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Autore Discussione: Ingrao: Le vecchie regole ci soffocano  (Letto 2294 volte)
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« inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:53:53 pm »

Ingrao: Le vecchie regole ci soffocano

Roma, 20 dicembre 1985

Caro Bobbio,
seguo l’ordine della tua lettera. E parto dalla proposta di un «governo costituente», che mi è capitato di fare prima in un recente convegno romano del «Gramsci» e del Centro per la riforma dello Stato, e poi nel Comitato centrale del mio partito (è chiaro che «governo costituente» pretende di essere solo un’immagine: non mi sogno mica di proporre che sia il governo a fare la Costituzione…).

So che tu in proposito sei, più che incredulo, «miscredente». Ma non mi è chiaro un punto. Ricorderai che nel nostro dialogo pubblico a Torino sull’interessante libro di Pasquino Restituire lo scettro al principe, Zagrebelsky mise in campo le due categorie di «desiderabilità» e di «fattibilità»: dichiarò la riforma istituzionale altamente desiderabile, ma espresse molti dubbi sulla sua praticabilità, io non ho ancora compreso: tu consideri la riforma desiderabile, ma non fattibile; oppure ritieni che si debbano lasciare le cose come stanno, perché così stanno bene (o almeno piuttosto bene), o perché – pur stando parecchio male – non vedi strada per cambiarle? Ti pongo questa domanda perché, ancora nel nostro dialogo pubblico a Torino, tu sollecitasti molto caldamente una riforma non piccola: il cambiamento del sistema elettorale, come problema di oggi, tema concreto e attuale di questo momento.

So bene che il sistema elettorale non sta nella Costituzione, e non ha bisogno perciò di procedure straordinarie per il suo cambiamento. Ma questo non toglie nulla al peso costitutivo che esso ha nel sistema politico generale. E nessuno – mi sembra – potrebbe ragionare su quella riforma senza fare riferimento subito al tipo di parlamento, o al rapporto tra parlamento ed esecutivo, o al nesso (oppure no) con sistemi di democrazia diretta, o all’incidenza sul sistema dei partiti che il cambiamento proposto comporta.

Ecco allora la mia domanda. Sollecitando, con la passione e l’urgenza con cui l’hai fatto a Torino, una riforma elettorale, tu davvero pensi che sia possibile oggi scorporare questa delicatissima e così intrigante questione dall’insieme della riforma istituzionale? Ritieni che ci sia una forza politica oggi in Italia disponibile ad accettare di discutere una riforma elettorale così scorporata, e fuori dal contesto? Insomma a me sembra che tu stesso – sia pure da «miscredente» – al momento in cui poni sul tappeto la questione della riforma elettorale, dai conferma dell’attualità di una riforma delle istituzioni.

Qualche volta ho l’impressione di muovermi in un mondo strano. Appena non molto tempo fa il presidente del Consiglio parlò di Grande Riforma con la maiuscola, e il segretario politico del maggior partito di governo pose anche lui la questione di una riforma elettorale, che spostava l’asse del sistema di rappresentanza. Parole? Ecco allora i fatti. Si è costituita, più di un anno e mezzo fa, una commissione bicamerale composta di 41 membri, designati da tutti i partiti rappresentati nel parlamento nazionale. La commissione ha avuto come esplicito mandato non solo di studiare, ma di formulare proposte di revisione istituzionale. E ha spaziato, nella sua indagine e nelle sue proposte dal parlamento alla struttura del governo, dalla pubblica amministrazione agli statuti dei partiti e dei sindacati, dal sistema dell’informazione all’ordinamento giudiziario, ai diritti di libertà.

Sono stati confrontati programmi. Sono state delineate soluzioni. È vero che le conclusioni hanno ottenuto un magrissimo consenso: sedici voti su quarantuno membri. Ma è anche un fatto che le rappresentanze di tutti i partiti hanno presentato la loro gamma di proposte, su un arco vastissimo. Ed è vero che ancora oggi si discute dell’esito da dare a quel confronto.
E allora bisogna pensare che o quei quarantuno della commissione Bozzi erano impazziti e si divertivano a un gioco senza senso; oppure è vero che la riforma istituzionale, piaccia o no, è entrata nell’agenda politica.

