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Autore Discussione: UGO MAGRI  (Letto 228780 volte)
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« Risposta #360 inserito:: Marzo 29, 2017, 08:09:30 am »

Che cosa rischia il governo se Renzi si riprende il Pd
Molti «peones» temono di perdere il seggio e studiano le mosse dell'ex premier: ha rinunciato davvero a votare in autunno?
Pubblicato il 28/03/2017 - Ultima modifica il 28/03/2017 alle ore 10:37

UGO MAGRI
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Le primarie Pd sono appena incominciate, e qualcuno già si lancia nelle previsioni: se Renzi vince forte, vedrete che farà cadere il governo. Sono ragionamenti che si raccolgono soprattutto tra i «peones», quegli parlamentari di basso rango, i quali puntano a conservare la loro poltrona. Si preoccupano perché, ecco il ragionamento, una volta riconfermato saldamente alla guida del partito Matteo non resterebbe per altri sei lunghi mesi a girarsi i pollici mentre l'amico Gentiloni gli ruba la scena a Palazzo Chigi. È la sua stessa natura che glielo impedisce. Per cui provocherebbe di certo le elezioni anche a costo di perderle: un po' come lo scorpione della favola, che punge la rana in mezzo al fiume a costo di affogare anche lui. Ma Renzi sarà davvero così irrazionale?
 
Nel giro dell'ex premier c'è effettivamente chi, ragionando sulle diverse possibilità, continua a mettere nel conto le elezioni anticipate. Non più entro giugno (ormai tecnicamente impossibili), semmai a fine settembre, in base alla teoria dell'«allineamento» con il voto in Germania: se ci nascondiamo dietro ai tedeschi, è la scommessa di questi consiglieri, magari i mercati finanziari saranno distratti dal duello tra la Merkel e Schulz e non ci metteranno nel mirino speculativo... Però non tutti i frequentatori di Rignano sull'Arno la pensano allo stesso modo. E, quel che più conta, non pare che Renzi medesimo sia di quell'opinione. Se fino a qualche settimana fa sembrava in preda a una smania incontrollata di rivincita, adesso viene descritto come pacato e riflessivo. Le sue presunte tentazioni elettorali vengono liquidate anzi come una manovra dei suoi avversari per appiccicargli addosso la parte del «cattivo», pronto perfino a passare sul corpo di un amico come Paolo Gentiloni. Con il quale, invece, l'uomo sta dando prova di grande e sincera collaborazione. I due procedono di comune accordo, dunque non si prevedono sgambetti.
 
Insomma, la versione che arriva dal giro renziano più stretto non ammette dubbi: torneremo alle urne nel 2018 salvo sorprese. A meno che, cioè, non capiti qualche incidente parlamentare sulla prossima manovra economica o su quella (più impegnativa) che si prevede in autunno.

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DA - http://www.lastampa.it/2017/03/28/italia/politica/che-cosa-rischia-il-governo-se-renzi-si-riprende-il-pd-rDdVfRaMFcqBWy8M6Ho8sJ/pagina.html
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« Risposta #361 inserito:: Marzo 30, 2017, 12:25:45 pm »

Per mettere pace a destra spunta la pazza idea di staffetta
È l’ultima trovata dei “pontieri”: a Palazzo Chigi prima Silvio e poi Matteo. Purché la smettano di litigare

29 marzo 2015

Pubblicato il 29/03/2017 - Ultima modifica il 29/03/2017 alle ore 07:38

UGO MAGRI
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Il centrodestra ha un problema con l’aritmetica: non ha ancora imparato a fare le somme. Se ci riuscisse, avrebbe ricche chance di vincere le prossime elezioni, come suggerisce una quantità di sondaggi che circolano sul web. Li ha messi in fila Renato Brunetta (uno dei pochi a credere nel trionfo del «no») per dimostrare come Forza Italia più Lega più la Meloni siano nettamente avanti a Cinquestelle e Pd. Anzi: sarebbero, con il condizionale. Perché nel loro caso 1+1+1 dovrebbe fare 3. Ma questa addizione, al momento, è politicamente difficile, quasi impossibile. Il paradosso della destra italiana sta tutto qui: avrebbe il potere a portata di mano, se solo sapesse unire le forze. E la brama di afferrarlo è tale che spuntano le ipotesi più creative, al confine della provocazione intellettuale. Persino quella di una «staffetta» a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Salvini. Che si passerebbero il testimone nel corso della legislatura, un po’ per uno non fa male a nessuno. Con Silvio che, per ragioni anagrafiche, inizierebbe lui.

Cosa dicono i sondaggi 
L’ultima rilevazione di Euromedia Research (la dirige Alessandra Ghisleri) conferma un trend in atto ormai da dicembre: il Pd scivola sempre di più, M5S guadagna, ma se si votasse domani né Renzi né Grillo arriverebbero al 30 per cento. Un centrodestra unito, viceversa, lo scavalcherebbe alla grande (33,1 è la stima che fa brillare gli occhi a Brunetta). Maliziosamente, il capogruppo «azzurro» fa notare che secondo 4 istituti Forza Italia è stabilmente davanti alla Lega nelle intenzioni di voto, sia pure per un’incollatura. Sennonché l’«Italicum», che sopravvive mutilato alla Camera, prevede un premio per chi supera il 40 per cento. Magari non ce la farà nessuno; però la semplice speranza di riuscirci sarà sufficiente a scatenare la corsa al «voto utile». Col risultato che, se non cambierà la legge, chi non si coalizza sarà spinto inesorabilmente ai margini. Dall’aria che tira, molto difficilmente la riforma si farà. Dunque Berlusconi e Salvini sembrano obbligati a mettersi d’accordo e addirittura a convivere in una sorta di «listone»: l’unico accreditato a correre per il premio. Ma Silvio non ci pensa nemmeno perché è convinto che, nella spartizione dei seggi, l’altro si metterebbe a gridare, batterebbe i pugni sul tavolo, Forza Italia sarebbe bullizzata dalla Lega. E poi, chi glielo spiegherebbe agli elettori del Sud che, per votare Berlusconi, dovrebbero accollarsi pure Salvini? Meglio soli che male assortiti, è convinto per ora il Cav.
 
