Arlecchino
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« inserito:: Novembre 23, 2016, 07:53:17 pm » |
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Il postumano.
La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte A colloquio con la filosofa Rosi Braidotti, ospite d’onore del ventiseiesimo Congresso annuale degli studi d’italianistica che si apre domani a Zurigo. Di Sibilla Destefani
Il ventiseiesimo Congresso annuale dell’Associazione americana degli studi di Italianistica per la prima volta nella sua storia avrà luogo in Svizzera. L’intervento della filosofa femminista Rosi Braidotti – già direttrice del Centre for the Humanities dell’università di Utrecht – s’intitola Paradossi postumani e si terrà sabato 24 maggio alle 17:30 nell’aula magna dell’Università di Zurigo.
Viviamo in un’epoca di grandi contraddizioni, marcata da una recrudescenza della violenza, in particolare sulle donne e sui civili, ma anche perpetrata dai più giovani contro i più giovani: le stragi di massa nelle scuole americane, ma recentemente anche in numerosi paesi europei, sono tristemente entrate a far parte dell’attualità quotidiana. Allo stesso tempo, il nostro è un secolo di grandissimo progresso tecnologico, sia dal punto di vista civile che militare: possiamo clonare le pecore e fecondare artificialmente un essere umano, e allo stesso tempo un ragazzo di Las Vegas può far decollare un drone da una base militare situata in Sicilia e lanciarlo contro il fuoristrada su cui si sta consumando l’ultima fuga di Muammar Gaddafi. Contraddizioni, tensioni, ansie e conflitti che non mancano di caratterizzare la quotidianità di un Occidente in crisi identitaria, economica e morale che sembra aver perduto, insieme con i privilegi di prima potenza mondiale, anche un po’ di lucidità. L’ultimo libro della filosofa italo-australiana Rosi Braidotti a tale crisi generalizzata dà il nome di Postumano. Un termine che ritroveremo anche nel suo intervento di sabato a Zurigo.
Rosi Braidotti, cominciamo proprio dal titolo del suo libro, che non manca di suscitare interrogativi e perplessità: che cos’è il postumano? Il postumano non è un concetto filosofico: si tratta piuttosto di uno strumento di lavoro per cercare di comprendere le conseguenze delle mutazioni in atto sia in campo scientifico (con la rivoluzione bio-tecnologica che segna il passaggio al nuovo secolo) che in campo sociologico, in particolare per ciò che concerne la nostra visione dell’umano. Non ci siamo mai interrogati fino in fondo sull’umano in quanto appartenente alla specie Antropos, con tutto ciò che implica. Il postumano è un tentativo di mettere a fuoco un campo di domande aperte e di paradossi legati alla nostra epoca e alla nostra specie.
Il termine “postumano” implica un prima diverso, altro. Che cosa segna, secondo Lei, il passaggio dall’umano al postumano? In realtà si tratta di un doppio passaggio: c’è un post-umano nel senso di passaggio al di là dell’umanesimo, che è una cosa, e poi c’è un post-umano diverso, inesplorato dalle scienze umane, segnato dalla fine dell’antropocentrismo. La critica dell’umanesimo è un discorso antico quanto l’umanesimo stesso, che si accentua a partire da Nietzsche per poi subire la sua débâcle definitiva dopo la Seconda guerra mondiale. Questo ultimo aspetto è stato messo in rilievo da Adorno e dalla Scuola di Francoforte, e poi anche dal movimento del Sessantotto, che si oppone ad un umanesimo dominante e repressivo, implicato nell’esclusione, spesso violenta, di tante categorie di esseri che non sono considerati umani, o almeno non allo stesso del modello culturale che sottintende: maschio, bianco, eterosessuale. Quello sull’antropocentrismo è un discorso diverso: potremmo riassumerlo come un confronto tra due tipi di approccio alla conoscenza, in particolare tra le scienze della vita e le scienze umane. Queste ultime non hanno mai messo in discussione l’idea di antropos come specie dominante e aggressiva, padrona del mondo. La rivoluzione biomolecolare e biogenetica degli ultimi decenni, al contrario, ha già oltrepassato l’idea di antropocentrismo: la vita è diventato un soggetto trasversale che implica tutte le specie, non più riducibile al solo essere umano. In questo senso siamo già in un mondo post-umano.
