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Autore Discussione: Alessandro Quasimodo: Una vita sotto i riflettori  (Letto 2330 volte)
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« inserito:: Novembre 21, 2016, 11:28:38 am »

Alessandro Quasimodo: Una vita sotto i riflettori

ALESSANDRO QUASIMODO

Incontriamo il figlio di uno dei più grandi poeti contemporanei, Salvatore Quasimodo.
E’ scrittore, regista e attore, si è diplomato al Piccolo Teatro di Milano e ha frequentato un corso di perfezionamento sotto la direzione di Lee Strasberg (il “padre” formativo di James Dean, Paul Newman, Al Pacino, Robert De Niro)

Di Paolo Paolacci

Una splendida eredità umana e letteraria che cresce quotidianamente verso il futuro della sua memoria.
“Ed è subito sera”. Pensi sia la poesia più rappresentativa di tuo padre? Hai una chiave di lettura del motivo per cui è stata scritta?
“La più rappresentativa certo sì, come per un Ungaretti ‘M’illumino d’immenso’. La circostanza non posso saperla perché non ero neanche nato.  Ti posso dire che fa parte di una poesia intitolata ‘Solitudini’, molto più lunga e gli ultimi quattro versi costituiscono appunto il testo di ‘Ed è subito sera’. Tant’è che per la sua prima raccolta di poesie pubblicata da Mondadori diede tanta importanza a quei versi da usare l’incipit come titolo. Ad oggi questa è sicuramente la sua poesia più tradotta nel mondo ed è utilizzata, e direi abusata, nei titoli dei quotidiani: ed è subito gol, ed è subito calcio, ed è subito casa e potrei citarne infinite varianti”.
Scrittore, regista, attore, letterato cosa si addice di più alla tua persona e alla tua indole? E come ti sei formato per comunicare con i vari tipi di pubblico?
“Ho parecchie frecce al mio arco, una personalità complessa la mia con vari lati a volte anche in contrasto tra loro: uno introspettivo che lavora sulla psicologia dei personaggi ed uno certamente satirico, comico che forse mi viene da mio padre che aveva una carica molto forte di ironia ed autoironia: la capacità cioè di non prendere mai troppo sul serio né le cose intorno a noi né se stessi. Le esperienze che mi hanno formato sono state molte: tanto per dire, quella di avere avuto la possibilità, dopo essermi diplomato attore al Piccolo Teatro di Milano di andare a Spoleto e frequentare un seminario tenuto da Lee Strasberg, fondatore dell’ Actor’s Studio, da dove sono usciti tutti i grandi attori americani come James Dean, Paul Newman, Marilyn Monroe, Al Pacino, Robert De Niro e tanti altri; un’altra importante esperienza è stata di aver affrontato il personaggio di Stanley ne ‘Il compleanno’ di Harold Pinter, grande drammaturgo inglese e  anche lui Premio Nobel. Mi sento molto vicino al teatro inglese contemporaneo, come anche al grande repertorio nordico di Ibsen e di Strindberg.  Quando devo affrontare la regia, nel mio lavoro mi sta a cuore l’approfondimento del testo ma soprattutto il ‘sottotesto’ la parte cioè che l’autore non scrive ma bisogna scoprire tra le righe. Credo che dopo ‘Il mestiere dell’attore’ di Stanislavskij, il metodo sia sempre quello e cioè: quando tu devi rappresentare in scena una situazione di disagio di paura o  anche di contagiosa euforia, devi  rivivere  un episodio che faccia riaffiorare dal tuo inconscio una situazione analoga del tuo vissuto.. Per esempio, nell’interpretare una scena in cui doveva affiorare ansia e timore di non farcela, ho pensato intensamente al mio esame di maturità. Confesso che ancora oggi mi capita  di sognarlo come un incubo… anche i  momenti di gioia devi ricrearli dentro di te come vissuto e non puoi certo inventarteli: risulterebbero falsi”.
Qual è la profondità di un uomo? E la sua leggerezza? E come la porti in scena?
