Anatomia di un fallimento: quattro ragioni della sconfitta del golpe contro Erdogan
Le sostanziali differenze fra l’azione fallimentare di venerdì notte e quanto accadde in Egitto nel 2013 quando, con l’appoggio del popolo, i militari destituirono il leader Morsi
16/07/2016
Rolla Scolari
«Le forze armate egiziane hanno dichiarato e continuano a dichiarare che rimarranno sempre distanti da quelle politiche».
Era il 3 luglio 2013, quando l’allora ministro della Difesa e comandante dell’esercito oggi presidente dell’Egitto Abdelfattah al-Sisi parlava alla televisione di Stato nel giorno in cui, con l’appoggio di milioni di persone nelle strade, i militari hanno destituito il leader eletto e membro dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi.
Tutti sapevano allora, al Cairo, ad Alessandria, nel Sud e nel Nord del Paese, nelle campagne e nelle città, fuori dai confini dell’Egitto, chi era dietro agli eventi. Qualsiasi sia la definizione esatta da dare ai fatti del luglio 2013 al Cairo, rimane una vittoria dei militari che hanno messo da parte quello che per decenni è stato l’obiettivo delle repressioni dell’apparato di sicurezza interna: l’Islam politico.
E’ in un certo senso simile dunque il tentativo portato a termine, e fallito, venerdì notte in Turchia, dove una parte dei militari ha agito contro il partito e la leadership islamista del presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha parentela ideologica con quei Fratelli musulmani finiti nell’ombra delle repressione in Egitto.
1) Un putsch senza volto
Qualcosa, però, è andato storto nei piani dei golpisti. Nel mezzo degli eventi, persino il generale americano in pensione che ha comandato le operazioni della Nato in Kosovo sembrava dare lezioni di golpe sulla CNN. Gli errori dei golpisti, ha detto Wesley Clark, sono molti: lasciare internet funzionante - venerdì notte circolavano notizie di una interruzione dei social- media, ma molti corrispondenti stranieri a Istanbul hanno continuato a postare su Twitter e Facebook -, e non detenere il presidente.
Se in Egitto nel 2013 il generale Sisi è subito comparso in televisione in seguito al fermo del leader Morsi, mostrando la propria faccia e inviando il chiaro messaggio di chi era al potere al momento, venerdì notte per diverse ore - e ancora adesso - era difficile capire chi fosse dietro agli eventi: l’esercito intero, una fazione dell’esercito, e quale? Il golpe senza leader ha confuso, ingigantendo la percezione di instabilità.
2) L’appello di Erdogan
L’unica faccia a emergere, dopo ore di speculazioni sui suoi movimenti, è stata proprio quella del presidente Erdogan. Per quanto la sua apparizione su Face Time attraverso un iPhone mostrato alle telecamere da una giornalista della CNN turca possa aver trasmesso un senso di debolezza, è così che il leader turco è riuscito a comunicare con la sua base e a invitarla a scendere in piazza.
Un altro fattore che sembra essere stato fatalmente tralasciato dagli organizzatori del colpo di stato è proprio quello della strada. Nel 2013, i militari egiziani hanno agito soltanto dopo giorni di sostegno popolare, ben conoscendo le capacità di mobilitazione della piazza dei rivali islamisti. Inoltre, si sono mossi contro un movimento, il Fratelli musulmani, che seppure arrivati al potere dopo decenni di organizzata opposizione non avevano avuto né il tempo né lo spazio di manovra per infiltrare la mostruosa struttura burocratica politica e militare del regime egiziano.
3) Il presidente sottovalutato
Erdogan è al potere da oltre dieci anni, ed è a capo di un movimento islamista che, come la Fratellanza in Egitto, sa riempire la piazza. L’appello a scendere in strada arrivato dai minareti delle moschee nella notte prova che il presidente ha il sostegno della popolazione religiosa e conservatrice. E’ quella a essere scesa in strada ieri, benché il governo eletto abbia ricevuto appoggio anche dai partiti di opposizione. Erdogan, il «sultano» con velleità da autocrate che da mesi accentua una propensione per la repressione dei rivali politici, guida da oltre un decennio un Paese con una lunga storia di colpi di Stato ai danni della leadership civile. Ha fatto i suoi conti: non è infatti un caso che il capo di Stato maggiore Hulusi Akar, che assieme ad altri alti vertici militari ieri si è schierato con il leader, sia un suo uomo.
Tuttavia, il presidente sapeva, come ha spiegato bene il Wall Street Journal a maggio, quando già prevedeva un possibile coup, i militari estromessi da anni dal potere stavano tornando sulla scena politica, spingendo per una maggior cooperazione con i tradizionali alleati occidentali - la Turchia è un membro della Nato -, mentre cresceva l’isolamento internazionale creato dalle politiche di Erdogan.
4) Nessun sostegno esterno
Si spiega forse così la recente decisione del presidente di riallacciare i rapporti con la Russia, Israele, di ripensare all’Egitto, con cui Erdogan ha rotto dopo l’uscita di scena dei Fratelli musulmani, e al resto di una regione che guarda ad Ankara con sempre maggior distacco. Nessun sostegno è arrivato nella nottata da parte dei vicini di casa, e un certo imbarazzo si è percepito anche altrove: silenzio dal Golfo e dall’Egitto, ma silenzio anche da Mosca, nonostante il recente riavvicinamento. Ci hanno messo un po’ ad arrivare le dichiarazioni di appoggio dell’Unione europea, e quella della Casa Bianca. Israele ha emesso un comunicato a 15 ore di distanza.
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