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Autore Discussione: Donald TRUMP  (Letto 6045 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Novembre 09, 2016, 05:18:41 pm »

Donald Trump
Donald Trump è nato il 14 giugno del 1946 a New York ed è un imprenditore statunitense, è stato eletto 45° presidente degli Stati Uniti.
Nelle elezioni dell'8 novembre il repubblicano ha battuto la rivale democratica Hillary Clinton.

Nel discorso pronunciato dopo la vittoria Trump ha affermato "Sarò il presidente di tutti gli americani. I dimenticati di questo Paese, da oggi non lo saranno più. Per repubblicani e democratici è arrivato il tempo dell'unione. Ora dobbiamo collaborare e riunire la nostra grande nazione".

E' figlio di Fred Trump, facoltoso investitore immobiliare newyorkese dal quale ha ereditato tra l'altro la passione e l'intuito per il mondo degli affari immobiliari.

Trump ha iniziato la sua carriera professionale interessandosi al settore immobiliare, per poi spostare la sua attenzione al mondo delle telecomunicazioni e dell'energia, il suo successo negli affari lo ha visto collocarsi, secondo la rivista Forbes, al 314° posto tra gli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio stimato, secondo il Washington Post, di 9 miliardi di dollari al 2015.

Nei primi anni del 2000 è diventato particolarmente noto al grande pubblico televisivo americano ed internazionale anche grazie al successo del suo reality show televisivo The Apprentice, trasmesso in versione italiana sui canali televisivi Cielo e Sky Uno.

Le voci di una sua candidatura alle presidenziali erano già cominciate a circolare dal 2000 ma poi la nomination del partito repubblicano è caduta su altri candidati ai quali Trump ha offerto il suo appoggio, sia nelle elezioni del 2000 che in quelle del 2008 e del 2012.

Il 16 giugno del 2015 ha annunciato ufficialmente la sua candidatura alle primarie repubblicane delle presidenziali del 2016, accusando l'amministrazione Bush e quella Obama di essere responsabili, con la loro politica interna ed internazionale, sia del declino della classe media americana che della perdita di leadership degli Stati Uniti d'America a livello mondiale verificatasi negli ultimi anni.

Trump si è dichiarato contrario a qualsiasi provvedimento che innalzi la pressione tributaria e determini un controllo della vendita delle armi, mentre in ambito sopranazionale si è espresso contro gli aiuti internazionali ed a favore di una politica di forti dazi d'importazione contro il mercato cinese.

Donald Trump è stato sposato tre volte:
— con Ivana Marie Zelickovà Trump, che lo ha reso padre di tre figli, (Donald John (1977), Ivanka Marie (1981) ed Eric Frederic (1984);
— con Marla Maples, dalla quale ha avuto una figlia (Tiffany (1993);
— con Melania Knauss , sua attuale consorte e madre del suo ultimo figlio (Barron William (2006).

Ultimo aggiornamento 09 novembre 2016

Da - http://argomenti.ilsole24ore.com/donald-trump.html#_
« Ultima modifica: Gennaio 17, 2017, 04:48:30 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 09, 2016, 05:38:30 pm »


Ciclone Trump, è il nuovo presidente Usa.
Camera e Senato ai repubblicani

Di Marco Valsania 9 novembre 2016

NEW YORK - Donald Trump è il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti.
L'imprenditore miliardario ha vinto una delle battaglie elettorali più difficili e controverse che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto. Hillary Clinton, la candidata democratica sulla cui vittoria tutti i sondaggi scommettevano, ha chiamato il vincitore e ammesso la sua sconfitta nel cuore della notte americana.

«Ho appena ricevuto una telefonata da Hillary Clinton, vorrei farle le mie congratulazioni, ha combattuto con tutta se stessa. Ha lavorato sodo e le dobbiamo una grande gratitudine». Queste le prime parole del neo-presidente eletto. Seguite da un appello all'unità, a ricomporre divisioni e ferite, più rassicuranti per gli americani dei toni accesi della campagna elettorale. «Prometto che sarò il presidente di tutti gli americani», ha aggiunto dall’Hotel Hilton di New York, quartier generale dei Repubblicani.

Mentre i primi commenti preoccupati comunicano ad arrivare dalle cancellerie europee, in primis dalla Germania, Trump ha anche cercato di rassicurare gli alleati dicendo: «Con il mondo cercheremo alleanze, non conflitti. Gli Stati Uniti andranno d’accordo con tutti coloro che vorranno andare d’accordo con noi». E ha ribadito: «Mi metterò subito al lavoro per il popolo americano. Voglio dire alla comunità internazionale che se metteremo gli interessi dell’America dinanzi ci comporteremo in maniera giusta con le altre nazioni».

I future sull’indice di Borsa Dow Jones hanno perso oltre il 3% e sulle piazze valutarie il peso messicano ha ceduto l’8% sul dollaro. L’indice Nikkei di Tokyo è sprofondato di oltre il 5 per cento. Le quotazioni dell’oro, bene rifugio per eccellenza, si sono impennate di oltre il 2 per cento. Con il passare delle ore, però, il crollo temuto non si è materializzato. Anzi, le Borse europee hanno proceduto in calo di 1-2 punti percentuali prima di girare in positivo dopo l’apertura di Wall Street, partita piatta per poi puntare al rialzo e salvo ripiegare in rosso dopo poco più di un’ora. Comunque una reazione molto più contenuta rispetto allo shock post referendum su Brexit del 23 giugno.

Trump eletto presidente
Il successo di Trump - con almeno 289 grandi elettori rispetto ai 270 necessari - ha superato ogni attesa e l’enorme incertezza generata dalla sua vittoria ha scosso i mercati. Trump, in un clima di divisione e pessimismo nel Paese fotografato dagli exit poll, ha dimostrato una forza nettamente maggiore delle previsioni in numerosi Stati chiave e indecisi a cominciare dalla Florida, che ha vinto di un punto percentuale, incrinando le certezze della vigilia della Clinton. Anche in Virginia ha sfidato a lungo ad armi pari la rivale, che dava per sicuro lo Stato.

Trump è passato in netto vantaggio nella notte in North Carolina, un altro Stato incerto, in Wisconsin, Stato che i repubblicani non vincevano da tempo, ed è partito di scatto in Michigan, che avrebbe dovuto al contrario favorire Clinton. Ha poi vinto in Ohio e anche in Pennsylvania. Questi exploit si sono aggiunti ai successi accumulati nel Sud e negli stati centrali del Paese. Clinton ha invece dovuto accontentarsi delle roccaforti del Nordest, da New York al Massachusetts, e del suo Stato nativo, l’Illinois.

La battaglia per il controllo del Congresso ha a sua volta visto il partito repubblicano mantenere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Per il Senato tre seggi in Indiana, Florida e North Carolina che i democratici avevano sperato di conquistare sono stati difesi dai conservatori. Una vittoria ha invece arriso il Illinois a Tammy Duckworth, veterana dell’Irak che ha sconfitto il senatore repubblicano uscente Mark Kirk. I democratici avevano però bisogno di strappare quattro seggi per avere la maggioranza.

Gli americani alle urne: 140 milioni hanno scelto tra Clinton e Trump
Trump ha potuto contare sul voto bianco, soprattutto maschile, meno istruito e più anziano. Si è aggiudicato in particolare i bianchi senza laurea con un vantaggio di due a uno. Clinton è stata invece appoggiata dai bianchi con laurea, le donne soprattutto non sposate, le minoranze etniche afroamericane e ispaniche, queste ultime andate al voto in numeri record, e gli elettori più giovani. Clinton aveva votato fin dalla mattinata a Chappaqua, la cittadina dei sobborghi newyorchesi dove risiede. E, mostrando fiducia, aveva professato “umiltà” al cospetto delle urne e “speranza di vincere”. Trump, dopo aver imbucato tra le strette di mano la sua scheda presso la Scuola Pubblica N. 59 di Manhattan, aveva parlato al canale televisivo Fox per promettere sorprese: «Mi affermerò in molti Stati». E aveva denunciato come «sbagliati di proposito» i sondaggi che, giunti al D-Day elettorale, davano la rivale in vantaggio di percentuali tra 3 i 6 punti su scala nazionale.

Lunghe code ai seggi, da una costa all’altra del Paese, hanno dato conto di una partecipazione molto elevata per calare il sipario su una delle più combattute battaglie presidenziali della storia, segnata da toni aggressivi, scandali e colpi bassi. Un sipario calato senza incidenti, ma su una scelta tra candidati agli antipodi: tra Hillary Clinton, la democratica che ambiva a diventare la prima donna Commander in chief degli Stati Uniti, e Donald Trump, costruttore diventato politico e grande outsider per eccellenza. Segno di passioni e tensioni, alla vigilia avevano già votato con procedure anticipate in oltre 43 milioni, un record assoluto pari a un terzo dei forse 140 milioni di americani attesi alle urne.


    L’Analisi
La rabbia della middle class alla Casa Bianca

La lunga notte del voto Usa
I due candidati avevano terminato la loro corsa con un vero e proprio sprint per fare appello ai loro elettori. Avevano attraversato gli Stati Uniti dal New Hampshire alla Pensylvania, dal Michigan al North Carolina e al Minnesota. Clinton, la mattina del voto, era reduce da un rally aggiunto in extremis a Raleigh in North Carolina, dopo un evento organizzato in prima serata a Philadelphia con la partecipazione di Bruce Springsteen e di Barack e Michelle Obama. Il messaggio: ottimismo per il futuro, per raccogliere l’eredità della coalizione multiculturale di Obama. Trump, sul podio fino alla notte fonda di lunedì a Grand Rapids in Michigan nel cuore della Rust Belt dopo una tappa in New Hampshire, si era invece ancora una volta fatto paladino dei lavoratori bianchi delusi, di ceti popolari in difficoltà economica e stanchi della politica tradizionale, oltre che dei repubblicani. «Non avremo più una simile occasione, un simile movimento popolare». Alla fine gli americani hanno ascoltato il suo appello.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-11-09/trump-testa-cronaca-una-notte-col-fiato-sospeso--050308.shtml?uuid=ADy020rB
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 11, 2016, 06:16:30 pm »

Usa2016
Capire Trump o perderci per sempre

Di Marco Dotti
07 novembre 2016

Quasi 1/3 degli elettori americani (41 milioni) ha già votato e, in attesa del verdetto elettorale che arriverà mercoledì, ancora non abbiamo capito chi è, ma soprattutto cosa e chi rappresenta Donald J. Trump. Intervista a Marco Luigi Bassani

Si fa presto a dire Trump. Si fa ancor prima a storcere il naso. Ma poi, i conti non tornano e i guai restano. E sono grossi, grossissimi guai per tutti. Soprattutto se non si mette in gioco quel po' di franchezza, rigore e conoscenza a medio raggio senza la quale anche navigare a vista diventa difficile. La conta dei voti avverrà martedì alle 7 di sera - l'una del mattino in Italia - e i sondaggi, finora, non hanno certo dato una mano. Ma comunque vadano le cose, Donald J. Trump ha già cambiato, forse inesorabilmente, il mondo della politica e la nostra percezione di quel mondo.