La mediazione di Letta 
Idem Matteo: la lista unica con Forza Italia al momento gli fa orrore. Perché significherebbe annacquare il vino padano e mettersi in casa quelli che vanno a braccetto con Angela Merkel. L’ostacolo alla sommatoria, per il momento, sono proprio i due leader. Ma intorno a loro si moltiplicano gli studenti di aritmetica. Tra i più preparati, a sorpresa, c’è Gianni Letta. Il più antico consigliere di Berlusconi, che sbagliando molti ritengono un tramite con la sinistra, in realtà è al lavoro per mettere pace con Salvini. Cosicché Letta si ritrova sulla stessa sponda di Toti, governatore della Liguria, profeta dell’«embrassons-nous» con la Lega. E dell’avvocato Ghedini, altro tessitore di armonia. Il pressing si fa sempre più forte. La stessa pazza idea di «staffetta» (che non ha mai funzionato: vedi cosa accadde 30 anni fa tra Craxi e De Mita) dimostra come, prima di farsi sfuggire la rivincita, a destra le proveranno davvero tutte. 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/29/italia/politica/per-mettere-pace-a-destra-spunta-la-pazza-idea-di-staffetta-XgmN31s3klZR4LpyeE6hXJ/pagina.html
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« Risposta #362 inserito:: Marzo 30, 2017, 12:48:11 pm »

Sulla legge elettorale è finita una commedia
Addio Mattarellum: Renzi non insiste più. Così la palla passa a Berlusconi e a Grillo.

Pubblicato il 30/03/2017 - Ultima modifica il 30/03/2017 alle ore 09:11

UGO MAGRI
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Due buone notizie tutte in una volta per quanti sono in ansia sulla legge elettorale. La prima: cala il sipario sulla commedia del Mattarellum. Il Pd prende finalmente atto che è inutile insistere, nessun altro partito accetterebbe di riportare in auge quel sistema dove va in Parlamento chi arriva primo nel suo collegio, e gli sconfitti si accontentano delle briciole. Il Mattarellum fa orrore a Grillo che teme il condizionamento oscuro di clientele, mafie e poteri forti. Non lo gradisce nemmeno Berlusconi, perché sarebbe letale per Forza Italia. E se si dà retta ai maliziosi, non ci ha creduto fino in fondo nemmeno Renzi. Il quale aveva riproposto quel sistema (in vigore dal 1993 al 2005) ben sapendo che non avrebbe mai ottenuto i voti necessari, specie al Senato. Dunque sarebbe stato semplicemente un modo astuto per impiegare il tempo e andare alle urne nel 2018 con le leggi riscritte dalla Consulta, dandone la colpa agli altri.

Fortunatamente ieri il Pd ha avuto il buon senso di non impuntarsi. I suoi rappresentanti in Commissione alla Camera si sono arresi all'evidenza dei numeri. Ed ecco la seconda buona, anzi eccellente notizia: la palla adesso passa a Beppe e al Cav. I quali dovranno scoprire le rispettive carte. Invece di limitarsi a dire «non mi piace», avranno l'occasione per spingere avanti soluzioni alternative. Nemmeno potranno sostenere che il tempo non basterebbe più, che siamo in ritardo eccetera, in quanto la riforma elettorale verrà votata in aula a maggio, in teoria nella prima settimana ma forse anche più in là. A disposizione ci sono ancora un paio di mesi.
Insomma: il Pd fa un passo indietro, così la fatica di spremersi le meningi da questo momento tocca alla strana coppia proporzionalista Berlusconi-Grillo. Se riusciranno a mettere insieme un nuovo testo, difficilmente Renzi potrà buttarlo a mare, sarà obbligato a sottoscriverlo pure lui. Ma se quei due faranno un buco nell'acqua, è facile immaginare chi riderà per ultimo. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/30/italia/politica/sulla-legge-elettorale-finita-una-commedia-E78MkHS4W5G3osKpU9qcQL/pagina.html
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« Risposta #363 inserito:: Aprile 03, 2017, 04:51:42 pm »

La buccia di banana su cui Renzi può scivolare
Nelle primarie Pd il Rottamatore è costretto a battere tutti i record per non sembrare in declino

Pubblicato il 01/04/2017 - Ultima modifica il 01/04/2017 alle ore 10:19

UGO MAGRI

Fa un po’ sorridere che si discuta se Renzi prenderà il 69 per cento tra gli iscritti Pd, come sostengono dalle sue parti, ovvero «solo» il 65: comunque vada a finire, l’ex-premier può già virtualmente considerarsi il padrone dell’apparato, anzi il monarca assoluto del partito. Non era andata così tre anni e mezzo fa. Quando si pronunciarono i militanti, nell’autunno 2013, il Rottamatore ne convinse meno della metà (il 45,3 per cento), tampinato da Gianni Cuperlo che sfiorò il 40. Poi però Renzi riuscì a sbaragliare il campo grazie a una straordinaria performance nel voto finale delle primarie, quando per votare è sufficiente dichiararsi sostenitori del Pd e versare un piccolo obolo. Raggiunse addirittura il 67 per cento: un tale trionfo che adesso rischia di trasformarsi in boomerang.

Già, perché il 30 aprile prossimo (quando tornerà a pronunciarsi il popolo democratico), Matteo non potrà essere da meno. Anzi, visto come sta andando adesso tra gli iscritti, ci si attende che faccia ancora meglio rispetto al passato, addirittura polverizzi il record conquistato con il 76 per cento da Walter Veltroni nel 2007 e raggiunga percentuali un tempo definite «bulgare».
 
Può essere che Renzi ce la faccia, e ancora una volta lasci tutti i suoi critici senza parole. In quel caso, il suo astro politico tornerebbe a splendere come prima della sconfitta referendaria e forse addirittura di più, perché vestirebbe i panni dell’invincibile. Ma se malauguratamente non dovesse fare scintille, allora gli applausi si trasformerebbero in fischi. Ogni punto percentuale in meno rispetto al 2013 verrebbe additato come la prova di un ulteriore declino. Idem per quanto riguarda l’affluenza ai seggi. In questo caso l’asticella sta a quota 2 milioni 814 mila votanti. Se calassero bruscamente, i gufi subito direbbero «epperò», ha vinto senza convincere. Un certo D’Alema ha già incominciato.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/01/italia/politica/la-buccia-di-banana-su-cui-renzi-pu-scivolare-u9DfrZKVtZIspXGADlE0AO/pagina.html
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« Risposta #364 inserito:: Aprile 07, 2017, 12:59:42 pm »

Renzi cerca la resa dei conti ma deve convincere il Colle
Il Mattarellum potrebbe passare alla Camera, poi scontro in Senato per far saltare il banco. La richiesta di salire al Quirinale diventa una gaffe
Pubblicato il 06/04/2017

UGO MAGRI, FABIO MARTINI
ROMA

Al Colle, al Colle! Alle cinque della sera “fonti del Pd” preannunciavano con enfasi un’iniziativa irrituale: la richiesta da parte dei vertici del Partito democratico di un colloquio col Capo dello Stato per valutare le conseguenze dell’elezione del senatore Salvatore Torrisi a presidente della Commissione Affari Costituzionali. Iniziativa irrituale, perché i presidenti della Repubblica non hanno mai interferito nella dialettica parlamentare e anche perché analoga richiesta non venne avanzata a gennaio, quando Altero Matteoli (Forza Italia) fu confermato alla presidenza della Commissione Trasporti, tra l’altro con il voto dei “grillini”. Iniziativa irrituale ma formalizzata qualche minuto più tardi dal “reggente” del Pd, Matteo Orfini, con parole vibranti: «E’ un vulnus gravissimo!».

