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Autore Discussione: Alessandro BARBERA Crescita e sviluppo: vince il Nord Europa, il rapporto di...  (Letto 2709 volte)
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« inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:31:53 am »

Crescita e sviluppo: vince il Nord Europa, il rapporto di Davos boccia l’Italia, posto 27 su 30
Il nostro Paese penalizzato da infrastrutture, disoccupazione giovanile e qualità della scuola

Pubblicato il 16/01/2017
Alessandro Barbera   

Immaginate una classifica dei trenta Paesi più ricchi del mondo con cui misurare insieme qualità delle istituzioni, opportunità d’impresa e sicurezza sociale. L’ha fatta il World Economic Forum, e l’Italia ne esce male, appena ventisettesima. Si chiama “Inclusive Growth and Development Report”: nell’era dei populismi, delle diseguaglianze e della stagnazione secolare occorre aggiornare le parole d’ordine. All’ultimo G20 i cinesi hanno lanciato il mantra della globalizzazione inclusiva, un messaggio che sarà fatto proprio anche dal G7 made in Italy. La “crescita inclusiva” è da qualche anno il concetto chiave al Forum di Davos, l’appuntamento più atteso dalla politica e finanza mondiale che inizia domani fra le montagne svizzere. 

La classifica per il 2017 è il trionfo di quelle che una volta chiamavamo le socialdemocrazie nordiche. L’indice di “sviluppo inclusivo” incorona come migliore fra le vecchie economie ricche la Norvegia, seguita da Lussemburgo, Svizzera, Islanda, Danimarca e Svezia. Oggi quei Paesi vincono per ragioni in parte diverse da quelle che negli anni settanta e ottanta ne facevano un modello. Non solo perché si tratta di Paesi con (ancora) i migliori standard di sicurezza sociale, ma perché nel frattempo sono diventate economie dinamiche e in grado di attrarre capitali esteri. Educazione, servizi di base, infrastrutture, livello di corruzione, lavoro. Ad eccezione di Australia e Nuova Zelanda (rispettivamente ottava e nona) i primi dodici Paesi con il miglior mix di sviluppo imprenditoriale e sicurezza sociale sono tutti a nord delle Alpi. La Germania è tredicesima, la Francia diciottesima, la Spagna ventiseiesima seguita dall’Italia. Fanno peggio di noi Portogallo, Grecia e Singapore. Fuori dalla classifica dei trenta Paesi Ocse – con un indice a parte - svettano la Lituania, l’Azerbaijan, Ungheria, Polonia e Romania.

In Italia cresce il divario economico e nel mondo l’1% è ricco come il 99%

Il capitolo dedicato all’Italia è un concentrato di problemi noti: fatta eccezione per alcuni parametri, il Belpaese risulta molto spesso in coda alla classifica. Ventinovesimi per “servizi di base e infrastrutture”, ventottesimi alla voce “corruzione”, ventinovesimi in “imprenditorialità” e “intermediazione finanziaria”. Talvolta emergono forti contraddizioni, come nel caso dell’educazione: quattordicesimi per diritto all’accesso, solo ventottesimi per qualità della scuola. O alla voce occupazione: ventinovesimi in produttività, noni in “compensazioni salariali e non”. Detta in una battuta: l’Italia non è un gran posto dove aprire un’impresa ma i diritti di chi lavora sono piuttosto tutelati. Siamo undicesimi al mondo per numero di possessori di prima casa, ma anche per la pressione fiscale sulla proprietà immobiliare.

Qua e là emergono aree di eccellenza, più o meno note: tredicesimi per i costi necessari ad avere una linea a banda larga fissa, undicesimi nei test Pisa di matematica, ottavi nella spesa sanitaria in percentuale al Pil, quarti nel garantire una buona aspettativa di vita a tutti i cittadini, ricchi e poveri. Al di là della qualità della spesa, siamo il settimo Paese fra quelli che spendono di più per la sicurezza sociale, il primo nel garantire la sanità pubblica a tutti.

Per i giorni di assenze dal lavoro per maternità siamo quarti al mondo, settimi per i giorni di congedo parentale, ancora settimi per “densità sindacale”, ovvero per il numero di sindacalisti in percentuale ai lavoratori attivi. Nella classifica a trenta siamo al nono posto per la percentuale di lavoratori garantiti da contratti di lavoro collettivo. Una buona notizia per chi vive al Sud (dove il costo della vita è più basso) non un grande viatico per chi crede in un sistema più inclusivo e meritocratico: siamo ultimi per salari legati alla produttività, penultimi nel tasso di partecipazione delle donne al lavoro, terzultimi per tasso di occupazione giovanile.