Di certo, questo oggetto misterioso catapultato da un altrove che ancora stentiamo a definire, è destinato a interrogarci a lungo. Abbiamo chiesto al professor Marco Luigi Bassani di aiutarci a capire. Nato a Hinsdale, in Illinois, studente a Berkeley, Pavia, Pisa, allievo di Gianfranco Miglio, profondo conoscitore del sistema federale statunitense, della vita e delle opere di Thomas Jefferson - al quale ha dedicato due corpose monografie - e di quei risvolti storia americana che spesso sfuggono alla vulgata, Marco Luigi Bassani oggi insegna Storia delle dottrine politiche all'Università Statale di Milano.

Che cosa non abbiamo capito di quanto sta accadendo negli Stati Uniti?
Da un lato l’errore è stato quello di guardare gli Stati Uniti facendoceli raccontare dai quattro “americanisti” ufficiali che abbiamo in Italia, dai Rampini ai Severgnini. Dall’altro, ed è l’errore fondamentale, c’è il fatto di aver cercato di leggere queste elezioni americane guardando la storia americana. In questo caso, invece, per comprendere quello che sta accadendo negli Stati Uniti bisogna guardare ciò che è accaduto in Europa. Nel 2015 è infatti successo qualcosa, dal punto di vista politico, che ha ribaltato i rapporti tra Europa e Stati Uniti.

A che cosa si riferisce?
Mi riferisco a ciò che è successo con l’immigrazione nell’estate del 2015, unito al fatto che la Merkel abbia aperto completamente le frontiere ha portato a una “europeizzazione” della politica americana, cioè a una paura dell’invasione. L’appoggio – comunque vadano a finire le elezioni – da parte di metà degli Stati Uniti a un personaggio come Donald Trump deriva da questo: dal timore della scomparsa di quell’America come noi la conosciamo.

Fino a ieri, potevamo leggere una disputa elettorale basandoci sul “giusto ruolo” del governo nell’economia, ovvero Stato e quanto mercato dovevano esserci. Oggi?
Oggi siamo davanti a due gruppi statalisti. Sia la coalizione della Clinton sia quella di Donald Trump sono statalisti. Divergono sul fatto che la coalizione della Clinton è per lo statalismo open borders, mentre l’altro è uno statalismo classico di destra: salvataggio del welfare state attraverso la chiusura delle frontiere.

Chi vota per Trump?
Se votassero solo i bianchi poveri, Trump avrebbe l'85% dei voti. I bianchi poveri, soprattutto maschi, votano per lui. Lo votano per tantissimi motivi: perché odiano la Clinton, perché si sentono maggiormente tutelati, perché, nella globalizzazione, pensano di essere la parte perdente.

Non c'è dubbio, dunque, che Trump sia stato raccontato male...
Soprattutto senza problemattizzare in alcun modo ciò che rappresenta. È stato raccontato esattamente secondo lo schema della Brexit: «sono brutti, sporchi, ignoranti e cattivi e agiscono di conseguenza».

Che cosa c'entra la Brexit?
Il racconto della Brexit si sovrappone completamente al racconto totale su Trump. Oltretutto, in Italia hanno solo copiato quello che raccontavano i giornali americani. Tra l'altro, sui primi 100 giornali americani nessuno ha fatto l'endorsement per Trump. Questo significa che è stato trattato come un appestato e un razzista.

Trump non è razzista?
Non lo so, dico che non c'è una frase di un suo discorso che possa essere qualificata come autenticamente razzista. La questione della chiusura dei confini, tra l'altro, una tematica globale. Nessuno, tranne che in Italia, vuole vivere open borders. Sicuramente è protezionista, il libero mercato gli interessa molto poco - cose che lo differenziano dal conservatorismo classico - ma non ha nulla, proprio nulla di quanto le élites progressiste vanno dicendo.

Ammetterà che è politicamente scorretto?
Ecco, questo è un punto. Comunque vada il politically correct con Trump finisce. C'è stato un periodo, negli Stati Uniti, in cui non si poteva nemmeno dire "fried chicken", pollo fritto, perché era il cibo preferito dai neri e, di conseguenza, finivi all'interno di una categoria sospetta. Questa polizia del pensiero finisce con Trump, che vinca o meno.

Sui media è stato tracciato un profilo psicopatologico esplicito di Trump: megalomane, mitomane, psicopatico… Non è un po’ troppo per affidargli le chiavi della politica estera della principale potenza globale?
Al contrario, se c’è qualcosa che spaventa poco è proprio la sua politica estera. L’interventismo della Clinton potrebbe portarci invece alla catastrofe. Non possiamo dimenticare quanto è successo in questi 8 anni di presidenza Obama-Clinton. Pensiamo che 8 anni fa, la Russia era una potenza regionale, oggi i due ci hanno consegnato un mondo che assomiglia sempre più a quello di una seconda guerra fredda, con la Russia diventata attore globale. Per la pace mondiale, io sarei più tranquillo con Trump che con la Clinton… Lei è la vera guerrafondaia, che andava dalla Bosnia a ogni luogo dove c’erano bombe da lanciare… La Clinton è una emanazione di certi circoli progressisti e guerrafondai del nord est...

La parabola progressista iniziata con Clinton marito giunge forse alla sua fine o, quanto meno, al suo disvelamento?
Molti dicono che ciò che conta è la battaglia culturale. Negli Usa è in corso una battaglia a tutto campo delle élites progressiste per distruggere le radici cristiane diffuse nel Paese. Da qui la storia dei matrimoni gay e via dicendo. Pensiamo che il 65% degli americani va a una funzione religiosa ogni domenica. Per le élites culturali del nord est conta distruggere questo legame. Se dovesse vincere Trump, a mio avviso, sarebbe anche una reazione a questo tentativo di distruggere le radici culturali del Paese. Queste élites sono rappresentate dal nord est, dalla California e da Hollywood: se uno guarda i film di Hollywood pensa che l’America sia un Paese anticristiano.

Non è così?
No. Tra l’altro, pensiamo che mai i numeri delle primarie erano stati così alti. Sono andati tutti a votare in massa e ci sono segnali strani, tipo gli amish che sono andati a registrarsi per la prima volta al voto...Se gli amish vanno davvero a votare per salvare la libertà religiosa, Trump potrebbe vincere anche in Pennsylvania. E gli evangelici si potrebbero muovere anche per Trump che, nonostante tutto sembra loro il meno peggio.

Non lo fecero con Romney, il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d'America del 2012
Ma lui era mormone.


L’era Obama è tramontata, dunque…
È stata la peggiore presidenza degli Stati Uniti. Ha preso l’America con il nemico fondamentalista e ce la riconsegna con un Califfato. Il debito pubblico è aumentato del 40% in 8 anni. L’unico vantaggio che aveva era di essere nero. Ma anche qui, il disastro. Doveva mettere per sempre alle proprie spalle il conflitto razziale che datava da due secoli. Invece… Oltretutto ha reinventato la Russia, che ha un Pil di poco superiore a quello italiano, ma con la sciagurata politica anti Assad sua e della Clinton. Nei dibattiti del 2012, Mitt Romney affermava che «il nostro peggior nemico è la Russia». Obama allora rideva, ma stava già scavando la fossa al mondo.

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/07/capire-trump-o-perderci-per-sempre/141479/
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 11, 2016, 06:18:25 pm »

Quel dato che spiega perché Trump ha vinto

Di Giuseppe Frangi
09 novembre 2016

Le 23 maggiori società websoft in questi sette anni hanno più che triplicato i fatturati e sono cresciute a dismisura in borsa. Ma creano occupazione in dimensioni infinitamente minori. In sostanza è un modello economico che premia pochi e funzionale a Wall Street

Un dato può aiutare a capire una delle ragioni per cui Donald Trump ha vinto: lo ha reso noto ieri il Centro Ricerche di Mediobanca, presentando un rapporto sulle 23 maggiori società websoft del mondo.

Il dato è presentato nell’ultima slide sotto un titolo che dopo tante slide dal tono positivo per non dire trionfale, butta là un dubbio: «Meno intensità di forza lavoro?» si chiedono gli analisti di Mediobanca. E il dubbio è ben motivato dal grafico: nelle multinazionali “industriali” il numero medio di dipendenti per ogni milione di totale attivo è di tre. Nelle websoft che in questi anni hanno scalato la borsa e avuto aumenti iperbolici di capitalizzazione, quel rapporto si dimezza: per generare un milione di totale attivo basta un dipendente e mezzo. Una nota poi spiega che il dato più recente sarebbe ancora più basso: 1,2 dipendenti. In sostanza nei sette anni della grande crisi il fatturato delle 23 websoft prese in esame è più che triplicato, mentre la forza lavoro è cresciuta di meno della metà: i dipendenti sono aumentai di 1,4 volte nello stesso arco di tempo. Non solo la tendenza è sempre progressivamente a diminuire. Mentre si allarga sempre di più la forbice tra fatturati e forza lavoro impegnata.

L’aggregato delle 23 websoft ha senato nel 2015 vendite per 466,8 miliardi di dollari, con utili di 66,3 miliardi. Questo è stato reso possibile anche grazie ai regimi fiscali di cui godono: il loro tax rate medio è pari al 23% mentre quello delle grandi multinazionali è del 30%. Oltre a tutti questi numeri vanno anche registrate le crescite dei titoli in borsa, che hanno aumentato a dismisura il valore di capitalizzazioni di queste società: solo nel 2015 la crescita media è stata del 35%, con punte record per Google (che oggi vale 483 miliardi di dollari) e per Amazon (353 miliardi).

