tirarsi indietro Berlusconi?
«No, non dovrebbe rifiutare il confronto con Veltroni. Il Cavaliere nella sfida vincerebbe a mani basse: è più simpatico e quando va in televisione scherza e non parla di politica. Quindi vince, perché la gente guarda quelle cose lì» .

Come sta andando Berlusconi?
«Bene, anche se certe volte sta un po' troppo attento alla forma, al colore della cravatta. In Europa serve gente, come me e Tremonti, che sa battere i pugni sul tavolo»

A proposito di Tremonti, gli ha parlato del Tfr?
«Un mese fa. Gli ho detto che dobbiamo restituirlo ai lavoratori. È sbiancato. Io ho un sogno: convincerlo. Ma è un po' tardi».

Lei sarà ancora ministro? E magari vicepremier?
«Ministro delle Riforme, sì. Devo rifare la Bossi-Fini, dopo che me l'hanno sabotata. Ma vicepremier no: c'è già Fini, non voglio dar fastidio».

Altri dei vostri nel governo?
«I soliti Maroni e Castelli. Tra i nuovi, Rosy Mauro e Francesca Martini. La Rosy la faccio ministro alla Capitale mancata. E poi ci sono le Regioni. Castelli in Lombardia piace. Ma mi fido di Berlusconi».

Lei cita spesso Napoli nei comizi.
«È una vergogna. E dire che di Bassolino io sono stato anche abbastanza amico. Quando andavo a Napoli, mi veniva sempre a prendere: mi portava su un barcone e si cantava Santa Lucia e altre. Alla fine, come omaggio, anche Omia bela madunina».

E ora?
«Sui rifiuti ha sbagliato. E chi governa deve pagare. I magistrati non l'hanno mai toccato: è la prova che sono collusi con la sinistra ».

È giusto boicottare la bufala? Lei la mangia?
«Finora l'ho sempre mangiata. Ma con tutto quello che è successo, è chiaro che ti vengono dei dubbi. Meglio fare i controlli e stare attenti».

Di temi etici parlate poco. Cosa pensa la Lega dell'aborto?
«La Lega non ha una posizione. Meglio non parlare di questi temi, perché abbiamo dentro molti cattolici, come Leoni. È giusto lasciare libertà di coscienza. E' un problema di cui devono parlare soprattutto le donne. Anche se, certo, se non nascono più figli, la società muore».

Suo figlio Renzo alla fine non si è candidato.
«No, è troppo presto, deve finire l'università. Però mi ha chiesto se poteva darmi una mano. Gli ho detto di parlare con i giovani. Ha messo in piedi delle cose su Internet. E poi, da solo, ha aperto tre o quattro sedi».

Veltroni?
«Ci ha rubato persino il colore del pullman. Spera che la gente del Nord si confonda, ma non ce la farà. Dobbiamo dire pane al pane, fermare i clandestini. Senza odio per nessuno, spiegare che i soldi sono finiti, non possiamo più aiutare nessuno, dobbiamo pensare a sopravvivere».

Alessandro Trocino
29 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 28, 2008, 05:47:21 pm »

Il personaggio «Intendo terminare il mio lavoro»

«Mi ricandido ma quanti trasformisti Anche noi abbiamo i nostri Villari»

Il governatore della Sardegna, Renato Soru: «Volevo cambiare le vecchie logiche, a qualcuno non va»

«Comunque vada a finire, io mi ricandiderò alla presidenza della Sardegna. Per governare altri cinque anni, alla guida del centrosinistra, e terminare il lavoro ».


Il giorno dopo, Renato Soru torna sulla vicenda che l'ha indotto a dimettersi. E ripercorre i cinque anni in cui il padre della new economy italiana si è ritrovato a fare politica, alle prese con professionisti che a volte l'hanno assecondato, a volte l'hanno guardato come un estraneo. «Ma io rivendico tutto quanto abbiamo fatto. Non credo sia un minusvalore per la politica che qualcuno vi si accosti per un certo periodo della vita, senza farne una professione. Credo anzi sia una scelta di alto valore morale». Cinque anni in cui è successo di tutto. «Abbiamo avuto anche noi i nostri Villari. Consiglieri eletti con il centrosinistra e passati subito al centrodestra.

Poi c'è stata la caduta di Prodi con la sparizione dell'Udeur: altri personaggi traghettati dall'altra parte. Quindi la rottura a sinistra, con una competizione interna all'ala radicale della coalizione». Ora, la spaccatura dentro il Pd. Veltroniani contro dalemiani. «No, qui in Sardegna lo schema non è quello. Il Pd è diviso, ma non tra sostenitori di leader diversi. È diviso tra chi si sente legato all'impegno con gli elettori per una Sardegna diversa, dignitosa, competitiva; e chi resta legato a vecchie logiche di raccolta del consenso».

Il caso che ha portato Soru alle dimissioni e la Sardegna a un passo dalle elezioni anticipate è indicativo. «Nel 2006 la mia giunta ha avuto la delega a predisporre il piano paesaggistico. La prima parte, che riguarda le coste, è già stata approvata, e ha bloccato la speculazione. Manca la seconda, che riguarda l'interno della Sardegna. Due mesi fa c'è stato un referendum per toglierci la delega: solo il 17% dei sardi ha votato sì. Ma ora qualcuno, anche dentro la maggioranza, sta tentando di usare la nuova legge urbanistica per tornare indietro nel tempo, mettere le mani su aree protette lungo la costa, e cementificare zone dell'interno, come è già accaduto alla periferia di Alghero e di Sassari. Ora vorrebbero fare lo stesso nell'area vasta attorno a Cagliari. Ci sono i grandi capitali; ma non solo quelli. C'è una pletora di tanti piccoli interessi, che vorrebbero sottrarre la campagna all'agricoltura e farne un'immensa periferia urbana, un'unica grande lottizzazione».

Da qui, di fronte a un voto contrario, la scelta di andarsene. «Togliere la delega alla giunta per la tutela del paesaggio sardo significa togliere la fiducia. Per cinque anni abbiamo lavorato a smantellare le vecchie logiche: abbiamo tagliato mille posti di sottogoverno, tra 25 comunità montane ed enti dal consiglio d'amministrazione pletorico; abbiamo eliminato nove enti agricoli e altre società inutili, unificato decine di piccoli organismi in un unico ente per la gestione delle dighe e delle acque. Abbiamo risanato il bilancio e iniziato a ridurre i debiti, che con la destra in cinque anni erano passati da 300 milioni a tre miliardi. Siamo l'unica regione del Centro-Sud in equilibrio con la sanità, senza commissari ma con i ticket più bassi. Ora, in vista del voto, le vecchie logiche tendono a riemergere. Allora è meglio fare chiarezza. Io mi sono dimesso. Tra non meno di venti giorni e non più di trenta, come da statuto, le dimissioni saranno discusse. Se ritroveremo compattezza, andrò avanti. Altrimenti si voterà entro 60 giorni. E io mi ripresenterò. Sono disposto anche a sottopormi alle primarie, come vuole lo spirito del partito democratico. Ero pronto a correre alle primarie per il Pd, ma non si è presentato nessuno. Sono pronto alle primarie di coalizione, anche se pure qui per il momento non ci sono altri candidati».

