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Autore Discussione: Roberto Cotroneo - I morti dimenticati  (Letto 3660 volte)
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« inserito:: Novembre 13, 2007, 09:26:15 am »

Lo sparo, il morto, il gioco

E l’etica presa a pedate

Roberto Cotroneo


Lo sapevamo che era un vulcano attivo. E che prima o poi sarebbe accaduto. Lo sappiamo da anni: basta passeggiare per le città e leggere le scritte sui muri. «Poliziotti assassini», «Morte alla polizia». Sapevamo da tempo che ormai le tifoserie tendono a non scontrarsi più tra loro, ma che è tutta una tensione tra tifoserie e forze dell’ordine.

Sappiamo quanto sia difficile tenere un clima di normalità tra forze dell’ordine e tifosi ultrà. Ma quello che è accaduto ieri è stato qualcosa che rischia di diventare una miccia incontrollabile. Sappiamo quanto le tensioni sociali, il disagio, l’emarginazione e la sottocultura siano elementi che si sono trasferiti dalla piazza allo stadio e alle vie attorno allo stadio. Sappiamo che ogni domenica, ogni volta che si gioca in tutti gli stadi italiani, il Paese entra in un’emergenza che dire difficile è poco. Ogni domenica che c’è il campionato i treni sono presidiati, gli autogrill terreni di scontro, i quartieri che confinano con gli stadi diventano deserti, in una sorta di coprifuoco irreale e inquietante. Cosa sia accaduto con esattezza all’autogrill di Badia al Pino, forse lo sapremo tra giorni. Certo un poliziotto ha sparato (in aria sostiene la Questura, ma come è possibile?), certo il povero Gabriele Sandri non stava facendo nulla e stava ripartendo dalla stazione di servizio con gli amici; certo nessuno poteva sapere che quel ragazzo stava lì perché era in viaggio per San Siro, per andare a vedere la partita della sua squadra: la Lazio. Ma non basta. Non bastano i sofismi, i distinguo, la cecità di un Paese che non prende decisioni, perché «il calcio è un’altra cosa», perché «bisogna giocare», perché lo spettacolo deve continuare.

Il calcio non è un’altra cosa. Il calcio è questo. Questo più i soldi, questo più i miliardi delle tv, questo più la paura, questo più le contraddizioni palesi ed evidenti. Le immagini di Sky da Bergamo alternavano bimbi seduti in tribuna, costernati, contenti di essere stati portati allo stadio dai loro genitori, e i padroni dello stadio, le curve, le tifoserie organizzate, il voler decidere cosa fare, cosa è giusto e cosa no. Perché si stupiscono tutti, perché i commentatori continuano a fare finta che gli stadi non sono in mano a organizzazioni private che decidono con l’intimidazione e con violenza cosa si deve fare e cosa no? Perché si continua a dire che gli stadi appartengono alle persone normali, alle famiglie, ai tifosi tranquilli, quando non è così, e non è più così da tempo?

Ieri si sono alternate continue notizie inquietanti. A Roma, in un clima da «guerriglia urbana», gruppi di ultras hanno assaltato caserme di polizia, postazioni di carabinieri e anche la sede del Coni. A Milano cronisti picchiati dai tifosi, soprattutto i cameramen, quelli che riprendono questo calcio strano scisso completamente tra il businness e lo spettacolo miliardario e quelle arene primitive dove conta tutt’altro. Faceva una sgradevole impressione vedere i calciatori esultare per un gol, e faceva impressione sentire i commenti alle partite con il solito tono dei giornalisti sportivi, con i dettagli tecnici, le considerazioni, le stesse di ogni domenica. Si potrà dire quello che si vuole, inventarsi quello che si vuole, ma poche ore prima era stato ucciso con un colpo di pistola sparato all’altezza del lunotto di un automobile un giovane di 26 anni che andava alla partita.