In sostanza, spiegano gli analisti, le websoft non riescono ad assorbire che in piccola parte la forza lavoro espulsa dall’industria. In compenso premiano gli azionisti e danno grandi soddisfazioni a Wall Street.

Per quanto gli elettori americani non avessero in mano questi dati, la sensazione di questo fenomeno doveva essere loro stata ben chiara. E chi ha memoria può ricollegare questo trend alla decisione di politica economica presa da Bill Clinton nel 1992 quando si insediò per il primo mandato alla Casa Bianca. Come ha ricordato Robert Pollin, Political Economy Research Institute, University of Massachusetts, le priorità di Clinton subirono un drastico riordino nei due mesi di “interregno” fra le elezione di novembre e l’insediamento nel gennaio 1993. Scrive Pollin: «Un resoconto preciso e dettagliato di questa involuzione è stato fatto da Bob Woodward, cronista del Washington Post, nel suo libro The Agenda (1994). Come Woodward riporta, solo poche settimane dopo la vittoria alle elezioni, Clinton dichiarava: “Noi incarniamo lo spirito dei repubblicani negli anni di Eisenhower… Siamo favorevoli alla riduzione dei deficit, al libero commercio, al mercato dei titoli. Un programma grandioso”».

Come aveva potuto Bill Clinton cambiare direzione così rapidamente? La risposta è diretta e chiara, ed è stata candidamente fornita da Robert Rubin, copresidente della banca Goldman Sachs prima di diventare ministro del Tesoro di Clinton. Addirittura prima dell’insediamento del nuovo governo, Rubin spiegava ai membri più progressisti della nuova amministrazione che «i ricchi sono il motore dell’economia e prendono le decisioni che la riguardano».

Fu così che si arrivò alla decisione di smantellare il sistema del Glass-Steagall Act, che regolava le attività finanziarie dai tempi del New Deal e che separava banche commerciali e banche d’affari. Quel muro venne abbattuto, lasciando briglie sciolte alla speculazione. Le grandi crisi che ne sono seguite sono il frutto di quella scelta. Del resto lo stesso Clinton ammise più tardi che con il suo nuovo obbiettivo di politica economica, «abbiamo aiutato il mercato borsistico, e deluso le persone che ci hanno votato». Delusi al punto che quando sua moglie si è presentata per la corsa alla Casa Bianca, le cose sono andate come abbiamo visto...

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/09/quel-dato-che-spiega-perche-trump-ha-vinto/141530/
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 11, 2016, 06:21:39 pm »

Usa2016
Non solo Trump, dai referendum suicidio assistito, marijuana e pena di morte
Di Redazione
09 novembre 2016

Nell'election day per le presidenziali in nove Stati degli Usa si è votato anche per i referendum: per la legalizzazione della marijuana ad uso medico o ricreativo e in Colorado per la legge sul suicidio assistito, in Nebraska per il ripristino della pena di morte

Nell'election day per le presidenziali in nove Stati degli Usa si è votato anche per la legalizzazione della marijuana ad uso medico o ricreativo e in Colorado per la legge sul suicidio assistito, per il ripristino della pena di morte in Nebraska.

Marijuana. I primi risultati sono arrivati da Florida ed Arkansas, che hanno deciso di legalizzare l'utilizzo della cannabis a scopo medico. Luce verde all'utilizzo per il trattamento di determinate malattie, tra cui il cancro, l'Aids, l'epilessia e l'epatite C. La California, Massachusetts e Nevada hanno dato il via libera alla legalizzazione della marijuana per uso ricreativo. Questi Stati si aggiungono ad Alaska, Colorado, Oregon, Stato di Washington e Washington D.C.

L'uso della la marijuana sarà comunque limitato come quello dell'alcool: vietato ai minori di 21 anni, proibito in gran parte degli spazi pubblici e tassato. I maggiorenni potranno possedere fino a 28,5 grammi di cannabis (8 grammi se concentrata), e crescere fino a sei piante per uso privato. Lo Stato poi concederà licenze per la vendita della droga leggera, applicando un'accisa del 15%.

Suicidio assistito. L'Oregon ha approvato il “quesito 106”, ovvero il referendum sul suicidio assistito. Le norme - ispirate da quelle dell'Oregon in vigore da 20 anni e presenti anche in altri Stati - permetteranno ai malati con 6 mesi o meno di aspettativa di vita di porre fine alla vita.

Pena di morte. La pena di morte torna in Nebraska. Gli elettori hanno votato a favore del ripristino della pena capitale nello Stato, dove il boia non colpisce dal 1997, respingendo la decisione dello scorso anno di sospenderla. Anche la California ha votato a favore della pena di morte.

Da - http://www.vita.it/it/article/2016/11/09/non-solo-trump-dai-referendum-suicidio-assistito-marijuana-e-pena-di-m/141531/
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:40:42 pm »

Dai migranti al terrorismo, Trump cerca un alleato in Italia per rilanciare l’alleanza con gli Usa
Due collaboratori del neo presidente spiegano i suoi piani dopo il risultato del referendum

Pubblicato il 07/01/2017
Ultima modifica il 07/01/2017 alle ore 09:57

Francesco Semprini

«Donald Trump ha accolto con interesse l’esito del referendum in cui vede un’opportunità di rinnovamento positivo della leadership del Paese. E in questa ottica è alla ricerca di un interlocutore preferenziale in seno alla compagine politica per rilanciare la partnership tra Stati Uniti e Italia, in particolare nell’ambito della comune lotta al terrorismo». E’ questo il messaggio che emerge dall’entourage del presidente eletto secondo quanto riferito da Guido George Lombardi e dal generale Paul Vallely, due amici e collaboratori di Trump, i quali spiegano a La Stampa la visione del prossimo inquilino della Casa Bianca nelle relazioni con l’Europa e con la stessa Italia. 

Una nuova Italia in una rinnovata Europa 
«E’ chiaro che Trump sia contento del risultato referendario alla luce dei discorsi e delle dichiarazioni fatte in passato non solo sull’Italia ma anche in merito alla Brexit», spiega Lombardi. «Tutti i suoi consiglieri, a partire da Steve Bannon che è molto vicino alla politica europea, consideravano il “no” come un primo passo verso un processo di ricollocazione dell’Italia, una sorta di distacco, non nel senso di uscita dall’Unione europea, ma di presa di distanza dagli schemi conformisti di un certa politica e di una certa Europa. Un passaggio verso la strada del popolarismo che privilegia l’economia reale, il lavoro, la real politik e l’allontanamento dall’ideologia conformista che sta decretando il fallimento del progetto europeo così com’è». 

Trump cerca un interlocutore 
Secondo il clan Trump - insiste Lombardi - questo è un «no» che rende l’Italia più forte, anche se a questo punto occorre attendere nuove elezioni per capire che piega prenderà il Paese e «per individuare il giusto interlocutore con cui l’amministrazione americana dovrà interloquire per rilanciare i rapporti con lo storico alleato». E anche di questo si è parlato a margine dei lavori di un recente forum del Endowment for Middle East Truth (EMET), osservatorio con sede a Washington fortemente pro-Usa e pro-Israele. Ed è proprio nel corso del forum che raggiungiamo telefonicamente Lombardi. «Qui a DC, in questa conferenza, ci sono diverse persone molto vicine al team presidenziali, tra cui ex militari, - prosegue l’amico italiano del presidente eletto - ed è un’opportunità per affrontare temi importanti come i rapporti con Israele, la lotta al terrorismo e il futuro delle relazioni con l’Europa». 

 
I generali puntano sull’Italia 

Tra loro c’è Paul Vallely, generale pluristellato, veterano di guerra, commentatore politico e militare, e amico del generale Michael Flynn fedelissimo di Trump e prossimo numero uno della Defense Intelligence Agency. Generale, come vede la situazione in Italia? «Alcune settimane fa ho incontrato Farrage e abbiamo discusso della situazione in atto, quello che sta avvenendo in Europa è un processo storico, il baricentro si sta spostando dalla parte della gente, in Italia, in Francia e in Germania». Secondo Vallely il popolo sta prendendo coscienza della propria sovranità, di essere la spina dorsale di nazioni indipendenti che non devono per forza essere parte di un movimento globalista e globalizzante. «E questa è un ottima cosa, per l’Italia ad esempio si è compiuto un passo nella direzione che favorisce la gente. Siamo contenti». Secondo il veterano allo stato attuale le nazioni europee non hanno l’obbligo di essere parte di una entità sovranazionale come la Ue che ha dimostrato - specie in alcuni specifici casi come l’Italia - «di esigere più di quanto offra». «Non mi sembra che Bruxelles abbia fatto molto per i popoli europei fuorché creare una burocrazia pesante comandata dai soliti noti. Sta emergendo una nuova visione dell’Europa e con questo passo ci saranno interessanti scenari di cooperazione con l’America di Trump». Quindi non ci sono dubbi sulle relazioni tra Italia ed Usa? «Italia e Usa - prosegue il generale - saranno parte di un’alleanza forte ma soprattutto rinnovata fatta da governi che difendono le rispettive sovranità e si impegnano sul piano della cooperazione». Ciò indipendentemente da chi sarà il prossimo ambasciatore a Roma («c’è una lista di una decina di persona in ballo», rivela Lombardi). 

Rifugiati e lotta al terrorismo 
E proprio sul piano della cooperazione italo-americana, secondo Vallely, con l’Italia sarà cruciale affrontare il problema dei rifugiati, lavorando al contempo sulla situazione nel Mediterraneo, in Siria, Iraq e Libia. «Occorre raggiungere una stabilizzazione della regione e di Paesi come la Siria, per consentire a chi è stato costretto a lasciarla di ritornavi a vivere anziché rifarsi una vita fuori. Il problema dei rifugiati è molto serie perché è legato in diversi suoi aspetti al rischio di terrorismo ed è il veicolo utilizzato dall’Isis per entrare in Europa». E questo secondo la cerchia di Trump è un problema che deve essere affrontato e risolto con la collaborazione della Russia: «Loro hanno lo stesso problema col rischio di spinte terroristiche dal Caucaso, pertanto bisogna trovare soluzioni condivise», afferma il generale che sottolinea le sue origini itali-irlandesi. 

