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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 07, 2010, 04:56:49 pm » |
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7/1/2010 (7: - RETROSCENA Mossa di Pd e Pdl "Torni l'immunità" Disegno di legge al Senato presentato da entrambi i poli UGO MAGRI ROMA L’hanno presentato senza clamore, e in pochi finora se ne sono accorti. Ma ai piani alti del Palazzo non lo perdono d’occhio perché fissa un metodo «bipartisan» destinato, forse, a grandi sviluppi. Si tratta del disegno di legge numero 1942, trasmesso il 17 dicembre alla presidenza del Senato col titolo «Modifica dell’articolo 68 della Costituzione, in materia di immunità dei membri del Parlamento». Sostanzialmente propone di riportarla in vita. Non nella stessa identica versione spazzata via da Tangentopoli sedici anni fa, ma secondo un criterio appena più rispettoso dell’autorità giudiziaria. Anziché obbligare il pm a chiedere l’autorizzazione preventiva per svolgere le indagini sugli «onorevoli» (nella Prima Repubblica veniva puntualmente negata), questa nuova proposta lascerebbe procedere il magistrato senza mettergli i bastoni tra le ruote fino alla soglia del rinvio a giudizio. Dunque permetterebbe di ravanare a fondo sul comportamento del deputato (o del senatore) e di giungere ad accertamenti che, inutile dire, verrebbero comunicati passo passo all’opinione pubblica. Solo al momento di tirare le conclusioni la Camera (o il Senato) potrebbero intervenire. Come? Votando di propria iniziativa l’eventuale sospensione del processo per l’intera durata del mandato parlamentare. Un atto impegnativo, di cui la maggioranza si assumerebbe la responsabilità politica, che andrebbe ben motivato davanti al Paese. L’idea non è inedita. Riprende pari pari una pensata di Tonino Maccanico (grand commis della Repubblica, più volte ministro) che nel 1993 il Senato aveva addirittura approvato, ma non era stata convertita in legge dalla Camera per effetto della rivoluzione dipietrista, dei proclami di Mani Pulite, delle monetine a Craxi e tutto il resto. A riportarla in auge sono ora due senatori «garantisti», Franca Chiaromonte e Luigi Compagna. L’aspetto più ragguardevole è che la prima appartiene al gruppo Pd, il secondo al Pdl. Lei, figlia di Gerardo, compianto dirigente nazionale del Pci; lui, rampollo di Francesco, per gli amici Chinchino, repubblicano e grande meridionalista. Non risulta che abbiano chiesto l’«imprimatur» dei rispettivi partiti. Però si faticherebbe a considerarli degli sprovveduti, e prima di lanciarsi nell’avventura entrambi (specie la Chiaromonte) hanno fatto qualche verifica in casa propria. Tutto fa pensare che, nei prossimi giorni, non mancheranno contatti bipartisan ai massimi livelli. Berlusconi deve definire la sua strategia sulla giustizia, appena tornerà a Roma riunirà i vertici del partito per mettere un po’ d’ordine, come insiste da giorni il presidente dei suoi senatori Gasparri. E manderà avanti questo o quel provvedimento, dal «processo certo» al «legittimo impedimento», a seconda delle risposte che otterrà dall’altra sponda. Qui s’inserisce la proposta Chiaromonte-Compagna. Secondo il senatore Quagliariello, che del berlusconismo è la mente giuridica, «questo disegno di legge potrebbe rappresentare, almeno sulla carta, una valida alternativa al cosiddetto Lodo Alfano», di cui egli stesso sta studiando la nuova formulazione costituzionale, da presentare nei prossimi giorni a Palazzo Madama. Se il Pd davvero ci stesse, il contestatissimo Lodo finirirebbe nel cassetto. E «molta acqua verrebbe gettata», tende la mano Quagliariello, «su fuoco dello scontro tra politica e giustizia». Il Cavaliere aspetta segnali. Molto ha apprezzato certe aperture della Finocchiaro e ieri del dalemiano Latorre. Però non le giudica ancora sufficienti, vuole conferme dalla conferenza stampa di Bersani annunciata per oggi. Con Bonaiuti, portavoce berlusconiano, che suona una serenata. E paragona il segretario Pd a un fiume carsico: si inabissa per salvare il dialogo e rilanciarlo al momento buono, dopo le Regionali... da lastampa.it
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 13, 2010, 05:19:10 pm » |
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13/1/2010 (7:17) - RETROSCENA
"È l'unico modo per difendermi"
In cambio del via libera al decreto, il Pdl può rinunciare al processo breve
UGO MAGRI ROMA
Tutto quanto sta scuotendo il Palazzo, compreso il decreto «blocca-processi» che il governo mette in campo, risulta inspiegabile senza un’occhiata al foglio che da giorni Berlusconi si gira e si rigira tra le mani. Porta un’intestazione: «Udienze già fissate avanti al Tribunale di Milano nei processi cosiddetti Mills e Diritti Mediaset».
Sono incolonnate e suddivise per mese. Si incomincia con venerdì prossimo (Mills), poi viene lunedì 18 (Diritti), quindi si salta al 25 gennaio (ancora Diritti), di lì a venerdì 29 e a sabato 30 (Mills). Fino al giorno delle elezioni regionali, che si terranno il 28 marzo e come sempre saranno un referendum sul Cavaliere, il quale se perde si mette nei guai, vincere resta la sua condanna, di qui ad allora dunque sono ben 23 le convocazioni del premier davanti ai giudici: 5 volte entro gennaio, 9 a febbraio, altrettante in marzo prima delle elezioni... Ecco come e perché nasce il dramma politico di queste ore.
Berlusconi si trova nell’insostenibile posizione di giocare a rimpiattino coi magistrati per i prossimi tre mesi, inventandosi volta a volta impegni di governo che ne giustifichino l’assenza. O viceversa, deve prendere il coraggio a due mani e presentarsi davanti ai giudici, come farebbe qualunque cittadino senza responsabilità di governo. Un dilemma di cui si discute animatamente nello staff del Cavaliere, poiché ciascuno dei due corni comporta rischi politici mortali. Berlusconi, se cedesse all’istinto, sceglierebbe decisamente il colpo di teatro. Senza preavviso, andrebbe almeno una volta in Tribunale a difendersi. Confida in privato che «sarebbe l’occasione buona per far sentire la mia voce, per spiegare al Paese come stanno davvero le cose e dimostrare a tutti tanto l’infondatezza delle accuse, quanto la persecuzione di cui sono vittima».
Abile come nessuno nella comunicazione, tenterebbe di rovesciare i ruoli, ergendosi a giudice di chi prova a condannarlo. Ma soprattutto, contrasterebbe l’immagine data finora, di premier costretto a inventarsi lunghi viaggi oltremare o improbabili tagli di nastro pur di sottrarsi alla giustizia. Però Ghedini sconsiglia il blitz in Tribunale. Da avvocato, gli vengono i brividi al solo pensiero dei guasti che uno show provocherebbe sul piano processuale. Altro conto sarebbe frequentare le udienze, tutte però, non una soltanto. Come fece ad esempio Andreotti. Ma Giulio era già senatore a vita.
Berlusconi, viceversa, non se lo può permettere, e lui stesso lo riconosce: «Dicono che mi dovrei difendere nei processi e non dai processi. D’accordo. Allora prendo il calendario in mano, e ne devo dedurre che dovrei smettere di governare...». Mostra il foglio ai suoi interlocutori: «Visto? Ci sono settimane addirittura con 3 udienze. Ma per partecipare ai processi bisogna studiarsi prima le carte. Ho fatto portare da Ghedini ad Arcore tutti i faldoni, occupano un tavolo intero... E allora, per essere davvero presente in Tribunale, io non dovrei fare altro nella vita». Ecco il dilemma impossibile del premier: scappare (non può più) o difendersi (nemmeno).
Ed ecco perché, misurando l’impraticabilità dell’una e dell’altra via, è spuntato fuori dal suo cilindro questo coniglio del decreto «blocca-processi», Napolitano permettendo e con la mediazione di Fini (i due co-fondatori del Pdl si vedranno domani a pranzo): per Berlusconi, sarebbero tre mesi garantiti di tregua pre-elettorale. Qualcuno dice che in contraccambio il governo affonderebbe il «processo breve», cruccio del Colle. Può essere. Ma il premier non pare del tutto convinto. In mente ha un altro piano: far approvare il «processo breve» dal Senato in prima lettura, e poi tenerlo in caldo alla Camera fin dopo le Regionali, un po’ come «pistola puntata» contro i giudici, sempre pronta all’uso.