In pochi minuti, nei sonnolenti corridoi di Montecitorio, si accendevano le sirene del “massimo allarme”: la decisione di Matteo Renzi di cavalcare l’incidente dell’elezione di Torrisi veniva interpretata come un segnale di guerra, «il sintomo di un mai placato desiderio di un confronto elettorale anticipato», come sintetizzava Pino Pisicchio, presidente del Gruppo Misto della Camera. E in effetti, dietro le quinte e per una volta silente, Matteo Renzi coordinava le mosse dei suoi. Spinto da una convinzione, non esprimibile in pubblico ma che l’ex premier sintetizza così: «Non sarò io a cercare la rottura, però se ci dovesse essere un incidente di percorso...». Come dire: non mi farò scoprire con l’arma del delitto in mano, ma tanto meglio se un imprevisto consentirà al Pd e al suo governo di evitarsi la manovra finanziaria d’autunno.
 
La drammatizzazione da parte del Pd della vicenda Torrisi non si spiega soltanto con la mai domata vocazione renziana al voto anticipato. L’ elezione del senatore Ncd (ed ex Forza Italia) alla presidenza della strategica Commissione Affari Costituzionali del Senato è il risultato di un’operazione dietro le linee architettata da Anna Maria Bernini (Forza Italia) assieme al leghista Roberto Calderoli e a Loredana De Petris di Sel: «Renzi - spiega uno degli protagonisti dell’operazione - nelle prossime settimane preparava una sceneggiata: farsi approvare dalla Camera il Mattarellum, poi venire al Senato e davanti alla bocciatura della legge, gridare allo scandalo e fare la vittima...». Ma ora l’elezione di Torrisi rende più complicata l’operazione e il disappunto del Pd traspare dall’altra mossa fatta da Renzi: quella di chiedere ad Angelino Alfano le dimissioni di Torrisi. Alfano le ha chieste, Torrisi non le ha date ed è probabile che il neopresidente della Commissione possa essere espulso dal suo partito. 
 
Commentava ieri sera Renzi: «Che tristezza: antepongono l’interesse personale a quello del Paese». Almeno un obiettivo, comunque il Pd l’ha ottenuto: il presidente del Consiglio Gentiloni ha ricevuto (per un quarto d’ora) i due plenipotenziari di Renzi, Lorenzo Guerini e Matteo Orfini. Che avevano anche in animo di farsi ricevere sul Colle. Ma questo colloquio con Mattarella non c’è ancora stato, né a quanto risulta, ci sarà mai. Fonti quirinalizie assicurano che la richiesta di appuntamento non è pervenuta. E in effetti, curiosamente, la stessa delegazione Pd ha smesso di parlarne. Forse a Orfini e a Guerini è stato fatto presente (ma si tratta solo di una supposizione) che bussare sarebbe stato inutile perché di regola mai un Presidente si intromette nelle vicende parlamentari, nessuno sarebbe andato ad aprire il portone. 
 
E insistendo per un colloquio avrebbero messo Mattarella nella sgradevole condizione di rifiutarlo. Da qui la retromarcia. Ma al di là della forma, conta la sostanza: il Quirinale non ha l’ansia di tornare alle urne. Senza un sistema elettorale coerente c’è il rischio di aggravare il caos, per cui Mattarella tuttora si augura che la politica provveda. E nell’attesa getterà acqua sul fuoco dei propositi incendiari.

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« Risposta #365 inserito:: Aprile 07, 2017, 01:00:41 pm »

La banalità delle congiure in Senato: quando potrà durare il governo?
La maggioranza non c’è più per effetto della scissione Pd. Adesso la domanda è sull'esecutivo

Pubblicato il 06/04/2017 - Ultima modifica il 06/04/2017 alle ore 10:26

UGO MAGRI
ROMA

Congiura, tradimento, agguato, complotto... Anche ieri in Senato, nella grande eccitazione che è seguita alla sconfitta Pd, sono circolati i soliti sospetti di manovre oscure, concepite chissà in quali segrete stanze, quando invece la ragione dell’accaduto è più terra-terra, trasparente e perfino banale: nella Commissione Affari costituzionali, dove volevano eleggere il «loro» presidente, i renziani non hanno più la forza per fare il bello e il cattivo tempo. Non ce l’hanno perché ultimamente c’è stata - come è noto - una scissione. E quelli che se ne sono andati (Mdp) fanno parte della maggioranza per modo di dire, a giorni alterni. Ieri, per esempio, nel segreto dell’urna hanno sostenuto l’esponente alfaniano Torrisi in quanto, si augurano, sarà meno prono ai voleri di Renzi quando verrà in discussione la legge elettorale in Senato. Non sono stati gli unici: anche i Cinquestelle hanno fatto lo stesso calcolo, però loro della maggioranza non fanno parte.

Avanti per inerzia 
Insomma sta succedendo esattamente quello che, con l’aiuto di un pallottoliere, era logico attendersi dopo l’addio di Bersani e D’Alema. Anzi, siamo solo all’inizio perché questo stesso film lo rivedremo spesso in futuro, tutte le volte che gli interessi Pd entreranno in conflitto con quanti se ne sono andati. Il che porta a riflettere sul vero punto interrogativo di questa fase politica: per quanto tempo andremo avanti così? E soprattutto, potrà reggere questo governo senza una maggioranza vera alle spalle? Per i prossimi mesi la risposta è sì, Gentiloni andrà avanti per inerzia in quanto sono scaduti i tempi tecnici per tornare alle urne prima dell’estate. Sulla carta si farebbe ancora in tempo a votare nell’ultima domenica di giugno, ma solo a patto che oggi stesso o domani il premier vada a dimettersi e - sempre a tempo di record - il Capo dello Stato sbrighi tutte le pratiche necessarie per concludere la legislatura. Però non risulta affatto che Gentiloni sia intenzionato a gettare la spugna. E se non compie un gesto formale lui, pare del tutto escluso che Mattarella lo convochi e lo cacci, in quanto verrebbe accusato di golpe.
 
