Adriano Prosperi
· 20 dicembre 2016
Ricordo di Paolo Prodi, l’uomo che sapeva unire
Distaccato ma non indifferente, guardava ai fatti del giorno e li commentava. È stato organizzatore di cultura, costruttore di contesti aperti agli studiosi e reti di dialogo
Caro Sergio,
mi chiedi di parlare di Paolo Prodi. Non è facile per me. Si tratta di una persona importante, nota in Italia e fuori per gli studi, per l’opera svolta nelle istituzioni e nella società ma anche di una persona che è stata molto presente nella mia vita. La sua morte mi è giunta inattesa: eppure sapevo dei molti guai di salute che lo bersagliavano.
Quando si perde un amico – a questa età, poi – è una grande fetta della propria vita e della memoria che se ne va con lui. “Cinquanta anni, spesso insieme”, queste parole sue le leggo ancora nella dedica di Christianisme et monde moderne, uscito dieci anni fa per Gallimard (uscito solo in francese, qualcuno dovrebbe farlo leggere agli italiani). Il conto degli anni si è poi fermato a sessanta. Data al 1967 l’incontro che decise della mia vita. Fu decisivo allora per me ascoltarlo mentre in un incontro di studio per ricordare Delio Cantimori scompigliava mitemente le carte di una storiografia italica mirata solo agli eretici e agli esiliati della Controriforma. Raccontò allora di Carlo Sigonio e di come nel seguire un’idea severa della verità storica fosse incappato nella reazione della polizia inquisitoriale. Capii che se volevo studiare da dove venisse quella tradizione ed educazione cattolica in cui ero cresciuto era con lui che potevo farlo, anche perché intanto lui mi offriva un lavoro vero e serio di insegnamento, in una facoltà di massa come poche, il Magistero di Bologna. Di serie B, si diceva allora. Quella che lui costruì col mio aiuto non fu una scuola elitaria e di pochissimi, come quella da cui venivo, ma un luogo dove centinaia di allievi imparavano a reagire all’imparaticcio passivo delle magistrali e a costruirsi una autonoma conoscenza della storia con ricerche su fonti di prima mano.
Davanti a lui, mi sembrava di essergli vicino come un fratello minore: anche perché c’era una sua speciale capacità di porsi al livello di ogni interlocutore, di dare fiducia e incoraggiamento. Solo a poco a poco scoprii alcune delle tante cose che c’erano già state nel suo passato. La sua famiglia d’origine, per esempio. E le sue scelte: Milano, la Cattolica, la facoltà di Scienze politiche. Non una scelta casuale. Il suo cattolicesimo non era l’abitudine irriflessa, la vaga appartenenza sociologica di ogni italiano, ma un radicamento fortissimo, tanto profondo quanto meno esibito. Membro giovanissimo del gruppo di Dossetti, aveva partecipato alla campagna elettorale per le elezioni comunali di Bologna. Dalla sconfitta politica era nata l’idea di una strategia lunga di rinnovamento culturale e la costruzione di quella meravigliosa biblioteca che si chiamò allora “Centro di documentazione”, concepita per allargare l’orizzonte del cattolicesimo italiano – un orizzonte che aveva conosciuto tra altre vergogne la canea del vescovo di Prato e delle gerarchie ecclesiastiche contro la coppia che aveva osato sposarsi col solo rito civile. Vi si stipavano ricchezze di un sapere nuovo e insolito sul fatto religioso nella storia e nel presente. Era situata nel cuore della Bologna rossa, in un’area povera, vi si incontravano e ascoltavano teologi e studiosi della religione di altri paesi e di altre culture. E quasi subito vi si cominciò a lavorare per i dibattiti in corso nell’assemblea del Concilio Vaticano II. Tra l’altro, Paolo Prodi fu tra i curatori di un’opera fondamentale in materia di concilii, i Conciliorum Oecumenicorum Decreta.
