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Autore Discussione: CUPERLO, Bisogna collocare il Pd nella nuova stagione conciliando convivenza e..  (Letto 6320 volte)
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« inserito:: Novembre 11, 2007, 03:54:36 pm »

Sinistra e sicurezza

Gianni Cuperlo


Ci sono tragedie che possono incidere sul clima di un Paese sino a mutarlo. Il clima culturale e politico intendo. La sua temperatura. È ciò che potrebbe accadere dopo l’omicidio di Giovanna Ruggeri a Roma. Dramma che per la sua efferatezza e la vasta copertura mediatica ha scosso l’opinione pubblica e spinto la politica a un indurimento della risposta preventiva e repressiva contro alcune forme di illegalità. Ne sono scaturiti l’oramai famoso decreto sulla sicurezza e una coda di polemiche, ad oggi non concluse, sui modi più efficaci per contrastare l’ingresso consistente di cittadini comunitari, e nello specifico rumeni, sul nostro territorio.

Non è la prima volta che un episodio drammatico genera reazioni profonde. E permanenti.

In un saggio di qualche anno fa, Andrea Romano ha ricostruito la vicenda di James Bulger. Era il 12 febbraio 1993. Il piccolo non aveva tre anni quando due bambini poco più grandi (dieci e undici anni) profittando di una distrazione della madre lo avevano avvicinato in un centro commerciale. Preso per mano se lo erano portato fuori. Avevano scavalcato una massicciata divisoria tra strada e ferrovia, e lì lo avevano colpito con sbarre e mattoni fino a tramortirlo sui binari dove un treno lo avrebbe straziato. La Gran Bretagna rimase sconvolta. Per giorni l’avvenimento, comprese le decine di adulti che avevano assistito al rapimento, venne sezionato attimo per attimo. La polizia aveva fermato un dodicenne subito prosciolto. Ma tanto era bastato perché una folla imbestialita tentasse il linciaggio. Poi l’arresto dei colpevoli. Due ragazzini provenienti da famiglie “ordinarie”. Genitori occupati e un quoziente intellettivo nella norma. La politica, come tutti, fu investita dall’onda emotiva. E si interrogò a lungo. In particolare sul senso di quella barbarie.

All’epoca, da pochi mesi, il Labour Party aveva un nuovo responsabile per gli Interni. Un quarantenne ambizioso e brillante che si chiamava Tony Blair. Passò qualche giorno prima che Blair reagisse pubblicamente e commentasse la tragedia. Ma quando lo fece la sua posizione spiazzò chi si attendeva la classica risposta laburista. Quella maturata durante e dopo gli anni sessanta. Contro la pena di morte, per i diritti delle minoranze e l’espansione liberale della cittadinanza. La reazione, invece, si mosse su un piano diverso. Bandita ogni “retorica di classe”, la prima critica investì un permissivismo colpevole verso la percezione di insicurezza della società britannica. Combattere il crimine con severità ma, insieme, aggredire le “cause del crimine”. Fu questa la chiave del giovane Blair. La stessa durezza repressiva già elaborata da Clinton oltre oceano. Ma, ed era questa la novità di fondo, fusa con la riscoperta di una visione “alta” della responsabilità individuale che deve innervare l’anima - lo “spirito” - di una comunità. Fu la premessa di una svolta. Culturale prima che politica. Di visione della società. Insomma uno spartiacque. I laburisti aprirono un varco che da lì in avanti riempirono di contenuti. Parlando di una «coscienza addormentata» del Paese. Di una società «indegna», fino a teorizzare una strategia di risposta originale. Che si riassumeva in questo. La soluzione contro la disintegrazione della comunità non sarebbe passata solo da una nuova legge. Ma aveva bisogno di una nuova “prospettiva”, di una nuova direzione di marcia. «Non avere paura di tornare a parlare dei valori e dei principi nei quali crediamo», disse Blair pochi giorni dopo davanti a una platea di militanti del Labour. Aggiungendo, «se non siamo in grado di imparare e di insegnare il valore di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, siamo destinati a essere sommersi dal caos morale».

Un terreno scivoloso, non c’è che dire. Valori, principi, moralità, quando declinati sull’onda dell’emozione, possono divenire passepartout di un populismo irritante o di facili revisionismi. Nella vicenda specifica l’esito fu diverso. E nettamente migliore. La sinistra, ché tale era, spostò il suo baricentro oltre i propri confini. E fece della sicurezza, unitamente al benessere, una bandiera di civiltà. Diritti, responsabilità, nuova cittadinanza: la svolta produsse a cascata un vocabolario più sensibile ai tratti di una modernità gravata da paure e contraddizioni, individuali e collettive. Il resto è storia nota. Gli accidenti della vita, e l’indubbio talento, riservarono a Blair una carriera luminosa arenatasi solo sul madornale errore iracheno. Cosa che non gli ha impedito di vincere tre elezioni di fila. Sulla base di poche opzioni fondamentali. Direi, una su tutte. L’idea di una sinistra (per la precisione, “socialismo” era la parola in uso) che al di là delle ricette in economia fondava una nuova concezione di progresso sulla fiducia rinnovata verso una comunità dove diritti e opportunità andavano di pari passo, nel senso primo delle chanche di vita a ciascuno garantite.

Non è una forzatura scrivere che tutto il resto - dalla riforma del welfare alle politiche per la formazione e il lavoro - derivarono da quella premessa. Con ricadute straordinarie. Non si trattò dunque, e banalmente, di una sinistra che smesso l’abito suo si travestì d’altro. Insomma non fu lo scambio tra una lettura “sociale” della crisi e l’approccio law and order tipico della destra. Fu la capacità, e la scelta, di ripensare il concetto di “sicurezza” nella sua nuova veste. E nella sua nuova mole, intesa proprio come grandezza e intensità del tema. Sicurezza come tutela della libertà e integrità del singolo naturalmente. E come certezza della pena. Ma anche come tratto coesivo di un reticolo di relazioni sociali, etniche, di genere e cultura. E ancora. Sicurezza come autodeterminazione sulla propria vita. Opportunità di scelta. Mobilità verticale. Cittadinanza attiva. Un campo di significati che andava ben oltre il richiamo alla sola sfera repressiva, pure necessaria, o al sistema degli ammortizzatori sul versante della protezione sociale. E che interrogava il complesso delle politiche pubbliche e delle strategie di inserimento e prevenzione. Che si trattasse di minori - la molla scatenante - o di immigrati, di donne o di quella vasta categoria di outsiders, vittime del precariato o della mobilità, nei confronti dei quali una nuova combinazione di accompagnamento e incentivi doveva sostituire la più classica strategia dell’assistenza.

Bene, ma perché una digressione tanto lontana da noi, nel tempo e nello spazio? Per due ragioni che riassumo nei loro titoli. La prima, fatte le debite differenze di clima e contesto, è che il “nostro” problema di oggi è esattamente il “loro” problema di ieri. Ripensare l’idea di sicurezza. Il suo valore nella contemporaneità e nelle condizioni materiali di vita di milioni di persone. Superando la lettura ovvia di una problematica biforcuta: repressione per un verso, questione sociale per l’altro. Fino a lì, santo cielo, c’eravamo tutti. E da tempo. Il punto non è quello. Ma cos’è e come si esprime oggi una condizione di sicurezza della persona? Ho letto delle polemiche armate dalla destra verso il sindaco di Roma. Frasi aspre, condite di lampioni carenti e vigilanza ridotta. Veltroni ha bene risposto nel merito. Se posso aggiungere una frase direi così. Come non capire che la socialità, quel bene che le amministrazioni del centrosinistra coltivano da sempre e che a Roma, per dire, porta sciami di persone a “calpestare” la città nella Notte Bianca e in mille altri momenti, come non capire, dicevo, che quella dimensione è parte essenziale di una comunità in grado di dominare il degrado e sentimenti primitivi di paura? Mica questo vuol dire che le strade non si debbano illuminare o i criminali perseguire. Tutt’altro. Ma significa leggere la realtà. I bisogni delle persone. Perché illegalità, miseria umana e morale, perdita di senso nella gerarchia primaria dei valori, non sono tratti genetici. E neppure solo degenerazioni culturali. Ma possono divenire fenomeni collettivi, questo sì. Per questo, che tristezza sentire Fini parlare dei rom come di gente incompatibile con la nostra civiltà. Gli ha risposto mirabilmente Barbara Spinelli. Ma bastava che il leader della destra si facesse raccontare l’integrazione sperimentata in grandi e piccole città del suo Paese. E comunque, di quel che fa e pensa la destra si occupi la destra. Noi abbiamo il dovere di pensare a noi.