Nel frattempo sarà andato avanti il «legittimo impedimento». E soprattutto, la Corte di Cassazione si sarà pronunciata sulle due condanne all’avvocato Mills. Anche qui, occhio alla data scritta sul foglietto: 25 febbraio. L’aspettativa del premier è che la Suprema Corte spazzi via l’intero processo. A via del Plebiscito coltivano la «ragionevole speranza». A quel punto, getta avanti lo sguardo Berlusconi, «potremo fare le riforme della giustizia con serenità, dopo le Regionali. E avremo quasi 3 anni di tempo, senza elezioni di mezzo, per riscrivere la Costituzione».
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 16, 2010, 11:56:14 am » |
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16/1/2010 (7:12) - RETROSCENA
E ora il Cavaliere sospetta un asse tra Fini e Casini
Stretta di mano tra Berlusconi e Fini in una foto d'archivio L'Udc con il Pdl solo in Campania e Lazio grazie al patto siglato con l'ex leader di An
UGO MAGRI ROMA
Come al solito, fiato sprecato. Quarantott’ore dopo il loro colloquio, Fini e Berlusconi divergono esattamente come se non si fossero mai chiariti. Il risultato è che tra qualche giorno rischiano di rompere davvero, in quanto mercoledì si riunisce il Gran Consiglio del partito, vale a dire l’Ufficio di presidenza rinviato per effetto dei dissapori. E lì, nel consesso dove di finiani se ne contano 4 su 37 membri, il Cavaliere intende mettere ai voti l’ultimo «casus belli»: vale a dire se fare o meno accordi con Casini alle Regionali di marzo. Silvio vuole sbarazzarsi dell’Udc, Gianfranco lo considera uno sciagurato errore ma le tante parole spese giovedì scorso hanno avuto l’unico effetto di rendere il premier ancora più sospettoso e determinato.
Tutto nasce da certe carte che il fido Denis Verdini ha consegnato al Capo. Berlusconi le ha lette nella convalescenza, arrivando alla conclusione che Casini lo sta pigliando per i fondelli. «Lui finge di essere equidistante tra i poli», s’è sfogato il Cavaliere con Mastella recatosi a fargli visita, «in realtà nelle varie Regioni dà una mano a Bersani». L’Udc correrà per proprio conto in Lombardia, Veneto, Toscana, Umbria, Emilia Romagna. Farà alleanze col Pd in 4 regioni dove il risultato è in bilico (Piemonte, Calabria, Liguria e Marche), più la Basilicata che fanno cinque. E potrebbero diventare 6, qualora Boccia diventasse il candidato Pd in Puglia. Viceversa col Pdl, lamenta il premier, 2 sole alleanze: in Campania dove, l’ha rassicurato Mastella, l’Udc neppure sarebbe determinante (candidato Pdl sarà il socialista Caldoro, c’è il via libera del rivale Cosentino), e nel Lazio per effetto dell’accordo stipulato con Fini sul nome della Polverini. Agli occhi di Berlusconi, una semplice «foglia di fico» che l’altro co-fondatore ha concesso all’amico Pier Ferdinando. Come mai tanta generosità?
Fini gli ha già spiegato che sì, in effetti, Casini è condannabile. Però averlo amico nel Lazio è meglio che niente. Inoltre le Regionali non sono la fine della storia, poi verranno le Politiche, bisogna essere lungimiranti... Berlusconi invece ha la certezza: «Con Fini forse, ma con me Casini non tornerà mai più, queste alleanze alle Regionali ne sono la prova». Tanto vale, parte al galoppo, voltare pagina subito, senza concedere a Casini ulteriori vantaggi in termini di assessorati. Pare che il premier stia tornando a ragionare intensamente sul suo oggetto del desiderio: una legge sulla «par condicio» che spazzerebbe dalla tivù i partiti minori. «Tre mesi fa aveva quest’idea», confida La Russa, «poi gli è stato spiegato che non si può fare». Il dissenso strategico con Fini, in calendario mercoledì prossimo, verte precisamente su questi nodi, assai meno sugli spigoli caratteriali. Dunque non ha faticato Berlusconi, durante una passeggiata nel centro di Roma, a smentire la solita cascata di battute autolesioniste che gli vengono attribuite, tipo «con Fini serve la pazienza di Giobbe», oppure «io sono un imprenditore, sono abituato a decidere mentre Gianfranco mi vorrebbe costringere a eterne mediazioni».
Il problema tra i due è ben più serio di un’«arrabbiatura». Casini, abilissimo, alimenta la discordia nel Pdl sventolando il drappo rosso davanti al Cavaliere. Lo punge, «tutti dicono no ai due forni ma poi mi chiamano per sapere dove metteremo il nostro pane»; lo ferisce, «io a lui non devo nulla, sono parlamentare dal ‘93, prima della sua discesa in campo...». Altra grana per Berlusconi: gli sta scoppiando Forza Italia. Le candidature più prelibate sono finite alla Lega oppure ai finiani. Per giunta il Cavaliere sta meditando di lanciare in Puglia un altra ex di An, la Poli Bortone, a costo di deludere il suo pupillo Fitto, il quale vorrebbe Palese o Di Staso. Ma il Capo li ha visionati entrambi e non ne se ne dice entusiasta.
da lastampa.it
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:12:17 pm » |
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21/1/2010 (7:19) - RETROSCENA
Il Pdl punta sull'immunità Il ddl votato ieri a Palazzo Madama serve solo come "pistola puntata"
UGO MAGRI ROMA
Il paradosso del «processo breve» è che andrà per le lunghe. Tanto fulminea è stata l’approvazione in Senato, quanto lenta e ponderata si annuncia la discussione a Montecitorio. Passeranno mesi. Addirittura circola una scommessa: questa legge finirà sul binario morto. O farà passi avanti solo dopo aver perso per strada il vagone più traballante, la norma transitoria che vuol mettere Berlusconi al riparo dalle condanne.
Questo si sostiene tra gli addetti ai lavori. Nel giro del Cavaliere non solo la previsione dei tempi biblici è confermata, ma si aggiungono ulteriori dettagli. Poi, come al solito, in pubblico viene argomentato il rovescio. E sulla sinistra c’è chi finge di credere alla propaganda berlusconiana perché i «falchi» di qua si appoggiano ai «falchi» di là. Ma al netto delle ipocrisie, il «processo breve» serve al premier ormai solo come ruota di scorta o (come dice lui stesso lontano dai microfoni) quale «pistola puntata» contro magistratura e alti vertici istituzionali, casomai dovessero negargli la vera ciambella di salvataggio, cioè il cosiddetto «legittimo impedimento». Proprio da qui occorre partire.
L’idea di motivi legittimi per disertare i processi è alquanto spericolata. Chi l’ha proposta, il centrista Vietti, la paragona a «un ponte tibetano» sospeso sull’abisso. Il premier dovrebbe camminarci sopra per 18 mesi, tempo necessario ad approvare una riforma della Costituzione che introduca certe guarentigie per le alte cariche dello Stato. A tal fine verrebbero rinviate per legge le udienze dei processi di Berlusconi ogni qualvolta il premier fosse, per l’appunto, impedito. Vietti suggerisce casi molto tassativi. Invece gli avvocati vorrebbe allargare le maglie fino a ricomprendere, come impedimento legittimo, «ogni altra attività legata alle funzioni istituzionali», concetto generico assai. Seguendo la metafora di Vietti, sarebbe come far transitare un elefante sul ponticello: forzatura contro cui potrebbe accanirsi la Corte Costituzionale.
La Consulta, si sa, è la bestia nera del Cavaliere. Già gli ha bocciato il Lodo Alfano. E nelle motivazioni della sentenza ha gettato le basi per concedere il bis su un eventuale nuovo Lodo riproposto con legge costituzionale. Che difatti Quagliariello, stratega berlusconiano incaricato della questione, si è ben guardato finora dal presentare, e forse nemmeno lo farà. In pratica la Corte, facendo leva sull’articolo 3 della Carta repubblicana (tutti i cittadini «sono eguali davanti alla legge»), potrebbe respingere ogni modifica della Costituzione stessa che fosse a esclusivo vantaggio del Cavaliere. Prende forza dunque la tesi di lasciar perdere il Lodo e di metter mano semmai all’articolo 68, iniettando nel sistema qualche dose di immunità parlamentare, come del resto esisteva fino al ’93. La Consulta, è il ragionamento berlusconiano, non oserà dichiarare incostituzionale un testo scritto di loro pugno dai Padri costituenti...