In quegli anni si era consumata la scelta mistica di Dossetti e la conseguente divisione tra i membri del gruppo originario tra il monacato e il matrimonio, ma anche a quella tra est e ovest. A est, c’era la Palestina, cioè l’utopia del cristianesimo primitivo, a cui guardava Dossetti. Paolo Prodi scelse non il passato ma il futuro, non l’utopia ma la profezia, avrebbe detto lui: e andò verso ovest. Aveva conosciuto ai margini del Concilio don Ivan Illich e il vescovo Oscar Romero (il primo processato dal Sant’Uffizio, il secondo destinato a morire assassinato sull’altare). Decise di andare a conoscere le giovani chiese latinoamericane alle prese coi loro enormi problemi e in lotta contro l’invadenza di un dominio nordamericano spalleggiato dal Vaticano. Si recò a Cuernavaca in Messico presso il Cidoc, un centro di documentazione osteggiato dal Vaticano. Voleva capire che cosa accadeva in una società ribollente di problemi e di contraddizioni. Progettava di fare del Cidoc un centro di studio per un lavoro di lunga durata, al pari di quello bolognese. Fu quello uno dei suoi tanti progetti di centri di documentazione e di studio che guardassero avanti, ai tempi lunghi di mutamenti appena cominciati.
Così andava avanti per la sua strada. Quale? Difficile qui distinguere lo storico dall’organizzatore di cultura, dall’educatore, dal costruttore di contesti aperti agli studiosi e di reti di dialogo con altre culture nazionali più robuste e attrezzate della nostra. Gli esiti di questo lavoro e la misura della profondità del rapporto che coi suoi libri e la sua opera Paolo Prodi ha costruito nella comunità sovranazionale della cultura storica mondiale si possono ora misurare dai messaggi di cordoglio che da tre giorni continuano a giungere a tutti noi, suoi amici e allievi e in primo luogo ai suoi familiari, dai quattro angoli del mondo: penso di non andare errato se ritengo che dai tempi di Federico Chabod in poi non si sia mai registrato un simile fenomeno in Italia.
Fin dai suoi inizi fu evidente che la vita accademica del professore gli andava stretta. Appena vinta la cattedra di Storia moderna, pubblicò su un quotidiano nazionale una domanda di lavoro: “professore offresi”. Ma di lavoro se ne procurò tanto, da solo. Non perdeva di vista la politica. Ricordo fra gli altri un incontro col sindacato dei metalmeccanici sulla guerra del Vietnam. Molti anni dopo, ricordo anche che aderì spontaneamente al digiuno collettivo per chiedere la revisione del processo ad Adriano Sofri. E tuttavia restò sempre antropologicamente inadatto al conflitto di breve respiro della politica, così come fu del tutto immune dai personalismi e dalle guerre di corridoio che infestano da sempre il piccolo mondo accademico. Era uomo che univa: diceva la sua e lottava a viso aperto ma poi chiudeva lì, senza strascichi né ruggini nascoste. Quando la sua proposta di togliere ogni carattere di chiusura cattolica al centro bolognese per farlo navigare nel mare aperto degli studi venne rifiutata dall’amico e cognato Giuseppe Alberigo, se ne uscì in silenzio dall’istituzione a cui aveva dedicato grandissimo impegno e guardò altrove. Per esempio, al mondo della scuola italiana: nel 1972 l’antico collega della Cattolica Riccardo Misasi divenuto ministro della pubblica istruzione, gli propose – e lui accettò – di creare nel Ministero un Ufficio studi. Vi portò avanti nel breve biennio del ministero un progetto importante sul tema dei distretti scolastici. Subito dopo divenne rettore dell’università di Trento, una fatica di cui volle un compenso: che fu l’Istituto storico italo-germanico, diventato grazie a lui un luogo vivissimo di scambio culturale.
E intanto studiava e scriveva. C’era come un ritmo di sistole e diastole fra gli studi e il lavoro di creazione e organizzazione delle istituzioni. Parlare dei suoi studi non si può senza tenere presenti le convinzioni forti del suo cristianesimo ma anche e soprattutto la sua fiducia nel sapere storico, la sua volontà di ricavare dallo studio del passato una chiave interpretativa del percorso storico tale da permettere allo storico di intravedere la logica dei grandi mutamenti e dislocamenti strutturali. Per questo fu sempre attentissimo alla definizione dei termini e dei concetti nella lingua di comunicazione dei risultati delle ricerche, una lingua internazionale a cui dedicò continui interventi. E, al di là dei termini e dei concetti, studiò l’evoluzione delle istituzioni e delle dottrine, quelle teologiche e quelle canonistiche che avevano costruito il sedimento comune della società europea nel lungo medioevo. Si trattò di anni e anni di letture e di riflessioni, sfruttando l’offerta di centri di ricerca negli Stati Uniti e soprattutto in Germania. Ne ritornava con libri che entravano subito come sangue nuovo nella circolazione delle idee e obbligavano i lettori a scoprire territori sconosciuti o dimensioni fino ad allora rimaste celate ai nostri occhi.
