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Autore Discussione: Gabriel Bertinetto Il presidente: il Kosovo presto indipendente ma senza strappi  (Letto 5981 volte)
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« inserito:: Novembre 09, 2007, 11:23:34 pm »

Fassino: per la Birmania un negoziato multilaterale

Gabriel Bertinetto


Piero Fassino è da due giorni l’inviato speciale in Birmania dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera Javier Solana. «Agirò a sostegno dell’azione che già svolge il rappresentante dell’Onu, Gambari», spiega Fassino all’Unità.

Cominciamo dalla strettissima attualità. Al termine della sua seconda visita in Birmania il rappresentante dell’Onu Ibrahim Gambari dichiara che ora «la porta è aperta ad un dialogo sostanziale». Una missione in discesa allora, quella che ti appresti a svolgere?

«Questo lo vedremo. Intanto bisogna essere grati a Gambari per la pazienza e la tenacia con cui tesse la tela della mediazione, e già ottiene i primi risultati. È simbolicamente rilevante che per incontrarlo Aung San Suu Kyi sia stata almeno per qualche ora sottratta agli arresti domiciliari. Inoltre, per la prima volta dopo anni di isolamento, le sarà consentito di incontrare gli altri leader del suo partito. Certo c’è ancora molta strada da fare. Ma questi iniziali sviluppi dimostrano che quando la comunità internazionale ha una strategia convinta e la persegue con tenacia, i risultati possono arrivare».

Con quale spirito affronti questa nuova esperienza?

«È un incarico molto gratificante perché il dossier birmano è una delle massime priorità dell’agenda politica internazionale. Alle vicende di quel Paese non è rivolta solo l’attenzione delle cancellerie ma dell’opinione pubblica internazionale. Si avverte che la crisi riguarda un punto cruciale della vita del mondo contemporaneo, e cioè il riconoscimento del valore universale della democrazia e dei diritti umani come fondamento della convivenza civile. Il ruolo del movimento dei monaci nelle proteste popolari dà la dimensione di uno scontro che non è solo politico in senso stretto ma riveste un valore culturale e morale più alto. Sono quindi particolarmente grato a Solana per per avermi fatto la proposta e altrettanto grato ai governi europei per averla sostenuta con convinzione. E ringrazio particolarmente Prodi e D’Alema che hanno contribuito in modo decisivo alla mia designazione».

Quale sarà esattamente il tuo compito?

«Avrò tre obiettivi. Innanzitutto sostenere l’iniziativa di Gambari che da settimane ha avviato una mediazione fra governo birmano e opposizione. In secondo luogo interloquire, a sostegno di Gambari, con i principali attori regionali, dalla Cina all’India all’Asean. Infine concorrere a promuovere misure di apertura democratica e di dialogo fra governo e opposizione, a partire dalla scarcerazione dei detenuti politici e in particolare di Aung San Suu Kyi».

Hai già cominciato a muoverti?

«Ho appena avuto un primo colloquio con Solana in cui si è definito con nettezza il ruolo Ue in appoggio all’impegno di Gambari. Ho anche parlato con Nicholas Burns, delegato di Condoleezza Rice per la crisi birmana. Mi sono messo in contatto con l’ufficio di Gambari che conto di incontrare la settimana prossima dopo il suo ritorno a New York. Inoltre attraverso le varie rappresentanze diplomatiche sto sondando sia le varie capitali europee, sia i governi di Paesi particolarmente attenti alle vicende birmane come India, Cina, Russia. Lo scopo di questo giro di colloqui è la definizione di una strategia comune. Entro novembre penso di completare un primo giro di incontri con tutti i soggetti interessati».

Stai maturando qualche idea per completare questa strategia?

«Noto che tutti convergono nel sostenere Gambari, e questo è un fatto molto positivo. Bisognerà capire quale sia il modo migliore per sostenere l’iniziativa del rappresentante di Ban Ki-moon. Si discute ad esempio se sia opportuno promuovere un gruppo di contatto di cui facciano parte alcuni dei Paesi più direttamente interessati. Penso e faccio qualche esempio, al negoziato esagonale per la crisi nucleare coreana o al Quartetto per il Medio oriente. Una struttura politica insomma che possa accompagnare gli sforzi dell’Onu. Quanto alla Ue, ritengo possa giocare un ruolo considerevole sia per il rilievo che già ora hanno le relazioni euro-asiatiche (ricordo che il 21 novembre a Singapore si terrà il vertice Ue-Asean, e lì si parlerà anche di Birmania), sia perché alcuni Paesi in particolare, come Francia e Gran Bretagna, hanno rapporti radicati nella storia con quell’area del mondo.

A parole tutti difendono diritti e democrazia, nei fatti poi l’atteggiamento di alcuni governi è a volte influenzato da interessi politici o economici che non sempre collimano con quei nobili ideali. Come ti confronterai con questo tipo di problemi?

«La crisi birmana ha evidenziato due diversi standard. Usa e Ue favorevoli a sanzioni, Cina India e altri Paesi contrari. Così è stato impossibile varare sanzioni con il marchio Onu. Evidentemente allora la prima difficoltà sarà quella di elaborare più compiutamente una strategia comune. Il fatto che per tutti la missione di Gambari rappresenti comunque il perno dell’approccio alla crisi è già un elemento che unisce la comunità internazionale. È ovvio che nella politica mondiale gli interessi geo-politici ed economici pesano. Ma sempre di meno in un mondo economicamente globalizzato si giustifica l’adozione di criteri e standard di comportamento diversi o tra loro contrastanti. È difficile pensare che la globalizzazione economica non trascini con sé una globalizzazione politica, all’interno della quale il tema dei diritti civili e democratici sia centrale, al di là delle singole dimensioni nazionali».

Aung San Suu Kyi è il simbolo della resistenza alla dittatura. Ma da anni i suoi contatti con gli altri dirigenti del movimento di opposizione clandestino sono ridotti a zero. E le vittime della repressione sono migliaia. Come terrai conto di questi fattori nella tua azione?

«L’azione della comunità internazionale a sostegno di Gambari è finalizzata a favorire una transizione democratica. Che significa scarcerazione dei detenuti politici e libertà di azione per ogni singolo militante democratico, a partire da Aung San Suu Kyi. In questo quadro bisognerà fissare un calendario per il ripristino delle libertà democratiche e la convocazione di elezioni. Lo scopo è consentire al popolo birmano di essere padrone del suo destino, ricordando tra l’altro che tra il 1988 e il 1990, pur essendo sempre al potere i militari, ci fu un periodo di effervescenza nel quale la Lega nazionale per la democrazia stravinse le elezioni parlamentari, salvo poi subirne la cancellazione da parte del regime. Nel momento in cui si promuove il dialogo, esso dovrà coinvolgere tutti i soggetti politici, attivisti sindacali, esponenti della società civile, autorità religiose. Chi svolge un ruolo di mediazione ha il dovere di incontrare tutti, inclusi coloro che stanno al potere. Perché la pace si fa mettendo a confronto le parti in conflitto».