La lunga agonia 
Ma dopo l’estate, se gli incidenti di percorso dovessero moltiplicarsi, qualche dubbio sulla tenuta del governo sarebbe legittimo. Piuttosto che tirare avanti così, senza un vero perché, andare alle urne con qualche mese di anticipo potrebbe suonare per l’Italia (e per la stessa politica) come la fine di un’agonia. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/06/italia/politica/la-banalit-delle-congiure-in-senato-uYRqtYg2ZPArFpf2s6dymJ/pagina.html
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« Risposta #366 inserito:: Aprile 07, 2017, 01:08:35 pm »

Chi sono i veri sconfitti delle primarie Pd
A meno di due mesi dalla scissione, Bersani e D’Alema sono spariti dai radar. E l’obiettivo del 10 per cento sembra una chimera
Pubblicato il 04/04/2017 - Ultima modifica il 04/04/2017 alle ore 12:17

UGO MAGRI
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Tra i tanti esercizi di retorica sulle primarie Pd, la Palma del trionfalismo va di diritto a Debora Serracchiani, che le celebra come una «festa della democrazia». Mentre l’Oscar del giudizio più prevedibile e scontato se lo merita Massimo D’Alema. Il quale non poteva certo cantare le lodi del partito che ha da poco lasciato, in quanto l’avrebbero subito portato in un Tso. Per cui ha descritto il voto dei 266 mila iscritti come una conta tra «capibastone», attratti dal potere e proni ai voleri del leader che ha rotto con la tradizione della sinistra e presto li porterà all’abbraccio con Berlusconi.

L’aiuto involontario 
Quello però su cui «Baffino» non si sofferma è l’aiuto che lui, insieme con tutti gli altri fuoriusciti, ha recato senza volere alla causa renziana. Perché è probabile che, senza la scissione a sinistra e il conseguente addio della «Ditta», Matteo avrebbe faticato a raccogliere il 68 per cento nelle sezioni; e di sicuro il suo competitor Andrea Orlando avrebbe fatto un po’ meglio. A essere maligni, si potrebbe perfino sostenere che Bersani e D’Alema hanno confezionato un bel regalo a Renzi, il quale guarda caso non ha mosso un dito per trattenerli.
 
La delusione dei sondaggi 
E’ ancora presto per i bilanci che si faranno alle elezioni, nel 2018. Di qui ad allora gli ex-Pd riusciranno forse a ottenere quel 10 per cento di cui da qualche parte venivano accreditati. Ma intanto, a meno di due mesi dall’addio, nei sondaggi oscillano tra il 4 e il 6, comprendendo pure il movimento di Pisapia e i resti di Sinistra Italiana. Sono di gran lunga al di sotto delle attese. Quel che è peggio, di loro non si parla quasi più. Come sempre accade in questi casi (la cronaca politica trabocca di esempi) la minoranza che se ne va è oggetto di intense amorevoli attenzioni mediatiche destinate, però, a durare giusto il tempo del divorzio. Dopodiché gli esuli finiscono nel cono d’ombra dell’irrilevanza. Mdp per ora non fa eccezione.
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« Risposta #367 inserito:: Aprile 11, 2017, 06:23:06 pm »


Putin a Mattarella: “Mi aspetto nuovi attacchi chimici in Siria”
La visita a Mosca del Capo dello Stato al Cremlino.
Il presidente russo parla di “provocazioni contro Assad”
Pubblicato il 11/04/2017 - Ultima modifica il 11/04/2017 alle ore 16:09

UGO MAGRI
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Tutto quanto sta accadendo in Siria a Vladimir Putin ricorda quanto accadde nel 2003: una serie di “bugie” sulle armi chimiche di Saddam, da cui prese origine l’intervento militare americano in Iraq e la conseguente esplosione dell’Isis. È il succo della risposta del Presidente russo a una domanda fuori programma, dopo i colloqui con l’ospite italiano, Sergio Mattarella. Addirittura, Putin si attende altri attacchi con le armi chimiche nella zona di Damasco per legittimare un intervento occidentale. Chiede invece che le responsabilità vengano accertate in maniera indipendente, su questo assicura la disponibilità della Russia. Mattarella chiede all’interlocutore: «L’uso di armi chimiche è inaccettabile: auspichiamo che Mosca possa esercitare tutta la sua influenza». 
 
I tempi difficili 
«Non stiamo vivendo tempi molto facili»: sono le prime parole pronunciate da Vladimir Putin dopo la stretta di mano davanti alle telecamere con Sergio Mattarella. Poi si sono accomodati sulle poltroncine bianche del salotto dove campeggia la statua di Pietro il Grande e lì il presidente russo ha anticipato lo spirito dei colloqui: «Credo veramente che questa visita darà un impulso positivo», visto che l’Italia è un partner «molto affidabile». La nota negativa delle relazioni bilaterali è l’interscambio commerciale che «sta crollando»: così ha detto testualmente Putin, riferendosi alle conseguenze delle sanzioni commerciali, salvo aggiungere una nota di tendenza positiva, la crescita del 33 per cento registrata da inizio anno. «Abbiamo rapporti molto antichi e approfonditi in campo culturale e umanitario», ha aggiunto prima di cedere la parola a Mattarella, «e tanti amici in Italia». La lista è nota, da Berlusconi a Salvini agli stessi Cinquestelle, sospettati a Washington di coltivare relazioni pericolose con il Cremlino. «Fra noi - ha detto Putin - c’è stata una conversazione franca e concreta su tutte le questioni che costituiscono i rapporti fra la Russia e l’Italia». 
 
Il terrorismo e la cultura 
Mattarella, con molta personale cordialità, ha manifestato il profondo dolore per l’attentato di San Pietroburgo, «la sua città» ha voluto sottolineare il Capo dello Stato, una capitale della cultura e dell’arte «che non si può non amare». Dopodiché sono iniziate le conversazioni.
 
Mattarella: “Con Mosca solida amicizia malgrado difficoltà”
Un colloquio con il primo ministro, Dmitrij Medvedev, per constatare la buona qualità dei rapporti italo-russi (e gettare un occhio sulle questioni libiche, visto che Mosca appoggia il governo di Tobruk e noi quello, legittimo secondo l’Onu, di Serraj). Quindi un lungo pranzo con Vladimir Putin, che si concluderà con pubbliche dichiarazioni intorno alle 14 ora italiana. La visita di Stato del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, cade proprio nel vivo delle tensioni scatenate dal bombardamento Usa in Siria, ma pure a due settimane dalle manifestazioni di protesta dell’opposizione a Putin.
Prima di recarsi ai colloqui, Mattarella ha incontrato in ambasciata il nostro personale diplomatico e una rappresentanza della comunità italiana a Mosca. Rivendicando l’importanza del nostro contributo al dialogo internazionale. 
 
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« Risposta #368 inserito:: Aprile 13, 2017, 06:03:49 pm »

Perché Berlusconi che vende il Milan è un bene pure per la politica
L’arrivo dei nuovi proprietari cinesi mette fine a trent’anni di commistione tra sport e ambizioni personali

Pubblicato il 13/04/2017 - Ultima modifica il 13/04/2017 alle ore 08:37

UGO MAGRI
ROMA

Dobbiamo tutti quanti dire grazie al misterioso Yonghong Li. Acquistando il Milan da Berlusconi, questo imprenditore cinese semi-sconosciuto ha messo fine a una commistione che male faceva tanto allo sport quanto alla politica.