Partita intricata, comunque. Ecco perché il «processo breve» resterà a bagnomaria. Potrà tornare utile al premier qualora il «legittimo impedimento» dovesse trovare ostacoli non da parte di Napolitano, che lo firmerebbe, ma della Consulta. In quel caso basterebbe un attimo a riprendere il testo già votato a Palazzo Madama. Se invece andrà in porto il «legittimo impedimento», «processo breve» addio: Berlusconi l’ha confessato, sarebbe il primo a non nutrire rimpianti. Del resto Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, invita come Mao a non distinguere tra gatto bianco o nero, «l’importante è che acchiappi il topo della giustizia politica di cui dobbiamo liberarci per sempre». E Quagliariello, a chi contesta gli zig-zag della maggioranza sulla giustizia, replica secco: «Siamo finalmente sulla strada giusta. Non è stato facile individuarla. E del resto, se lo fosse, non staremmo qui a parlarne da 15 anni...».
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« Risposta #49 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:49:39 am » |
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22/1/2010 (7:19) - RETROSCENA
Fini e Silvio mandano la legge in soffitta
Trovata l'intesa: il Pdl punta sul legittimo impedimento
UGO MAGRI ROMA
Può sembrare grottesco, forse lo è: nel mentre esatto che sulla pubblica arena volavano insulti anche pittoreschi tra governo e opposizione (per non dire tra ministro Guardasigilli e sindacato delle toghe), in quel preciso istante a tavola, nell’atmosfera ovattata dell’Hotel de Russie dietro Piazza del Popolo, si celebrava ieri la messa da requiem del «processo breve», madre di tutte le discordie.
Veniva pattuito di comune accordo, senza sfumature apprezzabili tra Berlusconi e Fini, che la legge appena approvata in Senato verrà subito inghiottita dalla Commissione giustizia della Camera. E lì se ne perderanno le tracce, quantomeno per i prossimi due mesi. Poi, una volta celebrate le elezioni regionali in data 28 marzo, pigramente l’Aula procederà all’esame dell’articolato. Viene dato per certo che ci saranno delle modifiche, magari addirittura il «processo breve» verrà purgato della norma «ad personam» che cancella i due processi del premier. Col risultato che la legge (a quel punto senza più clamore, è chiaro) verrà rispedita alla casella del «via», cioè in Senato, senza nemmeno escludere un quarto passaggio parlamentare...
Insomma, non se ne farà più nulla. Tranne che nell’ipotesi molto d’emergenza in cui Berlusconi si ritrovasse completamente inerme davanti ai giudici milanesi, privo di qualunque altro scudo contro le condanne incombenti. In quel caso basterebbe un attimo per riaprire il cassetto, tirarne fuori la legge già timbrata da un ramo del Parlamento e approvarla seduta stante. Sarebbe la classica ciambella di salvataggio, il Cavaliere stesso potendo eviterebbe di restarvi aggrappato poiché si rende conto dello sconquasso per l’intero sistema della giustizia. Ma si tratta di un rimedio da ultima spiaggia. La rotta tracciata ieri nel pranzo tra Berlusconi e Fini punta semmai sul «legittimo impedimento», l’altro cavillo escogitato per legare le mani ai giudici milanesi. La sostanza è che non potranno tenersi udienze ogni qualvolta il premier sarà impedito, appunto, da impegni istituzionali. Lunedì la legge arriverà in Aula alla Camera. Sette giorni di rinvio per definire gli emendamenti, quindi approvazione in un battibaleno. E stavolta niente «ammuina»: corsa contro il tempo al Senato, entro le Idi di marzo il «legittimo impedimento» sarà in «Gazzetta ufficiale». Quando i giudici convocheranno Berlusconi, lui potrà tranquillamente rispondere: oggi ho l’agenda piena, domani pure...
Fini non solleva obiezioni. Aveva forti riserve sul «processo breve», ci penseranno i suoi a presentarla come una vittoria. Berlusconi alza le spalle, l’importante per il Cavaliere è mettersi al riparo. Poi, in realtà, molto resta da definire, certi «dettagli» sono per niente chiari. Ad esempio, si sa che l’impedimento legittimo del premier durerà 18 mesi, il tempo necessario a varare una riforma della Costituzione che impedisca ai giudici di distrarre il conducente. Ma ancora non si capisce bene quali saranno gli «impedimenti» consentiti per legge (c’è discussione se ricomprendere nella lista quelli di natura internazionale), e tantomeno in che modo la Carta costituzionale verrà ritoccata.
Nei pochi minuti di ragionamento a tavola, in un clima giurano parecchio rilassato, l’idea prevalente è parsa quella di puntare sull’immunità per tutti i politici anziché sullo scudo per uno soltanto. Com’era prima del ‘93 e di Tangentopoli. A sua volta, qualunque riforma della Costituzione richiede forme di convergenza bipartisan. E’ la ragione niente affatto misteriosa per cui nella cerchia berlusconiana si ripete senza tregua il mantra del dialogo con l’opposizione. «Non crediamo affatto che la stagione delle riforme sia prematuramente finita», insiste il portavoce del premier, Bonaiuti. Bersani oggi manifesta sdegno, annuncia battaglia sul «processo breve» e pure sul «legittimo impedimento». L’interrogativo è se terrà duro anche dopo le Regionali.
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« Risposta #50 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:46:12 pm » |
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24/1/2010 (7:11) - REGIONALI - SI ACCENDE LO SCONTO
Pdl, un Piano casa contro i feudi rossi
Il convegno del Pdl ad Arezzo Berlusconi: «Alle elezioni la parola d'ordine è stravincere»
UGO MAGRI INVIATO AD AREZZO
Cresce l’appetito del Cavaliere in vista delle elezioni. Sta mettendo al sicuro il risultato in certe Regioni chiave. E ora prepara qualche gioco di prestigio, tipo coniglio dal cilindro per colpire la fantasia collettiva e spiazzare la campagna avversaria. Tremonti mette l’Italia sull’avviso: «Credo che il presidente del Consiglio elabori idee forti nell’interesse dei cittadini...». I denari mancano, precisa subito il responsabile dell’Economia, dunque niente mance elettorali. Pare piuttosto che Berlusconi voglia rilanciare il suo piano casa, compresa la possibilità di ampliare le cubature fino al 35 per cento. Servono leggi regionali, alcuni governatori «rossi» hanno fatto orecchie da mercante, il premier darà ordine ai suoi candidati di sottoscrivere un «Patto con gli italiani»: se saranno eletti, basta con lacci e lacciuoli, i costruttori stapperanno champagne.
A 64 giorni dal voto, Berlusconi lancia la carica. Tutti i dubbi strategici sono spazzati via, obiettivo non è più vincere ma stravincere. E pazienza se la spallata dovesse abbattere l’unico possibile interlocutore sull’altra sponda, quel Bersani che non può esordire da segretario Pd con una débacle. Se sarà trionfo, segnala Tremonti, seguiranno «tre anni di tregua e di pace, il tempo giusto per fare le grandi riforme». La Terra Promessa berlusconiana passa per gli accordi regionali con l’Udc perché «dopo il 28 marzo Obama ti chiamerà per complimentarsi delle tante Regioni conquistate», racconta Gasparri di aver detto a Silvio, «non per sapere quanti sono gli assessori centristi...». Così non solo il premier rinfodera i propositi di tagliare i ponti con Casini, ma ci sta facendo business. Era in dubbio l’alleanza in Calabria? Ora è di nuovo dietro l’angolo. I centristi in Puglia guardavano a sinistra? Adesso non più, salvo una miracolosa vittoria di Boccia alle primarie Pd, i seguaci di Casini convergeranno col Pdl. Può essere che salti la trattativa in Campania, ma Berlusconi non ci perderà il sonno perché «i napoletani mi amano, lì vinceremo lo stesso».
Smentisce con sdegno Palazzo Chigi che il Cavaliere voglia infarcire le liste di «veline» (ci risiamo?) ma non argina la chiacchiera opposta: stavolta i candidati maschi Berlusconi li vuole giovani e aitanti. Bocciato Palese in Puglia per ragioni televisive. «Niet» sul toscano Migliore (pingue e con la barba). Pollice verso perfino sull’intellettuale Magdi Allan, in Basilicata il premier gli preferisce l’ex parlamentare Pagliuca. Uno via l’altro, ecco sistemati gli ultimi tasselli. Il Cavaliere è certo di avere già in tasca 6 Regioni (su 13 al voto), ormai punta a fare bottino pure nelle roccaforti avversarie. «Dovremo porre rimedio ancora una volta ai guasti del malgoverno regionale della sinistra», scrive Berlusconi di suo pugno.