Essa si è bloccata – a mio avviso – anche e proprio per la difficoltà di procedere per «tavoli separati»: con un governo che sul suo tavolo tendeva a procedere a una riforma di fatto, a mutare, per colpi di forza almeno alcuni dei delicatissimi equilibri fra esecutivo e assemblee. E allora ecco la questione: si può discutere e decidere di riforma istituzionale, mancando un quadro politico che crei le precondizioni della sua realizzabilità e dia alle diverse parti le garanzie politiche perché quel compito possa essere assolto? lo non lo credo.

Qui è la ragione, il senso del «governo costituente». Tu vedi in esso l’ossessione dell’unità ad ogni costo, e in ogni momento. Al contrario io ho parlato di un’iniziativa a termine, che ha il dichiarato obiettivo di superare il blocco della democrazia esistente oggi in Italia e di aprire la strada a un processo di alternanza e a strategie alternative.

Si può soprassedere? Consentimi un cenno a un avvenimento che si è svolto nella tua città, a Torino, al Lingotto, un luogo classico della storia dell’Italia industriale moderna e dei suoi conflitti. Confesso di essere rimasto colpito dalla tranquilla (ma si potrebbe dire anche: «rozza») arroganza con cui la crema del grande padronato italiano ha teorizzato in quella sede l’assolutismo dell’impresa, la sua supremazia affidata a una innovazione tecnologica, al tempo stesso presentata come fatto oggettivo e come fiore esclusivo dell’iniziativa imprenditoriale.

Mi è parso di sentire, nei discorsi pronunciati, l’eco di processi profondi aperti su scala mondiale – e al tempo stesso – la manifestazione di un vuoto impressionante. I processi in atto li abbiamo sotto gli occhi: la mondializzazione dell’economia, l’avanzata della società dell’informazione, la concentrazione dell’intelletto scientifico mondiale e i correlativi processi di militarizzazione. Mi domando se è possibile che il nostro paese possa reggere all’onda di questi processi senza una riforma della macchina pubblica, e un rilancio dell’iniziativa politica in senso grande. Quei processi hanno già colpito molta parte dell’edificio degli Stati nazionali, che hanno avuto la loro culla in Europa. Tutto un modo di mettere in circolo l’innovazione culturale, economica sociale tramite il veicolo degli Stati nazionali, e dei mercati nazionali che alla loro ombra sorgevano, è già per larga parte in frantumi. Perciò parliamo dell’urgenza di un’Europa politica. Perciò le diseguaglianze di sviluppo – mi sembra – investono ormai in modo impetuoso la stessa fascia dei paesi industrializzati. Le multinazionali hanno sfondato frontiere, sconvolto società e processi formativi, drenato e riordinato forze culturali.

Al Lingotto predicavano l’autosufficienza. Io invece mi domando come è possibile rispondere alla sfida delle cose senza ripensare la trama delle istituzioni e delle loro funzioni. La ragione della riforma dello Stato la colloco lì: non solo e non tanto nelle distorsioni del passato, quanto nella sfida di domani. Proprio perché l’innovazione non è più la grande ciminiera, ma una rete di competenze, una diffusione di cultura, una articolazione di servizi, una complessità di figure sociali, abbiamo bisogno di ripensare il «pubblico» e il privato, il loro rapporto.

Spesso mi sono sentito dire: «Ma perché riforme istituzionali? Ci sono tante cose da fare». Io rovescio il ragionamento: come fare tante cose urgenti, senza riforme istituzionali? Come affrontare il tema del tutto inedito di una disoccupazione massiccia connessa all’innovazione e allo sviluppo, senza dare una dimensione sovranazionale a tutta una serie di funzioni, e al tempo stesso decentrarne con audacia tante altre all’interno degli Stati nazionali, riformando da due parti la macchina dello Stato? Come gestire la trasformazione dell’economia senza ripensare la struttura del governo? Rischiare di stare fermi persino sulle questioni ultramature: perché raddoppiare inutilmente il tempo di elaborazione delle leggi (con i connessi giochi trasformistici), in un bicameralismo parlamentare che non sta più in piedi?

Non credo insomma a una possibilità dell’ordinaria amministrazione, della gestione dell’esistente. Non è questa la fase. E se il problema è posto, temo che iniziative da altre sponde possano risolverlo in modo sbagliato: il che può voler dire anche una lenta, sepolta degradazione che muta però il senso delle regole e il tessuto della convivenza. E c’è modo e modo. Ci sono crisi di regime che precipitano convulsamente; ci sono invece occulti spostamenti del potere che scavano caverne.

