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Autore Discussione: Stefania ROSSINI. Giorgio Albertazzi, novant'anni da seduttore  (Letto 2173 volte)
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« inserito:: Maggio 30, 2016, 06:05:16 pm »

Incontri ravvicinati
Giorgio Albertazzi, novant'anni da seduttore
Ha incontrato il teatro per inseguire una ragazza. Il grande attore racconta una vita tutta scandita da presenze femminili. Nonostante un lungo bacio con Visconti

Di Stefania Rossini
   
A novant’anni compiuti Giorgio Albertazzi seduce ogni sera teatri strapieni che lo applaudono su repertori classici e indifferenti alle mode. Mestiere si dirà, di quelli che non si perdono con il passare del tempo e che anzi si affinano nella ripetizione. Ma quando ci si trova davanti a questo grande vecchio e lo si ascolta parlare di sé, del suo lavoro e dei suoi amori, senza malinconie né nostalgie, ci si rende conto che l’uomo e l’attore tengono saldamente i piedi nel presente. E anche nel futuro, con progetti nuovi tra cui la direzione del restaurato Teatro delle Arti di Roma o la biografia per immagini che uscirà in estate per l’editore Curcio, vero monumento al suo talento e alla sua prestanza fisica. Già, perché a novant’anni Albertazzi ha ancora molti segni dell’antica bellezza insieme a una voce intatta e potente. Lo incontriamo in un camerino del teatro romano dove ha appena finito di interpretare un suo particolare Shylock ne “Il mercante di Venezia” di Shakespeare, con file di spettatori che lo ringraziano, lo toccano, lo baciano.

Un successo continuo che altri attori neanche si sognano. Come se lo spiega?
«Probabilmente vengono in tanti perché pensano che potrebbe essere l’ultima volta che mi vedono».

Non se la caverà con una battuta. Qual è la verità?
«Se devo essere serio, il pubblico sente che in me c’è qualcosa di diverso. Io esco dalla definizione della bravura. Ormai lo dicono tutti: Albertazzi non recita. Che fa allora? L’arte del palcoscenico, rispondo. Del resto il teatro degli altri, mi annoia mortalmente. Non tutto, certo. Quando a Londra andavo a vedere Peter O’ Toole non dormivo per l’emozione».

Tanto teatro con successi anche internazionali e quasi niente cinema. Come mai?
«Ho fatto 37 film».

Ma uno solo memorabile: “L’anno scorso a Marienbad” di Resnais.
«È vero. Ma negli anni d’oro, il cinema italiano cercava soltanto tassinari e io non ero certo quel tipo. Non perdonerò mai a Visconti di non avermi fatto fare “Lo straniero” di Camus. Dette la parte a Mastroianni, che non c’entrava niente e la fece malissimo. Per non parlare di “Senso”: scelse un mediocre attore come Farley Granger, ma era evidente che quell’ufficiale austriaco ero io».

Si è mai dato una spiegazione?
«No. Neanche a dire che tra noi sia mancata la possibilità di un rapporto erotico. Una volta ci scambiammo un lungo bacio, un’altra mi disse esplicitamente: “E se io ti chiedessi qualcosa di più di un’amicizia?”. Risposi: “Deciderei in quel momento se mi va o non mi va”. In queste cose sono un ragazzaccio e lasciai la porta socchiusa. Che fosse quello il problema? Non me l’ha mai voluto dire neanche Zeffirelli».

Non c’entrerà la politica e la sua fama di uomo di destra?
«Brava! La targhetta di fascista non me la sono mai tolta di dosso, anche se non sono mai stato neanche di destra. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia. Che ne sapevo? Sono sempre stato nelle retrovie e non ho avuto responsabilità dirette. Anzi, voglio dirle una cosa di cui non ho mai parlato: nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c’è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei».

Perché il suo errore ha pesato così a lungo? Altri repubblichini celebri sono stati perdonati. Dario Fo, per esempio.
«Già, ma lui non lo ha mai ammesso chiaramente, ha persino detto di essersi infiltrato per altri motivi. Io non ho negato e neanche mi sono pentito perché odio il pentitismo. Salò resta il mio dramma personale e mi porto dentro la ferita di essere stato dalla parte che ha fatto i campi di sterminio. Per questo ho titolato la mia autobiografia “Un perdente di successo”».