Questo doveva essere sufficiente per fermare tutto. Senza tentennamenti. E invece il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete, dice: non confondiamo, non possiamo fermare tutte le partite, basta quella di Milano tra Inter e Lazio. E no che non basta. Infatti a Bergamo è successo di tutto, infatti negli stadi è un continuo coro, e persino nel basket, sport di tifosi tranquillissimi, sono partite proteste e indignazioni. Ma questo è un Paese ipocrita dove tutti fingono di non vedere, perché conviene. E dove gente che spacca vetrate, usa spranghe, attacca le forze dell’ordine abitualmente, e genera violenza ogni domenica, si erge ad arbitro morale di ogni cosa che accade, e ci riesce persino. Gli ultras dell’Atalanta (ma anche quelli del Milan) hanno deciso che era più etico non giocare. E hanno fermato la partita a modo loro. Che è il modo peggiore. Poi ci dicano che era più pericoloso fermare gli stadi a poche ore dall’inizio delle partite piuttosto che far giocare le squadre. Ci dicano che il Viminale ha consigliato di giocare ugualmente. Se è così lo dicano.

Ma anche i giornalisti sportivi dovevano prendersi le loro responsabilità. Niente commenti su Sky e Mediaset e addirittura nessuna partita trasmessa. Black out, fermi tutti, basta con queste falsità in nome di non si sa bene che cosa. Quelli che il calcio ieri ha interrotto la trasmissione, e ha fatto bene. Ma per troppi gli affari sono affari. E si passa sopra tutto. Nel frattempo sale un’onda emotiva comprensibile. E a Roma è stata organizzata una fiaccolata per Gabriele Sandri. E non solo per ricordarlo, ma perché c’è una frattura etica profonda, da tutte le parti: nella violenza di un calcio che nessuno può negare e nell’indifferenza assoluta di tutto lo show-businness che si muove attorno al calcio. Questa è la cruda realtà.

Ogni volta sembra che si perda la memoria. Dopo la morte dell’ispettore Filippo Raciti a Catania sembrava arrivato il momento di fare chiarezza su un fenomeno drammatico. Poi tutto è ricominciato in nome del solito divertimento, in nome dello sport, che sembra dover prevalere su tutto. Ieri non ha vinto lo sport, non ha vinto il buon senso, ha vinto il denaro, e un futuro di tensione che non sappiamo ancora immaginare. Eppure nella trasmissione di Sky condotta da Ilaria D’Amico si continuava a parlare dei «fatti di Bergamo», ovvero della sospensione dell’incontro Atalanta-Milan, come se fosse quello il punto. A poco è servito sentire Claudio Ranieri e Mario Sconcerti ripetere che i «fatti» veri sono che è morto un ragazzo, ucciso da trenta metri di distanza con un colpo di pistola. E per fortuna che si è deciso di rinviare Roma-Cagliari prevista in serata all’Olimpico, anche perché la curva della Roma aveva già deciso di non far disputare l’incontro, e nel solito modo.

Continueremo a leggere le scritte sui muri contro la polizia, le tensioni nelle curve saranno altissime. E qui non si tratta solo di rendere più civile lo sport, si tratta di rendere più civile un mondo - sempre più ampio purtroppo - fatto di cinismi e di interessi, che non vuole accorgersi che abbiamo di fronte a noi una guerra civile domenicale a bassa intensità.

Una guerra che sarà pure figlia di tutti i disagi e di tutte le derive violente che vogliamo, ma è anche figlia dell’immoralità di molta parte del mondo che ruota attorno al calcio, dell’ipocrisia continua e dell’indifferenza per tutto, fatta di lacrime di coccodrillo e di pietà a buon mercato.