In questi giorni stai anche lavorando al progetto di un nascente Istituto democratico per le relazioni internazionali (Idri). Di che si tratta?

«Ho proposto a Veltroni, e sono contento che abbia condiviso con entusiasmo, di dar vita a un vero e proprio istituto, sul modello dello Ndi americano (National democratic institute for foreign affairs), che promuova le attività internazionali del Partito democratico (Pd), superando lo schema tradizionale del dipartimento esteri interno al partito. L’Idri svilupperà rapporti con centri di ricerca, università, mondo diplomatico, ong, stampa specializzata, e tutto l’ampio mondo degli operatori di politica internazionale. Avrà una sua configurazione giuridica, un comitato scientifico, e un board internazionale comprendente personalità illustri del calibro, a titolo d’esempio, di Madeleine Albright, Shirin Ebadi, Dominique Strauss-Kahn, Graham Watson».

Qual è l’idea di fondo su cui poggia il progetto?

«È la natura stessa del partito democratico, che ha l’ambizione di unire le forze riformatrici in Italia ma anche di concorrere a edificare un centrosinistra più ampio su scala europea ed internazionale. L’evoluzione delle dinamiche politiche nel nuovo secolo muove ovunque verso un sempre più accentuato bipolarismo: centrosinistra e centrodestra. Laddove i partiti di sinistra avevano già una consolidata larga influenza elettorale l’evoluzione è avvenuta sul terreno dei contenuti. Vedi le innovazioni realizzate da Blair, Schroder, Zapatero, che hanno dato ai loro partiti caratteristiche sempre più di centrosinistra. In una geografia politica più frammentata come quella italiana, il progetto comporta novità anche nella forma-partito. Ma la direzione è la medesima. Del resto lo stesso Partito socialista europeo (Pse) non ha solo seguito con interesse la nascita del Pd ma l’ha accompagnata con scelte significative, come la modifica dello statuto. Esso ora cita come campo di riferimento del Pse non solo le forze socialiste e socialdemocratiche, ma anche quelle laburiste, progressiste e democratiche. E conseguentemente il Pse ed il suo gruppo parlamentare a Strasburgo si apprestano ad assumere un nome nuovo e più largo».

Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 13.15   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 25, 2007, 11:56:11 pm »

Talebani contro la rinascita

Gabriel Bertinetto


Non ha ceduto alla retorica Romano Prodi nel definire «sacrificio eroico» la morte del militare Daniele Paladini. Senza il suo intervento è probabile infatti che la strage sarebbe stata ancora più sanguinosa.

Stando alle prime informazioni, Paladini ed altri soldati italiani, facendosi incontro al sospetto kamikaze, gli hanno impedito di avvicinarsi ulteriormente al luogo in cui una folla numerosa era riunita per l’inaugurazione di un ponte. Sapevano cosa rischiavano ma era loro dovere correre quel pericolo, e non si sono tirati indietro. Non stavano dando la caccia ai nemici. Stavano vigilando sulla sicurezza dei civili nel giorno in cui veniva aggiunta un’altra piccola pietra all’edificio della ricostruzione nazionale. Che è poi la ragione principale della presenza italiana in seno all’Isaf (Forza internazionale di assistenza per la sicurezza). Ed è da qui che vorremmo partire per alcune brevi considerazioni sullo stato della missione a guida Nato in Afghanistan.

In primo luogo, si moltiplicano gli attacchi consapevolmente diretti a colpire la popolazione durante cerimonie pubbliche cui è prevista la partecipazione sia delle autorità sia della gente comune. Terribile l’episodio del 6 novembre scorso in un piccolo centro della provincia di Baghlan: 80 vittime, compresi 6 parlamentari e ben 59 bambini. Erano riuniti all’interno di uno zuccherificio, che riprendeva a produrre, a creare ricchezza e lavoro. Un kamikaze si è fatto saltare fra la folla, indifferente alla presenza di tanti piccoli innocenti. Lo scopo di attentati simili è minare alla radice il rapporto di fiducia che le attività di ricostruzione e rinascita economica favoriscono fra i cittadini afghani e lo Stato che si tenta di edificare sulle rovine della dittatura talebana. È la logica del sabotaggio, perseguita con cinismo feroce, affinchè le attività che coinvolgono i nuovi soggetti istituzionali ed imprenditoriali vengano associate nell’immaginario collettivo a scenari di violenza e di insicurezza. Da attribuire certo agli autori degli attentati, ma anche, per un meccanismo psicologico facile a scattare, a quegli stranieri in uniforme che con la loro massiccia presenza attirano i terroristi come i fiori le api, e spesso non sono in grado di intercettarli e neutralizzarli.

La seconda considerazione riguarda l’evoluzione della strategia talebana nel corso del 2007. Rispetto all’anno precedente i ribelli sembrano muoversi in maniera quasi opposta. Nell’estate del 2006 tutti i loro sforzi erano concentrati nel sud dell’Afghanistan, in un tentativo di re-impossessarsi delle province attorno a Kandahar e farne il bastione della futura riconquista del Paese, o per lo meno una replica in miniatura della teocrazia imposta da Omar e seguaci fra il 1996 ed il 2001. Arruolando forze fresche grazie a disponibilità di denaro provenienti dai buoni rapporti con i narcotrafficanti locali, gli «studenti del Corano» osarono persino sfidare le truppe Nato in battaglie campali. Conquistarono fette consistenti di territorio, ma alla fine furono respinti e dovettero disperdersi. Alla ripresa dei combattimenti, in primavera, non hanno ripetuto l’errore ed hanno suddiviso le forze in maniera diversa, evitando i concentramenti massicci e preferendo ramificarsi sul territorio in maniera più diffusa. Non solo, hanno esteso a zone diverse dai loro tradizionali insediamenti meridionali gli attacchi all’esercito ed alla polizia afghani ed ai contingenti stranieri loro alleati. In un rapporto appena pubblicato, il centro di studi strategici inglese Senlis sostiene che i talebani abbiano ormai una presenza permanente in più di metà del Paese ed anche vicino alla capitale. «È triste, eppure non bisogna chiedersi se i talebani torneranno a Kabul, ma quando -afferma il Senlis-. La loro promessa di rientrare nella capitale nel 2008 appare più verosimile che mai».