L’edizione italiana del Suo libro porta un sottotitolo che a prima vista potrebbe risultare un po’ oscuro: “la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte”. Tre concetti chiave che suggeriscono l’infrazione di tre tabù fondamentali: la nozione di individuo, l’appartenenza ad una specie ‘umana’ e l’ineluttabilità della morte sembrerebbero essere gli ultimi dati certi di un secolo incerto. Perché allora questo avverbio, oltre, che definisce uno spostamento? E di che tipo di spostamento stiamo parlando? Ancora una volta, il discorso è riconducibile alla fine della centralità di antropos e alla rivoluzione genetica e biomolecolare: la vita è un concetto trasversale che implica tutte le specie. In questo senso, non è un caso che la robotica ricorra, per le sue ricerche, alle percezioni e alle capacità di altri esseri viventi, come il fiuto dei cani, per esempio, o il sonar dei delfini. La vita spezza l’eccezionalità dell’umano. Ciò era stato previsto da Foucault, che ben rilevava la morte dell’uomo in quanto individuo in cambio di un nuovo concetto di vita trasversale che ci permette, per esempio, di attuare la rivoluzione genetica contemporanea: noi condividiamo il 98% del nostro codice genetico con altre specie animali; la differenza è minima. Siamo oltre l’individuo, oltre la specie e anche oltre la morte: il codice genetico che contiene saggezza accumulata dalla nostra e dalle altre specie è indifferente alla morte del singolo. C’è una grande differenza tra la morte personale e la morte impersonale già intuita da Spinoza: la sopravvivenza della specie è molto più importante che non la sopravvivenza dell’individuo.
Lei mette in avanti un’antropologia di stampo monistico e radicalmente materialistico; eppure il mondo attuale sembra essere assetato di spiritualità. La notizia della conversione di Madonna all’ebraismo, ma anche quelle di giovani occidentali che si convertono all’islamismo radicale e fuggono dalle loro case per combattere la jihad, o ancora le masse oceaniche di ragazzi e ragazze accorsi a Rio de Janeiro per ascoltare Papa Francesco: sono tutti segnali, per quanto confusi, di una sete di qualcosa. Come analizza Rosi Braidotti tali fenomeni? E come conciliare il risveglio religioso con il suo materialismo radicale? Il materialismo per me non è sinonimo di ateismo. Solo nel marxismo, nella filosofia hegelo-marxista, esiste questa equazione immediata tra essere materialisti ed essere atei. Se ci avviciniamo al materialismo a partire da Spinoza siamo confrontati con un discorso diverso: la materia è complessa e diversificata, non limitabile ad una serie di opposti. Non possiamo spaccare il mondo in due, come fanno i dualisti; non si può definire la natura come l’opposto della cultura, lo spirito come il contrario della materia. I nostri corpi, per esempio, sono un continuum di natura-cultura completamente socializzati, attraversati dai media, dall’estetica, dalla medicina e dalla visualità: che cosa c’è di naturale in tutto questo? Lo stesso discorso è applicabile alle religioni, o alle nuove forme di religione, come le definirei io. Anche qui si può parlare di una posterità: io la definisco postlaicità. C’è un bisogno di ritualità e sì, anche di spiritualità. Le nuove forme di spiritualità post-laica si realizzano al di fuori delle religioni tradizionali: basti pensare ai grandi concerti, che non sono altro che messe massicce all’aria aperta. La gente ci va perché cerca appartenenza, cerca riti comuni. In questo senso siamo in una sorta di neo-tribalismo. Anche i riti alternativi che segnano la mia generazione rientrano in questo discorso: gente non credente, ma che ad un certo punto sente il bisogno di ritualizzare. In questo senso la spiritualità non è inconciliabile con il materialismo. Anzi.