Pubblicato il: 12.11.07
Modificato il: 12.11.07 alle ore 9.22   
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 04, 2007, 07:30:16 pm »

Ferrara, la crociata contro il preservativo

Roberto Cotroneo


Titolo del pezzo: «Salvati con il preservativo: l’enciclica di Livia». Livia sarebbe il ministro Livia Turco. Testata: Il Foglio. Firma: l’elefantino di Giuliano Ferrara. Per quasi tutto il testo pensi che stia scherzando, che utilizzi un artificio retorico, ma invece non è così, l’articolo dice sul serio. Tutto parte probabilmente da un’antipatia, elevata a potenza: quella verso Livia Turco, e verso Francesca Archibugi, che ha girato uno spot per la prevenzione dall’Aids. La Archibugi usa per la prima volta la parola preservativo. E a Ferrara questa cosa non va giù. Forse non è andata giù neppure alle gerarchie cattoliche alle quali Ferrara guarda con laico e appassionatissimo interesse.

Certo, si doveva trovare un modo elegante, wildiano, krausiano, nicciano, e oserei dire persino marinettiano per contestare tutto questo. Ne esce un articolo che ha qualcosa di veramente irresponsabile, per almeno due aspetti.

Il primo è che Ferrara fa l’elogio del non preservativo: «L’amore con l’air bag. L’amore con la gomma. Un sesso tecnico. Un altro capitolo del progetto Orgasmus», scrive l’elefantino. E aggiunge: «l’idea che lo stato ti suggerisca di vestire di gomma il pisello, trattandoti come un bambino scemo, incapace di subordinare gli istinti o i talenti alla ragione». E ancora: «Poi si lamentano degli stupri, della solitudine, della violenza, dell’indifferenza, queste donne moderne sull’orlo di una crisi di coscienza. La concupiscenza a loro va bene, tutto bene benissimo, e deve essere esercitata al riparo da ogni senso del peccato, parola desueta e insignificante, poco laica». E questa è francamente troppo pesante. Ma davvero pesante.

Ma Ferrara è partito del tutto per la cosiddetta tangente, in un marinettismo senza pari, in un futurismo estetico che anziché affondare Venezia, affonda il buon senso, e una cultura moderna che dice quanto l’Aids sia una malattia da cui ancora non si guarisce, e che senza farmaci adeguati porta alla morte in pochissimo tempo. Perché lo fa? Perché gli sono antipatiche la Turco e la Archibugi? Perché non gli piace il preservativo? O perché non piace alla Chiesa?

Il secondo aspetto è proprio questo. Ferrara è troppo intelligente per capire che non ha scampo. Che una posizione come la sua è indifendibile, a meno che non sei il papa. O il segretario di Stato del Vaticano. E dunque deve inventarsi qualcosa.

L’unico modo è una sorta di vitalismo decadente e deraciné. Un incrocio tra Huysmans e Oscar Wilde, passando per Rilke, per il cinismo disperato di Toulouse-Lautrec, per un certo dannunzianesimo, con accenti persino pasoliniani, se proprio vogliamo guardar bene. C’è in questo articolo, irresponsabile, buona parte della sua cultura libertaria anni Settanta, purtroppo mescolata a un revisionismo neointegralista davvero interessante. Come quando sostiene, attraverso un’interpretazione ottocentesca, ormai assai superata, che il medioevo fu «un buio profondo». Quando da Huizinga in poi sappiamo che non fu affatto così. Come quando mette in gioco il rischio come unica possibilità di riscatto a una vita segnata dalla normalità e dal buon senso. Come quando vuole far credere che una vita veramente vissuta è solo quella di chi non calcola. L’amore? Non si calcola, non ci si mette il palloncino prima, guai a te. È un’ideale questo, che Nietzsche nella Nascita della Tragedia sintetizza bene: «Giacchè solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eterna-mente giustificati».

Dio santissimo, è proprio il caso di dirlo. Giù per li rami, partendo dal nichilismo nicciano, si arriva agli assai più banali James Dean, a Kurt Cobain, e a una quantità di cuori intrepidi, irrazionali, appassionati che ne hanno fatte tante: poeti che si sono suicidati mettendosi in frac e bevendo stricnina. Gente che andava a fari spenti nella notte a tutta velocità «capire se è così facile morire». E i soliti che vogliono la «vita spericolata», e sentono solo Vasco Rossi. Immagino che Ferrara detesti anche le cinture di sicurezza, i limiti di velocità. E forse è pienamente convinto che la guerra sia l’igiene del mondo.

