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Autore Discussione: La disuguaglianza che arriva dal commercio  (Letto 3548 volte)
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« inserito:: Giugno 17, 2007, 11:33:23 am »

15-06-2007

La disuguaglianza che arriva dal commercio *

Paul Krugman


Negli anni Ottanta e Novanta erano sorte notevoli preoccupazioni sul possibile ruolo della globalizzazione nel favorire l’aumento delle disuguaglianze di reddito, specialmente negli Stati Uniti. La preoccupazione si basava sulla teoria economica tradizionale: fin dall’articolo di Stolper e Samuelson del 1941 sappiamo che il libero commercio può avere una grande influenza sulla distribuzione del reddito, e può peggiorare le condizioni di vasti gruppi, per esempio i lavoratori meno qualificati.
Tuttavia, dopo uno studio più attento dei numeri, l’opinione condivisa degli economisti era che l’effetto del commercio sulla disuguaglianza fosse probabilmente modesto. Di recente, Ben Bernanke ha citato questi risultati, ma ha riconosciuto un problema: "Sfortunatamente, la maggior parte dei dati empirici sull’influenza del commercio sulla disuguaglianza nei redditi risale agli anni Ottanta e Novanta e non permette quindi di dar conto degli ultimi sviluppi. Se studi sul periodo più recente possano o meno rivelare ben diversi effetti del commercio sui redditi, resta una questione aperta".

Il ruolo della Cina

Per la verità, la questione non è poi così aperta. È chiaro che l’applicazione ai dati attuali di quegli stessi modelli che nel 1997 hanno portato William Cline del Peterson Institute a concludere che il commercio era responsabile per il 6 per cento dell’allargamento del divario tra università e scuola superiore, darebbe oggi stime ben più ampie. Inoltre, alcune considerazioni che in passato sembravano limitare i possibili effetti di maggiore disuguaglianza, appaiono ora molto meno vincolanti.
Due sono le questioni fondamentali: la crescita della Cina e la crescente frammentazione della produzione.
In primo luogo, grazie alla crescita della Cina, a partire dai primi anni Novanta le importazioni nei paesi Ocse di beni prodotti dai paesi in via di sviluppo hanno continuato a salire rapidamente. Le stime di Cline si basano su dati del 1993, quando le importazioni statunitensi di manufatti dai paesi in via di sviluppo erano all’incirca il 2 per cento del Pil: oggi quel numero è vicino al 5 per cento, ed è in rapida crescita.
Allo stesso tempo, la crescita della Cina ha impedito, almeno per il momento, una evoluzione che io e altri ci aspettavamo e che avrebbe dovuto mitigare gli effetti del commercio sulla disuguaglianza dei redditi: una più alta specializzazione degli esportatori dei paesi in via di sviluppo. Scrivevo nel 1995: "Di pari passo con la loro crescita, il vantaggio comparato dei paesi di nuova industrializzazione può allontanarsi dalle produzioni a bassissima intensità di specializzazione". E questo è esattamente quello che è accaduto per i paesi che erano allora i maggiori esportatori di manufatti verso l’area Ocse. Come ha mostrato John Romalis, le esportazioni del gruppo originario delle economie asiatiche di nuova industrializzazione si sono spostate massicciamente da prodotti ad alta intensità di lavoro a prodotti ad alta intensità di specializzazione.
Ma ecco che entra in scena la Cina, ancora oggi di gran lunga più ricca di lavoratori di quanto non fossero allora le "tigri asiatiche". Un indicatore semplice sono i tassi di salario relativo: secondo l’Us Bureau of Labor Statistics, nel 1990 nelle quattro "tigri" originali, i costi per compensi orari erano il 25 per cento di quelli americani. Oggi le stime del Bls dicono che il costo del lavoro in Cina è soltanto il 3 per cento di quello americano.

La delocalizzazione oggi

Nel 1995 ero anche convinto che gli effetti del commercio sulla disuguaglianza si sarebbero alla fine fermati, perché a un certo punto le economie avanzate non avrebbero avuto più industrie ad alta intensità di lavoro da perdere. Detto più formalmente, avremmo raggiunto un punto di completa specializzazione, oltre il quale la crescita del commercio non avrebbe più avuto alcun effetto sui salari. Quello che è accaduto, invece, è che il limite continua a spostarsi in avanti perché il commercio crea "nuove" industrie ad alta intensità di lavoro attraverso la frammentazione della produzione.
Per esempio, la fabbricazione di microprocessori per personal computer è indubbiamente un processo molto delicato e ad alta intensità di specializzazione. Ma ora la produzione del microprocessore Intel prevede due fasi: la fase "fabs", nella quale si stampano i circuiti sui dischi di silicone, è sempre localizzata in paesi avanzati con salari alti, ma le fasi di assemblaggio e prova, che servono a suddividere i dischi in singoli chip e a testarli per assicurarsi che funzionino, sono eseguite in Cina, Malesia e Filippine.
La delocalizzazione dei servizi, che procede in entrambe le direzioni, offre altre possibilità al commercio che porta disuguaglianza. Le fasi altamente specializzate dei processi di produzione che si svolgono principalmente nel terzo mondo, sono ora spesso localizzate nei paesi Ocse. Per esempio la Lenovo, l’azienda cinese di computer, ha il suo quartier generale in Nord Carolina.
Tutto ciò porta alla conclusione che non è più possibile affermare, come facevamo qualche anno fa, che gli effetti del libero commercio sulla distribuzione del reddito nei paesi ricchi sono sostanzialmente minimi. Al contrario, si può sostenere che sono notevoli e crescenti.
Ciò non significa che ho intenzione di abbracciare le tesi del protezionismo. Significa, però, che i fautori del libero commercio devono trovare risposte migliori alle ansie di coloro che molto probabilmente si troveranno dalla parte perdente della globalizzazione.

*tratto da lavoce, versione originale in inglese su voxeu.org
 
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