Del proclama viene data lettura al convegno in corso ad Arezzo, vero evento politico di queste ore: tutti i boss del Pdl adunati insieme su iniziativa di Gasparri e La Russa, una platea di quasi 2 mila persone, clima inconfondibile da Prima Repubblica, quei convegnoni di corrente democristiana dov’era tutto un affollarsi al tavolo di presidenza, un tripudio di notabili, di truppe cammelate, di scorte ipertrofiche, di tavole rotonde (ieri l’ha coordinata una pugnace Bianca Berlinguer, apprezzatissima dalla destra). Qualcuno vede nella kermesse aretina i primi passi di un partito adulto che vorrebbe camminare da solo, sottraendosi alla tutela di entrambi i co-fondatori. «O cominciamo a crescere, oppure saremo ricordati come le pulci che hanno volato una stagione sotto l’ala dell’aquila», è l’immagine poetica di Quagliariello. «Siamo figli dello stesso destino», gonfia orgoglioso il petto La Russa.
E si discute, e si litiga come nei partiti veri. Scajola incrocia la lama con Tremonti, Baldassarri contesta le ricette del Professore sull’economia. Urso sale sul palco per cantare il peana di Fini («Lui è la qualità, Berlusconi la quantità, Silvio porta i voti Gianfranco le idee»), Ronchi invece esorta a farla finita con questa storia di Fini bastian contrario, «chi lo dice è in malafede».
Il presidente della Camera spedisce pure lui una lettera, auspica che il Pdl divenga «un grande partito plurale, capace di discussioni innovative, sintesi evolutive e di un costruttivo confronto», in pratica niente pensiero unico. Il ministro dell’Economia getta acqua sul sacro fuoco degli entusiasmi, «nel partito sta crescendo un certo tasso di democrazia, ma ho l’impressione che resti monarchico».
Giusto l’impressione.
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« Risposta #51 inserito:: Gennaio 31, 2010, 10:48:27 am » |
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31/1/2010 (7:44) - RETROSCENA
Il Cavaliere fa spallucce e prepara il ritorno in tv
Campagna elettorale con poche cene e molte comparsate
UGO MAGRI ROMA
Basta un granello di sabbia per deragliare la storia. Sette giorni fa Berlusconi era ottimista, lanciatissimo sulle Regionali, già pregustava un trionfo, con gli avversari stesi al tappeto fino al 2013. Poi però domenica sera qualcosa è andato storto, non solo il derby calcistico con l’Inter, e da quel dì l’umore non è più lo stesso.
Non per la questione giustizia o per la protesta di ieri dei magistrati, ma perché in Puglia i fedelissimi l’hanno tradito (così lui la vive). Nella scelta del candidato da opporre a Vendola i giochi locali si sono imposti ai desideri del premier. Peggio ancora, i gerarchi Pdl hanno solidarizzato con quella che Berlusconi considera una decisione errata, al limite dell’ammutinamento.
Quella sera nel personaggio qualcosa si incrina dentro. Non la voglia di vincere, anche perché perdere sarebbe un dramma. Ma un filo di entusiasmo si smarrisce per strada. Incredibile a dirsi, il leader, anzi il Fondatore, si sente meno indispensabile, quasi accessorio. E di conseguenza cambia il suo approccio alle elezioni, perlomeno nelle intenzioni confidate in privato. A titolo di esempio, «piuttosto che scendere in Puglia per sostenere Palese, Berlusconi in questo momento si farebbe tagliare un alluce», giura un assiduo frequentatore di Arcore. Berlusconi è tuttora indispettito.
Fitto, luogotentente pugliese, getta acqua sul fuoco, «veramente a me il Presidente ha promesso che ci darà una mano», magari alla fine cambierà idea, però il ministro sembra l’unico a crederci. Si interroga il presidente del Consiglio in queste ore: «Perché dobbiamo ripetere gli stessi errori che commettono dall’altra parte? E per quale motivo io dovrei avallarli, mettendoci personalmente la faccia, col risultato di caricarmi il peso di una sconfitta?».
Berlusconi scenderà nell’arena, anticipano al Plebiscito, solo dove è stato reso davvero partecipe (leggi: dove ha deciso lui i candidati). Inutile che i boss locali lo pressino, la segretaria Marinella sarà selettiva, qui sì, là no, «il Presidente ha degli impegni». Per il momento ha fissato tre cene elettorali, in Lombardia perché ci mancherebbe, nel Lazio poiché se la Polverini non ce la fa Fini poi chi lo sente, nel Piemonte in quanto Cota gli sta simpatico. Punto e basta, questo è lo stato d’animo.
C’è da partire in visita di Stato per Gerusalemme, dove gli israeliani vogliono contestarci il giro d’affari con l’Iran? Berlusconi parte, la campagna elettorale può attendere. Idem per il Brasile ai primi di marzo: sono in gioco ghiotte commesse militari e le decisioni del presidente Lula sull’estradizione di Battisti. Sostiene il portavoce Bonaiuti che la campagna elettorale del premier farà perno sull’azione governativa, «i nostri fatti contrapposti alle chiacchiere della sinistra». L’immagine dell’esecutivo verrà tirata a lucido. Tremonti permettendo (di spendere non se ne parla) Berlusconi lancerà qualche proposta su cui la sinistra griderà «scandalo», in modo da rubare tutta la scena.
«Parleranno le azioni concrete», insiste Bonaiuti. Niente manifesti 6 per 3 a tappezzare i muri d’Italia con il sorriso standard e, magari, la mini-cicatrice dell’aggressione. Il nome del premier comparirà solo nel logo «Berlusconi per Formigoni», o «Berlusconi per Polverini», e così via. Farà molta televisione, quella sì, comparsate a raffica, e tantissima radio perché al Cavaliere come ai suoi strateghi della comunicazione non sfugge che è tornata di moda, specie quella targata Rai.
Rari comizi per ovvie ragioni di sicurezza, e comunque a Berlusconi non va di perdonare, con un atto di presenza taumaturgica tra le folle, gli sgarbi del suo gruppo dirigente. Insomma, stavolta si arrangino un po’ da soli.
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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 16, 2010, 07:42:50 pm » |
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16/2/2010 (7:19) - RETROSCENA
Ora il Cavaliere teme davvero la tangentopoli-bis
«Non voglio perdere voti per questi signori»
UGO MAGRI ROMA
Berlusconi scopre la «nuova Tangentopoli». Teme un bis del ‘94. Che si ripeta quel clima, tra arresti per ruberie vere o presunte, da cui la gente tragga l’idea di una corruzione politica dilagante. Proprio sotto elezioni regionali. Col risultato che a pagare il conto sarebbe lui, il Cavaliere: per una volta risparmiato dalle inchieste, ma tradito dai suoi uomini, tirato a fondo dal suo stesso partito...
Può darsi che il premier ne parli stamane, quando calerà da Arcore nella Capitale per dare il là alla campagna delle candidate donna, in primis la Polverini. Ci ragiona sopra da venerdì, molto l’ha impressionato la lettura del «Mattinale» (foglio a circolazione interna e riservata del Pdl, redatto dagli strateghi più attenti). Vi si punta l’indice contro le toghe scatenate «a sostegno dell’opposizione», ma soprattutto vi si annunciano cataclismi, cupi presagi, compreso «il rischio che la situazione degeneri pericolosamente, al punto da condizionare la campagna elettorale e il risultato del Pdl».
Ieri mattina, mentre di questo ragionava insieme coi fedelissimi, e dell’inchiesta fiorentina che trascina nel fango il coordinatore nazionale Verdini, e delle voci incontrollate di nuovi coinvolgimenti parecchio in alto, e del dramma di Bertolaso tuttora sull’orlo delle dimissioni, e del panico che circola nei Sacri Palazzi vaticani (leggi: Giubileo 2000), nel mezzo di tutto ciò Berlusconi è stato raggiunto dalla telefonata di un vecchio amico. Ne ha profittato per sfogarsi contro quanti orchestrano la nuova campagna di scandali, ce l’ha con i «seminatori di discordia», con i mandarini del vecchio e nuovo giornalismo... «Il mio consenso resiste, sono ancora al 67 per cento di gradimento», e quasi gli sembra un miracolo. Perché senza bisogno di consultare i sondaggi di Euromedia Research il premier capisce che qualcosa sta succedendo, da rabdomante coglie gli slittamenti d’umore sotterranei, un «mood» collettivo tendente al peggio.