Peccato che nulla di tutto questo è vero, e non ci crede soprattutto lui. Il suo è un esercizio di stile, perfetto per Raymond Queneau, o se vogliamo andare ancora più indietro per la citatissima Modesta proposta di Jonathan Swift. È tipico di Giuliano Ferrara: non voglio sentir parlare di preservativo, ma non posso dirlo come lo direbbe un alto prelato. Allora apro la biblioteca di casa, e vi stupisco, con effetti speciali.

Da questo punto di vista poteva fare anche di meglio. E quando termina il suo articolo scrivendo: «se lo stato è il pronto soccorso del desiderio regolato dall’istinto, se è il farmacista della fregola, se moraleggia a vanvera e controassicura con la gomma il formidabile gesto dell’amore, dove troverò la forza per rispettarlo?». Gli risponderemmo che come scelta anarchica, è piuttosto di nicchia, e francamente assai insostenibile, e come anarchici continuiamo a preferire Sacco e Vanzetti.

Però soltanto una cosa ci consola. Ci consola che Il Foglio è giornale letto da un’élite intellettuale, che conosce Cioran, Ceronetti, e Karl Kraus, e gli aforismi di Oscar Wilde li lascia ai baci Perugina (non è che Ferrara si è messo a mangiare cioccolata ultimamente?). E dunque conosce il gusto del paradosso, e se legge Swift poi non si mette a cucinare i bambini per cena. I nostri figli adolescenti di solito non leggono il giornale di Ferrara, speriamo mettano il preservativo quando occorre, e che siano comunque felici, anche se gli è toccato vivere nell’epoca «dell’amore profilattico».

roberto@robertocotroneo.it


Pubblicato il: 04.12.07
Modificato il: 04.12.07 alle ore 8.58   
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 07, 2007, 06:45:24 pm »

I morti dimenticati

Roberto Cotroneo


In poche ore nei telegiornali non era più neppure la prima notizia.

E anche in molti siti web di informazione, era scesa di importanza. Sovrastata dalla fuga del finanziere Coppola o dal pacco bomba di Parigi.

Eppure ieri notte è accaduto qualcosa di tremendo, drammatico e intollerabile.

Un operaio di una acciaieria è morto bruciato vivo dall’olio che ha preso fuoco, e altri sei hanno ustioni in tutto il corpo.

Alcuni di loro hanno poche probabilità di salvarsi.

Eppure ieri notte gli operai della ThyssenKrupp, che fa parte del gruppo Terni, quando hanno visto svilupparsi l’incendio hanno messo mano agli estintori, ma gli estintori non erano stati ricaricati, ed erano semivuoti. Eppure bisognerà chiedersi se i parametri di sicurezza per questi lavoratori erano stati rispettati, come anche il controllo delle ore consecutive di lavoro, in situazioni così a rischio. Eppure i morti sul lavoro sono una vergogna atroce di questo paese, una vergogna persino maggiore degli ultras, una vergogna maggiore degli sporadici - per quanto gravi - episodi di violenza nelle città. Una vergogna non strumentalizzabile da ideologie e partiti che amano soltanto fare demagogia.

I morti sul lavoro non sono ancora abbastanza un’emergenza nazionale, nonostante le parole del nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, perché purtroppo, e questa è pura realtà, degli operai in questo Paese importa ancora troppo poco a molta gente. E invece il dato italiano ha qualcosa di terribile: 1300 morti sul lavoro l’anno scorso. E quest’anno per quanto siano un po’ diminuiti se ne prevedono all’incirca 1000. La maggioranza per cadute da impalcature alte nell’edilizia. Una strage che non può continuare. Ma che produce un momento soltanto di emozione (quando accade), e poi si torna ai fatti normali.