La catastrofica profezia del Senlis viene respinta come «irrealistica» dal segretario della Nato Jaap De Hoop Scheffer, e «sensazionalistica» dal presidente afghano Hamid Karzai. Nessuno dei due ne parla, ma è probabile che il loro giudizio poggi almeno in parte sulle speranze di scompaginare il campo avversario facendo leva sulla disponibilità al negoziato dimostrata da una parte della dirigenza talebana. È da mesi che Karzai, incoraggiato da progetti diplomatici come la Conferenza di pace proposta dall’Italia, persegue tenacemente questo obiettivo. I segnali di risposta positiva ci sono, ma la difficoltà sta nella composizione frammentaria del movimento armato di rivolta. Ci sono le milizie talebane e ci sono le bande di Al Qaeda. Parte delle prime collaborano con parte delle seconde, non hanno alcuna intenzione di trattare, e organizzano gli attentati più efferati, come quello di ieri a Bulbul Chashma. Altre sono invece perforabili all’offerta di rientrare nella legalità. Il problema per Karzai e i suoi emissari resta però di individuare quali siano gli interlocutori affidabili.

Pubblicato il: 25.11.07
Modificato il: 25.11.07 alle ore 14.09   
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 26, 2007, 06:57:15 pm »

La minaccia talebana

Gabriel Bertinetto


A dicembre l’Italia raddoppia. Oltre al comando della regione militare Ovest, che già detiene da alcuni anni, il nostro contingente riceverà dalla Nato anche il comando a Kabul della missione Isaf (Forza internazionale di assistenza per la sicurezza) nel suo complesso.

Non cambiano le zone di insediamento delle nostre truppe. A Kabul infatti siamo già presenti con un migliaio di soldati, così come altri 1300 sono dislocati a Herat e dintorni. Ma aumentano considerevolmente le responsabilità, benché al ministero della Difesa si faccia notare che si tratta di un normale avvicendamento e si ricorda che non è la prima volta che la Nato affida all’Italia la guida complessiva della missione. Avvenne già fra l’estate del 1905 e la primavera successiva ed allora toccò al generale Del Vecchio.

Stavolta però il passaggio di consegne avviene nel momento in cui il pericolo talebano si rivela sempre più minaccioso, e non più soltanto nelle province meridionali, dove «gli studenti del Corano» hanno sempre avuto le loro roccaforti, sin dagli inizi della conquista del potere fra il 1994 ed il 1996.

Nel momento in cui, il 6 dicembre prossimo, un ufficiale italiano subentrerà all’americano Dan McNeil al comando generale dell’Isaf, il contingente italiano sarà rafforzato con l’invio di 250 nuovi elementi. A quel punto gli effettivi saranno più o meno al massimo consentito dal decreto approvato l’anno scorso che fissa il tetto a circa 2500.

L’attentato in cui ha perso la vita sabato il maresciallo capo Daniele Paladini è stata solo l’ultimo tragico evento in una catena di episodi che dimostrano la penetrazione delle bande ribelli a Kabul e dintorni. Il centro di studi strategici inglese Senlis prevede addirittura che nel 2008 i seguaci del mullah Omar avranno nella capitale una presenza permanente. Con una frase ad effetto il rapporto del Senlis sostiene che la questione non sia più «se i talebani arriveranno a Kabul, ma quando», e prevede che ciò avvenga appunto non più tardi dell’anno prossimo.

Se ciò avvenisse davvero, il quadro della crisi afghana muterebbe in maniera allarmante, perché sino a poco tempo fa l’area della capitale era considerata dal punto di vista della sicurezza una sorta di isola felice. Ma anche qui la frequenza degli attentati terroristici quest’anno è cresciuta, benché in termini assoluti, la quantità degli attacchi rimanga molto più numerosa ed il numero delle vittime molto più alto al Sud, nelle province di Kandahar, Uruzgan, Zabul, Helmand, e nelle aree orientali al confine con il Pakistan.

Il Senlis valuta che ormai il 54% del suolo afghano ospiti insediamenti talebani stabili e strutturati. In alcuni distretti i rivoltosi controllano non solo militarmente villaggi e cittadine ma hanno messo le mani sulle attività economiche locali, gestiscono strade e impianti energetici. Questi sviluppi trascinano con sé anche un preoccupante effetto di natura psicologica, e cioè la percezione diffusa fra la popolazione che i mullah stiano tornando al potere e che sia pericoloso opporsi.

Meno pessimiste, ma ugualmente drammatiche sono le stime dell’intelligence italiana. Secondo l’ex-Sismi, ribattezzato Aise, sei province sono interamente in mano talebana, ed i ribelli ricevono aiuti costanti in armi, uomini e finanziamenti, dal vicino Pakistan.

Non si cullano in ottimistiche previsioni nemmeno gli esperti americani. Ai successi militari delle truppe statunitensi in Afghanistan non hanno corrisposto vittorie strategiche, tanto da indurre la Casa Bianca a ridimensionare gli obiettivi politici realizzabili. Malgrado la perdita di molti uomini negli scontri con le forze regolari e le truppe straniere loro alleate, i talebani hanno riacquistato il controllo di zone da cui erano stati cacciati e alimentano il caos ricorrendo sempre più frequentemente agli attentati suicidi. Il narcotraffico fiorisce, tanto da costituire la principale fonte di produzione del reddito nazionale, ed è proprio dai legami con i coltivatori e commercianti di oppio che i gruppi armati antigovernativi traggono la principale fonte di sostentamento. Viceversa la ricostruzione economica avanza a ritmi troppo lenti. «L’impressione è che non vengano fatti molti progressi»,ammette un funzionario dell’intelligence citato dal Washington Post.

In questo quadro generale tutt’altro che roseo, i bollettini di guerra diffusi dall’Isaf e dal governo afghano immettono ogni tanto dati apparentemente in controtendenza. Ieri ad esempio è stata annunciata l’uccisione di almeno 65 talebani nel corso di incursioni aeree che hanno avuto per obiettivo gruppi che tentavano di contrabbandare armi dal vicino Pakistan con carri e cavalli. Quando l’esercito afghano ha scoperto il traffico, ha chiesto l’aiuto della Nato che è intervenuto con l’aviazione. In altre operazioni hanno perso la vita una decina di ribelli.


Pubblicato il: 26.11.07
Modificato il: 26.11.07 alle ore 8.19   
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 06, 2007, 11:00:28 pm »

Dalai Lama perché no?