 La nuova resistenza 
E proprio sulla questione del terrorismo torna Lombardi con una teoria che «sta prendendo piede» in seno all’entourage di Trump. «Oggi c’è in una situazione simile a quella del 1939, l’Europa è invasa da truppe islamiste così come accadde allora con i nazisti. Non parlo delle persone in fuga dalla fame o dalla guerra che entrano in Europa per trovare lavoro, ma di personaggi aderenti all’Isis o che si ispirano ad esso sul Web, e che poco hanno a che fare con i valori reali della religione musulmana. Anzi usano la religione per attuare i loro piani espansionistici totalitari o terroristici». Gente che come attitudine è simile ai nazisti, «per questo parliamo di una sorta di “nazislamizzazione” che vuole divorare l’Europa con la Sharia». Secondo Lombardi i vari governi Renzi, Merkel e Hollande sono i Vichy di oggi, «i governicchi che si sono arresi all’arroganza e alla minaccia del terrorismo». La Brexit, l’America di Trump, l’Italia del «no» sono invece forze positive come allora lo furono Churchill, Roosvelt e lo sbarco in Sicilia. «In questo contesto occorre individuare alleati tra i movimenti conservatori e popolaristici, per rafforzare la resistenza al terrorismo. Molte persone vicine al presidente sono d’accordo - conclude Lombardi - persone vicine al presidente, da lui indicate o nominate in posti chiavi della prossima amministrazione Usa».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/07/esteri/trump-cerca-un-alleato-in-italia-per-rilanciare-la-partnership-con-gli-usa-QTYtmZagBagSkP456CvgYP/pagina.html
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:09:38 pm »

Il giuramento a Washington
Trump presidente: «Prima l’America, potere ai cittadini»

Dal nostro inviato Mario Platero 20 gennaio 2017

WASHINGTON - In una giornata solenne battuta da un’insistente pioggerellina Donald John Trump ha giurato fedeltà alla Costituzione ed è diventato il 45esimo Presidente degli Stati Uniti d'America. Trump nel suo discorso al Paese ha usato una retorica non dissimile da quella che gli ha consentito di vincere prima la battaglia fra i repubblicani e poi l'elezione contro Hillary Clinton, una retorica densa di promesse e di minacce anche dure contro chi cercherà di ostacolare il suo cammino per riformare l'America: «Vi prometto che a partire da adesso e da qui il destino e l'interesse del nostro Paese tornerà ad essere nelle vostre mani, nelle mani del popolo...da oggi comincia un'epoca nuova che rifarà l'America grande».

Le due regole di Trump: «Compra americano, assumi americano»
Donald Trump non ha offerto molte parole di apertura o di abbraccio politico a deputati e senatori che lo ascoltavano sotto la spettacolare cupola del Campidoglio, anzi, ha offerto una requisitoria contro un sistema politico che «finora ha pensato soltanto a se stesso, e ha sprecato migliaia di miliardi di dollari all'estero ignorando i nostri bisogni interni e ha accettato la chiusura di fabbriche e l'esportazione dei nostri posti di lavoro all'estero. A voi tutti in America e nel mondo dico che questo d'ora in avanti non succederà più, da oggi da Washington il potere tornerà alle grandi e piccole e grandi comunità di tutto il territorio nazionale».

Donald Trump, ringraziando la potente base cristiano-evangelica che molto ha contribuito al suo successo elettorale e che si identifica nel religiosissimo vice presidente Mike Pence ha invocato più volte il nome di Dio e l'importanza della religione come guida morale per il futuro del Paese.

In genere subito dopo una vittoria elettorale e nel momento in cui un Presidente si appresta a governare cerca di esprimere messaggi conciliatori. Che questa volta non fosse il caso lo si capiva dal ritratto che ha scelto Donald Trump per l'invito formale all'inaugurazione di questo 20 Gennaio 2017. Mentre il Vice Presidente Mike Pence mostra un viso rilassato e sorridente Trump si presenta con un volto arcigno e quasi minaccioso, cosa che non è mai successa in passato: le foto ufficiali dei Presidenti sono in genere bonarie e sorridenti, al massimo alcuni decenni fa potevano essere serie.

Non ci si aspettava ad esempio che Trump potesse invocare in modo diretto ed esplicito il «protezionismo» come strategia economica per restituire vigore al paese. È vero ha parlato di tariffe, ma sempre in modo molto mirato, ora contro il Messico o contro la Cina. Che abbia usato il termine così diretto nel suo discorso d'accettazione è in effetti significare una svolta che molti economisti ritengono possa tradursi in una pericolosa recessione. «Il protezionismo ci aiuterà a riaprire fabbriche in America e restituirà alle persone i posti di lavoro in territorio americano», ha detto Trump ad un certo punto del suo discorso.

Il Presidente ha ricordato che varerà al più presto importanti programmi per rinforzare le infrastrutture. «Costruiremo ponti, strade, ferrovie e lo faremo comprando dall'America e con forza di lavoro americana». Trump ha poi aggiunto, usando per la seconda volta un termine che dovrebbe trasmettere immediatezza: «A partire da qui e da questo momento sradicheremo gangs, il crimine organizzato, i trafficanti di droga che hanno prodotto una carneficina in molte delle nostre grandi città». Ha anche promesso con assoluta determinazione di «sradicare» il terrorismo islamico.

Ha colpito nel discorso di Trump un filo conduttore che ha costantemente puntato sia da un punto di vista economico che da quello delle alleanze militari a mettere sempre l'interesse degli Stati Uniti d'America davanti a quello di chiunque altro. «Che il mondo prenda nota, da oggi l'America metterà il suo interesse davanti a qualunque altra cosa».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-01-20/trump-presidente-svolta-protezionista-193320.shtml?uuid=AEACSjE
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:14:43 pm »

Trump, Prodi: “Discorso preoccupante il suo. Europa unita o finiamo male”

Di David Marceddu | 21 gennaio 2017

L’arrivo di Donald Trump “è proprio la rivoluzione del mondo”. Parola dell’ex premier Romano Prodi. “Quando uno parte dicendo, l’America first. America prima contro gli altri, questo è il discorso di Trump ieri; questo ci rende preoccupati”, spiega il professore ospite di un convegno all’istituto Salesiano di Bologna. L’ex presidente della Commissione europea sottolinea le contraddizioni del neopresidente Usa: “Spara contro la Nato e il suo ministro della Difesa dice che la Nato è necessaria; un giorno dice che la capitale di Israele è Gerusalemme, un altro che è Tel Aviv. Abbiamo delle contraddizioni fortissime”. Secondo Prodi, anche alla luce del discorso di insediamento del nuovo presidente, c’è la “necessità dell’Europa di mettersi assieme perché di fronte a un’America che vuole rompere i rapporti, a un’America che mette muri, è chiaro che noi o siamo uniti o finiamo male”.

Di David Marceddu | 21 gennaio 2017
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 04, 2017, 05:35:32 pm »

Dossier | N. 13 articoli Mappamondo

Come sopravvivere all’era Trump (e al declino dell’America)

    –di R. Frydman, K. Murphy e J. Stein 02 febbraio 2017

A seguito dell’insediamento di Donald Trump non è scoppiata l’Apocalisse, ma la retorica dell’ira divina certamente sì. Invece di adottare le parole di conforto o i toni distinti di Washington, Lincoln, Franklin D. Roosevelt, Kennedy o Reagan, il discorso inaugurale di Trump conteneva espressioni come «carneficina», «popolo di Dio» e «popolo virtuoso». Non somigliava tanto ad Andrew Jackson, il presidente populista degli anni 30 dell’800 a cui lo paragonano i suoi sostenitori, sembrava più il teologo puritano Jonathan Edwards che predicava il suo terrificante sermone “Peccatori nelle mani di un dio adirato”.

Per Trump, ovviamente, i “peccatori” non sono gli adulteri e gli oziosi che aveva in mente Edwards. Sono le aziende, gli avversari nazionali e i leader esteri che hanno respinto l’idea dell’“America al primo posto”. In poche parole sono l’establishment. Sotto gli occhi di quattro dei cinque predecessori in vita di Trump – Jimmy Carter, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama – il neo-eletto definiva la loro eredità pervasa da assoluta avidità, autoreferenzialità e dalla corruzione di una radicata élite di Washington che aveva impoverito i cittadini americani e portato gli Usa sull’orlo della rovina.

Non si è trattata della mera continuazione della incendiaria retorica cavalcata da Trump durante la campagna elettorale. Ha iniziato subito a eviscerare il retaggio politico dei suoi predecessori. Il suo primo ordine esecutivo ha preso di mira l’Obamacare, minacciando di lasciare 18 milioni di americani senza assistenza sanitaria nel giro di un anno (e forse gettando scompiglio tra molti dei suoi stessi elettori). Nei giorni successivi ha firmato ordini esecutivi per far ritirare gli Usa dal Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), rilanciare gli oleodotti bocciati da Obama, costruire un muro al confine con il Messico, e tagliare i fondi per la pianificazione familiare nei Paesi in via di sviluppo. Si è anche mosso per incentivare una forza speciale per espellere gli immigrati clandestini e ha prospettato la possibilità di ripristinare carceri segrete e la tortura dei sospettati per terrorismo. Ha persino proposto di invertire gli sforzi profusi dagli Usa per combattere l’Aids in Africa (un’iniziativa di George W. Bush).

E Trump non sta solo mantenendo le promesse. Sta anche perseverando nelle menzogne. Il termine orwelliano «fatti alternativi» è prontamente entrato nel lessico politico americano dopo il suo primo intenso giorno di mandato, quando Trump e i suoi più alti consiglieri, impersonando lo spirito dei Fratelli Marx, hanno accusato i giornalisti di aver deliberatamente sottostimato la folla presente alla cerimonia di insediamento. Il secondo giorno ha ripetuto ai leader del Congresso la sua menzogna post-elettorale, secondo cui milioni di voti illegali gli avrebbero negato la maggioranza popolare andando a sostegno della sua avversaria, Hillary Clinton – e ha richiesto un’indagine ufficiale per brogli che persino i suoi stessi avvocati hanno dichiarato inesistente.
I rapporti tra il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer e i giornalisti si sono guastati al primo giorno di presidenza (Epa)

Trump e i suoi sostenitori Repubblicani al Congresso stanno prendendo provvedimenti per vigilare su fatti ben più importanti, intensificando quella che lui chiama la sua «infinita guerra con i media», e cosa ben più minacciosa, vietando alle agenzie pubbliche di comunicare con il pubblico – o addirittura di raccogliere dati – sul cambiamento climatico, sulla discriminazione nel settore immobiliare e su molto altro ancora. Sembra determinato ad avvalersi del potere presidenziale per elevare l’“iperbole reale” – il credo decantato nella sua autobiografia del 1989 “Trump. L’arte di fare affari” – a etica del governo.