Credo che in questo mio ragionamento stia anche la risposta a tutta una serie di questioni importanti poste nella tua lettera. Sostengo che il farsi così urgente della riforma istituzionale, dice quanto poco basti l’affermazione, pure così importante, dell’uguaglianza dei cittadini nel voto.
Tu mi ricordi quanto è essenziale che Agnelli conti nel voto allo stesso modo di un operaio. Eppure questo non ci è bastato e non ci basta. E non solo a te e a me. Alludo a come sono andate le cose, alla storia di questo secolo. Giustamente non ci è bastato. Perché subito è emersa la questione del come si vota, del per che cosa si vota, di ciò che accade dopo il voto: in quali condizioni di conoscenza, di rapporti sociali reciproci, di controllo sulla stampa, sull’informazione, sugli apparati di governo, sui mezzi materiali. E su che cosa si vota: su quali poteri, strutturati come, affidati a chi, secondo che formule e regole. E che succede dopo il voto, per ciò che riguarda la decisione o le decisioni (al plurale), gli organi stessi della decisione, gli apparati di attuazione, le competenze. Non parlo qui degli «errori» e delle «violazioni» a cui tu alludi alla fine della tua lettera. Parlo delle forme articolate e storiche delle istituzioni, che ne definiscono la sostanza.

Del resto ti prendo in parola. Tu stesso dici di individui che si raccolgono in associazioni volontarie quali i partiti e i sindacati. E perché allora mi chiedi spiegazioni circa la democrazia di massa? Questa è la moderna democrazia di massa, se poco poco mettiamo mente a ciò che è diventata, in un insieme sempre più vasto di paesi, la trama dei partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche da partiti e sindacati: i Verdi, le donne, i pacifisti, i movimenti giovanili. E si dà anche una rete di associazioni che non hanno un volto di rivendicazione generale, ma un proclamato carattere corporativo, o addirittura di lobby. Si discute molto sulle vicende di questi così articolati e complessi tipi di associazioni. Possiamo noi oggi ragionare sugli «individui», senza vedere le loro connessioni con questa trama associativa che fa la storia politica moderna?

E non so proprio vedere i partiti solo come una somma di individui: altrimenti sarebbero solo un elenco di elettori. E invece noi abbiamo conosciuto partiti che prevedono attività continue, che si strutturano organizzativamente, che si danno ideologie e progetti, e discutono di strategie politiche per realizzarli. Abbiamo visto gli stessi sindacati ambire e rivendicare il volto di «soggetto politico». Di questi processi facciamo la storia: proprio in quanto partiti, sindacati, movimenti, non in quanto «elenco» di elettori.

E la ragione di questo cammino – lo sai cento volte meglio di me – sta nel fatto che determinati individui hanno sentito che non bastava il certificato elettorale né la regola di maggioranza, e nemmeno il diritto di presentare insieme liste di candidati. E hanno pensato insieme al durare di un programma, di iniziative comuni, di vincoli reciproci, che si prolungavano prima e dopo il voto. E ognuno di noi conosce bene la storia dell’intreccio (e anche delle disgiunzioni) fra diritto di voto e diritti di associazione, e le forme inedite e straordinarie che l’associazionismo ha preso nel corso del nostro tempo, sino anche a cristallizzazioni burocratiche, e partitocratiche, dove la stessa fisionomia individuale si è trovata a essere spenta o scavalcata. Perché allora non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo che si voglia dare a questo termine?

No, non sono d’accordo con la definizione che dai del concetto di egemonia: non mi pare riducibile alla semplice acquisizione del consenso degli elettori che si esprime attraverso il voto. L’egemonia suppone ben di più. Suppone un consenso attivo che può andare anche oltre l’immediatezza del programma: un agire oltre il voto, un agire con gli altri e verso gli altri per ottenere l’adesione dell’intiera lettura di uno stato di cose. E suppone anche che chi ha l’egemonia si presenti come fautore di interessi generali, che vanno oltre i singoli e i gruppi, e che molto spesso ambiscono a un sistema di valori. La Dc la sua egemonia l’ha realizzata non solo chiedendo l’appoggio alla lista dei suoi candidati e promettendo determinate elargizioni, ma presentandosi come partito dirigente di tutta una fase dello sviluppo nazionale, richiamandosi a una ideologia, mobilitando forze, creando alleanze internazionali. Tanto ciò è vero che essa si è rapportata per un lungo tempo a una trama di associazioni collaterali, alcune delle quali (e niente affatto minori) non erano né sindacati né partiti. E per un breve tratto del suo cammino si è collegata direttamente con la Chiesa stessa.