Berlusconi ha sempre usato il Milan come piedistallo. Indubbiamente ci ha speso, nei trent’anni della sua gestione, ma ne ha avuto immensi ritorni in termini di popolarità e di immagine. Almeno fino a quando è riuscito a vincere, però. Perché poi la società di calcio è diventata politicamente una palla al piede di Berlusconi, costretto a metterci soldi sotto elezioni per non incorrere nell’ira dei tifosi. Con risultati sempre più scadenti fino alle condizioni attuali.
 
Anche il Milan all’inizio trasse enorme giovamento dalle ambizioni politiche del Cav. Il quale lo trasformò ben presto nella squadra «più titolata al mondo», che tale restò fino a quando l’uomo ci investì denaro a palate. Ma proprio per questo sfoggio di potenza, il Milan fu presto considerato una propaggine propagandistica dell’ex premier, uno strumento della sua visione un po’ megalomane. Alla lunga, la politica non ha giovato nemmeno al Milan.
 
Ora la vendita riporta finalmente chiarezza. Con indiscutibili benefici per tutti. Per Berlusconi che, visti i passati trionfi, verrà sicuramente rimpianto da una quota della tifoseria rossonera (magari la stessa che oggi non vede l’ora di cambiare proprietà). E soprattutto con vantaggi per il nuovo Milan: più d’uno aveva odiato i colori rossoneri per colpa della politica, e magari in futuro tornerà ad amarli. 

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« Risposta #369 inserito:: Aprile 16, 2017, 05:53:12 pm »

Preoccupazione al Colle: senza una legge elettorale l’Italia sarà ingovernabile
L’attuale sistema non garantisce vincitori, ma il Parlamento non si muove
Se il sistema di voto resterà come adesso, dopo le prossime elezioni sarà impossibile formare governi stabili

Pubblicato il 16/04/2017 - Ultima modifica il 16/04/2017 alle ore 08:04

UGO MAGRI
ROMA

L’Italia si sta mettendo nei guai. Rischia di non avere una guida proprio mentre il pianeta diventa sempre meno ospitale. È praticamente certo che, se il sistema di voto resterà come adesso, dopo le prossime elezioni sarà impossibile formare governi degni del nome. Ben che ci vada, avremo soluzioni ambigue perché la legge elettorale non permette di più. Nelle sfere istituzionali tutti lo sanno, e sono in allarme. Ma nei partiti nessuno ci mette la testa. E i sistemi di cui si discute («Legalicum», «Mattarellum», premio di coalizione) vengono tirati fuori per guadagnare tempo; in attesa di che, non si sa.

Il «pasticcio perfetto» 
All’origine c’è la sentenza della Consulta datata 13 gennaio 2014. I giudici stabilirono che il premio di maggioranza è lecito, purché non sia eccessivo. In nome di questo principio, rintracciato tra le pieghe della Costituzione, venne bocciato il «Porcellum» e poi l’«Italicum». Ma poi la Corte stessa si è spaventata e, invece di completare l’opera, ha rinviato alle Camere il compito di «armonizzare» il sistema. Ha sbagliato prima e fatto bene dopo? Sia come sia, ora convivono due «Consultelli» che non sono carne né pesce. Non esiste più un impianto davvero maggioritario perché il premio scatta al 40 per cento, irraggiungibile dagli schieramenti attuali. Nella media dei sondaggi (vedi termometropolitico.it), nessuno supera quota 30, troppo poco per vincere. Oltretutto, la speranza di ottenere il premio riguarda solo la Camera e non il Senato, dove il «bonus» è stato abolito. Quindi abbiamo un sistema sostanzialmente proporzionale, che tuttavia non ha il coraggio di fare «outing», si vergogna di dichiararsi per quello che è. E ciò succede in quanto quel poco di maggioritario sopravvissuto alla Corte costringe i partiti a proseguire la pantomima (ipocrita) di quelli che puntano alla vittoria. E si atteggiano come se davvero potessero farcela da soli. Dunque sfoderano tutto l’armamentario dei candidati premier, delle primarie per sceglierli e delle promesse di non venire mai a patti con il «nemico», come quando l’Italia era divisa tra destra e sinistra, e il M5S non esisteva ancora. Mentre è chiaro agli stessi leader che l’unica possibilità di mettere in piedi una maggioranza sarà legata a qualche forma di intesa post-elettorale.
 


Piano inclinato 
 Infatti, sottovoce già si parla di scenari per il «dopo». E si fanno i conti col pallottoliere per capire se, per esempio, la somma di Pd, Forza Italia e centristi potrà dar vita a una maggioranza. O tra grillini e Lega più Fratelli d’Italia: dipenderà dai numeri, ammesso che ci siano. Ma dopo aver giurato che mai si faranno «inciuci», qualunque soluzione di compromesso (che è la base dei sistemi proporzionali) verrà vissuta come un tradimento della parola, uno scadimento ulteriore della moralità. Il nuovo governo nascerà nel discredito, favorendo gli anti-sistema. Oppure non nascerà affatto, condannando il Paese a una spirale dagli sbocchi imprevedibili. Mattarella, al quale toccherà l’onere di trovare soluzioni, ha più volte chiesto ai partiti di concentrarsi sulla questione. Finora, senza ottenere risposta.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/16/italia/cronache/preoccupazione-al-colle-senza-una-legge-elettorale-litalia-sar-ingovernabile-46JyI6ta02tGuvEnpn49ZM/pagina.html
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« Risposta #370 inserito:: Aprile 22, 2017, 12:15:01 am »

Nel Regno Unito si vota e in Italia no: ecco la differenza
Theresa May ha deciso la data delle elezioni perché le conviene e la legge glielo consente. Da noi, è tutto diverso

Pubblicato il 19/04/2017 - Ultima modifica il 19/04/2017 alle ore 10:18

UGO MAGRI
Sono mesi che va avanti in Italia la pantomima delle elezioni di cui tutti si dicono a favore e però non si celebrano; mentre da un giorno all’altro Theresa May è andata in tivù e ha reso noto che la Gran Bretagna voterà l’8 giugno, tra sole sette settimane. Per cui viene da chiedersi quale sia la differenza tra noi e loro, e come mai il primo ministro di Sua Maestà abbia facile successo là dove Matteo Renzi finora ha fallito.
 
