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Autore Discussione: INDRO MONTANELLI L’addio di Montanelli ai lettori de La Stampa: «Continuerò a...  (Letto 4126 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Settembre 06, 2016, 04:35:34 pm »

Cari piemontesi, mi mancherete. Ma che imbarazzo stare tra voi
L’addio di Montanelli ai lettori de La Stampa: «Continuerò a rimpiangere questo giornale»

Indro Montanelli
28/08/2016

Di seguito l’ultimo Controcorrente di Indro Montanelli, la sua rubrica domenicale che appariva in terza pagina su La Stampa. Nell’articolo, del 21 aprile 1974, il giornalista si congedava dai suoi lettori, che lasciava per fondare Il Giornale a Milano.

I casi della vita hanno voluto che all’età in cui si usa passare nella riserva, io venissi richiamato in servizio permanente effettivo come direttore di un nuovo quotidiano che sta per nascere a Milano. Qualcuno considera eroica questa impresa, qualche altro pazza: solo i fatti diranno chi ha ragione. Ma intanto mi vedo costretto a prendere congedo da questo giornale e dai suoi lettori. E lo faccio con sincero rammarico anche perché questo mi capita proprio nel momento in cui mi pareva di aver cominciato a stabilire con essi un certo rapporto fiduciario. Se m’illudo, scusatemi. Ma lasciate che vi dica cosa prova un non piemontese quando si trova improvvisamente a parlare a un pubblico piemontese: vi servirà a capire non il Piemonte, ma come il Piemonte è visto da chi non vi appartiene. 

Quando, in un momento piuttosto delicato della mia vita professionale, La Stampa m’invitò a collaborare, ebbi un soprassalto di gioia subito, seguito da un brivido di paura. Rimasto orfano, mi vedevo adottato da una famiglia che, come rango e prestigio, non aveva nulla da invidiare a quella da cui provenivo, e nella quale ritrovavo vecchi amici e compagni di lavoro. A porte chiuse, mi ci sentivo a casa mia. Ma era la finestra che mi atterriva. 

Io sono un lavoratore di penna piuttosto facile. Il foglio bianco non m’intimidisce. Di solito lo riempio di getto, senza esitazioni, senza complessi, senza rimorsi, senza pormi altri problemi che di contenuto perché quelli di forma (Benedetto Croce mi perdoni l’arbitraria distinzione) non mi hanno mai tribolato. Una volta sola la penna mi pesò come una croce, e fu quando il direttore Borelli m’invitò al Corriere.

La rubrica 
Aldo Borelli era un burbero benefico. Quando vide il mio volto imberbe, si arrabbiò, cioè finse di arrabbiarsi, mi disse che lui dirigeva un giornale, non un asilo infantile e m’ingiunse di preparargli, nello spazio di un’ora e mezzo, un «elzeviro» di prova. Scaduto il termine, venne a vedermi nello stambugio in cui mi aveva rinchiuso e mi trovò con la testa reclinata sul braccio che piangevo davanti a una mezza cartella di cancellature. Mi sollevò quasi di peso, mi soffiò sul viso: «Che idiota!», e mi condusse a cena. 
Da allora - ed erano passati trentacinqu’anni - non avevo più sofferto i tormenti dell’impotenza. Tornai a provarli solo quando posi mano al primo Controcorrente. Sapevo benissimo cosa volevo dire. Ma mi paralizzava l’idea di dirlo ai piemontesi. Per evadere la difficoltà del decollo, ricorsi a tutti gli stratagemmi, compreso quello di saltare il paragrafo di apertura, il cosiddetto «cappello», rimandandolo alla fine e prendendo a mezzo il bàndolo del discorso, come se fosse già avviato. Ma invano. Come còlto da un’improvvisa balbuzie, impennavo sulla battuta, e invece di modellare il periodo lo rincorrevo a perdifiato invischiandomi in una matassa di coordinate e subordinate talmente arruffata e filacciosa che sembrava tolta di peso da un’allocuzione dell’onorevole Moro. 

Una sorda rabbia m’invase contro i piemontesi. In fondo, pensavo, chi sono? Facciamo pure l’elenco delle loro virtù e ammettiamo, scialando, che le abbiano tutte: e con ciò? Va bene, sono bravi: bravi contadini, bravi operai, bravi soldati, bravi funzionari, bravi tecnici, bravi imprenditori: e con ciò? Va bene, hanno fatto la Fiat, nessuno da questo momento lo sa meglio di me: e con ciò? Va bene, sono gli unici a sapere come si conduce uno Stato, una diplomazia, un esercito: e con ciò? Va bene, sono quelli che hanno fatto (Dio li perdoni, diceva mio nonno) l’Italia, noi li abbiamo soltanto aiutati a farla peggio di come l’avrebbero fatta loro, se l’avessero fatta da soli: e con ciò? Va bene, la loro cultura, rimasta sempre agganciata a quella europea, è meno provinciale della nostra: e con ciò? 