Nel suo libro, così come anche in numerosi interventi pubblici degli ultimi mesi, lei ha stigmatizzato ciò che definisce come un neoumanesimo sociale insito nel discorso pubblico. In un’intervista recente, per esempio, ha dichiarato la necessità di un’etica nuova, adatta al nuovo mondo postumano. Un’etica postumana, per dirla con le sue parole. Potrebbe spiegare che cosa intende? Quali dovrebbero essere questi nuovi valori postumani? Il mio punto di partenza è un’opposizione radicale all’individualismo. Secondo me quello di individuo è un concetto sfinito, che non ha più niente da dire. Bisogna partire da un soggetto non unitario, trasversale e relazionale: non da una forza, bensì da un gruppo di forze, dall’assembramento dei soggetti e delle relazioni. La morale individualista di stampo kantiano ormai non significa più niente, non è più in grado di fornire risposte. Si usano parole vecchie in un mondo nuovo, e questo è inutile, anzi dannoso: c’è un costante tentativo di riportare tutto indietro, ad una presunta morale naturale che non è mai esistita, ce la siamo inventata noi. Io propongo un discorso diverso incentrato sull’idea di libertà. E anche su quella di coraggio: dobbiamo avere il coraggio di osare le nostre fantasie, di esplorare le nuove possibilità sviluppate dalla rivoluzione tecnologica. Prendi il caso di un’associazione come Dignitas, per esempio: loro fanno un discorso etico estremamente illuminato, ti danno la possibilità di uscire come vuoi, liberamente. Ripensano la morte. Ci sono tanti modi di morire: sotto le bombe in Siria, stuprata a morte in un campo profughi, oppure tranquillamente nel proprio letto. Bisogna essere lucidi ed essere coraggiosi. Non possiamo imporre un discorso antiquato su realtà nuove e sconvolgenti. Dobbiamo diversificare il discorso etico, oltrepassare i limiti dell’individualismo e dell’antropocentrismo: questo va oltre la morale kantiana ‘ama il prossimo tuo come te stesso’. Si tratta di affermare un’etica post-antropocentrica che consideri tutti i soggetti viventi: l’ambiente, certo, ma anche le altre specie, per non parlare di quelli che non hanno voce, gli invisibili, i derelitti, gli ultimi. Quelli che l’umanesimo non considera umani, o almeno non abbastanza umani. Spezzare i vecchi dogmi, ecco quello che dobbiamo fare: pensare nuovi modi di amare, nuovi modelli di famiglia, nuovi modi di morire. Sperimentare fino in fondo le possibilità che la scienza ci dà, senza avere paura.
Ultima domanda, inevitabile alla vigilia di un convegno dedicato alla letteratura, scienza umana per eccellenza: qual è il ruolo delle scienze umane oggi? E più in particolare: qual è il ruolo della letteratura nel 2014? È un ruolo fondamentale. La letteratura è una delle grandi fonti di risonanza della nostra cultura. In moltissima letteratura, a partire da Joyce e dalla Woolf, l’individuo non è più al centro, è sostituito dal mondo. I grandi autori in questo senso sono un po’ dei profeti: anticipano il futuro. Le Lezioni americane di Calvino, per esempio, anticipano il postumano. L’opera di Calvino io la definirei come la poetica del mondo postumano. La letteratura come specchio del mondo, come voce del mondo, ha anticipato un sacco di cose. Privarsi delle scienze umane è per l’università, e anche per la società in generale, un vero e proprio suicidio: significa privarsi dell’intuizione del presente sul futuro; equivarrebbe a strapparsi un occhio, e per di più un occhio illuminato: quello che ci permette di guardare oltre le tenebre. Spero che questo il convegno lo dica: senza di noi, senza una comprensione adeguata della plasticità del linguaggio, non possiamo andare avanti. L’università senza scienze umane muore. È cieca. Ci vuole una cultura del rispetto reciproco.
Versione integrale dell’intervista apparsa sul Corriere del Ticino il 24 maggio 2014.
Rosi Braidotti, Il Postumano, La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte Editore DeriveApprodi, 2014,
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