Una legge diversa 
Una prima spiegazione sta nel loro sistema istituzionale che, diversamente dal nostro, permette al capo del governo di anticipare la data del voto in base ai propri calcoli di convenienza («snap elections» le chiamano da quelle parti). In Italia, viceversa, le Camere vengono sciolte dal Presidente della Repubblica anziché dal premier. E Sergio Mattarella non intende mettere la firma sotto al decreto di scioglimento fino a quando il nostro sistema elettorale non sarà stato messo in sicurezza. Già, perché diversamente dal Regno Unito noi non abbiamo un sistema di voto degno del nome, essendo il risultato casuale e contraddittorio di due successive sentenze della Consulta, la prima sul «Porcellum» e la seconda sull’«Italicum». Senza una loro «armonizzazione» più volte sollecitata, Mattarella convocherebbe nuove elezioni solo nel caso in cui Renzi e il Pd dichiarassero pubblicamente che Gentiloni deve togliere il disturbo e loro non sosterranno più alcun governo di qui alla fine della legislatura. In quel caso il Colle dovrebbe arrendersi e convocare nuove elezioni. Sennonché Renzi (nonostante si mostri voglioso di votare, e faccia filtrare che non vede l’ora) evita con cura di assumersi quella responsabilità.
 
Il peso dei sondaggi 
E qui sta la vera differenza tra lui e la May. Theresa ha tutti i sondaggi dalla sua. L’ultimo pubblicato dal «Guardian» le attribuisce ben 21 punti di vantaggio sui concorrenti laburisti. Perfino nel caso in cui calassero un po’, sarebbero comunque sufficienti a garantirle una vittoria schiacciante che permetterebbe al nuovo governo britannico di affrontare i negoziati europei con la serenità di chi si è messo le elezioni alle spalle e si confronterà con il voto nel 2022. Dunque ha deciso di fare in fretta perché correre alle urne le conviene. Invece Matteo, se si votasse domani, rischierebbe di arrivare non primo e nemmeno secondo, ma terzo dietro ai Cinquestelle e al centrodestra (qualora si presentasse unito). Nel caso della May votare non è certo un azzardo; nei panni di Renzi, invece, peggio di una roulette russa. E ciò spiega molte cose.

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http://www.lastampa.it/2017/04/19/italia/cronache/nel-regno-unito-si-vota-e-in-italia-no-ecco-la-differenza-NgNbN21eq9zXSdV0vfIgCI/pagina.html
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« Risposta #371 inserito:: Aprile 29, 2017, 12:53:27 pm »

Dal Colle un freno alle tentazioni di votare al buio
Renzi non rinuncia all’idea di nuove elezioni, ma per i vertici istituzionali il rischio è eccessivo
Pubblicato il 21/04/2017 - Ultima modifica il 22/04/2017 alle ore 13:22

UGO MAGRI
ROMA

Per quanto abbia ripetuto da Vespa che gli sta bene il governo in carica, Renzi stenta a farsi credere fino in fondo. È convinzione dei più stretti amici che non abbia rinunciato a votare subito. Il suo piano è di andare alle urne in autunno ma, se ce ne fosse l’occasione, già prima delle vacanze. La voce è rimbalzata nei partiti, ne è consapevole Alfano, lo sa Berlusconi, così risulta pure ai piani alti della politica dove d’altra parte nessuno, conoscendo la tenacia del personaggio, si illudeva che Renzi avesse rinunciato. Ma sicuramente la mossa della May, con le elezioni britanniche convocate dall’oggi al domani, ha riaperto una ferita. «Perché loro sì e noi no?», domandano i renziani: un Paese serio dovrebbe decidere in fretta il futuro anziché perdere un altro anno. Per cui adesso - tra Palazzo Chigi, Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama - c’è apprensione per due eventi che potrebbero scatenare Renzi.
 
Anzitutto, le primarie Pd. Mettiamo che si trasformino in plebiscito: a quel punto l’ex premier nutrirebbe la convinzione che, nonostante tutto, l’Italia resta con lui. Tanto più se in Francia (ecco l’altro evento in grado di dare un’accelerata) dovesse affermarsi Macron, il più vicino alla visione Pd. Sarebbe la prova che il populismo non è un destino, e per sfidarlo basta il coraggio. Non è finita qui. Renzi avrebbe due ulteriori argomenti da far pesare davanti a Mattarella. Anzitutto la Finanziaria 2018, che non si capisce da chi verrà approvata. Non dalle opposizioni, evidentemente; ma nemmeno il Pd vuole caricarsela sulle spalle: meglio delegare i sacrifici a chi verrà dopo il voto. Il tema è ben presente a Gentiloni e allo stesso Padoan.
 
L’ultima carta renziana si lega al contesto europeo. Dopo Parigi e Londra, in settembre pure Berlino avrà una nuova leadership. Solo l’Italia si troverà in mezzo al guado, con un Parlamento ancora da rinnovare. E nei negoziati sulla futura Ue farebbe la parte del vaso di coccio. Insomma: nel «quadrilatero istituzionale» si aspettano che a maggio, forse già prima della partenza di Mattarella per la visita di Stato in Argentina e Uruguay, Renzi possa tornare alla carica per votare, e non gli mancherebbero le cartucce. Sennonché pesano altri fattori di cui spetta al Capo dello Stato farsi carico, e con lui a quanti avvertono responsabilità collettive. Per cominciare, non c’è una legge elettorale davvero agibile. Si rischiano ricorsi al Tar dall’esito imprevedibile, oltretutto a elezioni già convocate. Rimediare d’urgenza con decreto sarebbe una forzatura secondo il grosso della dottrina costituzionale. Mattarella metterebbe la controfirma a un decreto siffatto? I giuristi dal Colle stanno approfondendo, però da quelle parti si ripete che meglio sarebbe provvedere con legge ordinaria, tanto più per armonizzare le soglie di sbarramento.
 
Spread in agguato 
Poi c’è il rischio mercati. Votando in autunno, solo un miracolo eviterebbe di precipitare nell’esercizio provvisorio e di diventare preda dello spread che, guarda caso, già rialza la testa (da qualche giorno supera quota 200). Non solo i «gufi» tipo Brunetta, ma pure renziani avveduti come Tonini segnalano i rischi. Le prossime aste Btp finirebbero nel mirino di chi volesse lucrare sulla nostra instabilità. Sono mille miliardi che ballano. E qui sta il nocciolo duro dei dubbi nel «quadrilatero istituzionale». Dove nessuno ha conti in sospeso con Renzi, anzi, solo amicizia e in qualche caso gratitudine. Tuttavia Mattarella, come il presidente del Senato Grasso e della Camera Boldrini, non vede in che modo dalle urne possa emergere un vincitore; né scorge oggi una trama di alleanze all’indomani delle elezioni.
 
