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Autore Discussione: Gilberto Corbellini Una «cultura» antiempirica  (Letto 2155 volte)
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« inserito:: Settembre 20, 2016, 08:49:12 pm »

Una «cultura» antiempirica

Di Gilberto Corbellini 16 settembre 2016

Più o meno da quando ho smesso i calzoni corti leggo discussioni sulla cultura classica e/o umanistica, su quanto questa conti per la formazione del cittadino democratico, che le persone che conoscono i classici sarebbero in qualche modo migliori e più felici, sulla superiorità, equivalenza o inferiorità del liceo classico, etc. Scrivendo un libretto sulle basi culturali e psicologiche della democrazia dei moderni, ho studiato l’evoluzione storica del dibattito in alcuni contesti sociopolitici occidentali e mi sono fatto alcune idee. Così, anche su questo tema mi sono trovato in sintonia con Giovanni Jervis, condividendo l’insofferenza per le discussioni basate su esperienze personali, impressioni, “sentito dire”, etc. Soprattutto perché esiste una mole ingente di dati empirici che consentirebbe di entrare nel merito.

Viviamo, e alleviamo i giovani, in una cultura nazionale “antiempirica”, dove fatti e opinioni sono confusi prima di tutto da chi dovrebbe insegnar loro a saperli distinguere. Cercare di portare prove di quello che si dice non è costume degli intellettuali italiani, in generale.

Siamo il paese dove è stato descritto il familismo amorale e dove l’educazione cattolica ha un forte peso in età giovanile. Inoltre i programmi scolastici e il genere di cultura umanistica propinata ai giovani, carente di letteratura e filosofia anglosassone, non aiutano a capire il funzionamento del mondo moderno.

Cercando di capire perché le élites politiche, governative, economiche, etc. di questo paese da un certo momento in poi le hanno sbagliate tutte, mi sono ricordato che fino al 1969 si poteva accedere alla facoltà di giurisprudenza (e ovviamente di lettere) solo con la maturità classica. Ora, non penso certo che sia l’unica causa, ma Felice Ippolito, Adriano Buzzati Traverso o Antonio Ruberti scrivevano che in Italia non si riusciva a trovare nei leader politici, parlamentari, imprenditori e banchieri qualcuno che capisse l’importanza della cultura e della ricerca scientifica per la crescita economica e civile del paese. Non penso si possa additare tutto alla cultura cattolica, anche perché fino a metà anni Sessanta diversi ministri e dirigenti di area democristiana erano sensibili ai problemi della politica della scienza. Molto più di politici e dirigenti comunisti e socialisti. Non ho le prove, ma ipotizzo che proprio a causa del deficit di cultura scientifica presso le élites di questo paese il Parlamento italiano abbia votato cose incredibili, come la sperimentazione della terapia Di Bella, la messa al bando della ricerca sugli Ogm, la legge 40, etc. E cosa dire delle sentenze di giudici basate su credenze pseudoscientifiche? Vogliamo discutere delle idee sulla natura del diritto e della legge che sono state insegnate nelle facoltà di giurisprudenza, così smettiamo di meravigliarci per certe disfunzioni della giustizia in Italia?

Fino ai tempi di Togliatti e De Gasperi forse era abbastanza indifferente se i politici avessero o meno una cultura scientifica, ma non scordiamoci per favore cosa scrivevano Croce, Gentile e il 90% dei filosofi italiani sulla scienza, dopo l’ubriacatura di positivismo che aveva interessato anche l’Italia nei decenni a cavallo del 1900, e che aveva portato in parlamento decine di scienziati, concepito alcune leggi sanitarie molto avanzate e portato alla creazione di enti di ricerca come il CNR. Da mezzo secolo almeno però non è più indifferente. Lo stucchevole clima anti-intellettualistico, ma soprattutto anti-empirico che oggi caratterizza per esempio la logorrea populista e complottista, è figlio delle amenità e insensatezze relativiste che hanno infettato soprattutto l’ambiente culturale di sinistra.

E poi, è vero che gli scienziati creativi hanno molto spesso anche una solida cultura umanistica, e conoscono a livello quasi specialistico soprattutto arti visive o musica. Ma probabilmente sanno apprezzare la cultura umanistica anche perché sono creativi e scienziati.

Il fatto è che troppi umanisti non sanno niente di scienza, e questo avrebbe poca importanza se non giudicassero questa lacuna o irrilevante o un merito. Questo non c’entra col saper tradurre dal greco e dal latino, ma se queste capacità sono rinforzate socialmente si crede di possedere gli strumenti migliori per capire il mondo e si assume un tipico atteggiamento di disimpegno di fronte ai propri limiti rispetto ad altri contenuti culturali.

Negli ultimi trenta o quaranta anni è stata pubblicata una montagna di ricerca empirica su come si sviluppa l’epistemologia personale, cosa credono le persone sulla natura della conoscenza, e quando o come cambiano queste credenze, fino ad accedere al piano del pensiero critico; cioè a fare ragionamenti valutativi e ad accorgersi dei bias cognitivi ed emotivi che ostacolano una comprensione pertinente dei fatti e degli argomenti. Esistono persino studi su quanti laureati nelle prestigiose università dell’Ivy League sono in grado di capire quella ventina di idee chiave senza le quali mancano gli strumenti cognitivi per apprezzare criticamente il funzionamento delle società moderne. Il filosofo morale e psicologo dell’intelligenza James Flynn ha condotto lo studio e ha scritto un libro in merito: Osa pensare (Mondadori 2013). Prima di stracciarci pubblicamente le vesti per le sorti del liceo classico, proviamo discutere di questi fatti.