“La cosa importante per coinvolgere gli spettatori è cercare di entrare nella sfera intima dell’autore che tu stai interpretando sia drammaturgo che poeta. Per esempio il 9 novembre scorso, ero a Recanati a recitare Leopardi davanti a un pubblico che considera l’autore cosa propria ed è ipercritico verso gli attori che si cimentano con il grande Giacomo, per questo si deve trovare la chiave che sia rispettosa dell’autore ed è necessario che tu stesso ti sia calato nello stato d’animo del poeta nel momento della creazione… In poche parole: il pubblico dovrebbe avere la sensazione che nel momento in cui sto proponendo una poesia è come se la stessi componendo io in perfetta sintonia con l‘universo creativo leopardiano. Una dote che io ritengo fondamentale e che purtroppo sta diventando sempre più rara, è l’umiltà: l’attore deve mettersi umilmente al servizio dell’autore e del suo testo”.
Mi riesce impossibile non parlare di Maria Cumani e del libro uscito con il tuo contributo,  “Il fuoco tra le dita”. Ce ne parli? Chi è Maria Cumani oltre ad essere tua madre?
“Maria Cumani è una grande donna che sta man mano conquistando quegli spazi che non le sono stati riconosciuti in vita. E’ una donna che diceva di esser nata trent’anni prima del suo vero tempo. E’ stata una pioniera ma, come tutti i pionieri, nel momento che stanno sperimentando una loro creazione, rischiano di non essere capiti. Devo dire però che molti, con il trascorrere del tempo quando vedono qualcosa che arriva  dall’estero (Carolyn Carson o Pina Bausch) dicono:  ‘ma io queste cose le ho già viste portate in scena dalla Cumani’. Tutte idee da ‘fuoco tra le dita’, per citare un suo verso, che all’epoca venivano viste quasi con sospetto.  A Firenze si è aperta il 12 novembre la mostra ‘Le donne protagoniste nel Novecento’, e vedere una sala del museo di Palazzo Pitti dedicata a Maria Cumani, vicino a quella di Eleonora Duse, insieme a tante altre straordinarie testimoni del proprio tempo (c’è anche Patty Pravo!) è stata per me una grande, emozionante gratificazione. Lo scorso anno ho fatto una imponente donazione al Museo del Costume, sia di abiti da sera che di costumi che mia madre ha indossato nei vari spettacoli a cui ha partecipato nel corso del tempo. Mamma aveva anche una particolare abitudine: ad ogni inizio stagione, andava alla Standa o alla Upim, comprava un vestito da poche lire, strappava via tutti i bottoni, ci lavorava sopra e con pochi accorgimenti lo faceva diventare un modello originale non più riconducibile ai grandi magazzini, possedeva infatti, un innato gusto per l’abbigliamento personale e soprattutto si conosceva molto bene. Nella sua vita, sin dall’età di diciassette anni ha tenuto diari, ha scritto poesie, trattati sulla danza; ha seguito anche le traduzioni dei lirici greci di mio padre consigliandolo sulla scelta di alcuni frammenti, ma soprattutto è stata un valido aiuto  per lui nelle traduzioni di Pablo Neruda perché conosceva molto bene lo spagnolo.
Lo spettacolo o l’autore in cui hai più creduto e che più ti rappresenta è lo stesso?
“Direi di sì. Si tratta de ‘Il compleanno’ già ricordato poc’anzi. Il protagonista della commedia di Pinter, è un personaggio molto complesso e a me piacciono le sfide, ho cercato, e ci sono riuscito con un lavorio continuo e instancabile, di entrare nella psiche tormentata del  giovane Stanley che si rifugia in una pensioncina sperduta dell’ Inghilterra. Ma chi è realmente Stanley? E’ questo l’interrogativo che si pongono gli spettatori seguendo la vicenda: è un pianista come racconta lui, oppure è evaso da un manicomio o forse  un pericoloso ricercato dai misteriosi individui che arrivano alla fine a portarlo via?  Lui vive nella pensioncina come recluso in una volontaria prigione, amorevolmente accudito dall’anziana proprietaria. Perennemente  in pigiama, non esce mai e quando è costretto a farlo, lo vediamo vestito di tutto punto con ombrello, giacca e cravatta e la immancabile bombetta: completamente afasico, ridotto allo stato di zombi, un vero e proprio automa, pronto quindi per essere inserito in quella società perbenista e ipocrita che Harold Pinter detestava”.
Da dove parte questa incredibile mancanza di unità così marcata e viscerale? E’ sufficiente accontentarsi delle divisioni storiche? Cosa si potrebbe fare?