Ma trasformare la mendacia in politica nazionale è la formula per creare, e non per fermare, la «carneficina», e non solo in patria. Dopo tutto, in una crisi, quale leader mondiale sano di mente prenderebbe in parola Trump?

Secondo i commentatori di Project Syndicate ora la questione centrale del nostro tempo è anticipare e attenuare l’impatto destabilizzante dell’amministrazione Trump in tutto il mondo. Un risultato di importanza fondamentale, a loro avviso, è già certo: nell’ordine mondiale che Trump abbandonerà, l’America non sarà al primo posto.

    L’Analisi

Perché Trump sarà un disastro per Brexit
America anti-globale
“America first”, osserva lo storico dell’Università di Princeton Harold James, denota un’idea con un antico – e inquietante – pedigree. «Lo spirito nazionalista del discorso inaugurale di Trump – osserva James – riecheggiava l’isolazionismo propugnato dall’aviatore razzista Charles Lindbergh, che, in veste di portavoce della America First Committee, fece delle pressioni per tenere gli Usa fuori dalla Seconda Guerra Mondiale». In modo analogo, il discorso di Trump «ha rinunciato allo storico ruolo del Paese nel creare e sostenere l’ordine postbellico». Se da un lato la sua «obiezione a un’America globale non è nuova – enfatizza giustamente James – certamente lo è il sentirla da un presidente americano».

L’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer e l’ex ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio sono allarmati dal possibile impatto globale di questa visione. «America first – secondo Fischer – segnala la rinuncia, e la possibile distruzione, dell’ordine mondiale guidato dagli Usa che i presidenti Democratici e Repubblicani, a partire da Franklin D. Roosevelt, hanno costruito e mantenuto, con più o meno successo, per oltre sette decenni».

Nell’opinione di Palacio, proclamando il «diritto di tutte le nazioni di mettere i propri interessi al primo posto», Trump intende «spostare indietro le lancette dell’orologio» sul «sistema basato sulle regole» postbellico. La sua visione, secondo Palacio, implica un ritorno alle «sfere di influenza del XIX secolo, nell’ordine mondiale dove i maggiori attori quali Usa, Russia, Cina e, sì, Germania, dominavano ciascuno la propria sfera all’interno di un sistema internazionale sempre più balcanizzato».

    “America first segnala la rinuncia, e la possibile distruzione, dell’ordine mondiale guidato dagli Usa che i presidenti Democratici e Repubblicani, a partire da Franklin D. Roosevelt, hanno costruito e mantenuto, con più o meno successo, per oltre sette decenni”

Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations di New York, concorda. La visione mondiale di Trump, a suo avviso, è «alquanto incompatibile» con la cooperazione internazionale che serve oggi per affrontare i problemi più pressanti del mondo. Se la dottrina di Trump dell’America prima di tutto «continuerà a essere l’approccio statunitense – sostiene Haass – i progressi verso la costruzione del tipo di ordine che il mondo interconnesso di oggi richiede avverranno solo grazie all’impegno di altre grandi potenze; altrimenti, si dovrà attendere il successore di Trump». Questo esito, però, «sarebbe un ripiego e non farebbe che peggiorare la situazione degli Stati Uniti e del resto del mondo».

    L’Analisi

Trump-Wall Street: dopo la luna di miele arriva l’ora della verità
May Day per la relazione speciale
La possibilità di nuocere alle vitali relazioni americane si è palesata con il presidente messicano Enrique Peña Nieto che ha bruscamente cancellato una visita ufficiale sulla scia dell’ordine di Trump di avviare i lavori di costruzione del muro di confine. Al contrario, il premier britannico, Theresa May, il primo leader straniero a incontrare Trump alla Casa Bianca, sembra intenta a cementare i legami con la nuova amministrazione.

Come fa notare Dominique Moisi dell’Institut Montaigne di Parigi, al di là del condividere la «sfiducia nell’Europa», formano una coppia inaspettata. May «crede nel libero scambio e diffida della Russia, mentre Trump invoca il protezionismo e intende forgiare una partnership speciale» con il Cremlino. Eppure, nell’abbracciare una netta rottura dall’Unione europea dal referendum sulla Brexit dello scorso giugno, anche la May, «sembra essere spinta dalla politica domestica nel dare priorità alla sovranità nazionale rispetto all’economia». Di fatto, «il suo ragionamento sul popolo britannico non è diverso da ciò che dice il presidente russo Vladimir Putin ai propri cittadini: non si vive di solo pane, e rilanciare la sovranità e la grandezza nazionale vale il rischio economico».
Il primo ministro britannico Theresa May è stato il primo leader occidentale ricevuto alla Casa Bianca dal neo-presidente Donald Trump (Epa)

Philippe Legrain, ex consulente economico del presidente della Commissione Ue, non è sorpreso della scelta della May di «una variante Brexit in cui il Regno Unito lascia sia il mercato unico dell’Ue che la sua unione doganale» e non solo perché «conosce poco l’economia, e tantomeno se ne cura». Come Moisi, Legrain crede che il suo «obiettivo finale sia sopravvivere come primo ministro». Dalla prospettiva della May, «controllare l’immigrazione – da tempo un’ossessione personale – le permetterà di ingraziarsi gli elettori del ’Leave’» mentre «mettere fine alla giurisdizione delle Corte di Giustizia europea in Gran Bretagna farà placare i nazionalisti del suo Partito conservatore». Una posizione di questo tipo collima con la visione mondiale nazionalista di Trump di aver incentivato ancor di più la May ad abbandonare l’Ue dopo più di quattro decenni.

    “Il governo della May si sta dimostrando miope e sta giocando con il fuoco”
    Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga 

«La May dichiara che la Brexit consentirà al Regno Unito di concludere accordi commerciali migliori con i Paesi non appartenenti all’Ue – continua Legrain – e sta riponendo le sue speranze in un rapido accordo con l’America di Trump». Secondo Legrain, però, ci sarà un brusco risveglio: data la «disperata posizione negoziale della Gran Bretagna, anche un’amministrazione guidata da Hillary Clinton avrebbe imposto condizioni durissime a favore dell’industria americana». E osserva, «le case farmaceutiche statunitensi, ad esempio, vogliono che il servizio sanitario nazionale del Regno Unito, già a corto di liquidità, paghi di più per i farmaci». Più in generale, il semplice fatto che «come Cina e Germania, la Gran Bretagna esporta molto più verso l’America di quanto non importi dagli Usa» indebolirà la posizione della May. «Trump odia questo tipo di deficit commerciali ’ingiusti’ – fa notare Legrain – e ha promesso di eliminarli».

L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, si chiede «se il perseguimento da parte del Regno Unito di un accordo bilaterale con gli Usa sia solo di tipo economico, o se invece implichi un cambiamento più ampio della politica estera britannica». Di fatto, Verhofstadt, che sarà il capo negoziatore del Parlamento europeo per la Brexit una volta innescato formalmente dalla May il processo di divorzio (con ogni probabilità a marzo), suggerisce che «il team euroscettico di Trump stia influenzando» il suo approccio. Scommettendo «su un’alleanza con un presidente americano impopolare, inesperto e mendace per il futuro del suo Paese – scrive Verhofstadt – il governo della May si sta dimostrando miope e sta giocando con il fuoco». Dopo tutto, «la stragrande maggioranza del commercio britannico è con l’Ue, e non con gli Usa; e questo, come la posizione geografica e la sicurezza del Regno Unito, non cambierà».

    L’Analisi

Donald Trump e Xi Jinping, la battaglia sulla globalizzazione
Distruggere i cuscinetti di pace
Sull’ultimo punto – la difesa delle democrazie del mondo – Verhofstadt, come altri commentatori di Project Syndicate, ha le idee chiare. «Ora che la presidenza di Trump ha messo in dubbio le garanzie Usa per la sicurezza – spiega – il Regno Unito e l’Ue dovrebbero forgiare una partnership strategica per garantire la sicurezza europea» e «devono difendere e promuovere i valori democratici liberali a livello globale, e non abbracciare il nazionalismo narcisistico dei populisti». Iain Conn, Ceo di Centrica (casa madre di British Gas), crede in modo analogo che «sia più importante che mai che le democrazie avanzate si siedano attorno allo stesso tavolo», non solo per affrontare problemi globali correnti e futuri, come suggerisce Haass, ma anche per salvaguardare la propria sicurezza. «Dobbiamo proteggere i legami che uniscono – sostiene Conn – e riporre le nostre speranze future nelle alleanze e nelle tradizioni condivise».

La domanda è se le democrazie del mondo riusciranno a rafforzare i legami dovendo lottare per gestire crisi che molto probabilmente scoppieranno in assenza della leadership americana. Secondo Fischer, la Germania e il Giappone «saranno tra i maggiori perdenti se gli Usa con Trump abdicheranno al proprio ruolo globale». Dalla «totale sconfitta nel 1945 – osserva, entrambi i Paesi – hanno respinto tutte le forme di Machtstaat, ovvero dello ’stato di potere’», abbracciando il ruolo di «partecipanti attivi nel sistema internazionale guidato dagli Usa». Ma la loro abilità di reinventarsi e sostenersi nelle vesti di Paesi commerciali pacifici si è sempre basata sull’«ombrello di sicurezza degli Stati Uniti».
Il primo ministro giapponese Shinzo Abe. Qualora venisse rimosso l’ombrello militare Usa «la posizione geopolitica periferica del Giappone potrebbe, in teoria, consentirgli di ri-nazionalizzare le proprie capacità di difesa», sostiene l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer (Afp Photo)

Qualora venisse rimosso quell’ombrello, continua Fischer, «la posizione geopolitica periferica del Giappone potrebbe, in teoria, consentirgli di ri-nazionalizzare le proprie capacità di difesa» anche se questo «potrebbe aumentare in modo significativo la probabilità di un confronto militare con l’Est asiatico», uno scenario particolarmente allarmante «dato che diversi Paesi della regione dispongono di armi nucleari». Rispetto al Giappone, però, «la Germania non può ri-nazionalizzare la propria politica di sicurezza neanche in teoria, perché un passo di questo genere andrebbe a compromettere il principio di difesa collettiva dell’Europa». E come ci ricorda Fischer, quel principio, integrando «le ex potenze nemiche affinché non vi siano pericoli per le une e per le altre», è stato fondamentale per il mantenimento della pace in Europa.