Racconta Soru che la prima telefonata del mattino è stata di Veltroni. «Per capire cos'era successo, e per sostenermi. Apprezzo molto la passione con cui Veltroni interpreta il desiderio di rinnovamento di larga parte del centrosinistra». Berlusconi come si è comportato? «In campagna elettorale ha detto di me cose tremende. Ha ritenuto di dover aggiungere alla presentazione del suo programma la denigrazione dell'avversario, e questa è una cosa grave». E da presidente del Consiglio? «Non ha cambiato metodo. Di punto in bianco, ha cancellato 14 miliardi di fondi già stanziati per le Regioni. E vorrebbe sospendere le norme antitrust per favorire la Tirrenia, come ha già fatto per Alitalia».

I ricchi che frequentano la Sardegna, da Briatore in giù, non hanno preso bene la tassa sul lusso. «Una definizione sciagurata. Io non sono contro la ricchezza. Sono per chiamare i ricchi, anche quelli delle barche e delle seconde case, a collaborare al bene comune. Credo sia giusto chiedere in base alla capacità, esigere quanto uno può dare. Per me, questi cinque anni sono stati anche una riscoperta della mia terra. E di beni preziosi, che a Milano avevo perduto, e che pure ai sardi rischiano di sfuggire. Il buio. Il silenzio. Gli spazi vuoti. Perché inquinare la notte con luci superflue e costose? Io non voglio una Sardegna deserta. Ma non voglio neppure una Sardegna trasformata in parco giochi. Voglio una terra laboriosa, dinamica, seria. E intendo governarla ancora».

Aldo Cazzullo
27 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 08, 2008, 06:13:59 pm »

Pd, la strategia di Veltroni: via le mele marce e nuovi dirigenti
 
 
 di Nino Bertoloni Meli


ROMA (8 dicembre) - Fedele alla massima, esiziale in politica, che “chi si ferma è perduto”, Walter Veltroni avanza e rilancia. Guai a rinchiudersi nel fortino assediato della montante questione morale, è il momento di reagire. Come? Rilanciando la classica  ricetta veltroniana di un Pd tutto Lingotto, Circo Massimo e rapporto con popolo ed elettorato democratico. Più che una mossa del cavallo un salto con l’asta.

Sono giorni che al Nazareno sede del Pd piovono le martellate della questione morale, il leader finora ha taciuto pubblicamente (tranne una circostanziata lettera al Corriere) ma non riservatamente. Con i suoi, con la cerchia ristretta, Veltroni ha già messo a punto la controffensiva. Due i cardini, uno rivolto all’esterno, al Pdl e al premier; l’altro interno al Pd, il più succulento. Al centrodestra che spinge preme sollecita una riforma della giustizia bipartisan, Veltroni ha già fatto rispondere dai dirigenti più in vista e ribadirà nei prossimi giorni che il Pdl non può usare la situazione creatasi per far passare una riforma della giustizia fatta contro i giudici, quindi no alla separazione delle carriere e no alla sospensione dell’obbligatorietà dell’azione penale, sì invece al confronto in Parlamento che, come dire, non si nega a nessuno e con quelle premesse non porterà molto lontano.

Ma è sul fronte interno che si annunciano le maggiori novità. L’analisi veltroniana condivisa al vertice è che dalla palude si esce non con meno ma con più innovazione, rilanciando il rinnovamento della proposta politica e soprattutto della classe dirigente. «Il Pd si trascina troppe scorie del passato», è il ragionamento già emerso quando si affrontò il nodo delle correnti, altra eredità (negativa) del passato, in un Pd che Walter il rinnovatore non concepisce come retaggio e appannaggio di rutelliani, dalemiani, popolari, prodiani e, perché no, veltroniani. Nossignori, il Pd non può continuare a essere in prevalenza retaggio di ceti politici del passato. Come spiega l’altro Walter del Nazareno, Verini, «la sfida del Pd di Veltroni è impedire che il vecchio afferri e sotterri il nuovo». Dunque?

Quando mercoledì si presenteranno al Nazareno i dirigenti democrat di Firenze, Napoli e Campania convocati al cospetto del vertice del partito, si sentiranno fare questi discorsi: giusto e sacrosanto difendere l’onorabilità di Domenici, la solidarietà non verrà meno, ma non avrebbe guastato se il sindaco avesse incatenato il suo assessore Cioni che non ne vuol sapere di fare un passo indietro. Della successione a Domenici si appresta a essere investito Lapo Pistelli, anche se in serata il segretario toscano rilancia la candidatura di Vannino Chiti che finora ha nicchiato. Più facile la situazione fiorentina visto che il sindaco è in scadenza, più complicata assai quella campana, oltre che per il merito, perché non in scadenza immediata (nel 2010 Bassolino, nel 2011 la Iervolino). Per Napoli la soluzione ancora non si vede, don Antonio resiste da par suo, sta nel bunker e non molla, quanto a Rosetta grida la propria probità e anche lei quanto a osso duro non sfigura. La soluzione dei ”magnifici 7”, altrettanti super assessori che dovrebbero entrare nelle rispettive giunte per azzerarle e di fatto commissariare sindaco e governatore, allo stato non avrebbe ancora fatto breccia nei pensieri e nelle intenzioni di Bassolino, quantunque la soluzione super commissari appaia e venga presentata come benedetta propugnata suggerita o molto più verosimilmente vista con interesse dal Colle. Quel che è certo è che Bassolino non verrà candidato alle Europee, Claudio Velardi suo assessore ha già minacciato di dimettersi se lo facesse, e al Pd non ci pensano proprio: «Se deve fare un passo indietro come presidente della Campania non si capisce perché dovrebbe farlo avanti come eurodeputato». 

da ilmessaggero.it
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:21:28 am »

Di Pietro «Risultati stratosferici. Ora fare squadra»

«Sì, sono contento. Punito il "ma anche" e chi crede nei tavoli»


ROMA — I più cauti parlano di «malessere », spiegano che «bisogna riflettere. Il direttore di Europa Stefano Menichini ha già riflettuto: «È ora di rompere questa alleanza fasulla e suicida: subito e per sempre». Antonio Di Pietro non sembra averne alcuna intenzione: «Non voglio umiliare il Pd, né l'anima dialogante del partito, che è rappresentata da Veltroni. Ma il Pd deve scegliere: sconfiggere Berlusconi o tarpare le ali a noi». Quanto a lui, ha già deciso. L'Idv deve prendere a esempio la Lega: «Parliamo chiaro, affrontiamo problemi concreti e siamo premiati dagli elettori: proprio come loro.

Dopo questo voto, cambierò lo statuto: come la Lega si è liberata della figura ingombrante del socio fondatore, così l'Italia dei Valori dovrà camminare da sola, diventando un partito vero, federale, con un forte ricambio generazionale ». Prima di entrare a «Porta a porta», Di Pietro si gode il successo. «Certo che sono contento — ridacchia —. Sono risultati stratosferici. Ma un vero condottiero non si crogiola sulla vittoria della battaglia: bisogna vincere la guerra. Ed esportare il modello Abruzzo su scala nazionale».

Non sarà felicissimo il Pd, che nel giorno del trionfo dell'Idv vede il suo tracollo. Difficile non vederci un nesso. Come fa a «Red» il dalemiano Nicola Latorre, autore del «pizzino» inciucista contestato dai dipietristi: «Bisogna ragionare sul fatto che Di Pietro sta erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari». Lo segue Paolo Fontanelli, responsabile enti locali: «L'Idv ha una grande capacità di traino per se stessa ma non per l'intera coalizione». Aggiunge Beppe Fioroni: «Il rammarico è che con l'Udc avremmo vinto».