Così la smania di votare al buio non viene compresa né assecondata. Qualora Renzi tentasse lo strappo, già si delinea una sorta di «cordone istituzionale», fondato sul rigoroso rispetto delle regole. Prima di tornare al voto, Gentiloni dovrebbe formalmente dimettersi, e ce ne vorrebbe una ragione di qualche spessore, non un banale incidente di percorso. I bersaniani spargono in giro la voce (non si sa quanto fondata) secondo cui Mattarella sarebbe disposto perfino a mettere in campo Grasso con l’incarico di formare un governo istituzionale che porti a casa comunque la legge di stabilità. Di sicuro, per andare al voto, il Pd dovrebbe rendere pubblica la ferma volontà di non sostenere alcun governo, nemmeno se fosse indicato dal Presidente. Solo questa pesante assunzione di responsabilità troncherebbe davvero la legislatura. Ma per votare ci vorrebbero comunque i tempi tecnici che, da noi, non sono mai inferiori a due mesi, altro che Gran Bretagna. Prima dell’estate sarebbe fantascienza. Insomma: nessun «no» pregiudiziale ai sogni di rivincita renziana; ma in assenza di chiarezza dai vertici della Repubblica non verrà nemmeno un «prego, si accomodi pure».
 
Articolo corretto il 22/04/2017 alle ore 13:00
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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/21/italia/politica/dal-colle-un-freno-alle-tentazioni-di-votare-al-buio-WfAYERPdI81a9nSpTErSDP/pagina.html
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« Risposta #372 inserito:: Maggio 24, 2017, 11:32:32 am »


Quattro ministri contestano il nuovo patto del Nazareno
Prima di sciogliere le Camere, Mattarella valuterà l’impatto del voto
Matteo Renzi dà il via libera ufficiale agli incontri «con tutti gli altri partiti affinché ognuno si prenda le sue responsabilità»

Pubblicato il 23/05/2017 - Ultima modifica il 23/05/2017 alle ore 07:19

Ugo Magri
Roma

Un fuoco di sbarramento si è scatenato, com’era facile immaginare, contro il nuovo Patto del Nazareno. Hanno imbracciato il mitra tutti coloro che non vogliono votare “alla tedesca”, e soprattutto rifiutano di tornare alle urne in ottobre. In prima linea ci sono ben quattro ministri del governo Gentiloni: nell’ordine alfabetico Alfano, Delrio, Finocchiaro e Orlando. Fanno trapelare in pubblico le loro riserve e, nelle conversazioni private, alcuni di loro tirano in ballo il Capo dello Stato. Si augurano che Mattarella metta un freno a Renzi, e gli impedisca di trascinare il Paese alle urne perfino nel caso in cui, con l’aiuto di Berlusconi, venisse approvata una legge elettorale nuova di zecca.

Il Presidente, com’è ovvio, non si pronuncia. Osserva l’evolversi della battaglia mantenendo il consueto riserbo. Chi frequenta il Colle, tuttavia, qualche idea se l’è fatta: ritiene ad esempio che, nel firmare un decreto di scioglimento delle Camere, Mattarella prenderebbe in esame il rischio di non avere una maggioranza dopo il voto e di piombare a gennaio nell’esercizio provvisorio. Prima di dare un via libera alle elezioni, il Presidente sicuramente valuterebbe il potenziale impatto per il Paese, che al momento non è facile prevedere. Dunque nulla può darsi per scontato.

Renzi però procede per la sua strada. Dà il via libera ufficiale agli incontri «con tutti gli altri partiti affinché ognuno si prenda le sue responsabilità». Nessuna sorpresa se nelle prossime ore si chiuderanno in una stanza gli “sherpa” di Forza Italia e Pd (Occhiuto e Parrini), debitamente assistiti dai rispettivi capigruppo (Brunetta e Rosato). Metteranno nero su bianco le correzioni al testo base della riforma elettorale che, entro oggi, la Commissione affari costituzionali della Camera dovrebbe approvare. Se il lavoro sarà stato fruttuoso, Renzi vi metterà il timbro della Direzione Pd, convocata martedì prossimo. Nei piani del segretario, sarà l’occasione per silenziare la critica interna, guidata dal solito Orlando. 

Ma il ministro della Giustizia non è l’unico né il solo a contestare i termini della trattativa col Cav. Sul piede di guerra sono tutti i centristi, nessuno escluso, perché il modello tedesco prevede una soglia del 5 per cento che li farebbe fuori. Alfano minaccia di tenersi «le mani libere» quando si tratterà di votare in Aula la legge elettorale. E, inutile dire, protesta contro l’«inciucio» tra Berlusconi e Renzi la gran massa dei “peones” che non vogliono tornare alle urne prima della naturale scadenza (febbraio 2018): ne andrebbero di mezzo vitalizi e indennità.

Ma questo patto che in tanti temono esiste davvero? La soave conferma è arrivata da Gianni Letta, ambasciatore del Cav. A una precisa domanda di Maria Latella, si è trincerato dietro un «mi avvalgo della facoltà di non rispondere» che è tutto un programma. Si racconta che sia stato lui, insieme con Maria Elena Boschi, a riallacciare i rapporti tra Silvio e Matteo, proiettati già verso la prossima legislatura. Che dovrebbe cambiare la Costituzione e fare riforme in grado di restituirci peso in Europa.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/23/italia/politica/quattro-ministri-contestano-il-nuovo-patto-del-nazareno-zX6JBNbqFmKPM4rpyzmWnM/pagina.html
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« Risposta #373 inserito:: Maggio 29, 2017, 08:48:37 pm »


Berlusconi sostiene Gentiloni: se cade l’esecutivo salta la legge elettorale
Forza Italia rifiuta una crisi col Consultellum

Pubblicato il 28/05/2017 - Ultima modifica il 28/05/2017 alle ore 07:58

Ugo Magri
Roma

Il governo trema? Gli ultimi reduci dell’Armata Rossa sono pronti a silurare i voucher? Niente paura, perché già scalpita il Soccorso Azzurro. Qualora dovessero mancare dei voti, Forza Italia non esiterebbe a metterci la faccia per difendere Gentiloni. Si è visto ieri mattina in commissione alla Camera, e succederà di nuovo presto al Senato, dove i numeri sono ballerini. Avremo un assaggio di futuro, la prova generale di quanto potrà succedere dopo le elezioni: i bersaniani fuori dalla maggioranza, e i berlusconiani che ne prendono il posto, a bandiere spiegate. 

Naturalmente, nel caso dei voucher, le spiegazioni abbondano. Ne illustra i motivi nobili Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, quando confida: «La flessibilità sul lavoro è un’esigenza del Paese, la richiesta delle imprese è forte, il sistema Italia ne ha bisogno». In un mondo normale, sarebbe perfino logico che il centrodestra sostenesse misure sempre rivendicate dai tempi del povero Marco Biagi. Sennonché, nel caso specifico, c’è chiaramente dell’altro. Dietro alla voglia di intervenire sui voucher si annusa un’aria tipica delle vaste intese. Ed è facile inquadrarla a sua volta nel piano di cui discutono in queste ore Renzi, Berlusconi, lo stesso Grillo. 