Ma soprattutto Berlusconi si rende conto che stavolta non sono solo complotti, teoremi delle «toghe rosse»: qui ci sono amministratori presi con le mani nel sacco, prove inconfutabili, su Pennisi addirittura fotografiche. Per quanta fede possa nutrire nell’onestà dei suoi discepoli, il Cavaliere non è nato ieri: il presidente della Provincia di Vercelli agli arresti domiciliari (concussione), l’ex assessore al Turismo in Lombardia nel carcere di Voghera, un partito del Nord che, se si dà retta a chi lo frequenta, Berlusconi raderebbe al suolo tanto è incavolato. Vede Bossi spalancare le fauci come un alligatore («Noi della Lega stiamo sempre attenti a non fare pirlaggini...»), sente Fini ergersi a paladino dei buoni costumi («Chi ruba non lo fa per il partito ma perché è un ladro, un volgare lestofante») e smarcarsi al punto da proporre il rifugio nel sistema elettorale uninominale che segnò il tracollo della Prima Repubblica.
Tra gli intimi del premier vince la tesi che debba battere un colpo, magari più d’uno. «Serve un segnale forte e chiaro», supplica Letizia Moratti. Per rassicurare la Lombardia, il Piemonte, l’Italia intera. Le «liste pulite» a Milano non sono ancora abbastanza, per battere lo sconcerto Berlusconi deve metterci personalmente la faccia. Contrattaccare dando garanzie. E la prova del nove saranno le candidature: qui non si discute più di «veline» e soubrette, si parla di ras locali potenti che dalle patrie galere premono per essere ricandidati, o rivogliono il posto nonostante disavventure gravi. Al telefono col vecchio amico, il Cavaliere pare abbia detto: «Non ho mai rubato una lira, non voglio perdere voti per colpa di questi signori». Impugnerà la frusta contro i mercanti nel tempio?
da lastampa.it
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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 18, 2010, 03:01:20 pm » |
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18/2/2010 (8:11) - RETROSCENA
Intercettazioni, stop al Cavaliere
La legge sui controlli telefonici dopo le regionali
UGO MAGRI ROMA
Grande frustrazione del Cavaliere. Vorrebbe sbloccare la legge sulle intercettazioni e mettere il coperchio sulla nuova Tangentopoli, ma non ci riesce. Esattamente come gli piacerebbe inviare un segnale forte all’Italia sofferente, con un piano per il Sud, un altro per l’occupazione, però mancano i soldi. Che rabbia. Come un pugile stretto nell’angolo, Berlusconi rischia di incassare i cazzotti della magistratura, dell’opposizione che con Bersani si fa coraggio («Accettiamo la sfida nazionale del Cavaliere, il vento sta girando») senza restituire un colpo. Il premier riunisce a Palazzo Grazioli i suoi ministri economici, Fitto e Scajola gareggiano nelle proposte per dare lustro al governo e guadagnare un po’ di voti nelle Regioni in bilico, Tremonti inflessibile gela tutti, premier compreso: «Non ce lo possiamo permettere, guai ad abbassare la guardia, ci si rende conto di cosa sta succedendo in Europa?». Muso lungo del Capo con il suo «guru» economico.
Poi Berlusconi convoca l’avvocato Ghedini, chiama il ministro Alfano, a sera riunisce intorno al desco i capigruppo a palazzo Madama Gasparri e Quagliariello (più una quindicina di senatori e il musico Apicella) perché servono argini contro la melma che tracima dalle inchieste e imbratta quanto di meglio il governo ha combinato in due anni. Si batte contro i paragoni con Mani Pulite, «dovete spiegare a tutti che non c’entra nulla», ripete come in un mantra il Cavaliere, «allora avevamo un sistema illegale di finanziamento ai partiti, stavolta siamo di fronte a comportamenti singoli che vanno stroncati». E per questo alla cena con alcuni senatori a palazzo Grazioli esorta: «Siamo garantisti, ma massima attenzione a chi candidiamo». Mariuoli, li avrebbe bollati Bettino Craxi. E se fossero comitati d’affari all’ombra del pdl? Berlusconi per primo non è tranquillo, quanto viene alla luce rappresenta una sorpresa pure per lui: mai un sentore, nemmeno un segnale di preavviso dal ministro della Giustizia, da quello dell’Interno, dai vertici di Carabinieri e Polizia, per non dire dei Servizi segreti, o dormivano o chissà... Frustrazione, e inquietudine. Con gli interrogatori in corso degli arrestati. Con i verbali così ricchi di «omissis». Con le voci che, come sempre accade in questi casi, si rincorrono e creano falsi bersagli per nascondere magari quelli veri.
Le intercettazioni, dunque: per Berlusconi, la fonte di tutti i guai. La legge che dovrebbe bloccarle sta lì in Senato, il 3 marzo scadrà il termine per correggerla in Commissione. Ancora una spintarella, ed è fatta. Anzi no, perché l’Aula deve prima discutere e votare altri decreti sulla Giustizia, quindi si scannerà sul «legittimo impedimento» che al premier interessa tanto quanto le intercettazioni (e forse di più). «L’approvazione è matura», sospira Gasparri. Però dopo le Regionali, perché altrimenti la campagna elettorale sarebbe invasa dai guai giudiziari del premier e del suo partito, meglio evitare. Inoltre c’è lo scoglio Quirinale. Berlusconi s’era impegnato personalmente con Napolitano a riscrivere il testo sulle intercettazioni, che somiglia troppo a un bavaglio. Per mesi è rimasto a giacere. Rispolverarlo adesso, che i magistrati affondano il bisturi, sarebbe una provocazione nei confronti del Colle, Letta per primo lo sa.Volano gli avvoltoi, nei corridoi già qualcuno scommette che Berlusconi congederà Verdini da triumviro, al vertice lascerà il solo Bondi affiancato dal finiano Bocchino. Per ora, grande lavata di capo del premier alla Carfagna, da lui fatta ministro ma colta in adorazione del presidente della Camera (vedi intervista per il settimanale «A» dove lei confida che «lo stimo da sempre e, prima di aderire a Forza Italia, ho votato Msi e An perché mi riconoscevo in Fini»). Detta in questo momento suona come un «si salvi chi può».
da lastampa.it
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« Risposta #54 inserito:: Febbraio 26, 2010, 12:04:13 pm » |
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26/2/2010 - ANALISI
Il Cavaliere soddisfatto ma solo a metà
UGO MAGRI
La ciambella del Cavaliere non riesce mai con il buco perfettamente al centro. C’è sempre qualcosa che va storto, perfino nelle giornate da segnare sul calendario. Quella di ieri è da manuale. Berlusconi avrebbe ottime ragioni per rallegrarsi della sentenza di Cassazione.
Schiverà molto probabilmente una condanna che, se si dà retta alle sue menti giuridiche, il tribunale milanese gli aveva già cucito addosso. Al premier rimane una fedina penale immacolata, con la speranza di accedere in futuro ai più alti scranni della Repubblica. Nell’immediato, continuerà a frequentare i summit internazionali senza il terrore che qualche leader gli neghi la «photo opportunity». E soprattutto, con il voto tra un mese, Berlusconi non dovrà nascondersi agli occhi degli italiani. In Consiglio dei ministri di lunedì potrà alzare la voce contro la corruzione poiché, gli ruba il pensiero Quagliariello, «solo se si mettono da parte i teoremi allora finalmente riusciremo a combattere il malcostume diffuso».
Peccato però che nello stesso giorno, tanto atteso dal premier, altri segnali inducano alla cautela. Alta risuona la rivolta della Consulta, lo squillo di tromba del suo presidente Francesco Amirante, con quel richiamo risoluto alle regole che nessuna volontà popolare potrebbe mai travolgere, unito all’affermazione che in via del Plebiscito viene vissuta come una minaccia neppure troppo velata: «E’ bizzarro meravigliarsi», ha detto Amirante, «quando la Consulta dichiara illegittima una legge...». Già è successo col Lodo Alfano, che doveva far scudo al premier contro i processi; la bocciatura potrebbe ripetersi sul «legittimo impedimento», pilastro della strategia difensiva berlusconiana, polizza d’assicurazione del premier fintanto che resterà al potere.