Non mi pare si tratti solo di una storia nostra italiana. La storia europea, in forme diverse, ci dà la trama di altre presenze egemoniche. Non parlo delle dittature dell’Est. Parlo delle vicende del movimento operaio occidentale, delle sue strutture e delle sue varianti, in Germania, in Inghilterra, Francia, Svezia, Austria, Olanda, Belgio.

Insomma, il problema di un’espansività della democrazia mi sembra dominare il secolo, e non è riducibile alla questione del suffragio universale e del principio di maggioranza, ma va oltre di essi. Si tratta dei contenuti della democrazia e della storicità delle sue forme. Altrimenti perché sarebbe stato scritto l’articolo 3 della nostra Costituzione e quel capoverso sugli ostacoli all’accesso dei lavoratori alla direzione politica del paese?

Tu dici che non è stato risolto in alcun modo il problema dell’estensione della democrazia al modo di produzione. Ed è vero. Ma il problema è lungi dall’essere cancellato. Anzi. Tutti gli sviluppi del processo produttivo, di cui parlavo prima, nella misura in cui mostrano i limiti e il consumarsi delle strategie redistributive dello Stato sociale, riacutizzano il problema anche in Occidente. Il secolo si chiude sulla fine dell’equazione fra sviluppo industriale e occupazione: lo sviluppo industriale sembra addirittura, nell’immediato, scandire l’espulsione di forza lavoro, e insieme con essa produrre un’impressionante ristrutturazione dei ruoli, delle competenze, delle figure sociali. Non sono convinto che questo non apra problemi al capitalismo. Certo ne apre per ciò che riguarda il rapporto storico tra capitalismo e democrazia politica.

Quanto alle nostre illusioni o delusioni, io sto all’immagine che tu adoperi. Tu dici che oggi la democrazia sembra «riaprire» al capitalismo. E intendi riferirti, credo, al rilancio di politiche neoconservatrici, che sono tuttora sul campo (anche se con un certo affanno rispetto all’immediato ieri). Ma allora vuoi dire che c’è stata tutta una fase in cui la democrazia si era «chiusa» al capitalismo: aveva insomma intaccato poteri, spostato regole, instaurato compromessi dinamici. È quanto mi basta per concludere che siamo dunque dinanzi a sviluppi storicamente determinati dalla democrazia, che storicamente via via la ridefiniscono nelle sue forme e nei suoi contenuti. E vuoi dire anche che, in questo farsi della democrazia, si ridefinisce dinamicamente e continuamente il rapporto con strutture sociali date, le quali subiscono modifiche, varianti, spostamenti. C’è conflitto.

E però lasciami dire che trovo un po’ forzata e deviante la tua imputazione ai comunisti di una ossessione unitaria. Non nego per nulla che la parola unità ricorra assai spesso nel vocabolario politico dei comunisti italiani: ma non solo dei comunisti italiani. In definitiva è un richiamo a quel momento associativo e aggregante, che si presenta come la principale «risorsa di potere» (per adoperare una densa definizione del socialdemocratico svedese Korpi) per incidere nelle strutture in atto e nei rapporti sociali e politici sfavorevoli. In fondo non facciamo che imparare dai borghesi, e dal modo con cui essi hanno costruito una egemonia non solo sommando voti, ma esercitando una funzione dirigente nazionale. O meglio sommando (raccogliendo) voti attraverso l’immagine di una funzione dirigente nazionale: almeno sino a dove l’hanno saputa assolvere.

L’assillo unitario è una ragione dell’egemonia. Ma il quadro è conflittuale: anzi parte dalla convinzione di contraddizioni antagonistiche. Togliatti quando parla dell’unità lo fa in ragione di un conflitto, che a suo vedere spacca il mondo e le cose: è l’unità in funzione di una lotta. E il compromesso stesso, come accordo, è visto come parte di una lotta. Ma qui vengo a parlare di cose di casa mia; e può darsi che io prenda abbagli.

Caro amico, se non ti dispiace questo dialogo a distanza (che segue ad altri, in altri momenti), ti sarò grato di una risposta.

Con l’antica stima.
Pietro Ingrao
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Copia e incolla (parziale) dalla rassegna stampa: laudellulivo.org
Topics: PERSONAGGI e PROTAGONISTI, che LASCIANO VALORI POSITIVI.
Post: Auguri a Pietro Ingrao che compie un secolo! Il suo dialogo con Norberto Bobbio.
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