Gabriel Bertinetto


Difficilmente Prodi potrà ricevere il Dalai Lama. Pensiamo sia un errore. I suoi collaboratori avevano ipotizzato un incontro informale a Roma durante l’annuale raduno dei Nobel per la pace. Il Dalai Lama appartiene all’illustre compagnia, essendone stato insignito nel 1989, l’anno della sanguinosa repressione sulla Tiananmen. L’agenda degli appuntamenti ufficiali però, fanno sapere a Palazzo Chigi, non consente il contatto. Il 13 ed il 14 infatti il presidente del Consiglio dovrà assentarsi per un doppio impegno in ambito Ue, a Lisbona e Bruxelles. E tuttavia, se prendiamo in mano il calendario, vediamo che il leader spirituale tibetano sarà a Roma anche il 12 ed il 15. Tempi stretti, certamente, ma apparentemente non del tutto proibitivi. Tenzin Gyatso è arrivato ieri in Italia. Milano è la prima tappa. Ci sono ancora margini di tempo per trovare una soluzione.

Amnesty International lancia una campagna di sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani in Cina. L’appuntamento con le Olimpiadi di Pechino, la prossima estate, deve essere occasione per ottenere dalle autorità di quel Paese dei cambiamenti in meglio e non lo strumento per nascondere le magagne sotto lo sfavillio delle cerimonie e l’efficienza della macchina organizzativa.

È Paolo Pobbiati, presidente della Sezione italiana di Amnesty a parlare di «opportunità unica per mobilitare l’opinione pubblica direttamente e attraverso gli oltre ventimila giornalisti già accreditati, e spingere il governo di Pechino a cambiare le cose». Pobbiati ricorda l’impegno assunto sin dall’aprile del 2001 da Kiu Jingmin, vicepresidente del Comitato promotore di Pechino 2008: «Assegnandoci i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei diritti umani». Purtroppo, aggiunge Pobbiati, «a otto mesi dall’inizio delle Olimpiadi questo impegno appare lontano dall’essere rispettato», anche se ci sono state alcune positive riforme. Ad esempio quelle che consentono maggiore libertà di stampa per lo meno ai media esteri, o quelle che limitano seppure parzialmente la triste pratica delle esecuzioni capitali. «Solo l’anno scorso potrebbero essercene state -afferma Daniela Carboni, che dirige l’ufficio campagne e richerche di Amnesty- fra 7500 ed 8000», benché le cifre ufficiali siano più basse. Ma è positivo che la Corte suprema ora abbia ripreso la funzione di verifica e di eventuale annullamento delle pene capitali inflitte dai tribunali locali.

Un fenomeno particolarmente odioso sta accompagnando l’impetuoso boom edilizio degli ultimi anni, ed è quello degli sfratti forzati. I preparativi per le Olimpiadi avrebbero da soli portato all’allontanamento di un milione di persone dalle loro case. Una cifra enorme, anche se, per le autorità, le vittime della «riqualificazione urbana» sarebbero solo seimila. Carboni mette in guardia i giornalisti che seguiranno i Giochi: «Vedrete una città ripulita. Pensate che ciò è avvenuto in gran parte grazie alla fatica di coloro che sono condannati alla cosiddetta rieducazione attraverso il lavoro. La polizia ha facoltà di arrestare chiunque a propria discrezione per un periodo sino a quattro anni, senza formalizzare le accuse e senza consentire alcuna assistenza legale. Nei centri di rieducazione attraverso il lavoro passano ogni anno circa 150 mila persone. In gran parte sono prostitute, vagabondi, ladri, ma anche dissidenti, attivisti per i diritti umani, aderenti a comunità religiose».

Nel presentare il rapporto «Pechino 2008, Olimpiadi e diritti umani in Cina», il giornalista sportivo Darwin Pastorin, che ne ha curato la prefazione, ricorda come i mondiali di calcio del 1978 furono strumentalizzati dalla dittatura argentina di allora per «mostrare una faccia pulita». Solo che «mentre in uno stadio si giocava, in un altro si torturava».

Pobbiati lamenta di non avere trovato collaborazione alle iniziative di Amnesty presso un istituto come il Coni. Con loro «il dialogo è stato impossibile», e il Coni avrebbe addirittura fatto «pressione» su alcuni atleti italiani, inizialmente disponibili a fare da testimonial per le campagne di Amnesty, e che dopo «inspiegabilmente hanno fatto marcia indietro». Il Coni ha smentito, riservandosi «di tutelare la propria immagine nei modi e nelle forme dovute».

Pubblicato il: 06.12.07
Modificato il: 06.12.07 alle ore 9.06   
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 10, 2007, 07:17:52 pm »

Il vento della secessione

Gabriel Bertinetto


Solo le anatre attraversano l’Ibar senza cambiare le piume. Gli umani, prima di passare il fiume che divide in due la città di Mitrovica, preferiscono nascondere l’identità serba, se vanno nel Kosovo di Thaci, dell’Unmik e dello Kfor, quella albanese se si addentrano nell’altro e ancor più minuscolo Kosovo, aggrappato a Belgrado con la forza di un cordone ombelicale mai reciso. Ogni autista rispettoso del codice etnico-automobilistico da queste parti viaggia con due targhe al seguito, scegliendo a seconda dei casi quale nascondere nel bagagliaio.

I più loquaci bevitori di loza, la grappa serba, diventano improvvisamente taciturni, una volta passato il ponte e messo piede nella parte sud di Mitrovica. La stessa metamorfosi potrai notare fra gli amanti della rakia, l’acquavite albanese, se si spingono a nord.

Niente di simile accade nel resto del Kosovo. Nell’enclave serba di Gracanica, ad esempio, padre Radoslav, priore del monastero ortodosso, potrà trincerarsi dietro burocratiche richieste di permessi vescovili da inoltrare con formali procedure inventate lì per lì, pur di non rispondere alle domande di un interprete albanese. E a Kosovopolje, isolotto serbo galleggiante nel mare albanese di Pristina, troverai la rassegnata frustrazione di coloro a cui è stata sottratta la chiave d’accesso al privilegio, e sono oggi più emarginati e più massicciamente disoccupati di quanto non lo fossero i discriminati di allora.

Ma è solo a Mitrovica, almeno in questa fase, che l’isolamento fra le due comunità si manifesta in forme così parossistiche. Non per nulla Nexhmedin Spahiu, docente di storia dei Balcani ed abitante di Mitrovica sud, definisce «cruciali» questa zona e la soluzione alla conflittualità permanente che vi si manifesta. Perché il fiume Ibar che l’attraversa, divide di fatto il Kosovo dell’indipendenza agognata ed imminente dal Kosovo dell’indipendenza rifiutata forse per sempre. «L’errore dell’Unmik (la missione Onu) e dei governi occidentali -aggiunge Spahiu- è di aver sempre considerato Mitrovica un caso specifico, anziché capire che era il nocciolo della questione kosovara».