Allora, e questo è il secondo titolo, bene il decreto. Tanto più che il Parlamento potrà migliorare e rafforzare la legislazione in materia. Ma guai, davvero guai, a pensare che il tema in sé, la sicurezza intendo, possa riassumersi nel tasto pure rilevante dell’ordine pubblico. Del controllo, a monte o a valle, della disciplina sociale. Il che mi porta a dire che dovrebbe risultare scontato l’assunto secondo cui la sicurezza non è di destra o di sinistra. La questione, casomai, è intendersi su ciò che si vuole significare con quelle parole. Che mandare in galera i delinquenti è un compito dello Stato, chiunque governi? Ci mancherebbe pure. O che un cittadino comunitario dalla fedina penale inquinata e privo di mezzi legali di sussistenza vada rimpatriato tanto da Amato che da Pisanu? E vorrei vedere. Ma poi? Chiedo, poi c’è anche altro quando decliniamo la parola “sicurezza”? Perché, per dire, se fossi io a motivare quel concetto, in modo parziale e soggettivo, parlerei anche di altro. Dei diritti umani in primo luogo. Di libertà e prerogative della persona. Di opportunità quando si ragiona di saperi cultura o socialità. Parlerei di quella legge voluta dal governo e che il Parlamento colpevolmente non approva ancora contro la violenza sulle donne.

E di una sintesi anche linguistica - altrove in Europa si fa - tra flessibilità e sicurezza, rigore e accoglienza, dove il secondo termine non confligga col primo ma ne depuri la carica disperante e di isolamento. Parlerei di integrazione delle differenze. Che non è uno slogan ma il profilo del progresso in un continente - il nostro - dove senza immigrazione di nuova generazione avremmo solo maggiore conflitto sociale e minore natalità. E parlerei della relazione tra economia e democrazia, di cittadinanza estesa come volano di crescita. E di responsabilità individuale come riserva inesauribile di nuovo civismo. E si potrebbe proseguire. Dicendo che una società sarà più solida, e sicura, se avrà la forza di normare con saggezza i campi del diritto alla salute (non ho detto la felicità, ma la salute sì), del sostegno alla vita e al benessere di chi deve nascere, ma anche all’umanità di chi sa di dover morire. Ora, tutto questo “non è di destra né di sinistra”? Che dire? Personalmente sarei impaurito da una politica dove tutto questo fosse indistintamente di destra e di sinistra. Perché non è così. Davvero non è così. Non perché ritenga “moralmente” superiori le soluzioni di una cultura sull’altra. Mi limito, nel caso di un partito “democratico”, a ritenerle semplicemente più giuste. Nel senso di più sensibili al legame tra libertà, autonomia e responsabilità della persona.
Ecco perché, se una riserva mi sento di esprimere sulla vicenda di questi mesi non è intorno al merito dei provvedimenti assunti. Ma sulla timidezza che mi pare abbia accompagnato quelle decisioni. Quasi che il nostro campo - quello democratico e progressista - fosse preoccupato di non sembrare sufficientemente credibile nel ruolo di “tutore” dell’ordine. E per questo si impegnasse ad alzare il tono della voce e a selezionare un lessico perentorio. La famosa “tolleranza zero”. Sarà che quel termine - tolleranza - non ha mai avuto per me un’accezione negativa. Anzi. Ma di quello slogan, lo confesso, non ho mai subito il fascino. Il punto è che non possiamo aver paura di declinare la sicurezza, per le cose dette, in una dimensione anche morale. E comunque personale. Che passa certo per il diritto a non essere aggrediti per la strada o rapinati dentro casa. Ma passa pure, direbbe Blair, per il contrasto senza tregua alle “cause del crimine”. Filosofia? Retorica? Demagogia? Direi semplicemente “politica”. Il che però non è poco.



Pubblicato il: 10.11.07
Modificato il: 10.11.07 alle ore 8.21   
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 21, 2008, 12:58:58 am »

Nel Pd manca qualcosa

Gianni Cuperlo


Costruire il Partito democratico è una scommessa complicata. Questo lo sapevano tutti. Quelli che ci hanno creduto e ci credono ancora. E quelli che hanno scelto strade diverse. L’ambizione era grande. Prendere atto che le vecchie identità non bastavano più. Unire persone con tradizioni diverse e dar vita a una cultura originale, e a una forza che di quella cultura fosse l’espressione. A quanti, segnalando l’esistenza di differenze non banali, ragionavano di un percorso a tappe più simile a una «federazione», si è risposto un anno fa che non era tempo per i ripieghi.

Che serviva il coraggio della rottura. Il Pd era maturo nella coscienza di tanti e ogni annacquamento o rinvio ne avrebbe ridotto l’appeal. Tesi che mi avevano convinto.
E spinto, come moltissimi, a sostenere l’accelerazione di tempi e procedure. Non direi che mi sono pentito. Un grande progetto ha bisogno di tempo. E di tenacia e pazienza. Del resto diverse cose buone sono avvenute. La valanga di voti alle primarie. Il confronto nelle commissioni su manifesto dei valori, statuto e codice etico. La prossima nascita di ottomila circoli. E altro ancora.

Allora cos’è che non va? Direi così. Si ha l’impressione, o almeno ce l’ho io, che stiamo andando persino oltre l’ipotesi della «federazione». Ma nel senso opposto a quel partito nuovo che in tanti evocavano. Piuttosto la marcia impressa è quella di una «confederazione» di parti. Dove le «parti» sono i pezzi organizzati delle vecchie aree di partito o gruppi aggregati intorno a leadership di riferimento.

Sullo sfondo resta la fase costituente. L’assemblea dei delegati riunita a Milano. Gli organi esecutivi e direttivi provvisori. La messa a regime dell’organizzazione sul territorio. A vedere il bicchiere mezzo pieno sono un mare di cose. Una voglia di fare che dimostra la vitalità del progetto. Ma allo stesso tempo qualcosa manca. Piaccia o meno, manca. E questo qualcosa è proprio la bandiera di quanti, un anno fa, volevano accelerare il processo. Ricordate? Facciamo un partito diverso, mescolanza di storie.
Una forza che fa della trasversalità la sua matrice. Che vuole fondere le tradizioni. Non la somma di Ds e Margherita più qualcos’altro. Ma un vero processo costituente dove non conterà da dove si viene ma dove si vuole andare, insieme. Di nuovo ci avevo creduto. Mi pareva una scelta arrischiata ma l’ho condivisa. Oggi l’impressione è che ce ne stiamo allontanando, e anche a passi svelti. Per diverse ragioni. Indico le due che mi paiono le più evidenti.

La prima ha a che fare con la nostra transizione e la spiego così. Come altri, vengo da un partito che tra tanti limiti ne aveva uno più evidente degli altri. Discuteva troppo. Eravamo un diabolico centro propulsivo di riunioni, seminari, dibattiti. Dal vertice alle sezioni. Personalmente l’ho sempre considerato un punto di forza. Ma capisco che in molte circostanze fosse un peso e a volte una terribile perdita di tempo. Ora, parlo per me. Negli ultimi otto mesi credo di aver preso parte a tre o quattro riunioni in tutto. Compresa l’assemblea di Milano e un paio di incontri nella mia città. Non è una critica. È una presa d’atto. Forse la vita democratica di questa nuova forza non è ancora a regime. Ma colpisce che le occasioni di confronto, fatte salve le colonne dei giornali, i blog e le neo-correnti, si siano ridotte anziché allargarsi. Certo, c’è in questo la responsabilità di chi i luoghi del confronto politico avrebbe dovuto favorire e di quanti, a fronte di un vuoto, ritengono preferibile la via del richiamo ai «propri». Con l’effetto di rafforzare i confini di prima anziché moltiplicare intrecci e fusioni. So bene che la mescolanza è prima di tutto fatica, e anche qualche rinuncia alle posizioni precedenti. Richiede lo spirito giusto e disponibilità verso l’altro. Servono applicazione, luoghi, consuetudini. Altrimenti viene naturale cercare ospitalità dove si è accolti e riconosciuti.

E tutelati. Direi che il riflesso è istintivo. E noi, ad oggi, non abbiamo ancora un partito del tipo di quello immaginato. Abbiamo una leadership forte, legittimata da tre milioni di persone. E insieme a quella una ricchezza di personalità e leader che riflettono altrettante biografie e percorsi politici. Ben vengano le regole, dunque. Nella speranza che servano a fondare davvero il partito nuovo. Con la sua ricchezza di associazioni e forum, con le sue sensibilità e aree culturali. E naturalmente con la sua vita democratica interna fatta di congressi, organismi e circoli. In assenza di questa rete di energie e sedi, resteremmo con un leader legittimato dal basso e una confederazione di personalità e storie. Il che non era propriamente l’idea che ci aveva mosso. La seconda ragione attiene di più al merito. In particolare ad alcuni di quei temi che sono al centro del confronto di questi mesi. Lo dico così. Noi abbiamo accelerato la nascita del Pd, nei tempi e nelle forme, senza sciogliere alcuni nodi rilevanti della sua cultura politica. Li cito. Il valore e l’autonomia della persona, l’indipendenza della scienza, la sfera eticamente sensibile e la libertà di coscienza. Temi sui quali un gruppo di persone e personalità ha promosso una lettera appello sulla laicità e il Pd che non a caso in pochi giorni ha raccolto più di cinquecento adesioni e che ci condurrà nelle prossime settimane a un primo seminario pubblico.