Ma oltre questo con ciò non sapevo andare, e come calmante valeva poco anche perché sotto sotto sentivo che poco mi restava di cui nutrirlo. Eppure, il malanimo, o almeno il malinteso fra i piemontesi e gli altri italiani (questo altri, scusate, l’ho aggiunto in fase di correzione: d’acchito, non m’era venuto in mente) è tutto qui, in un con ciò che, ridotto all’osso, significa questo: «Avete ragione, ma è proprio questo il vostro torto».

Le lettere 
Come Dio volle e a furia di con ciò propinati in dosi d’urto, arrivai in fondo, e da allora fu sempre più facile. A guarirmi dell’ambascia, o almeno a lenirmela, furono le lettere dei lettori. Non ne ho ricevute molte: i piemontesi non sono espansivi. Ma appunto perciò quelle poche sono state un balsamo: capivo che per rompere la banchisa dei loro ritegni i mittenti dovevano essere stati addirittura travolti dalla simpatia, e Dio sa, poveracci, se ora ne arrossivano come di una imperdonabile indecenza. Essi non sapranno mai quanto gliene sono grato. A loro debbo la liberazione da quella specie di «trac» che per due giorni e due notti mi aveva fatto tartagliare sul foglio bianco. 

A dirmela lunga su di loro, ci fu anche un piccolo episodio. In una delle mie rare visite a Torino - era domenica - ebbi sul treno per dirimpettaio un signore, che vidi immerso nella lettura del Controcorrente. Lo spiavo con ansia perché è proprio in questi casi che si misura la «presa» di un articolo. Se il lettore lo interrompe a metà, vuol dire che è sbagliato. Il mio dirimpettaio lo lesse fino in fondo, alzò gli occhi a guardarmi distrattamente, voltò pagina, poi mi guardò di nuovo con attenzione, ma non disse niente, e si reimmerse nella lettura senza più distrarsene per tutto il viaggio. 

Ero sicuro che mi aveva riconosciuto, e mortalmente offeso che non ne avesse dato segno. Dal mio mestiere io non mi aspetto nulla: né cattedre universitarie, né seggi parlamentari, né cavalierati o commende. Ma il «bravo!» del lettore, o almeno la sua curiosità e il suo interesse, lo voglio, lo esigo, non ammetto che mi venga lesinato. Tutto, con gli anni, mi si è intorpidito e ottuso, meno questa cupidigia di popolarità: ne sono ghiotto come lo ero quando cominciai, e una giornata che passa senza che nessuno mi fermi in strada per dirmi che concorda o discorda da me, mi sembra una giornata perduta.

Il lettore 
Arrivammo a Torino. Mi avviai all’uscita. Stavo per varcarla quando il signore, che mi seguiva, mi si affiancò e mi fece: «Ho letto quel suo articolo sull’agricoltura, e devo dire che condivido le sue idee». Lo fissai. «Ma guarda ’sto cretino - pensavo, - me lo dice ora. Potevamo ingannare la noia del tragitto con una bella conversazione, e invece...». Ma poi la gratitudine prevalse sulla rabbia, tanto che gli proposi di prendere insieme un caffè. 

Alla cassa si svolse una nobile gara, degna in tutto di un toscano e di un piemontese, fra chi più voleva pagare e più sperava che pagasse l’altro. Vinsi, cioè persi io. Ma ormai ero talmente euforico che gli proposi, anzi, gl’imposi di accompagnarlo in tassì a casa, visto ch’era sull’itinerario del mio albergo. Lo aiutai anche a portare le valigie fin sulla soglia. E alla fine stavo quasi per abbracciarlo quando all’ultimo tuffo mi ricordai che le piemontesi non chiedono di meglio, ma i piemontesi non si abbracciano: è già manna se dopo cinquant’anni di amicizia si riesce a dargli del tu. 

Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se, invece che all’epilogo, mi fossi accasato tra loro all’inizio della mia carriera, e a tempo pieno. Non prendetemi per presuntuoso, ma credo che, pur con qualche deviazionismo culinario, sarei diventato un buon piemontese anch’io, e probabilmente fra i più schizzinosi. In fondo, a un toscano terragno come me, niente è più congeniale di una civiltà di castello qual è, gratta gratta, quella piemontese, coi suoi cavallereschi ideali calzati di scarpe di vacchetta. 

È andata altrimenti, pazienza. E ora addio, caro lettore, e grazie dell’ospitalità. Ti confesso che, entrando in casa tua, ero molto imbarazzato. Ma mi bastò poco per accorgermi che di questo imbarazzo voi soffrite quasi quanto coloro a cui lo incutete. Esentatemi da una dichiarazione di amore perché a gente come voi è difficile farne. Ma in questo pudore mi sento vostro pari e vostro complice. 

Avrò un giornale a Milano, e cercherò di farlo molto bello, bellissimo. Ma anche se ci sarò riuscito, seguiterò a rimpiangere il vostro. Mi dicevano che ci avrei sofferto il freddo. Ci ho trovato, sotto una coltre di silenzio, il caldo. 