«Se Thaci proclamasse l’indipendenza in tempi troppo brevi -continua Spahiu- sarebbe un disastro. I non serbi verrebbero espulsi dal Kosovo settentrionale, o fuggirebbero di loro iniziativa temendo rappresaglie. In risposta lo stesso accadrebbe all’inverso da sud. Ci vuole ancora tempo, almeno sei mesi. L’indipendenza va fatta prima di essere dichiarata, altrimenti è il caos. Voglio dire che bisogna preparare un’amministrazione in grado di funzionare, nella quale le minoranze serbe si sentano garantite davvero e partecipi. Allora anche qui a Mitrovica accetteranno la realtà. Perché, per quello che li conosco, i dirigenti serbo-kosovari non sono ovviamente entusiasti dell’indipendenza, e non saranno tra quelli che si uniranno con gioia ai festeggiamenti ed ai riti per la fondazione del nuovo Stato, ma alla fine preferiranno aderire anziché essere tagliati fuori». Sarà, ma a nord del ponte, si respira un’aria poco incline al compromesso e al pragmatismo. Almeno non è quella che si percepisce ascoltando Rade Negoevic, portavoce dello Srpsko Nacionalno Vjece (Consiglio nazionale serbo), un organismo che funziona come una sorta di potere parallelo al governo di Pristina. Massiccio e serioso, riceve all’aperto, nel piazzale fra due simboli di serba fierezza. Da un lato il monumento alle vittime di un secolo di guerre, lotte e sollevazioni. Dall’altro il bar Dolcevita, con l’ingresso scheggiato da una granata albanese, e gli avventori spesso ostentatamente ingrugniti e refrattari all’interesse mediatico di cui sono periodicamente bersaglio. «Vuol sapere che accade qui, se di là proclamano l’indipendenza -afferma Rade-. Un bel niente. A meno che gli albanesi non attacchino i nostri fratelli nelle aree serbe. In quel caso, se Unmik e Kfor (il contingente Nato) non interverranno subito a proteggerli, allora ci penserà la Serbia, mandando il suo esercito e la sua polizia». Oppure, suggeriamo incautamente, Belgrado se ne sta inerte, e si contenta di tenersi il Kosovo del nord, cioè il pezzo di Kosovo in cui abitate voi, che si staccherà dal Kosovo indipendente e resterà serbo. «"Sono veramente stufo di sentire discorsi simili. È una prospettiva che rifiutiamo categoricamente. Equivarrebbe ad abbandonare i nostri connazionali in pericolo».

Non sono tutti così categorici i dirigenti politici di Mitrovica nord. Petar Miletic è il presidente del Partito liberale indipendente (Sls), una delle poche e minuscole formazioni serbo-kosovare che non hanno boicottato il voto di alcune settimane fa per il Parlamento di Pristina. In linea di principio anche lui respinge l’indipendenza, ma più precisamente è contro una secessione «unilaterale», quel distacco rapido e non concordato con i vari soggetti interessati, che il vincitore delle elezioni Hashim Thaci era parso in un primo momento auspicare, fissandone addirittura la data ad oggi 10 dicembre. «Sarebbe un gravissimo errore da parte albanese - commenta Miletic - e innescherebbe nuove tensioni fra le comunità non solo qui a Mitrovica». Il leader dell’Sls non esclude comunque a priori l’offerta di entrare nel governo che Thaci si accinge a formare, se gli venisse offerto.

Sventolano alle finestre le bandiere bianco-rosso-blu della Repubblica serba. Le insegne di Jugobanka e Telekom Serbia impongono la loro diffusa presenza all’arredo urbano di Mitrovica nord. Seduto su una panchina il pensionato Nesho Djaric, ex-operaio metallurgico, considera con scetticismo lo scenario separatista: «Ogni anno dicono che sta per succedere, e non accade mai niente. Staremo a vedere. Ci sono tanti Stati contrari, e non solo la Russia. Certo se avvenisse, sarebbe un problema. Io sono serbo del Kosovo. Sono nato e vissuto a Mitrovica. Qui ho la mia famiglia. Qui vorrei rimanere fino alla morte. Ma se arrivano gli albanesi a comandare, piuttosto me ne vado». Tira su la lampo del giubbotto, si cala il passamontagna sugli occhi, ed ha lo sguardo un po’ triste. Viene da pensare al programma enunciato da Bajram Rexhepi, ex-premier e neo-sindaco di Mitrovica, eletto con i voti della parte Sud e l’astensione pressoché totale dei cittadini del Nord. Il suo sogno, ha detto, è governare una città finalmente unita. Nobili intenzioni.

Pubblicato il: 10.12.07
Modificato il: 10.12.07 alle ore 8.13   
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 11, 2007, 11:37:13 pm »

Evliana Berani: «No ai rinvii in Kosovo, è l’ora dei tagli chirurgici»

Gabriel Bertinetto


«È giunto il momento dei tagli chirurgici. I ritardi non giovano». Evliana Berani, consulente giuridica dell’Undp (Programma Onu per lo sviluppo) in Kosovo, è categorica: «La voglia di indipendenza fra la gente è fortissima. I dirigenti non potranno tergiversare a lungo».

Indipendenza unilaterale o concordata. Immediata o dilazionata. Abbondano le ipotesi, la diplomazia è in fermento. Che sviluppi prevede?

«Non avremo nessuna dichiarazione d’indipendenza senza un preventivo chiaro pronunciamento da parte della comunità internazionale, e mi riferisco in particolare a Usa e Ue. Ma la pressione popolare sulle nostre autorità si fa ogni giorno più incalzante, e non so come faranno a controllare la situazione. Il nascente governo è in un limbo, preso fra una doppia sollecitazione, dalla base affinché faccia presto, dall’estero affinché usi cautela».

Da dove deriva la fretta che lei nota fra i connazionali?

«La gente è stanca. Due milioni di persone hanno bisogno di sapere dove sono, perché sono trascorsi 25 anni da quando con estrema chiarezza indicarono i loro obiettivi, e ritengono di avere già accettato troppi compromessi. Molti si chiedono perché non sia stato effettuato subito, nel 1999 alla fine della guerra un taglio chirurgico che si sapeva essere comunque irrinunciabile. Allora sarebbe stato molto più semplice. Visto che gli alleati erano intervenuti, perché non prendere subito la decisione finale? Ma tornando al presente, i kosovari desiderano che sia loro indicata almeno una scadenza precisa. Vogliono sapere quanto tempo ci vuole ancora prima di diventare simili a ogni altro popolo nel mondo e negli stessi Balcani. Si sentono come una donna prigioniera di un matrimonio imposto. Sono 25 anni che patiscono il dramma di una scissione psicologica fra la volontà di liberarsi e la costrizione all’inerzia».