Però il successo non le è mancato anche in altri campi. Con le donne, per esempio. Le si attribuisce la frase: “Le cosce delle donne sono la prova dell’esistenza di Dio”.
«È vero, tutta la mia vita è stata scandita da presenze femminili. Le donne cominciarono ad affollare il mio immaginario quando, bambino, spiavo il parco della villa di Bernard Berenson, il celebre storico dell’arte di cui mio nonno curava il giardino. Ospitava la Duse, Churchill, la regina Vittoria e io mi inebriavo della vista di fanciulle inglesi vestite di bianco che ridevano in mezzo al verde dei grandi bossi. Poi quel figlio di buona donna di Berenson se ne accorse e fece murare la finestra della dependance dove abitavamo, privandomi di quella beatitudine».

Si è ripreso presto, immagino.
«Si, e devo a una donna anche il mio mestiere d’attore. Facevo il ginnasio quando sulla corriera incontrai una ragazza più grande di me che mi disse: “Perché non vieni a fare teatro a Settignano?”. Era molto bella e se mi avesse proposto di fare una rapina, avrei detto ugualmente di sì. Ma non mi pensi come uno ossessionato dal sesso. Io mi considero un uomo casto».

Che vuol dire?
«Che privilegio l’eros. Non capisco perché l’attrazione sessuale debba avere come iter il coito. C’è qualcosa di ridicolo in quel moto da stantuffo. Il maschio non ha capito che alle donne non gliene frega niente della penetrazione».

Come si è fatto questa opinione?
«Con l’esperienza. L’eros è un fatto mentale che si esalta con la vicinanza e il contatto fisico. Vale per tutti, anche per gli uomini. Un giorno ho chiesto a Visconti: “Ma insomma che fate voi quando arriva il momento”. Mi ha risposto: “Il massimo è quando non fai niente e in un bacio succede tutto”».

Le tante donne che ha amato erano d’accordo con lei?
«Certo. Le donne hanno quella che Borges chiamava l’intelligenza del corpo, che poi è la grazia. Una dote che manca completamente agli uomini. Quando ci provano, come i grandi ballerini, più che graziosi sembrano un po’ froci».

Come mai si è sposato tanto tardi. Solo nel 2007, a 84 anni?
«Perché amo questa donna straordinaria che si chiama Pia dei Tolomei, come la sua ava omonima che Dante mise nel quinto canto del Purgatorio. La conobbi tanti anni fa, in un pub di Firenze. Il mio amico Gigi Vanzi mi indicò una ragazza di una bellezza estrema che mi fissava con insistenza. Ne rimasi fulminato. Adesso lei sta in Maremma, nella tenuta dei Tolomei».

Non vivete insieme?
«Pia non si sposta volentieri dalla sua casa piena di animali. Ha 12 cani, alcuni cavalli da corsa, molte asine, una vacca che si chiama Ingrata e un toro di 12 quintali appena arrivato che si chiama Ascanio. La sua vita è lì e io la raggiungo appena posso».

La differenza di età, 36 anni, pesa tra di voi?
«Neanche un po’. Anzi, le dirò, citando Picasso, che per diventare giovani, veramente giovani, ci vogliono molti anni».

Lo pensa davvero o le piace come iperbole?
«Beh, forse sono più d’accordo con il mio amico filosofo Sgalambro che dice “Si ringiovanisce sempre e poi si invecchia di colpo”».

A lei palesemente ancora non è successo.
«Non ancora, ma, mi creda, quando accadrà non me ne importerà niente. La morte mi affascina. È l’unico assoluto in questo mondo dove tutto è relativo. E poi, se le cose si complicassero, ricorrerei all’eutanasia. È l’ultima battaglia che ho condotto in piena coscienza con i radicali, dopo quelle per il divorzio e per l’aborto. Però confesso che con Anna non ce l’ho fatta».

Sta parlando di Anna Proclemer, il suo grande amore, che è morta pochi mesi fa?
«È morta il 25 aprile scorso, alle otto di mattina. Mi aveva chiesto ripetutamente di aiutarla a farla finita, ma mi sono accorto che non potevo. Ho cercato di starle vicino in altro modo. Le promettevo che avremmo fatto insieme una scena di Romeo e Giulietta, come quella che avevamo visto a Parigi interpretata da Maggie Smith che allora avrà avuto 65 anni e che, forse proprio per questo, era una grande Giulietta. Che donna stupenda è stata Anna e che amore bellissimo il nostro!».

Siete stati la coppia principe del teatro italiano. Perché è finita.
«Perché tutto finisce. Ed è una fortuna per noi umani. Nel suo racconto “L’immortale” Borges parla di un uomo condannato a vivere in eterno che si danna in una continua ripetizione senza più godere di nulla. Forse è questo che ci invidiano gli dei: la nostra caducità che dà senso alle cose».