C’è dell’altro. Come riconoscono nell’antica dimora dei Chigi, meglio sarebbe stata un’assoluzione di Mills dall’accusa di essersi fatto comprare. Quella condanna al risarcimento è una macchia indelebile, per la giustizia i soldi l’avvocato li prese, da chi non è difficile immaginare. Inoltre non è chiaro quando scatterà la prescrizione per il premier: c’è chi dice tra 11 mesi, sufficienti a una condanna di primo grado, altri esortano ad attendere il dispositivo della sentenza. Nubi in un cielo altrimenti radioso, con Berlusconi che evita il ko. Anzi, per la prima volta dopo mesi intravvede la possibilità di scendere in piedi dal ring. Al tappeto, sostiene il super-fedele Cicchitto, c’è finita la procura milanese: «Stavolta hanno preso una bella tranvata». Esito che personaggi autorevoli della sinistra pronosticavano alla vigilia, e di cui Berlusconi stesso aveva avuto sentore, dal momento che ne andava parlando da mesi nei vari conciliaboli: «Aspettate il 25 febbraio, e vedrete...». Infatti, si è visto.
La notizia ha raggiunto il premier mentre passeggiava per antiquari. Gli avevano promesso dal Palazzaccio «saprete alle 19», verso le otto di sera lui s’è stufato di attendere in ufficio. Risulta «soddisfatto a metà, dimostrato l’accanimento ma il reato non c’era». Si può intuire quale reazione avrebbe avuto Silvio (che parlerà oggi pomeriggio al Lingotto per dare una mano a Cota in Piemonte e far felice Bossi) se la Suprema Corte gli avesse dato addosso. Fulmini e saette. Vendetta tremenda contro la magistratura. Subito la separazione delle carriere. Più il blocco alle intercettazioni. Più il processo breve e tutto l’armamentario di tortura che la fantasia dell’avvocato Ghedini avrebbe sfornato.
Niente di tutto ciò. Sospirano di sollievo le colombe berlusconiane, quei personaggi dell’entourage che non hanno perso fiducia nel dialogo dopo le Regionali, da Gianni Letta a Paolino Bonaiuti. Magari s’illudono. Ma intanto la rappresaglia contro le toghe perde di urgenza. Dal processo breve verranno espunte le norme «ad personam». La riforma della giustizia prenderà il suo tempo. E in campagna elettorale si parlerà, forse, dei mali veri che affliggono l’Italia.
da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Febbraio 28, 2010, 08:20:48 pm » |
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28/2/2010 (7:56) - RETROSCENA
Berlusconi tace per evitare tensioni
Il premier irritato per le mosse dei pm
UGO MAGRI
Dei vari colloqui di cui si ha notizia, non ce n’è uno, uno soltanto, in cui Berlusconi abbia ragionato di Napolitano, del suo aperto rimprovero, dell’alto invito a non offendere le altre istituzioni repubblicane. Alza le spalle? Può darsi. Risulta invece che il Cavaliere sia irritato assai col Tribunale milanese per «l’ultima che mi combina»: processo sospeso in attesa di capir meglio la sentenza di Cassazione su Mills, ma udienza già fissata il 26 marzo. Due giorni prima delle elezioni. Quando il premier sarà impegnato nei comizi di chiusura. Gasparri, che non nega di avere sentito il Capo, la mette così: «E’ una tempistica quantomeno singolare. Potevano aspettare il 31 marzo, qualche giorno non avrebbe cambiato nulla. E invece...».
Il lamento è tornato con l’avvocato Ghedini all’altro capo del filo, laddove con Daniela Santanché (intima confidente del premier) i conversari hanno riguardato il partito, le sue dinamiche e, naturalmente, le reali intenzioni di Fini che giusto ieri insisteva da Vicenza sulle riforme dopo le Regionali, sul «rischio di galleggiare per i prossimi tre anni», sulla legge per l’immigrazione che lui rifirmerebbe insieme con Bossi, sulle pensioni da mettere sotto controllo, ma anche sulla «flessibilità che non deve trasformarsi in pracariato». Più bacchettata a Tremonti sul «carico fiscale eccessivo» (il ministro dell’Economia «tiene sotto controllo i conti pubblici ma taglia», segnala Fini, «anche dove non dovrebbe, sulla legalità e sulle infrastrutture»). Di tanti argomenti ha discusso ieri il premier. Ma su Napolitano, nemmeno un cenno che gli interlocutori rammentino. Bonaiuti non ha telefonato ad Arcore per chiedere istruzioni a riguardo, Berlusconi s’è ben guardato dal farsi vivo per concordare una presa di posizione. Il premier, dunque, incassa il rimprovero e tace. Ciò non significa che acconsenta. E si può immaginare il tono dell’autodifesa: l’altra sera a Torino mi sarà pure scappata qualche parolina di troppo («certi magistrati talebani sono peggio dei criminali»), ma fa parte della natura umana il lasciarsi prendere dagli sdegni... Napolitano potrebbe prendersela con questi pm... E comunque, lo difende in privato Cicchitto, «Berlusconi non è uno di quei monsignori maestri nell’arte della dissimulazione, della bugia». Circola un’altra tesi, per ora soltanto sussurrata ai vertici Pdl: che Berlusconi si sia sfogato contro le toghe titolo preventivo, in quanto le inchieste su Protezione Civile e dintorni potrebbero (ecco la diceria) portare a nuovi sviluppi già nella settimana prossima. Inutile cercare conferme.
Ma ragion di più per evitare guerre col Quirinale. Il Cavaliere sa che non gli conviene. Napolitano è popolarissimo, sarebbe come attaccarsi ai fili dell’alta tensione. Inoltre l’uomo del Colle deve controfirmare il «legittimo impedimento», con lui c’è in sospeso la legge sulle intercettazioni, quale errore sarebbe prenderlo di punta. E difatti. Le dichiarazioni degli esponenti Pdl sono tutte molto educate verso il Capo dello Stato. Al miele il ministro Rotondi, «Napolitanto dispensa pillole di saggezza». Intelligente Capezzone, «non si rivolge soltanto a noi ma anche al Csm perché eviti polemiche». Se mai a Berlusconi restasse voglia di far polemica, c’è Bossi che verso sera gliela fa passare del tutto: «Sto con Napolitano. Bisogna tenere la battaglia nella politica e non coinvolgere la magistratura».
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« Risposta #56 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:17:56 am » |
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13/3/2010 (7: - RETROSCENA Berlusconi: "Non posso più parlare senza essere registrato" L'amarezza del Cavaliere: sono sempre intercettato UGO MAGRI ROMA Al confronto con la precedente tegola pugliese, di nome D’Addario, questa nuova inchiesta da Trani piove sul presidente del Consiglio come una goccia. Fastidiosa, ma nella mente del Cavaliere destinata a evaporare in fretta, già domani (così spera) non se ne parlerà più. Per cui meglio passarci sopra senza dare importanza alle accuse, specie in campagna elettorale. Al Tg4 Berlusconi ha tuonato, è vero, contro «la magistratura politicizzata che sta dettando i temi e i tempi della campagna elettorale». Però si riferisce principalmente ai giudici romani che gli hanno escluso la lista del Pdl, col risultato di mettere in forte dubbio un trionfo della Polverini, questo sì davvero un guaio. Al momento lo sforzo berlusconiano è tutto teso a recuperare il terreno perso nei sondaggi. E l’imperativo più urgente consiste nell’evitare un flop già sabato, alla manifestazione di piazza San Giovanni, che nelle aspettative del premier vorrebbe essere oceanica. Per cui alla nuova inchiesta Silvio reagisce, pare, abbastanza soft. Senza dare i numeri. La «rossa» ministra Michela Vittoria Brambilla è andata a trovarlo. Più che ira, ha colto nel suo leader disgusto. «Ormai non posso più parlare al telefono senza essere registrato, una situazione incredibile», è la geremiade. Bonaiuti (il portavoce) giura: la nuova offensiva giudiziaria non accelera i tempi della legge sulle intercettazioni che verrà affrontata a tempo debito, subito dopo le Regionali. Semmai, domanda polemico, «come mai l’autorità giudiziaria non interviene» contro la fuga di notizie? Accontentato. Raccontano che Berlusconi molto si stupisca dello stupore sulle sue telefonate a Minzolini (direttore Tg1) e a Innocenzi (commissario Agcom): «Spendono i nostri soldi per intercettare quello che di Santoro dico pubblicamente» fin dai tempi dal celebre «Editto bulgaro» che fece fuori dalla tivù pubblica un gigante del giornalismo come Enzo Biagi. In un certo senso è vero, manca la novità. Idem sul merito dell’accusa (concussione): nessun allarme speciale. Col suo cliente, l’avvocato Ghedini ostenta serenità: «Aspettiamo, vediamo, ancora nulla è chiaro...». L’altro legale, Longo, nega che siano stati recapitati da Trani avvisi di garanzia, «e poi non si capisce dove starebbe il reato». Semmai, altre sono le considerazioni che circolano nell’entourage. Ad esempio, qualcuno si domanda dove fossero le «sentinelle» del governo, e si chiede com’è possibile che per l’ennesima volta dell’inchiesta pugliese non si fosse avuto un sentore, nemmeno una voce per mettere in guardia Palazzo Chigi. «E dire», si sfoga un personaggio della stretta cerchia operativa berlusconiana, «che tramite i ministri avremmo il controllo di tutti gli apparati di sicurezza, dai Carabinieri alle Fiamme Gialle ai servizi segreti... La verità è che siamo al governo, però non controlliamo un bel niente». da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Marzo 23, 2010, 08:56:33 am » |
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23/3/2010 (7:13) - INTERVISTA
Berlusconi: "Di nuovo obbligato dai pm a buttarmi nella mischia"
Il cavaliere: faremo l'elezione diretta del Capo dello Stato o del premier
UGO MAGRI
Presidente Berlusconi, siamo agli sgoccioli della campagna. Rimpianti? «No, lo stato d’animo è positivo. Naturalmente sono rammaricato che tutti questi interventi della magistratura ci abbiano impedito di ricordare agli italiani quanto di miracoloso ha fatto il governo in questi due anni, e anche i nostri progetti per i prossimi tre. E’ per questo che sono sceso in campo io personalmente».