Cosa cambierebbe davvero con l’indipendenza? Non siete in fondo già separati di fatto dalla Serbia?

«Cambierebbe molto. Pensi alle carte d’identità o ai documenti di viaggio, di cui non è mai chiaro quale sia il valore legale, con tutte le infinite complicazioni che ne scaturiscono nella vita quotidiana in patria e fuori. Pensi alle chances di progresso economico negate, perché gli investitori stranieri esitano a rischiare del denaro in una situazione senza un quadro giuridico definito».

Lei vede segnali di tensioni intercomunitarie incombenti?

«Ogni indicatore logico porta a rispondere di sì. Il 40% dei kosovari vive con meno di due dollari al giorno. Non si può attendersi da loro la stessa pazienza che si richiede a chi guadagna migliaia di euro al mese, ed è facile capire quanto siano potenzialmente influenzabili da chi ha interesse a intorbidire le acque»

Basta l’indipendenza a stabilizzare una situazione sociale così esplosiva?

«No, ma sarebbe il catalizzatore per l’avvio di tutti gli altri cambiamenti urgenti, a partire dallo sradicamento della povertà e dal potenziamento dell’istruzione scolastica.

L’indipendenza senza garanzie per i serbo-kosovari non stabilizzerebbe granché…

«Ecco perché è necessaria la presenza della comunità internazionale. Il piano Ahtisaari (incaricato dell’Onu per il Kosovo) è incentrato proprio sulle minoranze. La logica è quella della convivenza tra comunità che non devono per forza amarsi, ma si accettano comunque reciprocamente. Del resto è molto mutato l’atteggiamento degli albanesi circa il rapporto con i serbi. Nel 2000 nessun leader politico avrebbe osato affermare esplicitamente l’obbligo di trattare bene i serbi. Oggi puoi tranquillamente mostrare quel tipo di volontà politica. Manca purtroppo lo stesso tipo di atteggiamento all’inverso da parte di Belgrado. E poi vorrei aggiungere una cosa. Sono passati solo 8 anni da quando gli albanesi, e non i serbi, erano vittime dell’oppressione, ma a volte tutto sembra già dimenticato, quasi quell’epoca non sia mai esistita».

Pubblicato il: 10.12.07
Modificato il: 11.12.07 alle ore 12.53   
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 12, 2007, 06:37:55 pm »

Tra i serbi di Caglavica: "Noi rinchiusi nei ghetti"

Gabriel Bertinetto


«Vivevo così bene a Pristina. Un bel lavoro, tanti amici, buoni rapporti con tutti, serbi o albanesi. Poi scoppia la guerra, ed eccomi confinata qua, a Caglavica, in questo recinto da cui abbiamo paura ad uscire». La bionda Miljana insegna alla elementare di Caglavica, un borgo di 450 case, pochi chilometri ad est del capoluogo del Kosovo. Pardon, capitale. Ancora nel 2004, quando questa come altre enclaves serbe fu bersaglio dell’improvviso scoppio di violenza interetnica che in pochi giorni provocò decine di morti e centinaia di feriti, l’istituto era frequentato da 18 piccoli allievi. Oggi ne sono rimasti 11. Se va avanti così, e la gente continua ad emigrare, presto non nasceranno più bambini e la scuola chiuderà i battenti.

«Come si sta male qua -si sfoga Miljana-. Io in fondo sono quasi fortunata. Ho un lavoro ed uno stipendio. Ma tutti i giorni sto in apprensione, quando i miei figli, che hanno 11 e 13 anni, prendono l’autobus per andare a Laplje Selo, perché qui non abbiamo le medie. Da un po’ di tempo non ci sono più aggressioni, ma il timore rimane. E l’altro giorno, quando li ho portati al grande magazzino subito fuori di Caglavica, li ho preavvisati: parlate a bassa voce, non fate capire che siete serbi». Albero di Natale acquistato in rigoroso silenzio. Rimpianto di un tempo che, nel ricordo dei privilegiati di allora e discriminati di oggi, si trasfigura in una sorta di età dell’oro. «Perché non si può vivere felici assieme come una volta? Prima del 1999 funzionava». Giudizio che pochi albanesi sottoscriverebbero.

Vista da Caglavica, l’indipendenza del Kosovo conserva ben poco del suo fascino di storico evento. Per Milijana significa conferma dell’isolamento nel ghetto, e «la lingua albanese per sempre obbligatoria nei tribunali, negli uffici pubblici». Per l’amica Vanja Ristic, quattro figli e un marito disoccupato come lei, quando il Kosovo sarà staccato definitivamente dalla ex-madrepatria, trovare un lavoro diventerà ancora più difficile. «Nemmeno la Serbia ci aiuterà più». Se questa realistica previsione si avverasse, la famiglia Ristic perderebbe i 120 euro di sussidio che oggi mensilmente ritira alla posta. «Arrivano da Belgrado», afferma Vanja, che vide la casa dei genitori andare in fiamme quel 17 marzo del 2004 in cui Caglavica fu assaltata da bande di estremisti albanesi.

Anche Vanja rimpiange un’era felice in cui faceva la commessa nel grande magazzino statale di tessuti Napredak e non aveva problemi economici. Oggi ha accumulato duemila euro di debiti arretrati per bollette della luce mai pagate dal 1999 in poi. «Non me lo posso permettere», dice. Vorrebbe andare via, ma non sa nemmeno lei dove. E poi ci vorrebbero dei soldi. Se potesse venderebbe la casa, come fanno tanti compaesani di questi tempi. Ma quella dove sta, un’unica stanza per sei persone, è un rudere che nessuno vuole. A meno di accettare somme irrisorie, come i settemila euro con cui un albanese con il fiuto degli affari si è accaparrato una delle palazzine devastate durante gli incidenti del 2004. Dall’enclave serba, fuggono gli slavi, arrivano gli albanesi. Sei case vendute a prezzi di favore solo negli ultimi mesi. «Ma siamo in tanti a pensarci», confida Snezhana, tranquilla cassiera dell’unico spaccio di Caglanica.