Da tutto ciò che ha detto, immagino che lei non sia credente. Ha mai pensato che, come certi grandi intellettuali atei, potrebbe convertirsi all’ultimo momento?
«Come ha fatto Malaparte, per esempio? Non credo, perché il mio rifiuto è calmo, non è assetato. La penso come Titta Foti, un altro mio maestro politico, che diceva: “Negare Dio è sbagliato, però affermare che Dio esiste è gratuito”. A proposito di Titta Foti le vorrei far notare che era un esponente della Federazione anarchica internazionale, come Gigi Vanzi, che le ho nominato prima, era stato un fondatore del Partito comunista a Livorno. Poi c’è Nenni con cui mi telefonavo spesso e che mi sostenne quando, per uno spettacolo in onore di Garcia Lorca, il Movimento sociale eresse davanti all’Eliseo una ghigliottina con un mio fantoccio decapitato. Le sembrano le amicizie di un fascista, queste?».

No, ma ormai nessuno ricorda quel suo passato. Piuttosto, ho un’ultima curiosità. Durante il nostro colloquio, sono entrate nel camerino solo donne: assistenti, attrici, ammiratrici. Lei sarebbe capace di innamorarsi ancora?
«Ma io mi innamoro continuamente! Solo che oggi sono più prudente. Prima di dare un bacio a una ragazza, me lo deve chiedere almeno tre volte. Lei mi fa questa domanda perché ho 90 anni, ma sappia che mia nonna è morta a 101 e sua madre a 106. Se tanto mi dà tanto, ne faremo ancora parecchie di queste interviste».

05 marzo 2014
© Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2014/02/28/news/giorgio-albertazzi-novant-anni-da-seduttore-1.155376?ref=HREA-1#gallery-slider=undefined
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 25, 2017, 04:34:10 pm »

L’INTERVISTA

Anna Falcone ci riprova: il progetto di sinistra della pasionaria del no al referendum
L'avvocato leader dei comitati referendari si riaffaccia alla politica nazionale. Con una nuova scommessa: riportare un popolo disunito a lavorare sulle idee condivise

DI STEFANIA ROSSINI
14 giugno 2017

La prima volta che è apparsa in tv ha bucato subito lo schermo. Con puntigliosa precisione, senza gli ammiccamenti di certe reginette della politica, ha spiegato che la Costituzione non si doveva toccare e che semmai la battaglia giusta sarebbe stata quella di attuarla fino in fondo. Stava rappresentando i comitati per il No al referendum del 4 dicembre e ringiovaniva di colpo una squadra accusata di scandalosa vecchiezza.

Sei mesi dopo Anna Falcone si riaffaccia alla politica nazionale e con Tomaso Montanari suggerisce alla sinistra disunita le forme e i modi per realizzare un progetto condiviso. Nel frattempo ha messo al mondo una bambina, continuato il suo lavoro di avvocato e portato le sue idee in una miriade di convegni. Ha fatto incontri con i verdi, con Civati, con Ferrero, con Fratoianni, con Varoufakis. È stata chiamata da D’Alema a dare contenuto, e forse anche un po’ di glamour, al varo del simbolo di Articolo1- Mpd.

"L'obiettivo di questa assemblea è operativo: individuare i punti che ci uniscono per iniziare un programma partecipato e con quel programma presentarci alle prossime elezioni come una realtà unitaria". Così Anna Falcone alla presentazione della neonata Alleanza popolare per la democrazia al Teatro Brancaccio di Roma.

Del resto è brava, competente e con una passione assoluta per la politica che le viene da una stirpe di tutto rispetto, quella di Giacomo Mancini, zio del padre e riferimento per tutta la sua famiglia. Quando la incontro, tiene in braccio la sua bambina di cinque mesi, che sorride e si esercita nei primi vocalizzi. Sarà forse per questo stato di sereno maternage che si apre facilmente anche alla confidenza e al racconto di sé.

Anna Falcone, un'educazione alla politica
La crescita in una famiglia socialista. Gli studi, l'impegno con il Psi e poi nel comitato per il No al referendum costituzionale. E ora il lancio di una nuova iniziativa politica con Tomaso Montanari

Avvocato Falcone, a quanto pare tutti la tirano dalla loro parte.
«Mi lusingano, ma questo è il tempo di dare concretezza alle idee. E di riprendere insieme ad altri il filo rosso che mi ha guidato fino a qui».

Dove si trova l’inizio di quel filo?
«Ben radicato nella nostra Costituzione. Contiene ideali di equità e di giustizia sociale che dovrebbero costituire il patrimonio della sinistra».