Il piano consiste nel precipitarsi alle urne in autunno, forse addirittura il 24 settembre, senza curarsi di come la prenderebbero i mercati (male, probabilmente). Per ragioni diverse ma convergenti, i tre contano di andarci con un sistema proporzionale e la soglia di sbarramento al 5 per cento. Questo sistema, convenzionalmente definito «tedesco», richiede qualche altra settimana di gestazione; sarà discusso in Senato ai primi di luglio. Ma prima (ecco l’inconveniente) arriverà in aula la «manovrina» con dentro i voucher. Se per colpa di Bersani il governo inciampasse, se dopo l’inciampo Gentiloni fosse costretto a dimettersi, e se per reazione alla sua caduta il Pd gridasse «adesso basta, torniamo alle urne», probabilmente andremmo a votare in settembre, come vuole Matteo. Però non con il “tedesco”, pallino di Silvio e parte integrante del piano, ma con la legge figlia della Consulta: circostanza sgradita a Berlusconi. Il quale dunque ha tutto l’interesse che nessun dramma politico si consumi di qui al varo della riforma elettorale. A costo di far vedere «l’inciucio» e di approfondire l’abisso che già lo divide da Salvini.

Ma non è l’unico paradosso di cui saremo spettatori. Per ragioni opposte a quelle del Cav, i centristi si preparano a vestire i panni dei guastatori. Tra gli alfaniani c’è chi teorizza l’agguato al governo per tornare alle urne con il sistema vigente. Che, ai loro occhi, ha un pregio impagabile: permette di rientrare alla Camera con il 3 per cento invece del 5, e di aggirare la soglia dell’8 a Palazzo Madama tramite gli apparentamenti che là sarebbero consentiti. Angelino ha già lanciato qualche velato avvertimento, senza venir preso sul serio. Se lui e i due colleghi di Ap si dimettessero dal governo, salterebbero quasi certamente i tempi per votare a settembre (e del “tedesco” non si farebbe più nulla). Ma dovrebbero trovare il coraggio di lasciare le poltrone e, per giunta, sopportare l’ira di Renzi. Più facile che puntino ad abbassare la soglia di un punticino: dal 5 al 4 per cento, e poi tutti a votare.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/28/italia/politica/berlusconi-sostiene-gentilonise-cade-lesecutivo-salta-la-legge-elettorale-ooq8ZwTaz6k9oYhSFNgFPO/pagina.html
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« Risposta #374 inserito:: Maggio 29, 2017, 08:56:22 pm »


La doppia mossa di Grillo per spiazzare Berlusconi
Il leader del M5S fa fare un plebiscito sul blog per il sistema tedesco.
E poi rilancia: “Alle urne il 10 settembre”.
Ora tocca a Renzi decidere
Pubblicato il 29/05/2017 - Ultima modifica il 29/05/2017 alle ore 07:28

Ugo Magri
ROMA

Altro che «Renzusconi», altro che trattative sottobanco tra Forza Italia e Pd: la grande accelerazione di queste ore la imprime proprio chi veniva considerato un alieno, estraneo a tutti i giochi, cioè Beppe Grillo. Il suo via libera al modello elettorale tedesco ottiene il plebiscito degli iscritti che nella consultazione online si sono detti a favore in 27.473 (soltanto 1532 i contrari). M5S non si schioderà da quella posizione. Adesso basta pochissimo per dichiarare «game over»: è sufficiente che domani sera, nella direzione del suo partito, Renzi scelga pure lui il «tedesco». La maggioranza per un sistema di voto proporzionale, con sbarramento al 5 per cento, sarebbe a quel punto vastissima, nel Parlamento e nel Paese, tale da rimpicciolire l’apporto di Berlusconi. Sotto tale aspetto, l’iniziativa grillina ridimensiona non poco il Cav, che già si godeva il centro della scena, e lo ferisce nell’autostima. 

L’assist a Renzi 
Il protagonismo a Cinquestelle non si spegne qui. Grillo preme sul pedale del gas pure per quanto riguarda la data delle urne. Indica il 10 settembre come ideale «election day» in quanto, argomenta sul suo blog, sarebbe «un atto di delicatezza istituzionale»: i nostri «onorevoli» non farebbero più in tempo a maturare «la vergogna del vitalizio» che scatta dal 15 settembre in poi. L’affermazione fa rizzare i capelli in testa a chiunque capisca di diritto parlamentare, perché notoriamente la legislatura non termina il giorno delle elezioni (come crede il blog), ma quando si riuniscono per la prima volta le nuove Camere. Dunque votare il 10 settembre non basterebbe comunque, bisognerebbe anticipare addirittura a Ferragosto. Però la sostanza è che, pure qui, Grillo lancia un assist a Renzi. Il quale pare abbia già segnato una data sul calendario: il 24 settembre, quando pure i tedeschi andranno alle urne.

I rischi del voto subito 
La convergenza sembra pressoché totale. Conferma Brunetta, per conto di Forza Italia, che «un vantaggio di votare in autunno sarebbe proprio quello di sincronizzarsi con il ciclo elettorale degli altri Paesi europei». Salvini e Meloni, almeno nei proclami, non vedono l’ora di menar le mani. Del Pd e dei Cinquestelle si è detto. A remare contro le urne rimane soltanto Alfano, cui Renzi ha inflitto l’ennesimo sgarbo: avevano concordato di vedersi stamane per parlarne con calma, però Matteo ha disdetto l’appuntamento senza un apparente perché. È la prova di quanto sia duro il braccio di ferro con i centristi. Unico incontro della giornata si annuncia tra il capogruppo Pd alla Camera, Rosato, e la delegazione Cinquestelle per bruciare le tappe sulla legge elettorale, senza la quale il Presidente non scioglierebbe le Camere. In realtà Mattarella pone (fin qui senza alzare pubblicamente la voce) un’ulteriore condizione: che votando prima della naturale scadenza non ci facciamo troppo male. L’Europa e i mercati si aspettano dall’Italia una manovra seria per il 2018, che andrà presentata entro il 15 ottobre per non incorrere nelle ire di Bruxelles e, soprattutto, per non trovarci in balia della speculazione. Votando a fine settembre o, peggio ancora, un paio di settimane dopo come suggerisce Franceschini, la scadenza di metà ottobre non sarebbe onorata. A presentare la legge finanziaria provvederebbe il governo dimissionario, in carica solo per gli affari correnti, dunque un atto di puro «pro forma». Dopodiché toccherebbe al successivo governo rimetterci le mani e far votare dal nuovo Parlamento la manovra. Sempre che venga fuori una maggioranza e l’Italia non si avviti nel gorgo dell’ingovernabilità. Ma ai nostri eroi, questi sembrano dettagli: al massimo poi si vedrà.

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