All’indomani delle primarie su alcuni di questi nodi, per colpa o merito dell’agenda istituzionale, si è prodotta un’altra accelerazione. Quella della decisione politica. E alcuni nodi sono venuti al pettine. Non che prima non vi fossero. Semplicemente noi tutti avevamo scelto di rinviarli a dopo. Ma il «dopo» comunque arriva. E di fronte a un deficit di elaborazione nel neonato Pd sono emerse due risposte diverse. La prima dice, noi non siamo come i vecchi partiti. Abbiamo una vocazione maggioritaria e non possiamo pretendere su temi controversi di mettere tutti d’accordo. La novità, secondo questa lettura, sarebbe in un partito post-ideologico. E anche post-identitario. Una grande coperta che deve adagiarsi sulla società italiana e cercare di rappresentarla limitandosi a sommare le sue differenze. Chi si lancia alla ricerca dell’identità perduta, o s’incaponisce a cercarne una nuova, sceglierebbe di recitare in una pellicola in bianco e nero. Mentre il mondo ha mille colori e bisogna avere l’umiltà di riconoscerlo.

Ho riassunto con parole mie ma spero senza tradire la sostanza. E però è una teoria che non convince. Personalmente non credo possa esistere un partito a vocazione maggioritaria senza una cultura solida. Che non è la Tavola della legge. E meno che mai un vademecum parlamentare. Ma è una «visione» dell’economia, della società, degli individui. È una lettura dei fatti del mondo, e non con l’occhio dello storico o dell’antropologo (anche, ma non solo). Direi con lo sguardo della politica, che per definizione è un combinato di valori e iniziativa. E che è ancora, o dovrebbe essere, scelta delle urgenze e delle alleanze. Insomma con chi stai e per cosa ti batti. Invece l’impressione, almeno fin qui, è che la nostra prima preoccupazione sia stata di metodo. Davanti ai problemi, la priorità era affermare che discutere si può e che nella nuova casa devono convivere opinioni anche distanti. Il che è sacrosanto, al punto che su questa premessa abbiamo fondato un partito. Ma appunto un partito, non una confederazione di culture separate. E dunque, prima o poi, dovremmo passare dall’elogio del dialogo alla chiarezza di alcune definizioni.

Il documento di Reichlin e Ceruti ha il merito di provarci, e già per questo è un’operazione apprezzabile. Ma giocoforza sarà la dimensione politica, saranno le scelte legislative, sarà la coerenza della rotta culturale a definire l’identità effettiva delle Democratiche e dei Democratici. Insomma sarà quella battaglia delle idee che sola qualifica il pluralismo. L’alternativa, almeno a me, non convince. Perché finisce per essere un non-partito. Nel senso che a rimanere in campo sarebbe la forza delle «piccole identità». Appunto quelle "parti" organizzate che nessuno chiama correnti anche se tutti sanno benissimo che di quello si tratta. «Parti» che medieranno, come in altre stagioni e contesti, gli equilibri interni, le rappresentanze, un pacchetto di destini individuali. So che la politica è anche questo. Ma se a prevalere è soprattutto questo è inevitabile il primato di oligarchie ristrette con tutto quel che ne consegue. In quel caso non faremmo molti progressi sulla strada di un partito nuovo e a vocazione maggioritaria. Ecco, questo sarebbe un peccato. E quasi imperdonabile. Perché magari ha ragione chi dice che fare le correnti «dentro» un partito nuovo è un rischio mortale. Temo però che fare le correnti «senza» un partito possa rivelarsi un destino persino peggiore.

Pubblicato il: 20.01.08
Modificato il: 20.01.08 alle ore 15.51   
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 04, 2015, 06:48:24 pm »

Quello che chiedo alla Leopolda di Renzi
Leopolda 2015   
Bisogna collocare il Pd nella nuova stagione conciliando convivenza e democrazia


Quando ogni cosa si muove non ha senso ancorarsi nei vecchi porti. Oggi alle spalle abbiamo la recessione più lunga della nostra vita che si mescola a un assalto ai principi di tolleranza e libertà. Dinanzi a questa scena la sinistra in Europa parla lingue diverse e mostra un ritardo di vocabolario e missione. Quando ogni cosa si muove non ha senso ancorarsi nei vecchi porti.

Oggi alle spalle abbiamo la recessione più lunga della nostra vita che si mescola a un assalto ai principi di tolleranza e libertà. Dinanzi a questa scena la sinistra in Europa parla lingue diverse e mostra un ritardo di vocabolario e missione. Per la nostra cultura la prova è mettere la persona di nuovo al centro dell’economia, rigenerare la democrazia in un tempo dove meno cittadini vanno al seggio perché convinti che chi decide sulla loro vita sta altrove. Ma sopra a tutto si impone la sfida a sconfiggere Daesh e insieme scardinare la doppia morale dell’Occidente, quella che difende i diritti umani solo quando non fanno a pugni coi nostri interessi. In Italia per riuscirci dobbiamo ricostruire ragioni e alleanze di un centrosinistra vincente. Dopo Parigi qualunque teoria sulla guerra di religione sembra spazzata via.

Come fuori dalla storia è chiunque coltivi l’odio verso l’Islam. Milioni di islamici studiano o lavorano qui. Abitano le nostre città. Da molti anni, secoli se guardiano ai Balcani, sono una parte di noi. Ciò che serve adesso è ciò che finora è mancato, una strategia dell’Europa e di una coalizione larga che nella lotta al terrorismo islamista coinvolga la maggioranza del mondo arabo e mobiliti le nostre comunità musulmane. Imputare all’Occidente le radici di questa guerra del terrore è un abbaglio. Altrettanto sbagliato è rimuovere gli errori che l’Occidente ha commesso, da ultimo sul terreno iracheno e libico. Oggi la premessa è dire contro chi e cosa ci battiamo. La risposta è lo Stato Islamico che punta a rafforzarsi in una terra a cavallo tra due stati falliti come la Siria e l’Iraq. La prima conseguenza per l’Europa è definire il quadro delle alleanze. Putin, Erdogan o Assad non sono e mai saranno modelli, ma neppure possono farsi a giorni alterni compagni di strada o avversari da abbattere. Questo vuol dire rivedere le sanzioni verso Mosca e operare in Siria per un fronte che escluda la conferma di quel regime ma senza privarsi delle forze che lo sostengono.

Quanto alla Libia, l’Italia deve dirsi pronta a fornire mezzi e risorse per la sua pacificazione, ma assieme a una guida politica e diplomatica autorevole e riconosciuta in primo luogo dagli attori di quel Paese. La prova, giorno dopo giorno, è alzare lo sguardo sul mondo, sui drammi di popoli privati della speranza. E’ la leva che ci ha smosso nell‘iniziativa parlamentare presa a settembre quando abbiamo chiesto al governo di farsi promotore di corridoi umanitari per chi fugge da guerra e persecuzioni. Lo abbiamo fatto perché a metà agosto l’immagine di Aylan ha turbato ogni coscienza, ma dopo quella tragedia altre ottanta creature hanno intrapreso lo stesso viaggio senza toccare mai la riva. La pace e la guerra, quindi, una volta di più sono il discrimine in grado di rilanciare l’integrazione dell’Europa. Di ridarle una vocazione, come fu a metà dell’ultimo secolo. L’altra chiave per capire il futuro del continente è nella risposta alla fine di un ciclo storico dell’economia che ha alimentato la crisi di questi anni. All’ultima nostra direzione, il premier ha parlato di un nuovo umanesimo. Il concetto è ambizioso almeno se pensiamo che quello classico ha battezzato l’era moderna. Anche per questo l’espressione non va banalizzata come negli anni è accaduto col termine riformismo. Cosa vuol dire? Che l’umanesimo civile non ha mai separato il mercato dai bisogni.