Non sono in gioco solo gli accordi post-bellici in materia di sicurezza. Trump ha messo in discussione due grandi risultati diplomatici conseguiti negli ultimi anni: l’accordo sul nucleare iraniano e l’accordo di Parigi sul clima. «Se gli Usa recederanno da uno di questi accordi, oppure se non vi adempiranno – spiega Javier Solana, ex segretario nazionale della Nato e Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri – assesteranno un duro colpo al sistema di governance globale che si basa sugli accordi multilaterali per risolvere problemi internazionali».

Per Haass, «la cooperazione sul cambiamento climatico – potrebbe essere – la manifestazione per eccellenza della globalizzazione, perché tutti i Paesi sono esposti ai suoi effetti, indipendentemente dal rispettivo contributo». Il patto salva-clima siglato a Parigi, «in cui i governi hanno concordato di limitare le emissioni e mobilitare le risorse per consentire anche ai paesi più poveri di adattarsi – osserva Haass – è stato un passo nella giusta direzione».

    “Trump è il primo presidente americano in più di vent’anni che inizia il proprio mandato senza preoccuparsi che l’Iran oltrepassi la soglia di proliferazione nucleare di nascosto”

    International Crisis Group
Ma il disfacimento dell’accordo nucleare, noto ufficialmente come Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), rappresenta una minaccia immediata. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea), fa notare Solana, dichiara che le autorità iraniane le hanno permesso di «ispezionare ogni singola installazione che l’agenzia ha richiesto di visionare, incluse quelle cui era stato vietato l’ingresso prima dell’accordo, e ha garantito agli ispettori l’accesso ai sistemi elettronici e all’impianto per l’arricchimento». Solana cita un report dell’International Crisis Group: «Trump è il primo presidente americano in più di vent’anni che inizia il proprio mandato senza preoccuparsi che l’Iran oltrepassi la soglia di proliferazione nucleare di nascosto».

Questa conclusione, però, per quanto ben fondata e ampiamente condivisa, non necessariamente contraddice i “fatti alternativi” dell’amministrazione Trump. In questo caso, sostiene Solana, gli Usa, ritirandosi dal Jcpoa invece di «contribuire alla stabilità regionale», rischierebbero di provocare un «incubo ben peggiore» nel Medio Oriente. Secondo Solana, ci sono già «l’Arabia Saudita che intende mettere fine all’intervento militare nello Yemen», «l’Iran che inizia la campagna per le elezioni presidenziali» e «la Turchia che cerca una soluzione al conflitto siriano in linea con la propria politica sui curdi». Nel frattempo, «la Russia deve ritirare le proprie truppe dalla Siria, un intervento che ha dissanguato la sua economia». Tutti questi attori, così come l’Ue – che, precisa Solana, «deve ancora risolvere la crisi dei rifugiati» – sarebbero destabilizzati dagli effetti derivanti dall’incertezza nucleare e dalla possibilità di una corsa agli armamenti nel Medio Oriente.

    02 febbraio 2017

Trump minaccia il Messico
Mosca sul Potomac?
Forse l’unica questione di politica estera in cui gli istinti di Trump potrebbero rivelarsi corretti, anche se per le ragioni sbagliate, è la relazione russo-americana che lui stesso è deciso a portare a un livello superiore. Robert Harvey, autore ed ex membro del Parlamento britannico, fa notare che «la Russia ha generalmente rispettato gli accordi sul controllo delle armi con gli Usa» e non ha «la potenza economica e industriale per sostenere nessuna azione di guerra a lungo termine». Ma è comunque scettico. «George W. Bush e l’ex premier britannico Tony Blair inizialmente vedevano Putin come un uomo con cui poter fare affari», osserva. «Ma ora che è al potere da 17 anni, Putin si è mostrato come un leader venale e violento» che «ha riversato la tattica della Guerra fredda sui dissidenti interni e su obiettivi esteri».
«Ora che è al potere da 17 anni, Putin si è mostrato come un leader venale e violento», scrive l’ex parlamentare britannico Robert Harvey (Reuters)

Eppure, Nina Khrushcheva della New School, sicuramente non un’apologeta di Putin, pensa che Trump possa comunque inciampare nella giusta politica. «L’obiettivo immediato di Putin è di svelare la doppia morale dell’Occidente» sostiene Khrushcheva, ad esempio «abbattendo le barriere occidentali al perseguimento degli interessi russi». E spera che l’ovvia affinità fra Trump e Putin porti in qualche modo gli Usa a «concepire un approccio solido, prudente e calibrato nei confronti della Russia, un approccio che si appelli ai valori non come fosse propaganda, ma come la base di una politica estera più chiara e credibile».

Come Harvey e Khrushcheva, anche lo storico dell’economia Robert Skidelsky si focalizza sull’impatto che avrà sulla Russia l’espansione verso est della Nato nell’Europa centrale e negli Stati baltici ex sovietici. Anche Skidelsky è fortemente critico rispetto al regime di Putin e agli «abusi dei diritti umani, agli assassinii, agli sporchi trucchi e ai procedimenti penali per intimidire gli avversari politici». Detto questo, crede che «la Russia autoritaria e anti-liberale di oggi sia tanto il prodotto dell’inasprimento delle relazioni con l’Occidente quanto della storia russa ovvero della minaccia di disintegrazione che la Russia affrontò negli anni Novanta».

Skidelsky prende in prestito una tesi dell’analista russo Dmitri Trenin. «L’Occidente – afferma – dovrebbe temere più la debolezza della Russia che i suoi progetti imperialisti». Anche Harvey crede che «la posizione della Russia oggi sia ancor meno sicura di quanto non fosse negli anni Ottanta, quando l’economia indebolita dell’Unione sovietica non riuscì più a reggere il controllo di una buffer zone nell’Est Europa e di aree satellite in altre zone». Mentre, però, Harvey crede che «ben presto l’incompetenza economica di Putin gli presenterà il conto» e che l’Occidente debba attendere fino a quando ciò accadrà, Skidelsky non vede «nessuna ragione per cui non si possa stabilizzare una relazione che funzioni meglio».

    “L’Occidente dovrebbe temere più la debolezza della Russia che i suoi progetti imperialisti”
    Robert Skidelsky, storico dell’economia

Sono tre le ragioni, secondo Skidelsky. La prima: «I colpi di politica estera ben assestati da Putin, per quanto opportunistici, sono stati cauti». La seconda: «Con la potenza americana in declino e quella cinese in ascesa, una ristrutturazione delle relazioni internazionali è inevitabile»; e la terza: «La Russia potrebbe rivestire un ruolo costruttivo in questo processo di revisione, se non sopravvaluterà la propria forza». E, riprendendo anche qui la visione di Harvey, Skidelsky fa notare che «la Russia ha dimostrato» nel patto nucleare con l’Iran e nell’eliminazione delle armi chimiche della Siria «di poter lavorare con gli Usa per perseguire interessi comuni».

Ma per Carl Bildt, ex primo ministro e ministro degli Esteri svedese, ci sono diverse ragioni per diffidare di qualsiasi riavvicinamento con la Russia. Tanto per iniziare, mentre Skidelsky intravede in Putin un leader cauto, Bildt lo considera una figura scaltra. «Ogniqualvolta se ne presenti l’occasione – osserva Bildt – il Cremlino è pronto a usare tutti i mezzi a sua disposizione per riprendersi ciò che considera di sua proprietà». Anche senza «un piano definito ed esaustivo per restaurare l’impero», scrive Bildt, Putin «ha indubbiamente una chiara inclinazione a compiere avanzate di tipo imperialistico ogniqualvolta il rischio sia ragionevole, come è accaduto in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014».

Inoltre, Khrushcheva e Skidelsky si sbagliano, secondo Bildt, a mettere in dubbio l’allargamento della Nato. «L’ampliamento sia della Nato che dell’Unione europea per includere i Paesi dell’Europa centrale e i Paesi del Baltico è stato fondamentale per la sicurezza europea», insiste Bildt. «In qualsiasi altro scenario, saremmo probabilmente già bloccati in una lotta di potere profondamente pericolosa con una Russia revanscista che reclama i territori persi». E prosegue: «La Russia farà i conti con se stessa solo se l’Occidente sosterrà fermamente l’indipendenza di questi Paesi per un lungo periodo di tempo». In questo caso, «la Russia realizzerà che è nel proprio interesse di lungo termine spezzare questo modello storico, concentrarsi sullo sviluppo domestico e instaurare relazioni pacifiche e rispettose con i propri vicini».



    02 febbraio 2017
Trump continua la sua campagna anti-immigrati

La Cina prima di tutto
Forse l’inversione di rotta più pericolosa della politica estera che Trump sembra voler intraprendere riguarda la posizione degli Stati Uniti rispetto alla Cina. Christopher Hill, ex vice segretario di Stato americano, fa notare che Trump sembra «essere giunto alla conclusione che il miglior modo di sovvertire la posizione strategica della Cina sia di sottoporre a riesame tutte le passate convenzioni, compresa la politica chiamata ’One China’». In modo analogo, Stephen Roach dell’Università di Yale, ex presidente di Morgan Stanley Asia, crede che Trump stia «contemplando un’ampia serie di sanzioni economiche e politiche, dall’imposizione di dazi punitivi e dall’etichettare la Cina come ’manipolatrice valutaria’ a un avvicinamento a Taiwan».

Sia Hill che Roach prevedono un fallimento strategico se gli Usa perseguiranno questo approccio. Se da un lato «i preconcetti anti-Cina» dell’amministrazione Trump «sono senza precedenti nella storia moderna», osserva Roach, la sua strategia «si basa sull’errata convinzione che un’America nuovamente in forze abbia tutto il potere di affrontare il suo presunto avversario, e che qualsiasi risposta cinese non meriti considerazione». Ma, secondo Hill, «la Cina non è un’azienda subappaltatrice in un progetto edile e dispone dei mezzi necessari per fare pressioni sulla nuova amministrazione americana».