D’altronde, cosa volete farci, li avete visti questi poveretti? La persona che è morta, e che si chiamava Antonio Schiavone, aveva 36 anni, e aveva tre figli. Se è rimasto fino a notte a lavorare era per questo: l’ultimo dei figli ha solo due mesi, la fabbrica sta per essere dismessa, e i figli con quegli stipendi non si riescono a tirare su. No, non è una triste storia di duro lavoro, di povertà, e di sacrificio in un Paese indifferente. È una triste storia, ma è una storia comune. Abbiamo i cippi che ci ossessionano in tutte le città con i caduti della guerra ’15-’18, del Risorgimento e di non che altro, con i nomi e cognomi di persone che fanno parte di un passato ormai lontanissimo. Nessuno ha mai pensato, nemmeno gli artisti più trasgressivi, alla Oliviero Toscani, di metterli i nomi di questi 1300, uno dietro l’altro, su una stele, da qualche parte. Ci accorgeremmo che molti sono nomi stranieri, ci accorgeremmo che molti sono ragazzi di venti o di trent’anni, che erano amati dai loro familiari, dai loro figli e dalle loro mogli. Esattamente come accadeva a quel povero ragazzo ucciso dal poliziotto nell’autogrill, o al militare, eroico, che è saltato in aria in Afghanistan.

Quelle sono vittime dell’insensatezza della violenza del calcio e di tutto quanto gli gira attorno, o vittime di guerre che non vorremmo esistessero, anche se poi le chiamiamo missioni di pace. E i morti sul lavoro che cosa sono? Incidenti e basta. Perché non c’era il casco, perché l’estintore non funziona, perché sei stanco, e guadagni troppo poco, e hai dei figli e non ce la fai. Quasi nessuno degli inviati dei giornali e delle televisioni, domani, andrà a trovare le famiglie di queste persone. Non ci saranno servizi televisivi davanti alle loro case, Vespa non farà la piantina dei loro piccoli appartamenti. Non è cronaca popolare alla Perugia o Garlasco, roba sottoculturale che un tempo si poteva leggere nei dettagli solo nei rotocalchi popolari dai barbieri, e oggi sta in pagine e pagine dei quotidiani importanti.

Eppure sono eroi anche questi poveri operai di Torino. Eroi di un sistema ingiusto. Non si tratta di cantieri edili, non si tratta di piccole ditte che hanno subappalti. Si tratta di una città, Torino, con una solida tradizione industriale, e della ThyssenKrupp, del gruppo Terni. In aziende come queste non possono accadere episodi del genere. E se si vuole andare a guardare meglio si scopre che quella «linea 5» di cui facevano parte quei poveretti, era fatta da operai che non avrebbero più avuto il posto di lavoro fra tre mesi. E sapevano già che sarebbero rimasti senza lavoro. Da lì si spiega un lavoro straordinario usurante, che li ha portati a lavorare di notte, in condizioni di sicurezza ancora tutta da accertare. Se poi scopri che lo stipendio di quel poveruomo bruciato vivo era di poco meno di 1200 euro al mese, ti rendi conto di quale tragedia e di quale senso di ingiustizia e di dolore attraversi chiunque voglia guardare fino in fondo a queste cose.

I morti sul lavoro non sono merce emotiva per questa società di chiacchiere, gossip e demagogie rattoppate; che esaspera tutti gli eventi che fanno notizia, ma soltanto perché servono per fare altri discorsi: che siano il tifo, l’onore nazionale del nostro esercito o il solito ritiro dall’Afghanistan, e il problema dell’immigrazione rumena. I morti sul lavoro non servono a nessuno. Non commuovono abbastanza. Sono morti di serie B, purtroppo. Drammi privati, di povera gente, che non ha voce, e non ha nome, e quando ce l’ha, si dimentica in poche ore, il tempo di distrarsi con altre cose, con altre notizie più croccanti, come si usa dire nei giornali. Ma la vergogna resta. La vergogna di un Paese che non può dirsi civile se muoiono 1300 persone all’anno, semplicemente perché stanno lavorando.

roberto@robertocotroneo.it

Pubblicato il: 07.12.07
Modificato il: 07.12.07 alle ore 9.11   
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