Esattamente ciò che l’ultimo capitalismo ha voluto fare riducendo l’etica a un profitto slegato dal destino dei singoli. E’ accaduto così che da vizio la diseguaglianza sia divenuta virtù si hanno questa potenza: cambiando la vita di milioni di persone cambiano il loro modo di pensare e spesso l’idea su chi li possa rappresentare. La realtà è che da un passaggio simile non si uscirà col mondo di prima ma immaginando altri diritti, doveri, capacità. Mettiamola così: questo è il tempo di un’economia ambiziosa. Serve uno Stato che riscopra cos’è una politica industriale fondata su traguardi da superare nei prossimi cinque e dieci anni. Bisogna che la politica – non i tecnici o le burocrazie, la politica – descriva l’Italia che sarà alla metà del nuovo secolo perché, bene o male, è lì che vivrà la generazione nuova. Per farlo va riscoperto il valore del lavoro. Serve un modello contrattuale e di rappresentanza in un mercato diverso dal passato ma dove diritti e dignità della persona restano principi irrinunciabili. Sono i temi che più hanno a che fare con l’avvenire della democrazia. Se è vero che il potere si è confinato in una aristocrazia della ricchezza altrettanto vero è che il fenomeno ha riguardato l’economia, la socialità, ma insieme partiti sempre più rinchiusi nel perimetro del privilegio. Partiti sterili e decadenti, incapaci di contatti con l’esterno, di generosità, di gratuità. Questa è esattamente la sfida che la sinistra ha davanti: rivendicare una società che si organizza, che non si riduce a somma di singoli. Le difficoltà di sindacati e forze politiche, le urne disertate ci parlano di questo. Di una comunità meno capace a organizzare le speranze in un conflitto regolato che è l’anima della democrazia. Si può anche dire in altro modo: isolare le persone, nel lavoro, nei consumi, nelle relazioni tra loro, sarebbe l’ultima vittoria della destra. E questo perché la sinistra senza popolo non vive, ma quel popolo adesso è in parte disperso e a ridargli speranza non basta il Pd com’è. Servono umiltà e il coraggio di rovesciare un tavolo dove anche noi ci siamo accomodati con qualche conforto. In questo la data delle prossime amministrative è una diga.

Come tutti, vedo ostacoli e divisioni, ma nelle città dove si vota si deve dedicare ogni risorsa a costruire un centrosinistra di governo. Da subito o nei ballottaggi perché sarà quella la condizione del successo nella sfida per il governo del Paese. Fuori dal Pd non ci sono i barbari ma forze con le quali è giusto confrontarsi e costruire alleanze sul merito. A quelle forze – prima tra tutte Sinistra Italiana – diciamo che i democratici non sono l’avversario ma la garanzia per vincere assieme. La condizione del Partito Democratico è figlia di tutto questo. Pensare che il calo degli iscritti e la chiusura dei circoli sia frutto di limiti locali è una fuga dalla responsabilità. Sta crollando un modello che ha retto per decenni e che le sole primarie non sanno più compensare. In assenza di una nuova ragione e forma della condivisione si torna a quel notabilato che ha preceduto l’avvento dei partiti e delle loro culture. È una regressione che ha due conseguenze. La prima è il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive, nel senso che un seggio al comune, alla regione o in Parlamento costa sempre di più perché è una delle ultime chance di mobilità sociale. La seconda è nel formarsi di filiere che al notabile si votano come a un signore. Siamo oltre il correntismo. Se guardo al partito di adesso vedo il prevalere di cordate tenute assieme dalla tutela di carriere protette. In questo c’è qualcosa di feudale ma soprattutto vi è la rinuncia all’autonomia di ciascuno. Se accade è logico che i luoghi del confronto perdano di senso perché non si risponde più a una passione collettiva, ma al controllo di tessere e consenso sotto il tallone di un capo. Pensare che durezza e complessità di questi problemi dipendano dal doppio incarico di segretario e premier può consolare ma non convince. Al congresso mi sono battuto per una distinzione di quei ruoli. Ha prevalso una linea diversa. Continuo a credere che sarebbe meglio ripensarci, ma davanti al quadro che vedo non mi pare ci si possa fermare a questo.

Io a Renzi chiedo di guardare negli occhi il rischio di una dissoluzione del partito. Qua non c’è qualche vite da stringere o allentare. Qua si tratta di ripensare l’edificio. Come lo abbiamo costruito, arredato, come lo stiamo organizzando, come formiamo e valutiamo una classe dirigente. Soprattutto si tratta di capire quale legame c’è tra le difficoltà del Pd e una crisi della democrazia che si manifesta fuori e oltre i confini di un singolo partito, per quanto grande come il nostro. È nell’insieme di questi temi la ragione di ciò che abbiamo detto e provato a fare negli ultimi mesi. La spinta a un ciclo di seminari per scavare le fondamenta di un nuovo pensiero sull’economia.

Il confronto con personalità diverse sul pontificato di Francesco. Sino a ragionare sull’impatto delle stragi di Parigi. Per questi motivi tutto ci serve meno una sinistra che si accomoda in attesa di tempi migliori. Questo è il nostro tempo e la sola cosa giusta è aggredirlo con un punto di vista autonomo. Lo stiamo facendo in un modo diverso da ieri, mescolando voci e percorsi di chi il Pd lo vive dall’interno. Provando a cogliere la quota di vero che c’è nelle ragioni degli altri e rigettando un omologarsi del dire e del pensare che porta a smarrire il valore di noi. In questo senso l’incontro di Roma il 12 dicembre è una tappa, tra le altre, che deve aiutarci a camminare nella direzione giusta. Ecco, questo a me pare il nodo vero. Come collochiamo il disegno del Partito Democratico dentro una nuova stagione dell’Italia e dell’Europa dove si intrecciano il mondo, la convivenza, il respiro della democrazia, e poi le forme della cittadinanza e della partecipazione in una sfera del pubblico. Vedo, leggo, richieste di un rimpasto nel governo o nei vertici del partito. Ma davvero pensiamo possa bastare un maquillage? Forse no. Forse dovremmo misurarci tutti con la portata del problema e uscire, per una volta, dalle nostre corazze. Con questo spirito al segretario mi permetto di avanzare una proposta. Convochi lui un congresso con un unico tema. Un congresso interamente dedicato al partito e alla risposta che dobbiamo alla crisi della democrazia. Penso a un congresso da tenere nei primi mesi dell’anno che non preveda la scelta di una nuova leadership rispettando per quella la scadenza del 2017.

Un appuntamento centrato sulle idee che ci sono mancate in questi anni e su una riscrittura radicale della missione che affidiamo alla nostra presenza organizzata nel Paese. Facciamo questa discussione con chi può aiutarci a scoprire gli anticorpi che servono a sconfiggere la malattia. Perché il Pd è un organismo malato. Non siamo alle prese con una crisi di crescita, ma con uno scadimento di stili e comportamenti e col ritorno talvolta prepotente di una mai sanata questione morale. Sento che da soli questo scoglio non possiamo superarlo. Non rinnoveremo il partito sollevandoci per i capelli come il barone di Munchausen. La crisi è penetrata in profondità e a noi serve il confronto con altri pezzi della società. Movimenti, associazioni, saperi sparsi. Dovremmo chiedere a chi ne sa di più cosa vuol dire attrezzare spazi e luoghi dove la politica si possa agire. Potremmo scoprire che la voglia di discutere, condividere, appassionarsi, è molto più forte di ogni retorica dell’antipolitica. Dovremmo bussare alle porte della cultura, alta o meno che sia, e dire “scusate il ritardo, ma avete un’idea su come ridare senso a chi esce di casa nel nome di una buona causa?”. Caro Segretario, auguri sinceri per la tua Leopolda. “Terra degli uomini” è il titolo che hai scelto. Il romanzo, se da lì hai preso spunto, fu scritto durante la convalescenza a cui fu costretto de Saint-Exupery dopo un incidente aereo sul deserto libico.

Ecco, fai conto che il Pd sia – e nei fatti lo è – il tuo e il nostro aeroplano. Ripariamolo bene – presto e bene – se domani vogliamo viaggiare sicuri in una terra che per fortuna, ieri come oggi e come sempre, è popolata di donne e uomini fatti di carne, ossa e passioni.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/quello-che-chiedo-alla-leopolda-di-renzi/
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 02, 2016, 05:14:49 pm »

Gianni Cuperlo, “Il PD non c’è più, è quasi estinto: un comitato elettorale per potenti”
Il leader della minoranza dem: “Serve subito un tagliando e un cambio di politiche e dirigenti”. Altrimenti, “siamo un corpo senz’anima”

Se non cambia, il PD è l’anticamera di un partito estinto”. Gianni Cuperlo lo ripete senza esitazioni. Di quel partito, o meglio della sua minoranza, è uno dei dirigenti più importanti. Misura la forma delle parole ma non rinuncia al peso dei contenuti: “In questo momento – dice – è utile anche essere impietosi. Non si tratta di remare contro, ma neppure si può nascondere la polvere sotto il tappeto”.

È più semplice essere impietosi con Renzi quando perde, non è vero?
Per la verità quello che avevo da dire gliel'ho detto anche quando aveva il 40%. Semmai questo rilievo va rivolto ad altri. Io avevo invitato a una riflessione già dopo le Regionali dell’anno passato. In Veneto avevamo perso il 68% dei voti delle europee, in Toscana avevamo lasciato 450 mila voti, in Campania 430 mila.

Poi sono arrivate le Comunali.
Colpisce la rapidità con cui è stata archiviata la qualità della sconfitta: nel voto c’è stata una reazione persino di rabbia di un pezzo del nostro elettorato. Hanno scelto di votare “contro” di noi. Contro il governo, il premier, il Pd.