Bibite, patatine, saponette. Acquisti in dinari, la moneta di Belgrado, che circola solo a Caglavica e nelle altre isole serbe del Kosovo, soppiantata per il resto dall’euro. Clientela ridotta, magri profitti. Soprattutto per lei, Snezhana, che riceve un salario equivalente a cento euro, e non può fare a meno di paragonarlo allo stipendio che prendeva a Pristina prima che la Nato liberasse il Kosovo dall’oppressione di Milosevic, ridesse speranza alla maggioranza albanese, e complicasse la vita a buona parte della minoranza serba. «In proporzione allora guadagnavo sette volte di più, e svolgevo un mestiere più qualificato: impiegata amministrativa al centro studenti. È andata così a me come a tanti. Chi non veniva cacciato, lasciava il posto di propria iniziativa per paura di ritorsioni. Da Pristina i serbi, o i montenegrini come me, se ne sono andati tutti. E molti sono venuti proprio qui, da dove oggi tanti altri vogliono fuggire. La vede quella casa con i mattoni grigi, dall’altra parte della strada? Io abito lì. Se trovo un buon compratore, la cedo ed emigro. Dove? E che scelta abbiamo? Serbia o Montenegro. Mio marito ed i figli sono d’accordo».

Sono 120mila i serbi rimasti in Kosovo. Fino al 1999 erano circa il doppio. Sparsi in poche decine di comunità e villaggi, separati di fatto dal resto della società, oppure raggruppati a nord del fiume Ibar, cioè nell’unica porzione di territorio in cui ancora si sentano padroni. In quella Mitrovica, dove Slobodan Samadjic, cui il premier della Repubblica serba Kostunica ha delegato la cura degli Affari del Kosovo, ha appena aperto un ufficio distaccato del suo ministero. Quasi ad ammonire Pristina: questa parte del Kosovo non ve la prenderete neanche con l’indipendenza.

Fatichi a individuare in mezzo alle povere case di Caglavica la sede di Kim, radio privata che trasmette in serbo, e chiede invano da tempo il permesso di estendere le proprie frequenze oltre i dintorni di Pristina. Il giovane direttore Zivojin Rakocevic, mostra una grande foto appesa alla parete. Una veduta notturna del centro di Pristina, sfavillante di luci, ingombro d’automobili. «L’altro giorno -racconta-. È venuto qui un ragazzino di Caglanica. Ha visto quell’immagine, e mi ha chiesto: dov’è quel posto? Abita a tre chilometri da Pristina, e non c’è mai andato. Ecco cos’è l’emarginazione. Vuole un altro esempio? Qui a Caglanica molti coltivano frutta e ortaggi nell’orto. Una volta nei giorni di mercato si recavano in città per vendere il sovrappiù. Nessuno osa più farlo».

Zivojin è drastico: «Anziché creare una società più giusta, ne hanno prodotto una ancora più ermeticamente chiusa. E all’ideologia del comunismo hanno sostituito un altro contenitore vuoto chiamato indipendenza. Di questo sconquasso io accuso anche la comunità internazionale. L’Unmik (la missione Onu) è venuta nei Balcani e si è balcanizzata. E diventata una struttura chiusa in se stessa, improduttiva. Quando smobiliterà non lascerà traccia del suo passaggio. Ricorderemo per sempre di essere stati ottomani e jugoslavi, ma che qui ci sia stata l’Unmik ci passerà subito di mente».

Lunghi capelli annodati dietro la nuca, Zivojin ama le frasi ad effetto e le sentenze trancianti. Ma la sua amarezza è comune a tanti serbi locali, cui evidentemente né l’Onu, né la Nato, né i nuovi dirigenti albanesi ancora sono riusciti a comunicare il senso di un’operazione che potrebbe consentire la rinascita di tutto il Kosovo. La speranza che qualcuno alla fine affronti la realtà con spirito costruttivo rinasce, ed è davvero un paradosso, ascoltando il racconto non di un giovane, ma di un ultraottantenne che avrebbe ogni ragione per concludere invece l’esistenza nel più cupo pessimismo. Si chiama Stamenko Kovacevic, faceva l’autista, e nel 1999 fu costretto con la forza a fuggire dalla casa che con le sue mani aveva costruito a Pristina. Viveva lì con la moglie Dobrila. Troppo facile per un prepotente, forte dell’impunità che i grandi rivolgimenti garantiscono ai vincitori, approfittare di due poveri vecchi e con la minaccia di pietre nazionaliste scagliate contro i vetri, buttarli fuori senza nemmeno dare loro il tempo di portarsi via le loro cose.

«Che potevo fare -racconta Stamenko-. Quell’uomo era infuriato perché i soldati gli avevano distrutto la casa e non sapeva dove andare con tutta la sua numerosa famiglia. Ci siamo rifugiati qua a Caglavica, e con i 40 euro della mia pensione paghiamo l’affitto, ci compriamo le medicine, rinunciamo alla carne». Offre rakia e caffè turco, invitandoci a sedere sul divano nel monolocale riscaldato da una stufa a legna dove trascorre le giornate. E quando gli chiedo cosa significhi per lui l’indipendenza, spiega che ormai è acqua passata. L’indipendenza è arrivata insieme alla «pulizia etnica». Dice proprio così, equiparando la sorte dei civili serbi nel Kosovo a quella delle altre etnie perseguitate dal potere serbo in altre parti dell’ex-Jugoslavia. Ma la conclusione è luminosa: «Comunque, se dicono che l’indipendenza è ancora da fare, può darsi che porti dei risultati positivi, visto che adesso, senza indipendenza, stiamo davvero male».

Pubblicato il: 12.12.07
Modificato il: 12.12.07 alle ore 13.24   
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 15, 2007, 05:59:46 pm »

Il presidente: il Kosovo presto indipendente ma senza strappi

Gabriel Bertinetto


Siamo a colloquio con Fatmir Sejdiu, 56 anni, militante della prima ora nella lotta contro l’occupazione serba, professore universitario di diritto, coautore nel 2001 della Costituzione provvisoria. Tre giorni fa Sejdiu ha conferito a Hashim Thaci l’incarico di formare il governo. «L’indipendenza arriverà molto presto -dice-. Perseverare nello status quo non serve a niente».

Signor presidente, lei ha chiesto di essere presente il 19 dicembre alla riunione del Consiglio di sicurezza dedicata al Kosovo. Qual è il significato della sua iniziativa?
«È una richiesta naturale e ragionevole. Vogliamo presentare la nostra visione sul futuro del Kosovo e spiegare gli ultimi sviluppi. Noi pensiamo al Kosovo come ad uno Stato democratico e moderno, che si prenderà cura di tutti i cittadini a prescindere da ogni divisione etnica, in un contesto di relazioni amichevoli con tutti i Paesi vicini, compresa la Serbia. Intendiamo assumerci le nostre responsabilità per la stabilità regionale e perseguire un progetto di integrazione atlantica ed europea. Sono grato alla maggior parte dei Paesi per la collaborazione ricevuta, e ringrazio in particolare il governo italiano, con i cui rappresentanti abbiamo avuto ottimi incontri sia a Pristina che a Roma. Apprezziamo anche gli investimenti che arrivano dal vostro Paese».