Roach lo spiega chiaramente: se gli Usa «insisteranno con le minacce, c’è da aspettarsi che la Cina replichi applicando sanzioni alle aziende americane che operano lì, e alla fine con i dazi sulle importazioni americane, considerazioni alquanto banali per un’economia Usa priva di crescita». La Cina potrebbe altresì diventare «decisamente meno interessata ad acquistare titoli di debito del Tesoro, e questo è un problema potenzialmente serio, considerati gli ampi deficit di bilancio federale che potrebbero verificarsi con la Trumponomics».

Anche escludendo tali esiti, Trump sembra chiaramente aver iniziato il proprio mandato disarmando i principali strumenti di influenza americana in Asia, ossia quelli derivanti dalle garanzie postbelliche dell’America sulla sicurezza e dalla sua gestione delle istituzioni multilaterali che hanno nutrito l’apertura economica globale. E, considerato il suo protezionismo e la rinuncia del Tpp, è probabile che la Cina finisca per assumere l’egemonia regionale cui si sono opposti diversi presidenti americani, sia Repubblicani che Democratici.

La leadership globale potrebbe non essere troppo lontana. Come fa notare Palacio, il presidente cinese Xi Jinping, che ha parlato per la prima volta al meeting annuale del World Economic Forum all’inizio di questo mese, è «ora il campione della globalizzazione». Daniel Silke, stratega politico del Sud Africa, va persino oltre. «L’ascesa della Cina ha fornito una nuova orbita per molti Paesi di tutto il mondo – soprattutto per le economie in via di sviluppo e quelle emergenti», osserva Silke, e le sue «eccezionali doti diplomatiche in tutto il continente africano (e sempre più nel Sudest asiatico) l’hanno resa una forza egemonica alternativa». Dal momento che gli Stati Uniti si tirano fuori e sperperano il proprio soft power (ad esempio, tagliando gli aiuti per lo sviluppo), la Cina guadagnerà «nuove opportunità per cementare il suo ruolo di provider di investimenti e di ogni specie di infrastruttura e assistenza a una serie di Paesi desiderosi di svilupparsi».

    “La Cina non è un’azienda subappaltatrice in un progetto edile e dispone dei mezzi necessari per fare pressioni sulla nuova amministrazione americana”

    Christopher Hill, ex vice segretario di Stato americano

Mentre però Silke vede una Cina che è «desiderosa di trovare una nicchia di soft-power in cui potersi affermare e ricevere consensi», l’analista strategico indiano Brahma Chellaney vede solo la freddezza del realismo strategico. I leader cinesi sono diventati estremamente abili nell’«utilizzare gli strumenti economici per favorire gli interessi geostrategici del proprio Paese», sostiene Chellaney, allo scopo «di creare una sinosfera egemonica sul fronte del commercio, della comunicazione, del trasporto e dei collegamenti per la sicurezza». Per farlo, il governo cinese sta ingegnosamente «integrando le proprie politiche estere, economiche e in materia di sicurezza». Se i Paesi in via di sviluppo rilevanti a livello strategico «sono degli Stati cui accollare debiti onerosi, i loro guai finanziari finiranno per aiutare solo i piani neocoloniali della Cina».

    28 gennaio 2017

Theresa May alla Casa Bianca
Pax Asiana?
Cosa succede se i Paesi asiatici riescono a opporsi ai progetti egemonici della Cina in un tempo in cui Trump mette in dubbio gli impegni dell’America nella regione? Anne-Marie Slaughter di New America e Mira Rapp-Hooper del Center for a New American Security ci forniscono un’analisi su cui riflettere. «Molti Paesi asiatici, tramite un coinvolgimento politico profondo e prevedibile con gli Usa, sono cresciuti rassicurati dall’impegno dell’America per la loro sicurezza», fanno notare. «E rispetto agli accordi multilaterale in materia di sicurezza come la Nato, le alleanze asiatiche dell’America si fondano su singoli patti bilaterali», lasciandole «particolarmente vulnerabili alle vicissitudini di Trump».

Invece di «scivolare nella disperazione», continuano Slaughter e Rapp-Hooper, «gli alleati asiatici dell’America dovrebbero prendere in mano la situazione e iniziare a creare una rete». Creare un’architettura regionale resistente sul fronte della sicurezza non è mai stata prima d’ora una priorità assoluta, soprattutto grazie a quelle garanzie bilaterali sulla sicurezza offerte dagli Stati Uniti. «Creando e istituzionalizzando legami tra loro – secondo Slaughter e Rapp-Hooper – gli alleati degli Usa in Asia possono riplasmare la propria rete regionale per la sicurezza passando da una stella Usa-centrica a un modello a rete, in cui siano connessi l’uno l’altro come lo sono con gli Stati Uniti». Ciò darebbe loro «un sistema in grado di rafforzare la stabilità per i tempi incerti».

Ma si tratterebbe anche di un impegno a lungo termine. Nel breve termine, la stabilità dell’Asia sarà nelle mani di Trump, che, secondo Joseph Nye di Harvard, dovrebbe diffidare «di due importanti trappole che la storia ha in serbo per lui». Una è la cosiddetta trappola di Tucidide, che prende il nome dall’antico storico greco della guerra del Peloponneso, secondo cui «la guerra cataclismica può scoppiare quando una potenza consolidata (come gli Stati Uniti) si intimorisce troppo di fronte a una potenza in ascesa (come la Cina)». L’altra, asserisce Nye, è la “trappola di Kindleberger”, dal nome di Charles Kindleberger, che «sosteneva che il decennio disastroso degli anni Trenta è scoppiato quando gli Usa hanno sostituito la Gran Bretagna come maggiore potenza globale, ma non sono riusciti ad assumere il ruolo dei britannici nel fornire beni pubblici globali».

    “Un problema per il mondo oggi è che Trump deve aver paura di una Cina che sia troppo debole e troppo forte”

In altre parole, invece di essere troppo forte, la Cina potrebbe essere troppo debole per la leadership globale. «Sotto pressione e isolata dalla politica di Trump – si chiede Nye – riuscirà la Cina a diventare un free rider dirompente in grado di spingere il mondo in una trappola di Kindleberger?» Secondo Nye, negli anni Trenta, la trappola – causata dal free riding degli Stati Uniti – contribuì al «collasso del sistema globale che provocò depressione, genocidio e guerra mondiale».

Quindi, un problema per il mondo oggi è che Trump «deve aver paura di una Cina che sia contemporaneamente troppo debole e troppo forte». Ma un altro forse ben più serio timore deriva dal fatto che, considerata l’ostinata ignoranza e l’incorreggibile indisciplina di Trump, alla fine non conterà né la trappola di Tucidide, né la trappola di Kindleberger. Come riconosce Nye, le guerre spesso sono «causate non da forze impersonali, ma da pessime decisioni prese in circostanze difficili». Al fine di eludere le trappole strategiche, conclude Nye, Trump «deve evitare gli errori di calcoli, i preconcetti e giudizi impulsivi che affliggono la storia umana».

Trump è davvero in grado di fare questo? A giudicare dai suoi primi sei giorni di mandato, la sua presidenza stessa sembra essere una lunga parata di manchevolezze umane di questo genere. E il settimo giorno certamente non si riposerà.

Traduzione di Simona Polverino
Copyright: Project Syndicate, 2017
© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-02-02/come-sopravvivere-all-era-trump-e-declino-dell-america-161659.shtml?uuid=AECzF0M
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 22, 2017, 11:49:08 am »

Il debutto di Trump in Arabia saudita è stato un successo

   Di Mario Platero

Che piaccia o no per Donald Trump il debutto internazionale in Arabia Saudita è stato già un successo personale oltre che politico. Soprattutto, questo viaggio ha avviato un nuovo corso nei confronti del mondo islamico sunnita ai danni dell’Iran. Al centro della proposta americana c’è un baratto: non vi diremo come fare le cose sul piano dei diritti civili o politici in cambio di una vostra adesione piena alla lotta contro i terroristi, contro gli estremismi, contro «il Male».

Oltre 50 paesi presenti a Riad hanno aderito al patto durante un vertice Usa-Islam senza precedenti per dimensione e respiro. C’erano tutti: dall’Albania alla Malesia, da Burkina Fasso a alla Tunisia, dalla Palestina all’Uzbekistan. E tutti hanno firmato. Trump ha anche recuperato la vecchia strategia dell’«isolamento» dell’Iran; ha restituito fiducia e un ruolo centrale nella regione e nel mondo islamico all’Arabia Saudita che lo ha ricambiato con una accoglienza regale e con la firma di accordi economici per centinaia di miliardi di dollari. Il presidente ha lanciato un appello perché le tre religioni monoteistiche lavorino insieme per cercare la pace in Medio Oriente. Un appello che difficilmente potrà essere ignorato da Papa Francesco quando mercoledì incontrerà Trump a Roma. Il presidente americano ha anche rivendicato di aver mantenuto promesse elettorali, per la lotta al terrorismo appunto, ma anche per il rilancio di investimenti e per la creazione di «centinaia di migliaia» di posti di lavoro in America.

Trump si unisce alla danza tradizionale delle spade saudita

Ecco, tutto questo può piacere o meno. Anzi, diciamo pure che a molti l’intera impostazione coreografica e politica del viaggio non è piaciuta. Ma la nuova dottrina, attenzione, disegnata non da Trump ma dai suoi fedelissimi a partire da HR McMaster, grande stratega e capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, rappresenta pur sempre una svolta chiave. I commenti dopo i discorsi e le riunioni di domenica sono stati spesso ingenerosi nei confronti di un presidente che si trova in gravi difficoltà a casa, sia sul piano delle promesse elettorali che su quello della politica. Ad esempio è ovvio che una inversione di 180 gradi su una politica americana di forte apertura nei confronti dell’Iran durante l’Amministrazione Obama non piace a coloro, anche repubblicani, che si erano schierati per uno spostamento del baricentro dei favori americani dall’Arabia Saudita all’Iran. Elliot Abrams ad esempio, di estrazione repubblicana, ex consigliere di Ronald Reagan, grande esperto di politica estera affiliato al Council on Foreign Relations, ha lanciato una critica che nel contesto Trumpiano ha poca ragione di esistere: «Inutile dire estirpiamo il terrorismo senza identificare le ragioni che all’interno dei quei paesi hanno portato al terrorismo», dice in sostanza Abrams.