Di Pietro non vuole sentire critiche: «Dobbiamo fare squadra, non vedere chi prende più o meno voti. Se ogni volta che un alleato fa ombra lo si toglie di mezzo, allora rimane un albero secco».

Di Pietro non ce l'ha con Veltroni: «Ce l'ho con chi manda i pizzini, con i dalemiani più che con D'Alema. Con l'opposizione dialogante e inciucista». Non che dia una mano straordinaria a Veltroni. Ancora prima di avere i risultati, già alza il prezzo dell'alleanza. Dichiara l'inutilità del tavolo sulla giustizia («sul federalismo discuteremmo volentieri »). Definisce «ambiguo» l'atteggiamento del Pd sulla questione morale. E lancia un ultimatum a Veltroni: «Si decida: o sì o no, o con Di Pietro o senza ». Nessuno sconto al governo, «strutturato come la P2». Ma anche un giudizio sprezzante sul tavolo sulla giustizia, proposto da Veltroni: «Ma che tavolini e sedie, quelli servono per mangiare. Abbiamo fatto 21 proposte sulla giustizia, ci ascoltino». In Abruzzo l'astensionismo è altissimo: «Il grande sconfitto è la politica. Quei partiti che non sono né carne né pesce, che partecipano alle commissioni e che dicono "ma anche", alla fine vengono puniti». Serve, dice, «una nuova alleanza riformista, non si parli più di centrosinistra». Infine, a «Porta a porta», Di Pietro celebra il suo successo davanti a Ignazio La Russa. E senza il Pd.

Alessandro Trocino
16 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 08, 2009, 03:45:03 pm »

Sardegna, al via la campagna elettorale di Soru

di Davide Madeddu


Un bagno di folla.  Più di quattromila per rafforzare la sfida del  centrosinistra. La locomotiva de “La Sardegna che cambia, meglio Soru”  parte dal palacongressi della fiera di Cagliari. A dare il via al  viaggio, lungo 39 giorni (si vota il 15 e 16 febbraio) migliaia di  sostenitori che affollano lo stabile delle Fiera campionaria.

A sostenere il candidato presidente, e leader della coalizione di  centrosinistra ci sono gli studenti, i disoccupati, ma anche i  pensionati. Quelli che vogliono continuare a cambiare la Sardegna.  Nessuna sfilata di leader politici sul palco, solo le testimonianze dei  giovani, degli studenti, pensionati e disoccupati e lavoratori. Eppoi  il leader della coalizione che riunisce il centrosinitra. Parla per un’ora Renato Soru nella sala affollata da più di quattromila persone di  lavoro, diritto allo studio, all’istruzione, alla salute e al lavoro.

Dalla questione della chimica in Sardegna alla crisi economica  internazionale cui è legato anche il futuro industriale dell’isola. Parte dalla coalizione Renato Soru e dall’unità ritrovata. «Si tratta  di un`unità vera e non di maniera - ha spiegato - non frutto di accordi  sottobanco ma che nasce dalla consapevolezza di uno scopo comune: fare  della politica un servizio per gli altri». E lancia un appello anche ai rappresentanti dei Socialisti, non presenti all’apertura della campagna elettorale. «Spero - dice - che possano riconsiderare la loro posizione di correre da soli ed unirsi alle altre forze del centro-sinistra».

Nel suo discorso, che dura un’ora. Renato Soru ricorda anche il patto con gli elettori «sancito dalla Legge Statutaria, un patto che va rispettato».  «La gente se lo aspetta - dice ancora  il leader del  centro-sinistra sardo -cambiare è importante per dare la possibilità a tutti di fare politica come protagonisti e non solo come spettatori nell'ottica di un percorso collettivo in cui tutti sentano di far parte di una collettività in cui tutti possano andare avanti e non curare semplicemente i propri interessi».

Eppoi le scelte sulla politica e quelle riforme che devono dare il segnale. Come quella finalizzata alla riduzione del numero dei consiglieri. «Una legge da approvare subito dopo l`inizio della legislatura - posegue nel suo intervento - per ridurre numero dei consiglieri regionali e i loro emolumenti». Riforma che segue quella avviata dall’amministrazione regionale con lo
snellimento della Pubblica amministrazione. «La cancellazione di tanti enti inutili - prosegue Soru - ha liberato molte risorse. Oggi la Sardegna è la prima regione in Italia per transazioni on line con la pubblica amministrazione e il numero dei dipendenti è passato dai 3500 del 2004 ai 2500 attuali. I dirigenti sono scesi da 220 a 150». Nel discorso particolarmente applaudito esostenuto dal popolo del centrosinistra non mancano poi i riferimenti ai giovani e alla scuola perché, aggiunge «la povertà si sconfigge con la cultura». «Per far ciò bisogna aumentare il livello d`istruzione, la ricerca scientifica, la tecnologia, la capacità di stare sul mercato - dice ancora -. I giovani devono essere protagonisti di questo cambiamento che peraltro è  abbondantemente iniziato in quasi un lustro di amministrazione».

Non  mancano neppure i riferimenti allo sfidante ombra, Berlusconi.  «Ottimismo? Spendere di più? - dice concludendo - lo vadano a dire ai sardi che vivono nelle aree disagiate delle città e dell`interno. Occorre invece smettere di consumare in modo insensato». Applausi, il popolo dei giovani arrivati in autobus dai diversi centri della Sardegna applaude. La locomotiva è partita, e viaggia di gran carriera. «Per continuare a cambiare la Sardegna, con Soruı». Perché, come  spiegano gli studenti che affollano un’ala della sala congressi è «Meglio Soru».


05 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:38:50 pm »

Il governatore chiede che il pd esalti «l'esperienza dell'ulivo»

La sfida di Soru: se io vinco ripeto quel che riuscì a Prodi

«In Sardegna si può tornare al successo e a battere Berlusconi»
 

ROMA — «La sconfitta non è per sempre». Adagio che dovrebbe suonare rassicurante per i vertici del Pd. E, certo, l'intento era quello, anche se il resto della frase, e l'autore, autorizza a una lettura più maliziosa: «Se vinciamo in Sardegna, si può tornare a vincere e a battere Silvio Berlusconi, come ha fatto Prodi due volte». Renato Soru, governatore della Sardegna, con un'intervista all'Espresso si accredita come l'uomo che può ridare fiducia al centrosinistra. E, sempre volendo trarne una lettura maliziosa, si erge contemporaneamente a futuro leader del centrosinistra per sconfiggere il Cavaliere. Dando qualche sostanza alle voci che da settimane lo vedono come il possibile uomo nuovo del Pd, pronto a uscire allo scoperto anche sul piano nazionale.

Il governatore uscente della Sardegna, dimissionario dopo una scontro interno nel Pd, attacca frontalmente Berlusconi, ignorando il suo sfidante, Ugo Cappellacci, considerato poco credibile: «Sarà uno scontro Soru-Berlusconi per interposta persona». Lo scontro comincia con un parallelo con Mussolini: «"Faccio sapere ai sardi che noi ci occupiamo amorevolmente dei problemi della loro isola". Sa di chi è questa frase? Di Benito Mussolini. Berlusconi dice la stessa cosa».