Sul Fatto, Fabrizio Barca ha denunciato la deriva del Pd (criticando anche la minoranza). Viene premiata “la fedeltà” invece del merito e si dimentica la parola “lavoro”.
Non lo considero un attentato al gruppo dirigente, ma un grido d’allarme. Non possiamo nasconderci quello che il Pd è diventato oggi, a volte persino in modo patologico. Un partito che non c’è più: si è trasformato in un comitato elettorale permanente al servizio di potentati locali.

Un “partito estinto”, ha scritto sull’Unità.
Ezio Mauro ha usato una definizione ancora più severa: “Un corpo senz’anima”. Peraltro con luoghi dove anche il corpo è consunto. Nonostante un popolo generoso che resiste, è come se abdicassimo alla nostra funzione.

Quale?
Dire chi sei e con chi stai. Io non chiedo al Pd di contrastare l’azione del governo – nessuno è così sciocco – ma di sollecitarlo nelle scelte che compie. Non voglio alimentare la polemica sul fatto che il segretario sia anche premier, ma faccio un esempio pratico: il veto di Ncd sul reato di tortura. Se avessimo avuto un partito con una guida autonoma, avremmo potuto incalzare il governo e aiutare il premier a superare quel veto, che è inaccettabile. Guardi che non lo dico con l’atteggiamento di chi vuole colpire il Pd. Non abbiamo sbagliato una campagna elettorale, ma il racconto del Paese.

Qual è stato il racconto del Paese di Renzi?
Non puoi dire che la crisi è alle spalle o che il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi anni. La Cgil ha raccolto 3 milioni di firme su tre referendum: è la prima volta nella sua storia. Quando spieghi che per i lavoratori Marchionne ha fatto più di tutti i sindacati, ti metti in urto con la parte del Paese che dovresti rappresentare.

La politica economica renziana ha fallito?
È stata troppo in continuità con quelle di Monti e Letta. Certe idee potevano valere 10 o 15 anni fa. Non si può pensare di “rieditare” le opere di Blair o Bill Clinton. Persino Hillary ha proposto politiche espansive, il salario orario minimo a 15 dollari, un piano di infrastrutture per creare lavoro che non ha eguali dai tempi di Eisenhower. Non pretendo una rivoluzione, ma la sinistra le sue ricette deve ripensarle con un coraggio che finora è mancato. Al netto di cose buone che riconosco, come sui migranti o nel contrasto alla povertà.

Lei e la minoranza sembrate come quei calciatori che giocano contro il proprio allenatore per farlo esonerare. Certe scelte i tifosi non le perdonano.
Non ho mai fatto il tifo contro la mia squadra. Mai. Ho sempre discusso e portato le mie proposte per migliorare. In campagna elettorale sono andato a chiedere il voto per il Pd sempre e ovunque: per Fassino, Sala, Cosolini, Giachetti. Persino a Sesto Fiorentino, dove è caduta la nostra giunta e il Pd ha espulso 8 consiglieri, tutti della minoranza. Solo a Napoli non sono andato: una coalizione con Verdini non c’entra nulla con la sinistra.

Ribalto la metafora: fino a quando resterete in una squadra con un allenatore che fa giocare così male? Che ci fate dentro al Pd?
Si resta nel proprio campo perché si crede che possa cambiare. Per vincere, il Pd deve essere il perno del centrosinistra, come a Milano, Bologna e Cagliari. Restando sulla metafora del pallone: dovremmo praticare più calcio totale, come l’Olanda del ‘74. Senza ruoli fissi: tutti devono correre come pazzi e coprire la porzione di campo lasciata scoperta dal compagno. Se abbiamo un vuoto sull’ala sinistra, dobbiamo colmarlo, prima che lo occupi qualcun altro.

Se Renzi vince il referendum però va avanti da solo.
Non ignoro le ragioni del Sì. Sarebbe un problema se fallisse l’ennesimo tentativo di superare il bicameralismo perfetto. E sarebbe una ferita squassare il primo partito d’Italia. Ma vedo anche tutte le ragioni di merito che spingono a votare No. Non c’è stato alcuno spirito costituente e tanti aspetti della riforma non funzionano: il Senato ibrido, i nuovi procedimenti legislativi, la caricatura sul “governo che deve essere messo nelle condizioni di governare”.

Quindi cosa farà?
Bisogna dire ora come si eleggeranno i senatori. Impegnarsi per togliere l’immunità. Spiegare come si possono accorpare le Regioni. E soprattutto cambiare l’Italicum perché la combinazione con la riforma costituzionale non funziona. Assuma il premier un’iniziativa e non usi il Parlamento come alibi. Tocca al Pd riaprire il confronto anche con le opposizioni. E poi a me interessa una svolta, un tagliando: un cambio di politiche e classi dirigenti. Ma serve ora, non a novembre.

Il 26 luglio 1981 Berlinguer rilasciava l’intervista sulla “questione morale”. Oggi Eugenio Scalfari – l’intervistatore – scrive che “non esiste più la diversità della sinistra”. Concorda?
Penso che sia un dato di fatto. Ho riletto l’intervista: la denuncia di Berlinguer aveva un tratto di lucidità veramente impressionante. Oggi nessuno può permettersi di parlare di una diversità “antropologica” della sinistra sul piano dell’etica pubblica. Quante volte abbiamo sentito evocare, anche tra noi, le formule “La magistratura faccia il suo corso”, “non ci sono questioni penalmente rilevanti”? L’etica pubblica non si esaurisce con il codice penale.

Cosa ha sbagliato nel 2013, quando perse con Renzi?
Penso che avremmo dovuto essere più esigenti e radicali. E che la sinistra tutta avrebbe dovuto coltivare l’unità.

La sua candidatura fu “prestata” a un appartato politico ritenuto fallimentare, o così è stata percepita.
In parte fu così e si trattava di un giudizio che nasceva da limiti e errori veri, ma che aveva anche qualcosa di ingeneroso.

Avrebbe dovuto “rottamare” anche lei?
Non è il mio linguaggio, né per le persone né per la storia. Ma in quel momento quell’idea penetrava anche in un pezzo ampio del nostro mondo.

Anche oggi molti antirenziani sono ritenuti “vecchi”.
Non mi addormento la sera pensando a Renzi, ma a come ricostruire una nuova sinistra, dentro e fuori il Pd.
Lei su Facebook è come Gianni Morandi… risponde con gentilezza a tutti, anche a chi la insulta. Nella stagione dei Trump e dei Salvini, crede che la mitezza paghi?

Costa fatica, ma è efficace. Rispondo pure ai commenti più aggressivi, ma se lo fai in modo civile anche il tuo interlocutore cambia registro. Abbiamo una responsabilità: ricostruire il linguaggio di un dibattito pubblico che possa aiutare in un tempo complicato.

Di Tommaso Rodano | 1 agosto 2016

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Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/il-pd-non-ce-piu-e-quasi-estinto-un-comitato-elettorale-per-potenti/
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 13, 2016, 10:53:54 pm »

Cuperlo: “La sinistra Pd non ha un leader, va cercato fuori dal partito”
“Abbiamo detto cose giuste ma non siamo riusciti ad allargare il campo. La Berlinguer potrebbe diventarlo”

14/08/2016
Riccardo Barenghi
ROMA

Non gli sono piaciuti affatto gli ultimi discorsi di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi, pensa che andando avanti con questi toni e questi contenuti, non si va da nessuna parte e alla fine «ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità». Aggiunge però che la sua corrente, la minoranza del Pd, «deve riflettere sul fatto che malgrado avessimo detto cose giuste non siamo ancora stati capaci di allargare il campo e trovare nuove leadership. La questione del “Papa straniero”, o della Papessa visto che si parla di Bianca Berlinguer, che ha una popolarità che parla a un mondo molto più ampio della sinistra Pd, ci dice che noi dobbiamo ancora fare i conti con noi stessi». Ma prima, Gianni Cuperlo vuole fare una premessa, prego. 

«Vorrei solo segnalare lo scarto che esiste tra i toni di queste ore e i drammi dell’estate: i migranti, l’emergenza di Milano, i bombardamenti in Libia, l’intesa tra Putin e Erdogan. Ci accapigliamo su vicende che non risolveranno i mali del mondo mentre trascuriamo problemi che meriterebbero ben altra attenzione». 

Purtroppo però dobbiamo tornare al nostro cortile, il referendum, la ministra Boschi, il premier Renzi. 
«Ecco, io mi auguravo una correzione di rotta ma purtroppo non l’ho notato. se una persona qualsiasi avesse detto che chi vota No non rispetta il Parlamento sarebbe stata una dichiarazione sbagliata e poi grave. Ma se lo dice la ministra delle riforme, allora è prima grave e poi sbagliata».

E Renzi invece, in fondo ha fatto un’autocritica. 
«L’ho notata ovviamente. Ma subito dopo è tornato quello dei toni divisivi mentre un leader della sinistra deve saper unire il suo campo e il suo partito. Che poi era il motivo per cui gli dissi che non ha la struttura del leader anche se a volte coltiva l’arroganza del capo».