    L’analisi 20 maggio 2017

Trump, debutto internazionale a Riad per uscire dall’angolo

Ma è proprio in questo che sta la svolta di Trump: non ci occuperemo delle vostre tensioni, dei vostri problemi interni, di diritti civili, non verremo a dirvi come fare la cose o a criticarvi, ma vogliamo un impegno deciso per la lotta al terrorismo. È questo il patto al centro del baratto. La pagina dei predicozzi è archiviata. I discorsi per favorire democrazie e primavere arabe sono archiviati. E visti i risultati di quella politica, chissà che non abbia ragione Trump. Jeff Zeleny sulla CNN ha invece attaccato Trump dicendo che non ha mantenuto le sue promesse elettorali: «Ha usato la retorica islamofoba per vincere le primarie e le elezioni, e oggi quella retorica è svanita. Potremmo perfino dire che il suo discorso era molto simile a quello di Obama al Cairo». Soprattutto, dice Zelany, non è vero che non ci sono state prediche visto che il discorso è stato una predica dall’inizio alla fine. Entrambe le posizioni sono errate. E rafforzano il sospetto che CNN abbia il dente avvelenato contro Trump comunque vadano le cose. La promessa elettorale di Trump era chiara: lotta senza quartiere contro il terrorismo estremisti, una lotta che doveva essere combattuta dai paesi islamici innanzitutto. Questo è stato il primo tema centrale del suo discorso e non si ravvede in questo un passo indietro ma semmai la traduzione in fatti delle sue promesse. E a provarlo c’è il documento firmato da tutti. Sarà davvero in documento vincolante, efficace? Vedremo. Intanto c’è.

Per la questione delle prediche, è vero che Trump ha insistito sulle responsabilità dei paesi firmatari a combattere estremismi e terrorismo, ha incoraggiato a scovare le mele marce, «che vogliono la morte» da quelle sane che osservano il «diritto alla vita e alla felicità». Ma quando diceva «I will not lecture you» lo diceva nel contesto di richieste per riforme. Di nuovo, si tratta della parte centrale del baratto. E chi non l’afferra non ha capito il significato storico di questo viaggio che dice in sostanza, no alla «correttezza politica», si «all’unione contro il terrorismo».

Ma Trump è andato oltre. Ha parlato in Casa Saudita della necessità di rispettare gli ebrei. Aveva al suo fianco il genero Jared Kushner, ebreo osservante. E ha detto davanti a Re Salman che sarebbe partito da Riad per Israele, cosa che i sauditi non avevano mia tollerato fino a oggi, imponendo sempre tappe intermedie. Ecco dunque che l’arrivo nel pomeriggio di oggi in Israele assume un significato simbolico a parte, anche se il governo israeliano non avrebbe voluto la visita a Abu Mazen. Il presidente americano ha anche sottolineato che la pace in Medio Oriente deve essere conclusa nel rispetto di tutti «e di tutte le religioni».

Trump contro l'estremismo islamico

Possibile che questo viaggio, per quanto controverso per le scelte radicali in materia di politica estera - Trump ha di fatto chiesto un cambiamento di regime a Teheran, cosa mai avvenuta prima per gli Usa - faccia dimenticare i problemi interni? La risposta è no. Per cavarsela nelle varie inchieste, Trump dovrà accettare di essere trasparente. Possibile che questo viaggio abbia gettato i semi per sconfiggere il terrorismo, con una retorica provocatoria e i semi per una pace in Medio Oriente? La risposta l’avremo dal tempo. Ma intanto lo scossone c’è stato. E molte delle promesse elettorali in materia sono state mantenute: il mondo islamico e arabo ha accettato, almeno sulla carta, la responsabilità collettiva di combattere in modo attivo l’estremismo religioso e le barbarie dei terroristi, certamente il male più grave del nostro tempo. Da cui sono derivati gli sconquassi politici e sociali che minacciano la stabilità dell’Occidente.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-05-22/il-debutto-trump-arabia-saudita-e-stato-successo-071646.shtml?uuid=AEGsOdQB
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 22, 2017, 11:50:31 am »

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Unità.tv  @unitaonline  · 21 maggio 2017

Trump ai leader arabi: “Cacciate i terroristi da qui”
Un importante funzionario della Casa Bianca ha detto al New York Times che il discorso servirà a “resettare” il modo in cui Trump è percepito dai musulmani

“Spero che questo incontro storico un giorno sarà ricordato come inizio della pace in Medioriente e magari in tutto il mondo” ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nell’atteso discorso sull’islam e sul terrorismo che sta pronunciando a Riyad, in Arabia Saudita, davanti a una platea di circa 50 leader dei Paesi arabi.

Un appello all’unità nella lotta al terrorismo un invito ai Paesi musulmani a combatterlo con determinazione al loro interno, dando la caccia ai militanti jihadisti e contribuendo a fermare il flusso di ritorno dei foreign fighter in America e in Europa.

“I terroristi non venerano dio, ma la morte”. Quella contro il terrorismo “non è una battaglia tra fedi, religioni o ideologie, ma tra criminali barbari e brave persone che vogliono proteggere la vita. E’ una battaglia tra il bene e il male: possiamo superare questo male solo se le forze del bene saranno unite e forti” afferma Trump a Riad.

Poi punta il dito: “E’ l’Iran il responsabile del terrorismo nel mondo. L’Iran – ha detto – finanzia gruppi estremisti che hanno diffuso caos in tutta la regione. Per decenni l’Iran ha portato distruzione in Israele e morte in America. Uno degli atti più destabilizzanti dell’Iran è in Siria”, dove sostiene gli attacchi chimici di Bashar Assad. “Il regime iraniano – ha sottolineato Trump – ha fatto soffrire troppo il suo popolo, tutte le nazioni dovranno isolarlo e pregare per il giorno in cui il popolo iraniano avrà il governo giusto, il governo che merita”.

“Unitevi a me, combattiamo insieme. Perchè uniti non possiamo fallire, nessuno ci riuscirà” ha chiuso il suo discorso.

Trump è stato accolto dal re in Arabia Saudita, sempre più nella bufera in patria. Per Donald Trump non c’è pace, con le indagini sul Russiagate che entrano nel cuore della Casa Bianca e arrivano oramai a sfiorare il presidente in persona e la sua famiglia. Nel mirino dell’Fbi ci sarebbe infatti Jared Kushner, stretto consigliere della Casa Bianca nonché genero di Trump, marito della figlia Ivanka. L’Fbi vuole interrogarlo. Sarebbe lui – stando alle voci che circolano – la ‘persona di interesse’ che gli investigatori hanno individuato nella cerchia ristretta del tycoon.

E arriva il duro attacco contro Trump del presidente del partito democratico Usa Tom Perez: “E’ il presidente più pericoloso della storia americana. Se ne deve andare”. Da settimane molti democratici auspicano l’impeachment del presidente per le vicende del Russiagate. Un obiettivo non facile da raggiungere considerando che al Congresso i repubblicani sono in maggioranza sia alla Camera che al Senato. Almeno fino al 2018 quando ci saranno le elezioni di metà mandato che rinnoveranno gran parte del Congresso.

A prendere le distanze dal presidente Usa è anche il cofondatore di Twitter Evan Williams che ha chiesto pubblicamente scusa in un’intervista al New York Times per il contributo che il social media potrebbe aver dato alla vittoria elettorale di Donald Trump. “E’ stata un brutta cosa, perchè senza Twitter molto probabilmente non sarebbe diventato presidente”, ha detto Williams: “Mi dispiace”.

Trump inoltre domani chiederà a “Benyamin Netanyahu ed Abu Mazen (Mahmoud Abbas) di intraprendere passi decisivi verso la pace“. Lo dice il sito della Casa Bianca. Secondo i media, che citano fonti Usa, tali passi riguardano per Israele “il freno degli insediamenti e il miglioramento dell’economia palestinese”, mentre per questi “la fine dell’istigazione e della violenza verso lo stato ebraico”. Per le stesse fonti “si è ancora ai primi passi nel riavvio dei negoziati”.

Un importante funzionario della Casa Bianca ha detto al New York Times che il discorso sarebbe dovuto servire a “resettare” il modo in cui Trump è percepito dai musulmani, in particolare dopo il cosiddetto muslim ban“. La CNN ha scritto che il principale autore del testo del discorso di Trump – di cui Associated Press ha ottenuto due copie – è Stephen Miller, la stessa persona che scrisse il testo del “muslim ban”.

Nella sua prima giornata in Arabia Saudita, Trump ha incontrato il re saudita Salman bin Abdulazi, ha ricevuto la medaglia Abdulaziz Al Saud, una medaglia d’oro che rappresenta la più alta onorificenza civile saudita e ha partecipato alla cosiddetta danza delle spade. Politico ha scritto che in Arabia Saudita Trump è stato trattato come un vero re, e in molti hanno usato la parola “storica” per parlare della visita. Ivanka e Melania Trump avevano maniche e pantaloni lunghi, ma non avevano un velo. Se ne è parlato soprattutto perché quando Michelle Obama andò in Arabia Saudita Trump la criticò per non averlo messo. Come ha scritto il Guardian, «le straniere non sono obbligate a coprirsi la testa con un velo», più precisamente un niqab.

Parlando del primo giorno di Trump in Arabia Saudita il New York Times ha scritto che «era quasi tutto quello di cui un presidente sotto assedio aveva bisogno. Dopo settimane difficili e cicli di notizie fuori controllo, il presidente si è attenuto alle procedure ufficiali e si è astenuto da Twitter. Il suo staff si è vantato degli accordi che sono stati firmati e le immagini mostravano un presidente apparentemente al comando del palcoscenico mondiale».

Trump resterà in Israele due giorni – andrà a Tel Aviv, Gerusalemme e Betlemme – e in seguito sarà a Roma e in Vaticano, il 24 maggio, per incontrare papa Francesco e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Poi andrà a Bruxelles, in Belgio, dove il 25 maggio incontrerà tra gli altri il nuovo presidente francese Emmanuel Macron. Il 26 e il 27 maggio sarà invece in Sicilia, per partecipare al G7 di Taormina e per visitare i militari statunitensi nella base militare di Sigonella, quella della famosa crisi di Sigonella, iniziata con il dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro.

Da - http://www.unita.tv/focus/ecco-perche-il-viaggio-di-trump-in-arabia-saudita-e-importante/
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