Ma sono i passaggi interni sul centrosinistra che fanno riflettere. Soru chiede al Pd «un forte segno di discontinuità», ovvero la non canditura di chi ha più di due legislature e di chi «non si riconosce nel programma». Bene il Pd, se non altro perché ha «cominciato una traversata nel deserto, strada senza ritorno ». Ma servirebbe una correzione di rotta: «Bisognerebbe mettere più in risalto la continuità con l'esperienza di Romano Prodi e dell'Ulivo. Quella è la radice più autentica del Pd». Quanto basta per entusiasmare Arturo Parisi, pronto a criticare chi, ovvero Veltroni, «ha provocato un disastro con l'illusione della solitudine: bisogna tornare all'Ulivo ». «Parole sante quelle di Soru», conferma un altro prodiano, Franco Monaco. E a giungere alle estreme conseguenze ci pensa «Il Regno», mensile dei padri dehoniani di Bologna, vicini alle posizioni prodiane, per il quale «il Pd di Veltroni e D'Alema, con corredo di ex popolari, è avviato al declino». Veltroni non commenta, anche se in largo del Nazareno si ricorda come nell'ultima Direzione sia stato lo stesso segretario a ricordare positivamente l'esperienza dell'Ulivo. Quanto a Soru, smentisce quanto scritto ieri da un quotidiano locale, secondo il quale avrebbe scoraggiato la partecipazione di Veltroni alla campagna elettorale sarda. Smentita alla quale si associa il commissario del Pd in Sardegna Achille Passoni. E infatti, Veltroni in Sardegna ci sarà, «regolarmente invitato» dal candidato ufficiale del Partito democratico.

Alessandro Trocino
09 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 15, 2012, 04:50:09 pm »

Il partito di Casini e "Verso la Terza Repubblica": in campo due formazioni apparentate

Il centro raddoppia: lista Monti più Udc Montezemolo e Riccardi candidati

Resta da verificare la possibilità di federarsi con i transfughi del Pdl.

Incontro tra Ruini e Alfano


ROMA - La decisione è quasi presa e potrebbe essere annunciata il 22 dicembre in una conferenza stampa: la lista «Verso la Terza Repubblica» potrebbe trasformarsi nella «lista Monti», con l'avallo del premier, anche se non è ancora deciso se ci sarà una sua partecipazione diretta, che viene ritenuta meno probabile. Tra i candidati dovrebbero esserci Luca Cordero di Montezemolo e Andrea Riccardi. La lista si apparenterebbe con l'Udc, verificando anche la possibilità di federarsi con una lista di transfughi del Pdl.

La visita a Bruxelles ha messo in moto la macchina elettorale del centro. In attesa che Monti annunci la sua decisione, i leader cominciano a sfoltire le ipotesi e a fare chiarezza. Dopo il caminetto nello studio del ministro Andrea Riccardi, il presidente di Italia Futura Luca Cordero di Montezemolo, il leader udc Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Dellai, Raffaele Bonanni e il presidente delle Acli, Andrea Olivero, si è decisa la rotta da seguire. Vista la difficile compatibilità tra l'Udc, nella sua forma partito, e l'agglomerato leggero di società civile di Montezemolo, Riccardi e Olivero, ci saranno in campo due formazioni diverse, apparentate: «Verso la Terza Repubblica» darà vita alla «lista Monti», mentre l'Udc userà il suo simbolo e sceglierà i suoi candidati. Una scelta meditata e quasi obbligata, quella di rinunciare alla lista unica. Perché i rappresentanti della società civile non avevano nessun interesse ad appannare la propria forza identitaria originale, annacquandola con innesti di politici di lungo corso. E d'altro canto, Casini non aveva alcuna intenzione di rinunciare ad alcuni esponenti del suo gruppo dirigente.

La questione candidature è scottante anche per un altro motivo. Perché, nel giorno dell'arrivo di Monti a Bruxelles, alla riunione del Partito popolare europeo, molti hanno ipotizzato la possibilità di una riproduzione dell'esperienza del Ppe in chiave nazionale. Silvio Berlusconi, raccontano in ambiente Pdl, avrebbe avuto sentore (forse grazie anche ad Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione europea) della visita del premier. E avrebbe così deciso, con un Pdl sempre più in difficoltà, l'ennesimo cambio di programma: «Se Monti vuole scendere in campo, sarò io a proporlo come federatore del centrodestra».

La prospettiva di un accordo tra il nuovo centro e il Pdl convince una parte importante delle gerarchie cattoliche, dal presidente della Cei Angelo Bagnasco al cardinale Camillo Ruini, che ieri ha detto di aver incontrato il segretario del Pdl. Ma è una strada difficilmente percorribile. Monti ha ricordato a Bruxelles che la sua opera si è interrotta quando «il Pdl, con una dichiarazione di Angelino Alfano, mi ha sfiduciato». Citazione non casuale. Tradotta dai centristi con un veto a tutti quelli che non hanno sostenuto Monti o si sono astenuti sulla fiducia. Sono in pochissimi i parlamentari pdl che hanno votato in dissenso al partito sulla fiducia.

Tra i montiani doc pdl della prima ora ci sono: Franco Frattini, Beppe Pisanu, Mario Mauro, Gaetano Quagliariello, Maurizio Sacconi, Gianni Alemanno, Giuliano Cazzola. Ma il veto potrebbe estendersi: ex capigruppo, ex ministri ed esponenti di spicco del Pdl berlusconiano non sarebbero graditi, in quanto corresponsabili del governo Berlusconi. Tra i pochi ammessi potrebbe esserci Mario Mauro, di area ciellina. Se non fosse possibile creare una lista di transfughi, potrebbe esserci successivamente una convergenza con quella parte di montiani restata nel Pdl, magari proprio quella che nasce domani nell'incontro di «Italia popolare».

Resta da capire l'atteggiamento che avranno i centristi verso il Pd. Perché finora erano in molti a sostenere (in pubblico o in privato) che un'intesa post elettorale con il partito probabile vincitore delle elezioni, il Pd, era l'unica ipotesi possibile. Un centro con troppi agganci con il Pdl porrebbe un problema. E intanto anche la pattuglia dei montiani democratici è in fibrillazione. Beppe Fioroni si sottrae: «Non tiriamo Monti per la giacca, il discorso è ancora astratto». Ma Marco Follini la vede così: «Si tratta di tenere insieme il rigore e la serietà di Monti con il respiro sociale del centrosinistra. Il pericolo maggiore è questa adunata di colonnelli e sergenti del Pdl che inneggiano a Monti come fino a pochi minuti fa inneggiavano a Berlusconi».

Alessandro Trocino

15 dicembre 2012 | 9:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_15/il-centro-raddoppia-lista-monti-piu-udc-montezemolo-e-riccardi-candidati-alessandro-trocino_8ceff994-4684-11e2-90a4-19087f7b891e.shtml
« Ultima modifica: Febbraio 07, 2013, 11:30:25 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 07, 2013, 11:30:51 pm »

Le strategie: Il timore di essere superati in credibilità e appeal da Rivoluzione civile

La rabbia di Vendola: così rischiamo di perdere

Il leader di Sel e le parole di Bersani: l'alleanza con i centristi pericolo da sventare


ROMA - «Così ci fa perdere le elezioni. Se il giochino è quello di annacquarci glielo faremo saltare». Il soggetto è ovviamente Pier Luigi Bersani e il «ci» si riferisce a Sel ma anche al centrosinistra. Nichi Vendola non ha preso affatto bene l'uscita berlinese del segretario del Pd. La ragione ufficiale è l'incompatibilità dichiarata e reiterata con il programma di Mario Monti e dei centristi. Ma il timore vero è che l'entrata del centrosinistra nel raggio d'azione del professore «idrovora», come lo chiama, finisca per togliere credibilità al suo partito, minando il puntello di sinistra della coalizione. Con il risultato di avvantaggiare Antonio Ingroia e la sua Rivoluzione Civile e di togliere appeal alla proposta di Sel, già tacciata di contiguità con i centristi: «Sarebbe un suicidio per il centrosinistra, non solo per noi».