Però ha annunciato un importante provvedimento contro la povertà. 
«Non scherziamo sul dramma di tanti. Promettere che 500 milioni di risparmi sul Senato andranno a contrastare la povertà significa solo spingere sul pedale della propaganda. Ricordo a Renzi che per far uscire il 91 per cento delle famiglie dalla soglia di povertà servono 7 miliardi: e lui che è a palazzo Chigi da più di due anni ha stanziato 600 milioni per quest’anno, il che è un bene ma ha anche preferito tagliare l’Imu a tutti. Risorse che avrebbero sì fatto la differenza. Fare uno spot è facile ma il potere, quello che consente di fare, ce l’ha lui». 

E adesso, nei prossimi mesi, cosa dovrebbe fare il premier? 
«Non trasformare il referendum in una traversata del Mar Rosso, discutere senza pregiudizi sulle riforme, aprire un confronto sulle politiche del governo, fare pulizia interna al Pd e mettere mano alla classe dirigente, del partito e del governo. Se si muove in questa direzione esiste la possibilità di giocare una partita comune. Assuma lui l’iniziativa di un patto alla luce del sole con tutto il suo partito».

E se invece continua sulla sua strada, voi della minoranza non pensate che dovreste avere il coraggio di schierarvi per il No al referendum senza aspettare le mosse del premier? 
«Io non voglio la rottura, vorrei che da parte del nostro segretario ci fosse disponibilità ad ascoltarci. Al momento non la vedo ma aspetto ancora un atto politico di Renzi».

E se quest’atto non arriva? 
«Allora ognuno si assumerà le proprie responsabilità».

A proposito di responsabilità, possibile che voi della sinistra non abbiate ancora trovato un leader? Sarà Bianca Berlinguer la vostra Papessa straniera? 
«Lei è una donna che gode di una popolarità e di una forza che parlano a un mondo ampio della sinistra, più ampio della nostra parte. L’ultima vicenda tra l’altro le ha consegnato un ruolo che forse lei neanche cercava o voleva. Ma al di là di Bianca, se si evoca la possibilità di un Papa straniero significa che noi abbiamo un problema di autorevolezza che dovrebbe farci seriamente riflettere. Come mai siamo ancora sospesi tra la classe dirigente rottamata da Renzi e il vuoto di personalità nuove? Non siamo stati troppo disobbedienti ma semmai poco eretici. E questo ha impedito a nuovi leader di imporsi: Renzi la sua svolta l’ha fatta, noi ancora no. Chiunque si candiderà dovrà allargare il nostro campo. E questa discussione sul Papa o sulla Papessa stranieri ci dice anche qualcosa sui peccati che non abbiamo avuto il coraggio di compiere». 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/14/italia/politica/la-sinistra-pd-non-ha-un-leader-va-cercato-fuori-dal-partito-etC2etkoKpSnih87BtuAiO/pagina.html
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 25, 2016, 05:43:18 pm »

Interviste
Sergio Staino   

@SergioStaino
· 22 ottobre 2016

Cuperlo: “Mi impegnerò fino in fondo, ma ognuno nega le ragioni dell’altro”

Il deputato Pd al direttore dell’Unità: “Ho chiesto io di far parte della commissione per la modifica della legge elettorale. Il partito? Renzi ha la maggiore responsabilità. Sento toni sbagliati anche da chi polemizza con lui. Un errore alimentare incendi”

Caro Gianni, ti confesso che quando ho letto l’intervista a Bersani e, ancor più, quella a Fornaro, mi sei subito venuto in mente. Sbaglio o è un passaggio che segnala un salto di qualità in questo scontro tra la sinistra Dem e il nostro segretario? In pratica una specie di sconfessione verso la tua partecipazione alla commissione di studio sulla legge elettorale. O no?
«Capisco perché lo dici ma spero di no, e non per me ma perché quel tentativo lo abbiamo condiviso. Però c’èqualcosa che travalica la cronaca di giornata, i titoli di giornale o le singole battute. Sai cosa mi impressiona di più in questo passaggio? Il clima, il linguaggio, la totale incomunicabilità che cogli nella negazione delle ragioni dell’altro, anche quando le ritieni sbagliate. E credimi, non ne faccio una questione di garbo o bon ton. Credo sia oggi tra le questioni di sostanza perché incide la carne e lascia tracce, cicatrici, che solo un tempo lungo può rimarginare».

Sì, capisco molto bene quello che dici, anche perché molti di noi, diciamo un po’ quelli come te e me che hanno dentro sé una strana vocazione a fare il pompiere, ne buscano spesso dalle due parti. Qualcuno però potrebbe dire che è giusto e che in fondo non è la prima volta che questi scontri così forti avvengono nel nostro Partito, no? Intendo partito come arco completo, dal PCI ai DS.
«Guarda, l’altra sera ho discusso con Occhetto del suo ultimo libro e Achille ha descritto la difficoltà politica degli ultimi due anni di vita di Berlinguer. Ha ricordato la durezza dello scontro dentro una direzione che nei fatti aveva messo il segretario – parlo di “quel” segretario – in minoranza. Tu mi dirai, altri tempi e hai ragione. Ma quella durezza, quelle differenze di giudizio e persino di strategia non impedirono a un gruppo di personalità di affrontare una stagione che non era meno complicata di oggi. Perché alla fine una classe dirigente è questo, è cultura, rispetto. Anche scontro aspro, ma non puoi spingere quello scontro sino a denigrare il tuo interlocutore perché facendolo finisci col denigrare un po’ anche te stesso».

A parziale attenuante di chi nella sinistra Dem utilizza certe considerazioni per me, ti confesso, oltre che sbagliate incomprensibili, c’è anche l’atteggiamento non sempre persuasivo del Segretario. Al contrario, in certi momenti sembra che cerchi lui stesso lo scontro per lo scontro…
«Penso da sempre che chi è alla testa abbia le responsabilità più grandi. Se stai al timone devi farti carico di quelli che sono a bordo e se lavori per buttarne a mare una parte non sei un buon comandante. Renzi è una personalità forte. Ha scalato il potere con un intuito e una velocità che hanno stupito. Ha risorse che nessuno può negare ma oggi si dimentica che è soprattutto a capo di una comunità più ampia della Leopolda. Avrebbe la responsabilità di indicare la rotta per il dopo e sa che per tanti di noi quella rotta non può che fondarsi su un centrosinistra di governo, ancorato ai principi che questa forza hanno fatto nascere. L’alternativa non è quel partito della Nazione che le urne hanno già sconfessato. Al punto in cui siamo l’alternativa è una frattura sull’identità del Pd perché se l’approdo fosse un partito piazzato al centro che attrae pezzi della destra promettendo di relegare la sinistra in cantina verrebbe meno la nostra ragion d’essere».

Sì, questo è un sospetto sufficientemente motivato. C’è da dire però, per mettere tutta la carne al fuoco, che altrettanto spesso Renzi mostra un entusiasmo e una simpatia verso la sinistra che sono quasi commoventi ma che contrastano fortemente con altre uscite. Insomma, colpi bassi ci sono da una parte e dall’altra ma queste dichiarazioni di due esponenti importanti della sinistra Dem mi sembra vadano un po’ oltre, no?
«Certo che ascolto toni e parole sbagliate anche da alcuni che con le scelte di Renzi polemizzano. Ma vedi, penso che contino molto i luoghi e i momenti. Io la mia sfida al congresso l’ho persa e l’ho riconosciuto un istante dopo. Le correnti che mi avevano sostenuto si sono riprese la propria autonomia e noi siamo ripartiti daccapo, senza potere né ruoli. Con la sola forza di qualche idea e la passione di volerla difendere. Mutuando Flaiano potrei dirti che la mia riconoscenza per quelli con i quali ho condiviso questi anni è infinita perché hanno scelto di salire sul carro di chi non aveva vinto e in quella scelta avevano qualcosa da rimetterci. Poi, è capitato anche a me di criticare il premier. L’ho fatto dalla tribuna della direzione, con quello streaming che mi sarei volentieri risparmiato perché un gruppo dirigente deve anche poter discutere in libertà senza pensare che si parla prima di tutto a telecamere e giornalisti».