Da uno sguardo concentrato sulla figura del papa romano, punto di riferimento obbligato nei conflitti delle culture cristiane e nella tradizione della cultura laica italiana da Machiavelli ai nostri giorni, ricavò la scoperta indicata nel titolo del libro suo – Il sovrano Pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna (1982, più volte ristampato). Vi si spiegava come con la svolta storica della rivoluzione papale, l’assunzione di un doppio potere temporale e spirituale avesse dato vita alla distinzione tra le due anime del potere politico, quella sacrale e quella temporale aprendo la via a un’evoluzione che doveva caratterizzare in modo originale la storia dell’Occidente. Da lì, attraverso una ricerca che è poco definire pionieristica perché fu una vera scoperta della dimensione di lunga durata del patto politico, nacque la sua storia del giuramento – Il sacramento del potere: il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente(1992). E dovremo anche ricordare il titolo volutamente sommesso di un altro grande libro: Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto(2000). Molte sono le cose che si vorrebbero dire sull’importanza di queste sue indagini. Basti osservare che se si guarda al contesto degli anni di queste uscite librarie si vedrà come nascessero in un contesto di precaria salute della convivenza civile e di crisi profonda del funzionamento della politica. Il che vale per un altro libro frutto di un intenso anno di studio nella fondazione Ebert di Erfurt: Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente (2009). Sarebbe fin troppo facile segnalarne il sostrato nell’ingorgo di problemi sociali e culturali nati dalla distribuzione ineguale delle risorse e dall’invadente autonomia del mercato e del sistema finanziario rispetto a ogni altro potere statale.
Funzione civile dello storico: quanto si è discusso di questo. Paolo Prodi ha contribuito in modo fattivo alla discussione offrendo il modello del suo modo di lavorare e la qualità delle sue analisi. Tra le quali bisognerà almeno ricordare la sua tesi per così dire storica e profetica sul nodo delle differenze tra modernità dell’Occidente europeo e culture islamiche. La individuò nel rapporto tra il sacro e il potere. L’Occidente secondo la sua tesi ha inventato con la rivoluzione papale dell’età gregoriana un dualismo di tipo nuovo fra Chiesa e Impero. Su questa strada si è proceduto desacralizzando il potere sovrano separato dal corpo fisico del re già durante il Medioevo e sostituendo alla sacralità del potere il patto politico. Da allora, col ’700, si avvia l’articolazione e divisione dei diversi poteri nell’ambito di patti collettivamente sanciti che hanno permesso di passare dal campo politico a quello giuridico. Questo dualismo tra la dimensione del potere e quella del sacro è quella che ha permesso, a suo avviso, lo sviluppo delle forme di organizzazione politica e sociale dell’occidente.
Ma Paolo Prodi non si è limitato a rintracciare le linee di evoluzione plurisecolari della nostra attuale realtà: ha fissato l’attenzione sulle ragioni di una crisi che dura da tempo e per la quale ha invitato a tornare allo studio e alla conoscenza della storia, abbandonando la diffusa, generalizzata immersione sociale nella fiction in cui il vero e l’inventato si mescolano. Un saggio suo del 2012 sulla crisi del costituzionalismo è stato un grido d’allarme inascoltato, una messa in guardia conto l’illusione che un nuovo costituzionalismo o un rifugio rassicurante su costituzioni storiche ci possa mettere al sicuro dal dilagare di “sovranità finanziarie internazionali nelle quali potere sacrale, potere politico e potere economico sono di nuovo fusi.” Parole serie e meditate che ci stanno ancora davanti.
Distaccato ma non indifferente, guardava ai fatti del giorno, li commentava. Scherzavamo sulle definizioni che aveva trovato per il progetto di costituzione sottoposto a referendum: quella di “bitorzolo” mi sembrava calzante; l’altra, “bugiardino”, lasciava capire che intanto lui era costretto a decifrare le scritture in piccolo e in codice di parecchi foglietti di medicinali. Lamentava che nessuno avesse pensato a dare attuazione all’articolo 49 sui partiti. Un tema che gli stava a cuore, su cui aveva scritto da storico e si era impegnato nelle occasioni di fare politica che aveva avuto.
In questo intreccio fra ricerca storica e lettura del presente aveva investito tutta la sua vita.
Da -
http://www.unita.tv/opinioni/ricordo-di-paolo-prodi-luomo-che-sapeva-unire/