Dunque la partita vera si gioca ora, in campagna elettorale, e non riguarda tanto le alleanze del post. Perché è evidente che nel caso di una «vittoria mutilata» della coalizione, l'unico modo per non tornare alle urne sarebbe una forma di intesa con le truppe centriste. La speranza di Vendola è quella di sventare il pericolo, cercando di convincere gli elettori di sinistra che l'unico modo per non cedere a compromessi con il centro è quello di ottenere un successo pieno.

La sortita di Bersani, in realtà, non è nuova e negli ambienti vendoliani si tende a non sopravvalutarla, al di là delle dichiarazioni ufficiali. Del resto quelle parole il segretario le ha ripetuto spesso e rientrano nel gioco delle parti. Si fa notare anche che gli inviati a Berlino delle agenzie, non seguendo regolarmente Bersani, avrebbero enfatizzato le sue parole, considerandole come una novità.

Quello che è certo è che Vendola è costretto ad alzare il tiro contro Monti per poter uscire dall'angolo. Lo ha capito già da qualche giorno. E così sono partiti gli attacchi al Professore che aspira ad essere «la badante di Bersani», alla sua «Agendina», alla «sciatteria dei tecnici». Monti diventa così il Nemico, «un Grillo con il loden»: tentativo da un lato di rassicurare gli elettori di sinistra, dall'altro di esorcizzare la possibilità di un'alleanza postelettorale, rendendo irreversibile la spirale delle incompatibilità.

Tutto dipenderà dalle percentuali, ma intanto Vendola spara contro i centristi, provando a indebolirli. Ieri ha preso di mira tre simboli del centro: Paola Binetti, icona antigay; Pier Ferdinando Casini, sempre pronto ad accusarlo di «marxismo-leninismo»; e Pietro Ichino, simbolo di un riformismo sul lavoro visto come il fumo negli occhi.

A sinistra, Ingroia lo incita: «Convinciamo insieme Bersani ad abbandonare il tecnocrate». Vendola - che dietro la sua affabulazione retorica è persona pragmatica - non è affatto convinto che possa nascere un governo puro di sinistra. Ma non ha intenzione di sparare contro Ingroia per recuperare voti. E così lancia messaggi di pace: «La sinistra ha la pessima abitudine di insultarsi quando si divide. Io invece faccio gli auguri a Ingroia e a tutti i suoi alleati».

Alessandro Trocino

7 febbraio 2013 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/La-rabbia-di-vendola-cosi-rischiamo-di-perdere_2e1ec3ba-70ef-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:17:05 pm »

Leggenda vuole che se lo fece prestare dal ministro Piccioni per andare alla Casa Bianca

Case collettive e cibo vegetariano

L'esercito Cinque Stelle cala su Roma

Giarrusso (Catania): «De Gasperi divideva l'appartamento con due parlamentari, avevano un solo cappotto buono»


ROMA - In tre anni, scoprirono i finanzieri nel '93, Gianni De Michelis (o meglio, il Psi) lasciò nelle casse del Grand Hotel Plaza, dove soggiornò per 17 anni di seguito, la bellezza di 400 milioni di lire. Non tutti spesi in pernottamento. Pare difficile, oggi, che l'esercito di grillini in arrivo scelga di soggiornare tra gli stucchi dorati degli hotel del centro, emulando l'opulenza socialista d'antan. Difficile anche che decidano di sostare alla Rosetta, il lussuoso ristorante di pesce del Pantheon, spendendo la bellezza di 180 euro per uno spaghetto al caviale, come fece il cassiere della Margherita Luigi Lusi. Tempi duri per speculatori immobiliari, hotel e ristoranti di lusso. Molti dei 163 deputati e senatori a 5 Stelle, in omaggio al credo anti casta, stanno cercando alloggi di fortuna da condividere. Modello Comune, come si diceva una volta. O in «cohousing», come si dice oggi. E se alla frugalità dei consumi, antidoto alla corruzione dei Palazzi, si uniscono solide convinzioni vegetariane, come accade per diversi, addio alle aragoste agonizzanti di Fiorito e ai conti a tre zeri.

L'avvocato Mario Giarrusso, neoeletto di Catania, si appresta a vivere a Roma in maniera spartana: «Alcide De Gasperi, un padre della patria, non come questi miserabili, a Roma divideva l'appartamento con due parlamentari. Avevano un solo cappotto buono e se lo prestavano». Leggenda vuole che se lo fece prestare dal ministro Attilio Piccioni per andare alla Casa Bianca. Anche Bettino Craxi, all'inizio, era morigerato: un giorno fu rispedito indietro, all'hotel Raphael, da un inviperito Sandro Pertini perché si era presentato al Quirinale in jeans. Più tardi, la «casta» politica ha imparato ad apprezzare i tessuti di Cenci e l'eleganza ostentata.

«Un hotel a 4 stelle costa in media 230 euro a notte - spiega l'ad di «immobiliare.it» Carlo Giordano - Un residence 800 a settimana. L'affitto di un immobile di pregio di 120-150 metri quadri, da 4.000 a 5.500 euro al mese». Troppo, per chi ha scelto di autoridursi lo stipendio a 2.500 euro netti. Paolo Bernini, bolognese smanettone di 25 anni, già pony express, si prepara: «Stiamo cercando un appartamento collettivo. Una cosa che costi poco, per dare il buon esempio». Per ora vive con i suoi a San Pietro in Casale. E ripassa: «Dovrò studiare bene la Costituzione. La politica l'ho scoperta con il documentario Zeitgeist». Di che parla? «È il più visto della rete: parla di tutto quello di cui non si scrive mai, la massoneria, l'11 settembre, le religioni. Quando l'ho visto ci sono rimasto male: mi ha fatto vedere la realtà in un altro modo». Bernini, appassionato di karate, è vegano: «Ostriche? Ma va', non sono mica come la Brambilla che fa finta di fare la vegetariana e poi ha un'azienda ittica». A Roma, però, ci si nutre di trippa e coda. E di ristoranti vegani ce ne sono pochini: «Mi cucinerò della roba a casa. Però a Roma ho visto un bar che faceva panini veggie». Sulla stessa linea il friuliano Walter Rizzetto: «Andrò ad abitare fuori dal centro, mi serve pace per studiare. Quanto al cibo, sono vegetariano e antispecista».

Le analogie con la prima calata dei «barbari leghisti» (copyright Bocca), si sprecano. Paolo Grimoldi, all'arrivo a Roma scherzosamente promise astinenza dalle frattaglie: «Finché resisto alla coda alla vaccinara sto a posto», disse. Non è noto l'esito dello sforzo titanico, vanificato poi dal «patto della pajata», tra Bossi, Polverini e Alemanno.

Tra crisi, austerity e «decrescita felice», i margini di guadagno sono a rischio. Se prima si andava ad abitare in via del Corso, ora si andrà a Testaccio, se non al Pigneto. Dai Due Ladroni e Quinzi e Gabrieli, si passerà a Eataly o al Porto Fluviale, se non da Baffetto. Fortunato al Pantheon non teme crisi: «I leghisti sono sempre venuti. E nella gallery degli ospiti celebri, vicino alle foto di Reagan, Clinton e Gheddafi c'è quella di Grillo». Per festeggiare la vittoria, però, i «neobarbari» hanno scelto il bar del Fico, trendy ma non costoso. Se Fiorito spese da Pasquino la bellezza di 9.900,5 euro, loro (ma erano un centinaio) hanno speso 1.841 euro a frittelle, pizza e vino della casa: 16,74 euro a testa.