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Alcuni diritti riservati
Da - http://www.lastampa.it/2016/08/28/speciali/150-anni/cari-piemontesi-mi-mancherete-ma-che-imbarazzo-stare-tra-voi-D5EVRl0ooEcUTX3XmMoAvI/pagina.html
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 10, 2016, 10:58:29 pm »

   Giovedì 7 Giugno 2001
 Turati era poco «italiano»
Caro Montanelli,
Di Turati si è parlato sempre poco. Quando Turati morì a Parigi, su Stato Operaio del 4 aprile 1932 Togliatti lo definì nemico del proletariato, esiziale per le sorti del movimento operaio, che dal 1890 le sue posizioni aberranti finirono per soffocare i germi sani che vi erano nel proletariato, che occorreva sfatare la leggenda che fosse diritto e sincero, che fu uno dei più disonesti capi riformisti, che il suo metodo di mantenersi alla testa del partito fu la corruzione, che fu un parlamentare incarognito nelle distinzioni più sottili per le più perfide soluzioni di compromesso, ecc. su questo tono.
Chi fu secondo lei Turati?
Ci poteva essere qualcosa di serio in queste accuse da parte di chi metteva sullo stesso piano reazionari e riformisti, che pure erano perseguitati dai fascisti? Se ne è parlato poco, da parte della sinistra...
Sergio Angeloni, ajange@tin.it

Caro Angeloni,
Lei si stupisce che Turati sia un grande dimenticato? Ma in questo Paese si è vivi finché si è vivi. Da morti, siamo morti per sempre. Comunque, all’oblio di Turati contribuisce anche il fatto ch’egli seppe attirare sulla propria opera e persona l’odio degli opposti estremismi (che in Italia si danno il cambio ad avere sempre dalla propria parte le maggioranze). E lo si vide quando a sputare sulla sua bara si trovarono perfettamente d’accordo Togliatti e Mussolini.
Di Mussolini, Turati fu nemico, o meglio di Turati, Mussolini fu nemico fin dai tempi in cui entrambi militavano nel partito socialista. Tutto contribuiva a renderli incompatibili. L’origine, anzitutto. Mussolini era figlio d’un fabbro romagnolo dal quale aveva ereditato la concezione della lotta di classe come azione violenta; aveva l’istruzione del maestro elementare; era uomo di posizioni estreme, prima che per ragioni tattiche, per temperamento.
Turati veniva da una famiglia della buona borghesia milanese, aveva una notevole cultura e non soltanto di avvocato, e il suo socialismo era di carattere più missionario che barricadiero. Ne conosceva bene la storia e gli sviluppi, i suoi orizzonti erano cosmopòliti e tanto più lo divennero dal momento in cui ebbe come compagna Anna Kuliscioff, un’ebrea russa di alto bordo sociale e intellettuale e di fedelissima militanza socialista. Insomma, e per dirla in parole più semplici: il confronto fra quei due uomini era quello fra il socialismo rivoluzionario, massimalista e piazzaiolo (Mussolini), e quello progressista e riformista che nelle altre lingue si chiamava socialdemocrazia (Turati).
Ma era pressappoco per le stesse ragioni che Turati era il bersaglio dell’odio di Togliatti. Il quale non poteva certamente perdonargli di essere stato tra i più fieri oppositori dell’adesione del socialismo italiano alla Internazionale comunista sovietica. Erano in realtà due socialismi che mai avrebbero potuto trovare un punto di conciliazione: se subito dopo la Liberazione, faccio per dire, al posto di Nenni si fosse trovato Turati, il matrimonio fra socialisti e comunisti che li condusse al «Fronte popolare» (e alla disfatta) non si sarebbe mai consumato. E oggi ci troveremmo con un centrosinistra del tutto diverso da quello che abbiamo sotto gli occhi: un centrosinistra a netta prevalenza socialdemocratica, perfettamente omologato a quello dei nostri soci europei.
Ma torniamo a Turati, e ai motivi della sua sconfitta nei confronti di Mussolini. Alle corte. Che fra questi tre uomini - tutti di confessione socialista - ci sia stata lotta a oltranza, era, data la posizione assunta da ognuno di loro, nell’ordine naturale delle cose. Fu nel modo di lottare che si differenziarono. Mussolini attaccò Turati come un borghese «incipriato» di falso socialismo al servizio del nemico di classe con cui faceva sotto banco combutta dapprima contro le classi popolari in giusta rivolta contro quelle privilegiate, e poi contro le «forze sane» del fascismo che volevano ricostruire Ordine, Stato e Nazione.
Per Togliatti, Turati fu, come lei ricorda, un Giuda venduto e ladro.
Per Turati, Mussolini e Togliatti furono soltanto degli «avversari», contro i quali egli non usò mai altre armi che quelle della ragione. Ma - non dimentichiamocelo mai, noi italiani - fu anche (anche se non soltanto) per questo che perse la sua battaglia presso una pubblica opinione che, alla scelta fra la ragione e la violenza, fra la teatralità e la moderazione, non esita a seguire il peggio. Ecco uno dei motivi, anche se non l’unico, per cui è stato dimenticato: Turati era poco «italiano».

La stanza di Montanelli.
Da - http://www.corriere.it/solferino/montanelli/01-06-07/01.spm
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