Sperava che non ce ne sarebbe stato bisogno? «Pensavo che non fosse necessario. E non lo sarebbe stato senza questi attacchi, uno dietro l’altro».
Stanco? «No, anzi, in piena forma. Mi sfidi sui cento metri e se ne accorgerà».
Parliamo della crisi che i governi non riescono a debellare, e il suo non fa eccezione. Dobbiamo accontentarci di evitare un default tipo Grecia? «In verità il default lo avremmo rischiato se avessimo seguito i suggerimenti irresponsabili dell’opposizione. E' un grande merito del nostro governo aver saputo gestire la crisi mantenendo i conti pubblici in sicurezza ed evitando di creare situazioni di disagio sociale».
Le famiglie però soffrono, non parliamo poi delle imprese... «Lo so. Ma sono convinto che il peggio sia ormai alle nostre spalle. Abbiamo varato venerdì un decreto incentivi che ha lo scopo di rilanciare i consumi, dare ossigeno alle famiglie, aiutare le imprese a ripartire. Stiamo lavorando a un grande piano di infrastrutture. Ha cominciato proprio in questi giorni l’iter in Parlamento un disegno di legge governativo sulla semplificazione, che significherà minori costi per le imprese e i cittadini, stimati in 750 milioni di euro...».
Può dare garanzia che una riforma delle aliquote entrerà in vigore entro il 2013? «Certamente sì. Dovremo graduarla, come è logico, in relazione all’andamento della situazione economica. Ma io sono convinto che una riforma delle aliquote sia anche uno strumento fondamentale per favorire la ripresa. Certo, non metteremo in pericolo la stabilità dei conti pubblici».
Tra le Regioni in bilico c’è il Piemonte. Cosa cambierebbe, nei rapporti con il suo governo, se vincesse Cota anziché la Bresso? «Avremmo una Regione più impegnata a lavorare per i cittadini, e meno opposizione preconcetta al governo nazionale. Avremmo una maggioranza con le idee chiare, e non una coalizione, come quella di sinistra, divisa su molte cose. Sono emblematici i contorcimenti ai quali è stata costretta la Regione per esempio sulla questione della Tav. Cota è la persona giusta per togliere il Piemonte dall’isolamento e dalla sostanziale marginalità ai quali è stato condannato dalla sinistra».
Tra un anno si vota per il Comune di Torino... «Il Pdl ha già il suo candidato. È un uomo che ama il Piemonte e ha già dimostrato di essere un bravissimo amministratore: Enzo Ghigo».
Non teme che l’appetito della Lega, invece di placarsi, in futuro aumenterà sempre più? «Il problema non esiste. Bossi è un alleato leale, al quale mi unisce non soltanto una comune visione di tanti aspetti della politica, ma anche un’autentica vicinanza personale. Se la Lega si rafforzerà, questo significherà la crescita di un partito della maggioranza, e quindi il rafforzamento del governo».
Comunque rappresenta una sfida... «Certo, una sfida. Ma costruttiva, alla quale dobbiamo rispondere non certo in modo polemico ma correndo come e più di loro».
Le tensioni con Fini disorientano i vostri elettori. Come venirne a capo? «Di tensioni con Fini si legge soprattutto sui giornali. E’ assolutamente fisiologico che in un partito che rappresenta il 40 per cento degli italiani esistano posizioni diverse. Guai se fossimo unanimi su tutto. L’importante, però, è essere uniti. In un partito democratico, come il Pdl, ci si confronta, si discute, quando è necessario si vota. E poi, una volta deciso, tutti hanno il dovere di appoggiare lealmente fino in fondo la decisione assunta. Io stesso non ho condiviso alcune scelte, negli ultimi mesi, ma ho accettato e sostenuto quello che gli organi del Partito hanno deciso. In questo sistema anche le posizioni minoritarie hanno piena cittadinanza».
Dopo di lei, chi verrà? «Trovo offensivo parlare di futuro con un leader che è, ripeto, in piena forma e con un indice di apprezzamento al 62 per cento. Ma si rendono conto o no, questi signori, di che cosa vuol dire l’approvazione dal 62 per cento degli italiani?».
Lei rilancia il presidenzialismo. Ma Fini dubita che si possa realizzare entro questa legislatura... «E’ una delle cose che vedremo se vale la pena di fare, così come vedremo se andare verso l’elezione diretta del Capo dello Stato o del premier. A me sembra, sinceramente, che sarebbe un arricchimento della nostra vita democratica».
Sono due anni che lei promette (o minaccia) una riforma della giustizia. Quando intende presentarla? «Subito dopo le elezioni. E non è una minaccia per nessuno. E’ piuttosto un’urgenza per il Paese. Non è più tollerabile che il lavoro di tanti magistrati seri e perbene, che sono la stragrande maggioranza, sia screditato dalle iniziative temerarie di alcune Procure al servizio di un disegno ideologico oppure da pubblici ministeri afflitti da velleità di protagonismo. Un aspetto essenziale dello Stato di diritto è la parità fra accusa e difesa, e la terzietà del giudice. Intendiamo garantirle nel modo più netto».
Ci dica di Bersani: questa brutta campagna elettorale pregiudica i rapporti? «Purtroppo non possiamo sceglierci gli interlocutori. E io assisto con vera angoscia a un fenomeno grave: i leader del Pd, anche quelli che partono con le migliori intenzioni - come era accaduto con Veltroni prima e con Bersani ora - non riescono a sottrarsi all’“Estremismo, malattia infantile del comunismo”, secondo il titolo di quel saggio di Lenin... Non sono più tanto giovani, politicamente anzi sono vecchissimi, ma è una malattia dalla quale non sono ancora guariti. Non sono guariti dalla tentazione, o dalla necessità, di inseguire un rozzo demagogo giustizialista, che dopo aver disonorato la magistratura quando indossava la toga, disonora oggi la politica. Noi siamo sempre stati pronti al dialogo sulle riforme, naturalmente. Ma per dialogare bisogna essere in due, ed avere intenzioni serie e non strumentali. Con questa opposizione non è possibile».
Visti i risultati, pressoché nulli, rifarebbe il decreto «salva-liste»? «Certamente sì, perché vale sempre la pena di avere la coscienza a posto, indipendentemente dai risultati. Credo che il governo, in un Paese democratico, abbia il dovere - sottolineo il dovere, non la facoltà - di intervenire quando i cittadini di aree importanti del paese rischiano di non poter esercitare liberamente il diritto di voto. Devo sottolineare la grande correttezza e l’elevato senso dello Stato e della democrazia dimostrati dal Capo dello Stato a questo proposito».
Trova giusta la decisione Rai di sospendere i talk-show politici sotto elezioni? «Trovo che non si possano usare i programmi del servizio pubblico, e quindi i soldi del contribuente, per trasmissioni ideologiche, fatte di insulti, di calunnie, di falsificazioni continue della realtà. O anche semplicemente costruite per mettere in difficoltà una parte politica ed esaltarne un’altra. Come può immaginare, a me, che sono stato per molti anni soprattutto uomo di televisione, la cancellazione di un qualunque programma televisivo dà molto dispiacere. Le ricordo, tuttavia, che la decisione della commissione di Vigilanza, proposta dall’esponente radicale, intendeva soltanto sostituire i talk show con tribune elettorali per rispettare la “par condicio”. Legge non certo voluta da noi».