Conferma l’impegno a raggiungere l’indipendenza attraverso un percorso coordinato con la comunità internazionale, senza strappi unilaterali?
«La nostra politica è molto chiara. Collaboriamo con i Paesi che ci sostengono e coordiniamo con loro le nostre attività. È importante sia rispettata la volontà popolare, ma è importante anche il buon rapporto con Usa e Ue, ed in particolare con il gruppo di contatto (Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia). Sono sicuro comunque che l’indipendenza arriverà molto presto e sarà un successo per tutti i kosovari. Perseverare nello status quo non produrrebbe effetti positivi, ormai è evidente».

La pressione popolare potrebbe indurvi a forzare i tempi?
«Siamo consapevoli della fretta diffusa tra la gente e capisco la preoccupazione dei cittadini. Del resto abbiamo constatato come tutti i processi negoziali sinora svolti si siano ormai esauriti. È tempo di decidere. Non so indicarle quale sarà il giorno dell’indipendenza, ma certo non c’è più motivo alcuno di continuare a trattare».

Il giorno non lo può dire, ma sarà prima o dopo le elezioni presidenziali che si tengono in Serbia a fine gennaio?
«Non c’è alcun collegamento con quell’evento. Fisseremo una cornice temporale attraverso consultazioni con gli alleati, ma il voto in Serbia non è influente per noi. Quello che conta invece è completare la formazione degli organismi istituzionali scaturiti dalle nostre elezioni, soprattutto creare il governo. Non pensiamo che la vittoria dell’uno o dell’altro a Belgrado rappresenti una garanzia maggiore o minore per noi e per la comunità internazionale. L’atteggiamento delle autorità serbe sul Kosovo è identico. D’altra parte abbiamo prima aspettato che si tenessero le loro parlamentari, poi abbiamo prolungato i negoziati in vista di possibili colloqui diretti che non ci sono stati. Non è più ragionevole attendere ancora».

E tuttavia cosa potete fare per rassicurare sia Belgrado sia i serbi del Kosovo che temono l’indipendenza?
«Manterremo le promesse fatte sulla base del documento Ahtisaari (rappresentante Onu). Resteremo fedeli ai principi dell’accordo di buon vicinato con i Paesi vicini, Serbia compresa. Garantiremo l’uguaglianza di tutti i cittadini, la rappresentanza in Parlamento, il riconoscimento del serbo come lingua ufficiale. Rispetteremo i diritti umani e le libertà di ognuno. Vogliamo che i serbi del Kosovo siano pienamente integrati nella nostra società e non ostaggi della politica di Belgrado. Ultimamente abbiamo avuto critiche per la disponibilità ad accettare rapporti di buon vicinato con la Serbia nonostante da lì non siano ancora mai giunte richieste di perdono per i crimini commessi contro di noi. A quelle critiche rispondiamo che non dimentichiamo certo la tragedia del nostro popolo e chiediamo che la giustizia internazionale punisca i responsabili. Ma ora è importante aprire un periodo di cooperazione con la Serbia, perché vogliamo che il nostro ed il loro Stato, ciascuno sovrano, siano integrati nell’Unione europea. Se poi a Belgrado faranno altre scelte, problema loro».

Hashim Thaci ha avuto da lei l’incarico di formare un governo di larga unità nazionale. Qual è il senso dell’operazione?
«Agire secondo l’esito delle elezioni di novembre e nel rispetto della Costituzione. Il Partito democratico (Pdk) guidato da Thaci non è in grado di governare da solo. Quindi è necessario consultare i leader delle altre formazioni e scegliere dei partner. Già sono avvenuti i primi contatti con la Lega democratica (Ldk) e altri partiti. Non c’è nulla di speciale nel creare una grande coalizione, dal momento che tutti i gruppi rappresentanti in Parlamento sono determinati a realizzare l’indipendenza e a rispettare gli altri impegni fondamentali per l’avvenire del Kosovo. A Thaci ho chiesto comunque di fare presto».

Come valuta il rischio di tensioni o incidenti nel prossimo futuro?
«Penso si tratti soprattutto di propaganda e speculazioni da parte di chi è ostile all’indipendenza. Belgrado ne è ispiratrice. Certo il rischio di provocazioni esiste, proprio perché la Serbia nei confronti del Kosovo è ricorsa spesso a metodi d’azione non convenzionali, pur avendo fatto anche lei come noi alla troika le stesse promesse di non usare la violenza. Ad ogni modo se vogliono attaccare il Kosovo, sanno quale opposizione troveranno, visto che qui sono stanziate le truppe Nato (Kfor) a difesa del territorio. Abbiamo alle nostre spalle una guerra già conclusa. Se Belgrado vuole provare a farne un’altra, sa che sarebbe una scelta contro la comunità internazionale. Per quel che ci riguarda noi parliamo un linguaggio di pace».

A proposito dello Kfor, per quanto tempo ancora dovrà rimanere?
«Ce ne sarà bisogno ancora per garantire la stabilità in Kosovo e nella regione, e fino a quando il Kosovo non avrà i suoi strumenti di difesa. Noi costruiremo le nostre forze armate secondo il modello della Nato e con la volontà di farne parte. Non credo ci sia al mondo un Paese tanto amico dell’Alleanza atlantica come il nostro. I nostri bambini sono nati e cresciuti con la Nato per così dire in casa. A Gjakova, dove sono stanziati molti soldati italiani, i ragazzini parlano la vostra lingua. Non l’hanno appresa né in famiglia né a scuola, ma dai militari, che hanno con la popolazione rapporti di amicizia».

Lo Kfor dunque resterà almeno per un po’. Se ne va invece presto l’Unmik (missione civile Onu) e arriva una missione Ue. Cosa vi aspettate dal cambio?
«Sarà un tipo di collaborazione diverso, incentrato essenzialmente nei campi della giustizia e dell’ordine pubblico. Speriamo che i tempi non siano troppo lunghi, ma naturalmente molto dipenderà dall’impegno che ci metteremo noi a sviluppare quei settori. Sono i benvenuti».

Pubblicato il: 14.12.07
Modificato il: 15.12.07 alle ore 9.00   
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