Sembra quasi un rammarico nostalgico verso le riunioni del comitato centrale a porte chiuse. Ricordo che tra Napolitano e Ingrao all’epoca c’erano sicuramente differenze più grandi di quelle che possono esserci tra te e Renzi eppure, fuori da quelle stanze, ben pochi ne erano a conoscenza. Comunque il fatto della diretta in streaming non mi sembra ti abbia condizionato più di tanto…
«In quelle direzioni forse ho mosso a Renzi le critiche più dirette. Ho parlato in modo schietto della sua autorevolezza, ho criticato alcune scelte a partire dal jobs act, dalla buona scuola o dalla mancata scossa all’economia e di un tagliando per una classe dirigente che in troppi casi non si è mostrata all’altezza. E qualche dato oggi conferma quelle preoccupazioni e ragioni. Se lo avessi davanti adesso gli direi che sono sbagliate le sue accuse a Visco, fosse solo perché da lui sono venute le migliori proposte che questo governo ha realizzato per un recupero serio di gettito. Ma con la stessa sincerità ho apprezzato altre cose. Il coraggio sulle unioni civili, sul dopo di noi, la legge sullo spreco alimentare e la coerenza su diritti umani e migranti o la voce forte con l’Europa sulla crescita. Ma anche per questo ti dico che se ci fosse stata maggiore capacità di ascoltare le critiche forse avremmo conservato una quota del consenso che abbiamo perduto tra gli insegnanti, i precari, o quei lavoratori iscritti alla Cgil ai quali, se guidi la sinistra, non puoi dire che Marchionne ha fatto per loro più di tutti i sindacati messi assieme. Perché se lo dici li perdi. E se vuole vincere, questo la sinistra non se lo può permettere».

Sì, non posso che essere d’accordo, sono affermazioni propagandistiche nei confronti della destra ma alla fine inutili alla nostra crescita. Non pensi però che siano anche motivate da un atteggiamento troppo pregiudiziale della CGIL e di tutti quegli organismi che una volta chiamavamo “di massa”? Capisco lo sconforto della CGIL sugli apprezzamenti verso Marchionne ma anche loro si muovono su un terreno politico come se invece di un organismo unitario fossero un partito politico. Non trovi?
«Credo che il sindacato abbia ben chiaro il tema del suo rinnovamento che dipende in gran parte da come è cambiato il lavoro, il suo ruolo sociale, la stessa centralità che ha avuto nella vita delle persone. La sfida per la Cgil non è farsi meno sindacato e più partito ma capire cosa vuol dire essere sindacato in un mondo segnato da una svalutazione del lavoro. Però, vedi, il compito della sinistra politica dovrebbe essere sempre quello di mediare tra interessi diversi e non per evitare le scelte ma per coinvolgere la parte migliore del paese nelle riforme. Trentin firma l’accordo sulla politica dei redditi e si dimette, ma a parte che viene confermato a gran voce quella è la prova che se coinvolgi le grandi organizzazioni sociali nelle responsabilità ne trae beneficio anche il governo. E d’altra parte l’Italia è cresciuta di più quando a guidarla sono state forze e figure depositarie di questa cultura, da Giolitti al primo centrosinistra fino a Ciampi e all’Ulivo di Prodi. Siamo cresciuti meno e peggio con Crispi, la destra reazionaria o Berlusconi. Qualcosa la storia dovrà pur insegnare, soprattutto in una stagione come questa segnata da una ripresa che stenta e da una povertà che per la prima volta da moltissimi anni colpisce soprattutto i più giovani. Ma quelle tabelle della Caritas che ce lo spiegano non sono statistiche: sono una condanna morale a cui la sinistra deve ribellarsi».

Comunque, tornando alle polemiche sulla tua presenza dentro questa commissione, è evidente che ti fanno molte critiche per aver accettato di partecipare…
«Vedi, io non ho accettato di entrare in quella commissione. Ti confesso che ho chiesto io di entrarci perché credo giusto farmi carico di una necessità che non è strappare un premio di consolazione per le minoranze. Non possiamo ridurre tutto a caricatura. Io penso che un accordo alto su una nuova legge elettorale serva a non ridurre la rappresentanza del Paese e gli spazi di partecipazione. Quel comitato è un tentativo in questo senso e io mi impegno fino in fondo e con lealtà perché abbiamo il dovere di rispondere a una convinzione diffusa tra tanti che voteranno Sì come tra molti che hanno scelto il No. E la convinzione è che per tutti esiste il giorno dopo e avendo una sola camera a votare la fiducia ma rimanendo in capo al Senato competenze rilevanti serve una legittimazione diretta e forte di deputati e senatori. È di questo che voglio farmi carico. Trovare regole più condivise per rafforzare un tassello della nostra democrazia. Poi è evidente che per riuscirci serve una volontà politica che deve venire in primo luogo da chi guida il Paese e oggi è anche segretario del Pd».

Trovare regole più condivise mi sembra un obbiettivo saggio e condivisibile però a volte si ha l’impressione che la sinistra meni un po’ il can per l’aia. Che lo faccia Renzi siamo un po’ abituati ma che lo facciano persone come Bersani o Migliavacca mi colpisce molto. Sono sempre stati dei sani compagni con i piedi per terra e con tanto buon pragmatismo. Adesso invece mi sembri solo tu tra loro a credere a una possibilità di accorciare le distanze.
«Lasciamo da parte i nomi. Il punto per me è che quando dico “riduciamo le distanze” non penso al ceto politico. Stiamo parlando della Carta fondamentale, della bibbia laica della Repubblica. Lo ha scritto bene Reichlin giorni fa sul tuo giornale, il pericolo è che la Costituzione non sia più percepita come la “casa” di tutti, ma questo sì sarebbe uno sbrego storico. Poi certo voglio accorciare le distanze nel Pd e chiedo tempi brevi anche per rispetto dei nostri elettori».

Ma questo tuo lavoro non credo che sia fatto pensando solo alla riforma Boschi e al cosiddetto combinato con l’Italicum, ha ambizioni più larghe che riguardano il partito.
«Penso che questa strada possa ridurre le differenze anche nel centro sinistra. Per me è inaccettabile, te l’ho detto, andare al voto con la maggioranza attuale. Voglio tornare a un centrosinistra e un centrodestra alternativi. In questo Milano è un modello vincente per la città e in generale per la politica».

E le divisioni?
«Intendi le divisioni nella sinistra interna? Io sto a quello che ognuno di noi ha sostenuto perché poi in politica conta questo. Certo, posso provare una punta di amarezza nel vedere che mentre si sta cercando di percorrere un sentiero strettissimo c’è chi – per – ché convinto del Sì o del No – alimenta il fuoco anziché spegnerlo. Ma capisco tutto anche se poi, alla fine, ciascuno di noi in coscienza è chiamato a rispondere delle sue convinzioni. E io sono convinto che una lacerazione ancora più grande dentro la sinistra e dentro il Pd rischia di compromettere seriamente le prospettive del domani».

Però ti rendi conto che ci sono alcune personalità che si muovono come se la divisione fosse già compiuta? E non mi riferisco al solo D’Alema.
«Ma vedi per uno che ha la mia formazione, la scelta di tante personalità di valore, da Onida a Smuraglia, la posizione della CGIL, dell’ANPI, di tanti nostri elettori mi mette di fronte a domande serie e a una divisione che si è già consumata. Penso che non si è fatto quel che sarebbe stato giusto fare per evitarla. Ma insisto, anche se tutto sembra spingere nella direzione opposta, questo dovrebbe essere il momento in cui un gruppo dirigente fa una scelta e un investimento. Leggo che alcuni non credono agli impegni sulla carta a cambiare la legge. Io voglio credere che se un impegno venisse preso, poi quella volontà verrebbe rispettata. Se non credessi più alla lealtà tra noi me ne andrei altrove».

Che bella cosa che hai detto. La lealtà e la sincerità tra compagni è una cosa imprescindibile dall’essere di sinistra. Però c’è molto da riguadagnare anche su questo terreno.
«Se provo a farmi carico del problema è perché chiunque vinca, il giorno dopo quei nodi se li troverà sul tavolo a partire da un Paese lacerato e da regole meno condivise. Anche per questo avrei preferito un referendum su più quesiti che aiutassero i cittadini a comprendere veramente il merito. La mia critica alla riforma è che non si è avuto il coraggio che serviva. È mancato l’ascolto quando abbiamo proposto il modello più simile al Bundesrat tedesco o quando abbiamo chiesto di prevedere nel nuovo Senato i governatori delle Regioni. Certo che in tutta questa vicenda 5Stelle e la destra hanno colpe enormi ma quell’Aula mezza vuota che vota la Costituzione per me rimane una ferita».

Sì, però poi l’avete votata, a me è sembrato un atteggiamento giusto: nel partito abbiamo sempre agito secondo quel che è stato deciso a maggioranza.
«Lascia che te lo dica così, non vorrei che il racconto della riforma si rivelasse peggiore del suo contenuto. Te lo dico perché trovo sbagliato che si motivi la revisione di un terzo della Costituzione col problema dei costi o imputando alla navetta le colpe per ritardi cumulati negli anni perché è come dire che hai perso la partita per colpa del pallone. Vedi Sergio, quel manifesto del PD che invita a votare “Sì” per tagliare i politici forse farà guadagnare qualche voto ma al prezzo di un’offesa a decenni di cultura politica e costituzionale della sinistra. Se l’Italia soffre questa crisi più degli altri è a causa di uno Stato lesionato e di politiche che hanno bloccato lo sviluppo tutelando rendite e interessi di pochi. Ma ricchezza privata e miseria pubblica non fanno una nazione più forte. Casomai è vero l’opposto ».