“Per esempio in Francia non c’è questa frammentarietà di cui parli, a cominciare dai grandi scrittori, coloro appunto che meglio sono riusciti e riescono ad interpretare il disagio della devastante situazione che siamo costretti a  vivere. Le distanze sociali sono diventate incolmabili. Ad esempio per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ho fatto una fatica enorme per mettere in scena  e a trovare le piazze per uno spettacolo intitolato ‘Grazie Mille’ (riferito alla spedizione garibaldina), perché c’è stato un disfattismo diffuso, teso a non voler celebrare la ricorrenza, a voler rendere in qualche modo ancora più complicato parlare di una verità che appartiene alla nostra storia. Sembra incredibile ma mi sono trovato a discutere ancora su Garibaldi, con persone che mettono in dubbio il suo disinteressato eroismo e non dovrebbero nemmeno pronunciare il suo nome, talmente sono disinformate e in malafede. E’ veramente un’indecenza. Il sentirsi figli della Francia è ‘appartenenza’, non nazionalismo: i nostri cugini d’oltralpe sono fieri e orgogliosi di essere francesi, è un sentimento che da noi in Italia è sconosciuto”.
Cosa si può fare per il mondo? Siamo un villaggio globale dove nessuno si salva da solo, forse per il fatto che  ognuno ragiona per sé…
“Non so quale potrebbe essere la ricetta. Non c’è, come già detto, un corpo unitario a cui far riferimento, anche se ci sono in letteratura delle punte di diamante come Anna Maria Ortese  che avrebbe meritato il Nobel o Dacia Maraini, per la narrativa, o Franco Loy, Maria Luisa Spaziani, Patrizia Valduga e Vivian Lamarque, tanto per citare alcuni nomi, nel campo della poesia”.
Programmi futuri?
“Sono sempre in giro qua e là per  recital poetici, come presidente di alcuni importanti premi letterari, presentazioni, letture e via dicendo. Comunque sempre molto itinerante e mi piace perché in fondo gli attori una volta andavano in giro con il carro dei comici e si fermavano nelle piazze, montavano un palco e recitavano davanti a un pubblico decisamente sprovveduto che si radunava incuriosito. Ora le cose per fortuna vanno diversamente. Come pochi giorni fa a Recanati nel bellissimo teatro fatto costruire da Monaldo Leopardi oppure a San Sepolcro la patria di Piero della Francesca dove il comune mi ha invitato, insieme a Mario Cei e al pianista Adalberto Maria Riva, a tenere un recital sul vino proprio nelle cantine della casa di Piero della Francesca. A Firenze poi la grande mostra degli abiti appartenuti alle grandi  donne del novecento che durerà un paio d’anni e che vi invito a vedere. Ne vale la pena”.
Quanto vale e quanto costa avere un cognome così importante e aver vissuto vicino ad una donna stupenda e intelligente?
“Il trauma è stato soprattutto a livello scolastico perché pretendevano da me cose particolari, all’epoca avrei preferito portare un cognome più comune e vivere in un tranquillo anonimato.
E invece mi toccava essere sempre sotto i riflettori: mi chiamavano spesso fuori a leggere ‘I Promessi sposi’ perché leggevo meglio degli altri, e poi se andavo bene era merito esclusivo del babbo (mai successo che mi abbia dato un mano con i compiti!). Se andavo male era perché non mi applicavo abbastanza e: ‘…già si sa che i figli delle persone troppo intelligenti è un miracolo che non siano del tutto andicappati…!’. Devo dire che la presenza di mamma è stata fondamentale per farmi capire dall’interno le cose, per non accontentarmi mai della superficie, la capacità di contare sulle proprie forze, di rimboccarsi le maniche e far le cose di persona: superare se stessi in continuazione e porsi dei traguardi sempre più difficili e tendere verso un impossibile perfezione. Mai sedersi sugli allori. Oggi ho realizzato questa cosa e subito ne inizio una nuova senza soluzione di continuità. Il segreto è ripartire sempre con rinnovato entusiasmo verso altre mete. Andare verso gli altri ed essere disponibili è fondamentale per me”.


by Redazione Gp

Da - http://www.gpmagazine.it/alessandro-quasimodo-una-vita-sotto-i-riflettori/
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