Bossi le suggerisce di parlare meno al telefono. Seguirà questo consiglio da amico? «Sono costretto a seguirlo... D’altronde seguo sempre i consigli di Umberto, che è un uomo molto saggio. Però, che tristezza! Esiste al mondo un altro paese, che non siano gli Stati di polizia o le dittature, in cui un cittadino non possa parlare liberamente, anche di cose private, senza veder intercettate e sbattute sui giornali le sue parole, distorcendole e utilizzandole per screditarlo, per renderlo ridicolo? Cambieremo questa situazione, al più presto. E' urgente e indispensabile».
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« Risposta #58 inserito:: Marzo 29, 2010, 09:14:04 am » |
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29/3/2010 (7:12) - RETROSCENA
Silvio-Tonino, lite continua
Berlusconi ai seggi: «Se molliamo arriva Di Pietro». E lui: «Mi teme»
UGO MAGRI ROMA
Nonostante i sondaggi, che scrutano quasi fossero sfere di cristallo, tutti i leader hanno vissuto ieri una domenica di incertezza. Troppo in bilico la sorte di 4 regioni (Piemonte, Liguria, Lazio e Puglia) per cullarsi nella speranza o cedere alla disperazione. E troppo intenso lo stress per trattenere emozioni al momento di recarsi in cabina. Qualche battuta è scappata a tutti, da Berlusconi a Bersani, da Di Pietro a Bossi. Unico silente Casini, ma le alleanze Udc a macchia di leopardo gli consentono una relativa serenità. S’è presentato al seggio con la moglie Azzurra, saluti e via. Il Cavaliere, invece, è stato preda a Milano di certe sue fan non più ragazzine, «tieni duro, non mollare» l’hanno incoraggiato.
E lui, «se molliamo ci ritroviamo Di Pietro...». Il quale Tonino non aspetta di meglio che essere chiamato in causa, «se dovessero vincere Berlusconi e i suoi sodali sarebbe un tuffo in un oscuro regime, quello mi nomina perché evidentemente mi teme». L’uomo di Montenero e l’uomo di Arcore, che duello a colpi di clava. Il premier non si lascia ingannare, i pacchi-bomba hanno postini anarchici però mittenti a sinistra, «il clima è quello creato da una campagna elettorale che sapete come si è sviluppata, e quali sono stati i suoi argomenti». Per fortuna nella busta a lui indirizzata c’era solo polvere innocua, forse cenere, così hanno accertato i carabinieri. Berlusconi fiuta il vento, vorrebbe capire dove tira, ma rinuncia e confessa la tipica «sindrome del candidato» che spiega: «Siccome sei sempre circondato dalla tua gente, da coloro che ti applaudono quando vai in giro, sembra che per te voti il 100 per cento delle persone», ma chiaramente non è così, anche se gli piacerebbe.
Nell’accampamento opposto Bersani confida di aver dormito come un ghiro la notte prima della battaglia, frutto di una «coscienza a posto». Del resto «abbiamo fatto tutto quello che potevamo», anche di più lascia intendere all’«Unità», perché «coi voti delle Europee e le alleanze delle Politiche avremmo vinto in 3-4 regioni, con i voti delle Europee e le nuove alleanze in 6, adesso io penso che possiamo conquistare la maggioranza delle regioni» che sono 13. Pensiero dedicato a quanti mugugnano dentro il Pd. Interessante Bossi, mai nulla di scontato esce dalla sua bocca. Sui pacchi-bomba dice una verità: «Non è così che si convince la gente, ma con le riforme». A lui interessa, inutile dire, il federalismo: «L’importante è che Berlusconi vada avanti a darci i voti per farlo, tutto il resto è secondario».
Silvio vuole aggiungerci il presidenzialismo e la giustizia? Vada pure, a patto che il traguardo storico della Lega non venga rinviato... Frenata sul sorpasso al Nord, «io non ci ho mai pensato, siete voi che ve lo siete inventato» accusa i cronisti allibiti, «so che prendiamo tanti voti, quello sì». Per fare il sindaco di Milano, come ha buttato lì l’altra notte? Risposta ambigua del Senatùr, «noi possiamo arrivare ovunque, e se la gente ci vuole ci manda ovunque». L’ostacolo non sarà certo il Cavaliere, «io e lui ci troviamo sempre d’accordo su qualunque cosa».
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« Risposta #59 inserito:: Aprile 01, 2010, 11:00:20 pm » |
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1/4/2010 (7:33) - GIOVERNO - I NODI DA SCIOGLIERE
Silvio Berlusconi blinda il Pdl: Costituzione da cambiare subito
UGO MAGRI ROMA Per procedere con le riforme, e non sprofondare in chiacchiere, il Cavaliere vorrebbe sgombrare il cammino dai dubbi, dai distinguo, dal «fuoco amico». Dunque entro aprile riunirà tutti gli organi del suo partito, un festival democratico mai visto nel Pdl. Comincerà il 7 con l’Ufficio di presidenza, proseguirà sette giorni dopo con la pletorica Direzione nazionale, tirerà le somme il 21 (data provvisoria) con il Consiglio nazionale, in pratica un mini-congresso. Chi vorrà dire la sua, avrà l’occasione per farlo. E chi non sarà d’accordo, libero di dissentire. Ma alla fine si voterà su che fare nei prossimi tre anni di governo, dal fisco alla giustizia, dal federalismo fiscale alle riforme della Costituzione.
Giurano i commensali del premier, che ha riunito a pranzo una folla di consiglieri: non è una manovra contro Fini. Guai a pensare che Silvio voglia mettere Gianfranco con le spalle al muro. Il sussulto democratico viene presentato semmai come una mano tesa per rendere compartecipe il «cofondatore». Tra una portata e l’altra se n’è discusso in modo aperto. «Cercate di vedervi, di incontrarvi al più presto», è stato il suggerimento rivolto a Berlusconi dal capogruppo Cicchitto e dal presidente del Senato Schifani, pure lui a Palazzo Grazioli senza farsi intercettare dai cronisti. Il Cavaliere ha annuito, il faccia-a-faccia pare si tenga subito dopo Pasquetta.
Nell’attesa di definire solennemente la «road map» delle riforme, chi era ieri dal premier tende a escludere che il governo approvi in quattro e quattr’otto una riforma costituzionale della giustizia: le elezioni sono alle spalle, ora basta propaganda. Tra l’altro il Senato sta già occupandosi di nuovo processo penale e, soprattutto, di intercettazioni. Qui c’è una grana per il premier. Il Quirinale (così sostengono fonti parlamentari autorevoli) pare abbia chiesto nuovamente per vie brevi di correggere la legge in questione, altrimenti niente controfirma presidenziale. Cosicché qualcosa andrà cambiato per non attirare i fulmini del Colle.
Altro punto fermo: le riforme della Costituzione avanzeranno sotto forma di iniziative parlamentari, il governo in quanto tale comparirà il meno possibile. Ampi margini di manovra verranno concessi ai gruppi parlamentari, cominciando dal Senato, dove Gasparri tenterà di lanciare ami verso l’opposizione. Non che Berlusconi voglia farsi dettare l’agenda da Bersani. Anzi, ringalluzzito dall’esito elettorale, sarebbe tentato di farne a meno. Ma c’è la Lega, che con Maroni pretende riforme il più possibile condivise, in modo da aggirare l’incognita di un referendum confermativo. E comunque, il Cavaliere sa che il centrosinistra non è un monolite, certi suoi informatori gli raccontano di posizioni divaricate pure nel gruppo dirigente Pd.
Agli altri big del partito l’altra notte D’Alema non le ha mandate a dire.
«Visto che è in crisi il modello bipolare italiano degli ultimi 15 anni, sarà nostro compito dare una risposta sul terreno delle riforme istituzionali», ha detto. Il timore è di farsi cogliere in contropiede dal governo, magari proprio sul terreno del presidenzialismo «che rischia di avere un certo appeal nel Paese». Dunque, suggerisce D’Alema, rilanciamo senza esitare la famosa «bozza Violante». Sospettosa la Bindi, che fiuta «cedimenti culturali» alle pulsioni «populiste e autoritarie» del premier. Ma stare fermi non si può, fa notare da Palazzo Madama la Finocchiaro, «abbiamo il dovere di confrontarci».
da lastampa.it
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