Posso dirti da compagno, non da intervistatore, che hai perfettamente ragione? Quel manifesto è una cosa “orribile”. Rincorrere i grillini sul loro sporco terreno è quanto di più nefasto si possa fare.
«La realtà è che siamo davanti a una crisi profonda delle democrazie. Con urne sempre più deserte perché milioni di persone hanno perso fiducia nella loro sovranità, il che è all’origine della rivolta popolare contro il potere nelle sue espressioni più diverse. Se non vediamo questo non capiamo Trump e neppure i muri che tornano a rialzarsi nel cuore dell’Europa. Allora è giusto porsi il tema della stabilità e della forza di chi governa, ma dico attenzione perché il rischio è darsi regole che alimentano governi numericamente forti ma politicamente fragili perché senza un consenso ampio nella società. Dovrebbe essere questo il cruccio che non ci fa dormire la notte e la radice di un pensiero nuovo e persino eretico della sinistra».

 
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SEGUE A PAGAMENTO (sull'unità non qui).

DA - http://www.unita.tv/interviste/cuperlo-staino-pd-referendum-intervista/
« Ultima modifica: Gennaio 29, 2017, 08:54:18 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 19, 2016, 04:08:24 pm »

Assemblea Pd, Cuperlo: "Per il partito serve un'altra guida"
Le tante voci all'assemblea del Pd dopo la relazione del segretario Renzi.
"Legge elettorale? Sì al Mattarellum, il partito lo condivida" dice Franceschini, "non dobbiamo rassegnarci al proporzionale puro che potrebbe uscire dalle sentenze della Corte costituzionale"

18 dicembre 2016

"Credo che la proposta del Mattarellum deve essere condivisa dal partito, che dovremo provarci. Non sarà facile convincere gli interlocutori ma se non li convincessimo non dobbiamo rassegnarci al proporzionale puro che potrebbe uscire dalle sentenze della Corte costituzionale". Lo ha detto Dario Franceschini dopo il discorso del segretario Renzi all'assemblea nazionale Pd.

 "Attraverso lo strumento della legge elettorale dobbiamo evitare che la destra italiana si ricompatti sotto le bandiere del populismo di Salvini o Meloni, ma che resti in quello spazio del post Berlusconi, uno spazio per una destra moderata, europea, che un giorno se i numeri lo costringeranno potrebbe vedere il proprio destino incrociato con il nostro", ha aggiunto il ministro per i Beni e le Attività culturali.

"Ripartiamo dal Mattarellum", lo dice anche Graziano Delrio, ministro riconfermato, che rassicura la platea, "dopo il 4 dicembre siamo ancora in cammino". E cita Pasolini: "Penso sia necessario educare le nuove generazioni al volere delle sconfitte". 

Assemblea Pd, Cuperlo: "Per il partito serve un'altra guida"
Lo caldeggia pure Roberto Speranza, anzi ne rivendica una paternità: "Ho presentato a luglio la proposta sul Mattarellum ora sono contento che possa diventare la posizione di tutto il Pd", analizza a margine dell'assemblea nazionale del Pd l'ex capogruppo alla Camera, che guida l'area di minoranza Pd e che ieri ha annunciato di candidarsi alla segreteria del partito. La minoranza Dem ha elaborato una proposta di Mattarellum modificato, ribattezzata "Mattarellum 2.0".  Analizzando la sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale, ha aggiunto: "Abbiamo perso sulla questione sociale" un tema "che non si può sottovalutare. Quando si aprirà un tavolo con insegnanti e studenti per cambiare la buona scuola? Quando cambiamo sui voucher?".

Gianni Cuperlo non si sofferma alla legge elettorale, va dritto a un altro punto. "Esprimo solidarietà umana a Matteo Renzi ma con la stessa sincerità sento il bisogno di un'alternativa alla guida del partito". E argomenta: "La condizione del paese è grave, al netto delle cose buone fatte dal governo Renzi e che è giusto rivendicare. E' la condizione più grave del paese da molto tempo, a cominciare da Roma dove l'unica autorità morale rimasta è Oltretevere". Per Cuperlo è ora "rimettersi in asse con quel popolo" che fuori dai palazzi "è deluso" se non "furioso e sofferente", e richiama tutti a "una riscossa" con un "congresso al più presto e comunque prima delle elezioni politiche, per rimetterci in asse e in sintonia con l'Italia. Un congresso che stupisca e per accendere il neon del paese. Non è molto ma vi assicuro che è tutto qui. Abbiamo bisogno di discutere come non abbiamo mai fatto da quando il Pd è nato".

© Riproduzione riservata
18 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/18/news/assemblea_pd_franceschini_legge_elettorale_si_al_mattarellum_il_partito_lo_condivida_-154368457/?ref=HREA-1
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 29, 2017, 08:53:29 pm »


Cuperlo: “Non si può votare senza legge condivisa Per il Pd un leader unitario”
“E una riforma elettorale che eviti le larghe intese”
È deputato del Partito democratico dal 2006, e membro della Direzione nazionale del partito

Pubblicato il 27/01/2017 - Ultima modifica il 27/01/2017 alle ore 01:30

Carlo Bertini
Roma

Gianni Cuperlo, faccia una previsione, quando si voterà secondo lei? 
«Conta il quando, ma di più il come. Serve una legge elettorale condivisa e capace di combinare rappresentanza, governo e un nuovo legame tra territori ed eletti».

Il Pd subirà una scissione di chi teme di non essere ricandidato? 
«Il Pd ha già subito la scissione di una parte dei nostri elettori. Giovani e Mezzogiorno sono ferite aperte. Ignorare che quella è la questione ricorda la storia del dito e della luna».

Che legge elettorale potrebbe uscire da questo parlamento dopo la sentenza? Nessuna, come pensano in molti? 
«No, penso che una buona legge si possa fare. Un impianto proporzionale con collegi uninominali e un premio fisso di incentivo alla governabilità. Troverei una rinuncia della politica farsi dettare le regole da una sentenza, che è giusto rispettare, ma che rischia di consegnare a lungo l’Italia alle larghe intese».

Contento che si torni alle coalizioni e alleanze abbandonando il progetto di un Pd a vocazione maggioritaria? 
«Abbiamo una priorità, costruire un nuovo centrosinistra. È la sola via per allargare il campo e ricucire con pezzi di società che dopo il jobs act o la buona scuola ci hanno girato le spalle. Pensare che il Pd basti a sé stesso è un errore grave. Immaginare un centrosinistra senza il Pd è un’illusione. Tra l’errore e l’illusione c’è lo spazio nel Pd per quella nuova sinistra sociale e culturale che, assieme ad altri, è il mio primo impegno». 

Nel Pd tanti dirigenti frenano sul voto anticipato anche perché temono una corsa verso il baratro per consegnare il paese a Grillo. Anche lei? 
Il baratro per me sono gli 11 punti di Pil che la crisi ci ha portato via. I 5 milioni di italiani sotto la soglia di povertà. I 2 milioni di famiglie che non ce la fanno. Le regioni ferite dal terremoto. Ho rispetto per Grillo, semplicemente non credo sia la soluzione per i problemi drammatici di un’economia imballata e una società impaurita». 

Un progetto per il paese e un progetto per il partito sono i due requisiti per poter affrontare una campagna elettorale. Li avete entrambi? 
«Le due cose si tengono. Senza un partito radicato anche le buone idee faticano e rischi quel riformismo dall’alto che molti guasti ha prodotto. Al paese dobbiamo dire poche cose: che al centro mettiamo la lotta a diseguaglianze indecenti, che investiremo su scuola e formazione come mai è stato fatto, che si deve ridurre il costo del lavoro e che far pagare di più chi ha di più non è una bestemmia ma una forma di giustizia». 

Crede che per il Pd vi sia un altro leader più in grado di farvi vincere? 
«Serve un leader, ma un leader da solo non basta, perché si è chiusa la stagione che ha puntato a dividere il nostro campo e la società. Adesso serve una guida solida, competente, soprattutto capace di unire, Nord e Sud, le generazioni, chi ha bisogno e chi merito. Non usciremo dalla crisi peggiore della nostra storia senza riscoprire il senso dello stare assieme, qui e in Europa».

In altre parole meglio fare prima il congresso e poi le elezioni? Lei chi sosterrà al congresso? 
«Sono tra i pochi ad aver chiesto il congresso perché trovo assurda la rimozione della sconfitta al referendum. Quella bocciatura ha liquidato una riforma, una stagione, una classe dirigente. Purtroppo si è scelto di rinviare una svolta necessaria. Nonostante ciò vedo aumentare le candidature in campo. Ho rispetto per tutti, è solo che mi piacerebbe vedere il campo. A Roma il 4 febbraio discuteremo anche di tutto questo».

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