Alessandro Trocino

1 marzo 2013 | 16:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_01/grillo-case-collettive-cibo-vegetariano_51339b54-8239-11e2-b4b6-da1dd6a709fc.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 05, 2013, 05:16:06 pm »

Il retroscena

Paura Grillo: perdere i pezzi alla prova dell'Aula

Il successo imprevisto e le pressioni rischiano di dividere la squadra: «Il 15% di voi potrebbe tradirmi»


ROMA - Davanti ai suoi parlamentari appare più mogio del solito, per comprensibili ragioni familiari. «È teso anche perché sente molto la responsabilità del momento», dice uno degli intervenuti. Ma sono molto le ragioni che mettono a dura prova l'abituale verve di Beppe Grillo. Il difficile momento politico, un successo imprevisto che rischia di rendere incontrollabile il movimento e una compattezza tutta da costruire per uno dei gruppi più eterogenei mai visti in Parlamento. Lo dice lo stesso Grillo ad alcuni dei suoi parlamentari: «Almeno il 15 per cento di voi potrebbe tradirmi, l'ho già messo nel conto».

Timori più che giustificati, visto che la pressione, anche degli stessi elettori del Movimento a 5 Stelle, chiama a un'assunzione di responsabilità che Grillo e Casaleggio vogliono assolutamente rimandare. La strategia prevede il lento logoramento del Pd. Il tentativo iniziale era quello di farlo cadere nell'imbuto di alleanze sgradite al suo elettorato, per poi lucrare consenso elettorale. Strategia che sarebbe stata più efficace se il movimento non fosse stato travolto da una valanga di voti, rendendolo sostanzialmente indispensabile a un qualunque governo. Dalla segreteria del Pd negano con veemenza qualunque «inciucio»: «Mai e poi mai ci sarà un accordo con il Pdl, Grillo se lo metta bene in testa: la responsabilità di dire no se l'assume lui di fronte al Paese».

Per questo, i grillini hanno cambiato tattica in corsa. Ieri hanno puntato a rendere ininfluente Bersani e il suo Pd, escludendo dal novero delle ipotesi un «governo dei partiti». E condendo il tutto con un'apertura, tutta da verificare, al «governo tecnico», fatta dal nuovo capogruppo del Senato Vito Crimi. Proprio ieri Claudio Messora, blogger vicino al Movimento, ha suggerito il nome di Stefano Rodotà come premier. Ma Crimi va oltre e si spinge fino a non escludere un Monti bis: «Valuteremo». Chiaramente una boutade, visto che il Movimento nasce in radicale alternativa a Monti, non solo al «governo dei partiti». False aperture che, secondo molti, hanno lo scopo di attirare i partiti nella trappola del logoramento.

Se il capo dello Stato desse comunque un incarico, di fronte a un no ufficiale dei leader, i parlamentari a 5 Stelle si potrebbero spaccare. È l'ossessione di Grillo di questi giorni. Che non basti «la demolizione dell'ego», come la definisce un «cittadino» parlamentare. Non a caso, l'altro giorno Grillo ha messo sotto accusa l'articolo 67 della Costituzione, quello sul vincolo di mandato, considerato il padre di ogni trasformismo: chi tradisce deve essere «perseguito penalmente e cacciato a calci». E non è un caso che pochi giorni fa lo stesso Grillo abbia accusato preventivamente i Democratici di «mercato delle vacche»: «Sono volgari adescatori».

Tutti i neoparlamentari giurano che non accadrà, che nessuno tradirà il mandato popolare. Ma il popolo grillino è diviso e nessuno sa cosa può accadere nella testa e nel cuore dei 163 parlamentari, quasi tutti personalmente sconosciuti a Grillo e Casaleggio. Ma anche il pacchetto proposto dal Pd non soddisfa. Per l'avvocato Mario Giarrusso si tratta di «otto punti scarsi, se non provocatori».

Se la compattezza dei parlamentari è una delle preoccupazioni maggiori per Grillo, l'altra riguarda l'appeal nei confronti degli elettori. Presto si tornerà a votare e il M5S rischia di dilapidare il suo patrimonio di credibilità. Per questo Grillo, di fronte alla rincorsa del Pd sui suoi temi, vuole alzare l'asticella. E ieri diceva ai parlamentari: «Non bastano i 2.500 euro che vi siete tagliati dall'indennità, dovrete rinunciare anche a una parte di rimborsi e diaria». Che fanno comunque schizzare lo «stipendio» dei neoparlamentari a oltre 11 mila euro.

Quanto all'immagine, ci penserà Gianroberto Casaleggio a comunicare. Anche se in assemblea ha spiegato: «Io non prenderò un euro, sia chiaro. Ho già querelato otto giornalisti che lo hanno scritto. Aiuterò gratis nella start up e creerò uno staff che sarà a disposizione dei capigruppo. Poi mi farò da parte».

Alessandro Trocino

5 marzo 2013 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_05/il-timore-del-capo-perdere-i-pezzi-alla-prova-dell-aula-alessandro-trocino_8e95c68c-8556-11e2-b184-b7baa60c47c5.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 29, 2013, 11:59:19 am »

«Ai colleghi l'ho detto e non mi hanno fatto ostracismo»

La senatrice Alessandra Bencini del M5s: «Non so se voterei contro Bersani»

La parlamentare grillina: il leader Pd più autorevole di altri, la fiducia si può sempre revocare


ROMA - A rompere il muro del falso unanimismo, costruito ad arte per la stampa e riflesso condizionato di un Movimento che si sente sotto assedio, è stata la mano alzata timidamente da una senatrice gentile e ragionevole, sconosciuta ai più. Nella sala damascata di Palazzo Madama, Alessandra Bencini, infermiera di Firenze, ha fatto un gesto semplice, democratico: ha votato in difformità dalla maggioranza dei suoi colleghi. Un braccio alzato contro 52 immobili.

Gesto considerato quasi un tabù nel Movimento di Grillo, tanto da venire nascosto pudicamente, come fosse vergogna, insieme a quello di altri 4 omologhi del Senato. Gesto che lei stessa fatica a rivendicare, negando un'intervista vera, perché per i 5 Stelle «la fanno solo i capigruppo». Alla fine, però, accetta di parlare, sia pure malvolentieri, spossata dal peso che sopporta. E con una prospettiva nebulosa, risolta provvisoriamente qualche ora dopo dalla rinuncia di Bersani: «Se dovessi votare in Aula una mozione di fiducia? Non lo so, non ho deciso. Dovrei riparlarne con i colleghi. Lo so che in caso di voto difforme alla decisione del gruppo rischierei l'espulsione. Ma prima di finire dentro la gogna mediatica, se davvero dovessi votare diversamente, rimetterei il mandato. Del resto non voglio fare la parlamentare a lungo, ho un lavoro che mi piace».