Twitter @alexbarbera 
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Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/01/16/economia/crescita-e-sviluppo-vince-il-nord-europa-il-rapporto-di-davos-boccia-litalia-posto-su-Tb9LUa8SohMJldgZL8aupJ/pagina.html
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 18, 2017, 05:53:51 pm »

Carmen Reinhart
Pubblicato il 18/01/2017 - Ultima modifica il 18/01/2017 alle ore 10:17
Alessandro Barbera
Inviato a Davos

Carmen Reinhart attende l’intervista in un angolo della sala affollata di vip del World Economic Forum. Con Janet Yellen è l’economista donna più nota al mondo, eppure nel via vai di consiglieri, accompagnatori e addetti stampa si confonde fra tanti. Veste una giacca bianca leopardata, simile a quelle di Theresa May, ma a differenza della premier inglese è convinta che «nel lungo periodo» la Brexit farà danni. Sulle prospettive dell’Italia e dell’Europa è ancor più pessimista: «Quello delle banche italiane ormai è il problema numero uno dell’Italia, e rischia di condizionare l’intera area euro».

La Commissione europea chiede all’Italia una correzione da 3,4 miliardi mentre il governo si appresta a spenderne venti per salvare alcune banche. Cosa ne pensa? 
«Ormai da un po’ di tempo mi sono convinta che l’Italia dovrebbe prendere in considerazione una ristrutturazione del suo debito, a partire da quello privato. La storia delle crisi bancarie ci insegna che in queste condizioni l’Italia non può uscire dalle secche della bassa crescita».

Che intende dire? Rischiamo un nuovo 2011? 
«Finché i bilanci delle banche italiane non saranno stati effettivamente ripuliti, finché non saranno in grado di tornare a sostenere in maniera aggressiva l’economia, il Pil non riprenderà a salire abbastanza e ogni altro tentativo sarà vano».

 Cosa la rende così pessimista? 
«Le ristrutturazioni bancarie degli ultimi vent’anni hanno funzionato perché hanno effettivamente rimesso in piedi il sistema. Non penso solo a quanto fatto negli Stati Uniti nel 2009, ma quel che è accaduto in anni precedenti in Svezia o Norvegia. In Italia questo non è mai avvenuto». 

L’Italia avrebbe potuto fare ciò che lei propose nel 2012, quando l’Europa intervenne a sostegno della Spagna, ma il governo di allora decise di non accettare quell’aiuto per ragioni politiche. Fu un errore? 
I problemi risalgono al 2009. Avreste dovuto intervenire prima, siete in grave ritardo. La Banca centrale europea finora vi ha dato una mano, il piano di acquisti di titoli pubblici ha dato una spinta all’economia europea, ma non è stato sufficiente. Lo dimostra la storia del Giappone: la politica monetaria da sola non basta».

La tesi di molti è che si tratti di una soluzione impraticabile in Italia. 
«Conosco le difficoltà politiche. So che non sono ricette buone per creditori ed elettori. So per esempio che non si potrà fare nulla fino alle elezioni tedesche dell’autunno. Ma ci sono molti modi per ristrutturare un debito. Casi di successo, come in Irlanda, altri andati meno bene, come in Portogallo. Le soluzioni tecniche ci sono». 

Ripulire i bilanci delle banche significa aumentare il debito pubblico, che in Italia è già alto. 
«Lo capisco: tutto questo ha un costo, anzitutto fiscale. Ma ormai sono convinta sia l’unico modo per ristabilire la fiducia degli investitori ed evitare l’uscita di capitali che emerge dai numeri. Meglio avere un debito ufficiale più alto che pagare sui mercati le conseguenze di quello implicito legato alle sofferenze bancarie».

Per fare questa operazione l’unica opzione praticabile è chiedere l’intervento del Fondo salva-Stati, l’Esm. 
«Precisamente».

E se invece di fare tutto questo il governo insistesse in una strategia aggressiva di riduzione della spesa? Non esiste una soluzione che eviti un aumento dei costi per il contribuente? 
«Ipotizziamo che l’Italia riduca il suo deficit medio annuale all’uno per cento. Cosa cambierebbe? Nulla».

E come la mettiamo con le regole europee? 
«Capisco. L’Europa potrebbe far finta di niente ancora per qualche anno, ma a quale prezzo?». 

Twitter @alexbarbera 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/18/economia/litalia-deve-ridurre-il-debito-pubblico-o-non-uscir-mai-pi-dalla-crisi-oZhR1gqAhhyd0Ux4s1MkLN/pagina.html

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