Tra queste idee chiave ci sono la fallacia naturalistica, il sillogismo pratico, la legge della domanda e dell’offerta, l’effetto placebo, il gruppo controllo, etc. Personalmente, ad esempio, penso che sia un handicap cognitivo grave e che non si dovrebbe uscire da una qualunque maturità senza sapere cosa è e come funziona un trial clinico.

Per la discussione in corso giudico istruttivo un dibattito grosso modo analogo che si svolse negli anni Trenta negli Stati Uniti. Tra le due guerre in quel paese ferveva una discussione accesa sulle basi culturali della democrazia e quali fossero i fattori che potevano esporre quel paese agli stessi rischi di totalitarismo che stavano spazzando via le libertà in tre quarti dell’Europa. Nel 1936 il filosofo dell’educazione Robert Maynard Hutchins, che presiedeva la Chicago University, pubblicava un libro intitolato The higher learning in America, dove sosteneva che l’università americana era diventata anti-intellettualistica a causa di un’istruzione naturalistica e scientifica che aveva alimentato lo scetticismo. A questa deriva, contrapponeva la superiore saggezza della metafisica e degli studi classici. A suo dire, anche «le scienze naturali derivano i loro principi dalla filosofia della natura, che a sua volta dipende dalla metafisica». Un tesi che molti filosofi ripetono, ma più per sentirsi utili che non perché possano provarla. Per Hutchins il naturalismo scientifico produceva confusione sociale, in quanto affetto da presentismo e scientismo, e in ultima istanza portava al totalitarismo. E qualcuno ci crede ancora, se usa il termine “scientista” come un insulto.

L’anno successivo il filosofo John Dewey commentava criticamente le tesi di Hutchins sulla rivista «The Social Frontiers» e tra i due si accendeva un confronto che illustrava l’incomunicabilità tra quei punti di vista circa il genere di istruzione utile per allevare i cittadini più adatti per il buon funzionamento della democrazia. Una sintesi delle tesi di Dewey si può leggere in un appassionato e bellissimo saggio del 1942, intitolato Anti-naturalism in extremis, dove il filosofo contesta puntualmente che il naturalismo scientifico fosse stato all’origine delle degenerazioni sociali e politiche che avevano prodotto i totalitarismi, argomentando che in realtà la condizione umana era di molto peggiore quando non c’era la scienza e dominavano le credenze metafisiche e religiose.

Una cosa che Dewey dimenticava è che noi non ereditiamo quello che impariamo, e non teneva conto che veniamo al mondo con centinaia di bias che erano funzionali per farci sopravvivere nel mondo preistorico, ma che non aiutano a capire come e perché il mercato, lo stato di diritto, lo scetticismo scientifico, etc. hanno prodotto società migliori. Questo vuol dire che siamo naturalmente predisposti per apprezzare gli intrattenimenti televisivi dove si mettono a discutere di fatti persone che conoscono ciò di cui stanno parlando con altre che possono solo giudicare impressionisticamente e ragionando in modi esagitati. E siamo predisposti per coltivare credenze contraddittorie (dissonanza cognitiva) e per negare le prove che dispiacciono al nostro sistema limbico.

Se esce quasi un libro al mese che illustra con numeri e fatti tutto quello che più apprezziamo, inclusa la possibilità di fare studi classici, lo dobbiamo all’impatto cognitivo e morale del pensiero scientifico, cioè critico.

Non vorrei essere frainteso. Tradurre dal greco e dal latino è un esercizio intellettuale molto sano. Come tradurre in generale. È un procedimento empirico, e alcuni filosofi hanno paragonato il lavoro ermeneutico con la procedura falsificazionista che usano gli scienziati. Popper però non penso che sarebbe stato d’accordo, avendo scritto anch’egli che una cultura umanistico-letteraria non aiuta da sola a capire la natura e il posto della scienza nell’evoluzione culturale umana.

Un po’ di umiltà e senso della misura non farebbe male a noi umanisti. Perché progettare un nuovo vaccino, un algoritmo in grado di apprendere, un esperimento per stabilire se sia la molecola X o quella Y a causare l’effetto Z, e a quali condizioni, etc. non è cosa banale. Non è di sicuro più facile che tradurre Cicerone o leggere il Parmenide di Platone e la Metafisica di Aristotele. Altrimenti si sta con quel tale decisamente sopravvalutato, il quale diceva che la «tecnica non pensa» (Heidegger), ma che guarda caso (e non per caso) era anche un po’ nazista.

Anche l’idea che gli studi classici e umanistici rendano saggi è discutibile. E comunque le società moderne progrediscono, e migliorano le persone, perché premiano l’intelligenza e non la saggezza. Perché l’idea di saggezza che emerge dagli studi classici è diversa da quella di cui parlano scrittori, filosofi o psicologi contemporanei. È intesa come una delle quattro virtù cardinali, cioè come prudenza e quindi con una forte componente legata al senso comune e all’avversione al rischio. In realtà, nella società moderne e grazie alla scienza il senso comune viene addomesticato e l’avversione al rischio governata usando i dati e la conoscenza per decidere i cambiamenti necessari da fare senza paralizzarsi e trastullarsi sacralizzando o imbalsamando l’esistente. Si pensi al dibattito in corso sul referendum costituzionale: invece di usare argomenti prudenziali o quasi terroristici contro la riforma costituzionale bisognerebbe usare l’intelligenza per cercare di capire i pro e i contro, evitando di farsi influenzare da chi fa leva sull’emotività.

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