La Bencini non ha subito processi: «I colleghi non mi hanno fatto ostracismo, né mi hanno tolto il saluto. Mi hanno chiesto di spiegare le mie ragioni». Ed eccole: «Ho votato sì alla mozione "se Bersani ci presenta una buona squadra si discute o no?". Perché penso che si possa essere intransigenti in modo positivo. Aprirsi a un dialogo con le altre forze. È vero che abbiamo sempre detto che non facciamo alleanze con nessuno, ma bisogna pur partire, uscire dallo stallo. Serve uno start up. E la fiducia si può sempre revocare».

La Bencini ha un atteggiamento aperto, forse un po' ingenuo, forse no: «Io sono fatta così. Sono una persona positiva, ottimista. Certe dinamiche oscure non le capisco. Tendo a fidarmi. E mi fido più a sinistra che a destra. Bersani lo vedo più autorevole, meno compromesso di altri». Del resto la sua provenienza è quella: «Ho votato Pds, Prodi e Bertinotti, prima che facesse quel bel servizio al centrosinistra. Poi ho votato Pd e l'ultima volta Italia dei Valori».
Al Movimento 5 Stelle si avvicina nel 2007. Gli spettacoli di Grillo la commuovono: «Beppe mi faceva ridere e piangere. Mi dicevo: ma in che Paese siamo?». L'avvicinamento vero è con i meet up: «Lì ho incontrato persone tranquille, non invasate, dentro un contesto sociale, non sfigati nullafacenti». Bocciata nel 2009 alle Comunali («ero una riempilista»), la Bencini prende 126 voti alle Parlamentarie: «Non c'era una gran corsa a candidarsi, a quei tempi. Servivano donne per fare equilibrio ed eccomi qui».
Ed eccoci qui, in Senato: «Esperienza abbastanza traumatica, per una abituata a stare in sala operatoria per le emergenze H24. E poi le mie conoscenze sono limitate all'ambito sanitario, inutile nasconderlo. Ho un gran vuoto: c'è da lavorare per riempirlo, bisogna studiare». Lei ci prova, con passione: «Si può fare tutto, se c'è buona volontà e buona fede». Anche perché c'è da cambiare il Paese: «Io non me ne vo' dall'Italia. Voglio tornare a fare l'infermiera in un Paese migliore».

Un governo, prima o poi, ci vuole: «Se il capo dello Stato ci presenterà un candidato credibile, con una buona squadra, perché non provare?». A lei piacerebbe un premier come Salvatore Settis: «Ho amato molto il suo libro, "Azione popolare per il bene comune"». Comincia così: «Indignarsi non basta». La Bencini tiene in alto il braccio. Anche se è faticoso e ti espone agli sguardi degli altri. Un braccio alzato per dire che si potrebbe fare di più: «Però non so. Sono inesperta, gli altri ne sanno più di me. Forse sono io che sbaglio. Forse sono io che non capisco».

Alessandro Trocino

29 marzo 2013 | 8:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_29/crepe-5-stelle_d0f22d46-983d-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 16, 2013, 09:13:30 am »

IL NODO DELLE ALLEANZE

Scelta civica si spacca: Monti «avvisa»

Olivero per quell'asse con l'Udc

In discussione l'incarico del coordinatore

 
Alessandro Trocino


ROMA - Scelta civica arriva a un bivio e Mario Monti decide di fare chiarezza: questa sera alle 21 è convocata una riunione con all'ordine del giorno la nomina del presidente (l'ex premier stesso) e del coordinatore (Andrea Olivero). Un'accelerazione che nasconde una forte irritazione contro quest'ultimo, reo di avere partecipato insieme a Lorenzo Dellai al convegno della scorsa settimana, dedicato al popolarismo. Presenza interpretata da Monti non come una normale partecipazione amichevole a un convegno, ma come un gesto politico, che ammiccherebbe eccessivamente alle posizioni dell'Udc e a una direzione politica evidentemente non gradita.

Monti viene descritto come molto irritato per la mossa di Olivero: «Quello era un convegno dell'Udc - dice ai suoi l'ex premier -. E se Olivero fosse stato un semplice parlamentare non sarebbe stato un problema, ma è il coordinatore di Scelta civica. Andare lì vuol dire mettere in discussione la nostra linea fondativa, che è quella di unire le due anime».

La traduzione off the record di molti è questa: Pier Ferdinando Casini ha bruciato sul tempo Monti, lanciando l'idea di un nuovo partito popolare, che confluirà nel Ppe. Ipotesi resa ancora più concreta dal nuovo nome della festa di Chianciano, che si terrà a settembre: per la prima volta non sarà più la festa dell'Amicizia o dell'Udc ma si chiamerà «Festa popolare» o «Prima festa popolare», come ha proposto Ferdinando Adornato.

Non che l'ex premier sia favorevole all'entrata nell'Alde, il gruppo europeo dei liberaldemocratici. Semplicemente ritiene «prematura» la scelta e aspettava il momento giusto per conciliare le due anime del suo partito. L'accelerazione di Casini lo ha colto di sorpresa e rischia di indebolirne l'immagine, non più paragonabile ai tempi d'oro della premiership. Ma l'appiattimento sui «neo popolari», come vengono chiamati gli esponenti dell'Udc ma anche degli altri cattolici di Scelta civica, a cominciare dalla comunità di Sant'Egidio, non piace a tutti. Sono in diversi a preferire l'approdo nell'Alde, soprattutto tra gli esponenti di Italia Futura. Perché entrare nel Ppe vorrebbe dire entrare nello stesso gruppo del Pdl di Silvio Berlusconi e ipotecare, sia pure simbolicamente, una possibile alleanza con il centrodestra anche alle Politiche nazionali. Alleanza che non piace all'ala liberale del partito e che rappresenta il vero snodo da affrontare.

Quello che è certo è che Scelta civica è divisa in molti rivoli e la sfida si gioca anche sui personalismi. Casini ieri ha replicato a Monti: «Olivero ha partecipato ad un incontro dove io ero spettatore, non è un reato, non siamo agli anni 40. Rispetto Monti e i problemi di Scelta civica non mi riguardano, ma credo che con l'Udc possa essere parte di un disegno più alto e che l'approdo sia il Ppe, che non significa l'alleanza con Berlusconi».
Stasera non è detto che si vada davvero al voto sulle cariche. Monti chiede a Olivero un chiarimento politico: solo se non ci fosse, nella forma di una retromarcia o di un cambio di direzione, ci sarebbe la richiesta di un passo indietro. E non è escluso che, se fosse messo in minoranza, il passo indietro lo faccia lo stesso Monti. Molto più probabilmente, però, il dibattito vero e proprio, e quindi lo show down, verrà rinviato a settembre. Olivero replica, un po' piccato per le accuse, anche se ribadisce «assoluta lealtà» a Monti: «È ridicolo che si riduca tutto a un confronto tra me e lui. Se mi chiede di dimettermi, lo faccio: a patto, però, che ci sia un confronto politico vero».

31 luglio 2013 | 10:40
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Alessandro Trocino

da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_31/scelta-civica-si-spacca-monti-avvisa-olivero-asse-udc_d59a2558-f9b6-11e2-b6e7-d24d1d92eac2.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:12:04 pm »

Da 20 a 12, ecco il «taglia Regioni» pd Ma c’è subito lo stop di Serracchiani
Il vicesegretario e il piano fatto proprio dal governo: «Non è assolutamente in agenda» L’ordine del giorno di Morassut e Ranucci era stato promosso anche da «l’Unità»

Di Alessandro Trocino

Neanche il tempo di leggere il titolo sull’ Unità, «E ora tocca alle Regioni», che arriva lo stop di Debora Serracchiani, nel suo doppio ruolo di vicesegretaria del Pd e di presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia: «L’accorpamento delle Regioni? Assolutamente no. Governo e Pd non hanno in agenda nulla di simile». Uno stop che sarebbe condiviso da altri esponenti del governo, poco entusiasti dall’accelerazione. E che trova consensi, ma anche distinguo netti, tra i leghisti e in Forza Italia.

Tutto comincia l’8 ottobre, quando il senatore dem Raffaele Ranucci presenta un ordine del giorno che prevede la riduzione da 20 a 12 Regioni. L’odg, a sorpresa, viene fatto proprio dal governo. Ranucci ci vede un segno chiaro: «È evidente che si parte. Aspettiamo il referendum sulle riforme e prima della fine del 2016 finalmente comincerà la riorganizzazione delle Regioni». Ranucci ha presentato un ddl al Senato sul tema e uno analogo alla Camera è stato firmato da Roberto Morassut.
Non la vede affatto così la Serracchiani. Che spiega al Corriere della Sera: «Non si può mica cominciare dalla coda. E poi abbiamo appena deciso l’abolizione delle province. Accorpassimo ora le Regioni, sarebbe un triplo salto carpiato. Insomma, tutto è possibile, ma nell’interesse dei cittadini». La Serracchiani nega interessi personali: «Il Friuli-Venezia Giulia è anche una Regione a statuto speciale e quindi non è toccata neanche dal Titolo V, figuriamoci da questo. E poi noi stiamo già collaborando ampiamente con il Veneto. Abbiamo messo in comune la società che dà il credito alle imprese e al confine gestiamo insieme l’acqua e le questioni sul dissesto idrogeologico. Non mi spaventa la gestione comune di funzioni e competenze, anzi la auspico. Ma una frammentazione territoriale è pericolosa. Non a caso siamo definiti il Paese degli 8 mila campanili. Piuttosto riaggreghiamo i Comuni piccoli, sotto i 10 mila abitanti».

Il progetto di Morassut e Ranucci si basa sugli studi storici della Fondazione Agnelli: 12 macroregioni, che lasciano intatte solo Lombardia, Sicilia e Sardegna. Giovanni Toti, presidente ligure di Forza Italia e consigliere di Berlusconi: «Questo governo di danni ne ha fatti a sufficienza. C’è una furia riformatrice sgangherata, un’entropia pazzesca». Detto questo, Toti è favorevole alle macroregioni: «Ne bastano anche solo 5, quelle dei collegi delle Europee». Le piccole Regioni sono sul piede di guerra. Come il Molise, del governatore Paolo di Laura Frattura: «Non c’è un no pregiudiziale da parte nostra. Ma non si può smembrare la storia con una matita. Va bene accomunarci all’Abruzzo, ma non ha senso mandare Campobasso con la Puglia. Consiglio di ascoltare i territori: i confini devono essere legati alla storia e alla cultura».

27 ottobre 2015 (modifica il 27 ottobre 2015 | 10:10)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_27/da-20-12-ecco-taglia-regioni-pd-ma-c-subito-stop-serracchiani-1804fbc8-7c7a-11e5-8cf1-fb04904353d9.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 03, 2018, 11:08:25 pm »

Di Maio: noi a un passo dalla vittoria
Ormai l’era dell’opposizione è finita
Grillo sul palco di piazza del Popolo per chiudere la campagna M5S: diamo spallata a Forza Italia.
E il leader sceglie Elisabetta Trenta come vice nel suo governo

Di Alessandro Trocino

Sale sul palco di piazza del Popolo, chiusura della campagna per i 5 Stelle, un Davide Casaleggio ispirato come non mai, che saluta con un volo di palloncini rossi la memoria del padre Gianroberto e lo evoca anche nel linguaggio, che oscilla tra la tecnocrazia nerd («implementeremo») e l’immaginifico: «Possiamo scegliere tra la nebbia dei pensieri corti e il sole degli orizzonti aperti. Ma sempre controvento». È «un nuovo umanesimo», annuncia Roberto Fico. «Siamo a un passo dalla maggioranza assoluta», incalza Luigi Di Maio, che confida di «vincere in tutti i collegi uninominali del Sud e in molti del Nord». È il nuovo Movimento 5 Stelle, che decreta la fine dell’opposizione e del movimentismo di Beppe Grillo («forse le piazze sono passate di moda») e indossa la marsina ministeriale di Di Maio per entrare in una nuova era. Grillo non nasconde il rimpianto per l’eroismo del vaffa («ora al limite è un vaffino») e qualche timore: «Anche se andremo al governo, deve rimanere il cuore. E non ci scordiamo le parole guerriere». Sarà difficile anche perché il Movimento ha già cambiato pelle, con le istanze più estreme già abbandonate (abolizione della Nato, uscita dall’euro). Ma questo è il momento di dare il massimo e il momento dell’orgoglio per la tanta strada fatta in poco tempo, un sogno un po’ folle diventato una realtà tangibile, che compete per diventare maggioranza e governo.

«Siamo la generazione del “nonostante tutto” — dice Di Maio, in una «lettera ai giovani» — perché nonostante tutto ce la stiamo facendo». E allora bisogna prepararsi, in questa liturgia della «squadra di governo» che è un po’ rito scaramantico e un po’ wishful thinking, profezia che si spera si autoavveri. Di Maio ci crede e ha già nominato un vice premier (potenziale, siamo ancora nel campo della fantapolitica): è Elisabetta Trenta, «ministro» della Difesa, consigliere del ministero nella missione Unifil in Libano, nata a Velletri, dove ha frequentato soprattutto ambienti politici centristi, prima della folgorazione con i 5 Stelle. Di Maio, nel frattempo, comincia a dare qualche segnale di politica internazionale: «La nostra presenza in Afghanistan è durata troppo, dobbiamo ritirarci», annuncia a Bruno Vespa, a «Porta a Porta».

Poi spiega che il primo decreto legge del primo consiglio dei ministri M5S (siamo sempre nel gioco delle proiezioni) sarà il dimezzamento degli stipendi ai parlamentari, il taglio dei vitalizi ai politici e di «30 miliardi di sprechi e privilegi». E pazienza se difficilmente si potrà intervenire per decreto su temi sui quali c’è l’autodichia del Parlamento. Quel che conta è dare per scontato l’ascesa a Palazzo Chigi. E a proposito di ascesa, Grillo si presenta con un cartello che lo definisce «L’Elevato» e scherza: «Non vorrei creare qualche sofferenza qui: c’è o non c’è? Ha fatto un passo indietro o di lato? Non potevo non esserci. Zitti, sono l’Elevato. Noi siamo nati da un incontro tra uno che pensa e ragiona, Gianroberto, e un buffone». E ancora: «Diamo l’ultima spallata al pubblicitario da Cassazione». Parla di Silvio Berlusconi, che un ispiratissimo Vittorio Di Battista, padre di Alessandro, rievoca sulla piazza con un cartello riesumato dai tempi del Popolo viola: «No Tinto Bass». Dibba padre, che si definisce «un vecchio fascista tanassiano», è sicuro: «Non ci sarà mai l’alleanza con la sinistra». E poi: «Io sto ancora con il vaffa. Forse sono l’ultimo».

2 marzo 2018 (modifica il 2 marzo 2018 | 21:47)
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Da - http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/di-maio-noi-un-passo-vittoria-m5s-elezioni-2018-beppe-grillo-c4c1996a-1e59-11e8-af9a-2daa4c2d1bbb.shtml
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