Pensa davvero che la sinistra non abbia più ideali?
«Penso che una classe politica che si definiva di sinistra stia governando il Paese con politiche di destra, venendo meno alla sua missione che è quella di ridurre le disuguaglianze. Ma penso anche che c’è un’altra sinistra, che ha il compito di unirsi per costruire una nuova rappresentanza dove trovi finalmente corpo la domanda di democrazia uscita dal voto del 4 dicembre».

La sua immagine è fin troppo legata a quell’esperienza. Prima o poi dovrà emanciparsene.
«Non vedo perché. I comitati continuano a vivere ed esprimono una domanda di partecipazione che è la novità più interessante di questo momento politico. Insieme alle liste civiche e alle associazioni, sono una risorsa per una sinistra che voglia avviare un progetto condiviso, una lista comune e una leadership diffusa, senza nomi preconfezionati e calati dall’alto».

Di leader in campo ce ne sono però già molti. Pisapia, per cominciare.
«La sua candidatura è più un’operazione mediatica che democratica. Non si può rifare la sinistra senza la sinistra. Aver votato Sì al referendum e poi continuare a inseguire Renzi e le sue fallimentari riforme, vuol dire non aver capito, o non voler capire, dove sta il popolo della sinistra. O peggio, voler condizionare al ribasso un processo di liberazione dal pensiero unico dominante».

Il suo contrario, insomma. Ci racconti allora dove nasce questa sua passione politica.
«Sono sempre stata così. Quand’ero bambina andavo alle manifestazioni politiche in braccio ai miei genitori. A 15 anni facevo già le campagne elettorali per il partito socialista. All’università ho partecipato attivamente al movimento della Pantera, anche se una persona di famiglia cercava di dissuadermi».

Chi era?
«Giacomo Mancini, quando aveva già lasciato il parlamento ed era sindaco di Cosenza. Mi telefonava spesso per chiedermi come andavano gli studi. Con il mio primo cellulare, grande come un mattone, gli dicevo: “Beh zio, ora stiamo occupando la Facoltà. Tu sai che a me piacciono queste cose”. E lui, che pure era favorevole ai movimenti, mi rispondeva: “È proprio perché ami la politica che adesso devi studiare”».

Lo ha fatto?
«Fin troppo. Sono una secchiona imbarazzante. A cinque anni stupivo i miei genitori perché al posto dei libri di favole volevo quelli di mitologia. A quattordici ho deciso di fare il liceo scientifico perché ero più brava nelle materie letterarie che in matematica e pensavo che la scuola servisse a colmare le lacune. Ma non volevo rinunciare al greco e lo studiavo a casa con mia madre. All’università ho optato per giurisprudenza, ma ero pronta anche per medicina, architettura, lettere».

Non ci allarmi con tanta perfezione. Non ha mai fatto errori?
«Non me ne sono fatti mancare. Per esempio ho insistito a insegnare come precaria facendo la spola tra l’università di Roma e quella di Calabria, senza capire che i concorsi hanno sempre un candidato designato. Però tutti quegli anni faticosi mi sono serviti a essere innovativa nel mio lavoro di avvocato, dove lo studio dà spessore all’argomentazione e alla combattività».

Nel suo curriculum c’è anche qualche abbaglio politico. Come l’infelice partecipazione alle elezioni del 2013 con Rivoluzione civile di Antonio Ingroia.
«Sì, un vero fallimento. Me ne ero andata da poco dal partito socialista perché mi ero accorta che ormai mancava di democrazia interna e mi sono ritrovata in una situazione anche peggiore. Io, calabrese, sono stata candidata in Sicilia e Lombardia, senza nessun rispetto per le scelte che venivano dai territori. E pensare che quell’esperienza di partecipazione era nata dal basso, e non tutti sanno che Ingroia è stato invitato a capitanarla dopo che altri avevano rifiutato».

Adesso che è arrivata sulla scena pubblica, si è chiesta se lo deve un po’ anche alla sua bellezza?
«Ma io non mi ritengo bella! Ho avuto la fortuna di essere stata a lungo una ragazzina alta, magra, quasi un maschio, e quindi non ho potuto pensarmi bella nell’età in cui si radicano queste convinzioni. Se oggi mi guardo allo specchio, al massimo mi trovo carina. E poi penso che l’aspetto possa aiutare, ma diventa un’arma a doppio taglio se, tolta la confezione, si scopre che il pacco è vuoto».

Questo suo aspetto l’ha almeno aiutata nella vita privata, negli incontri, negli amori?

«Non saprei. Ho avuto qualche rapporto, un matrimonio finito con un annullamento e un grande amore. Cose che capitano anche alle bruttine. Ma è soltanto il grande amore che vale la pena di tenere a mente».

È così per tutti. Ce lo racconti, se vuole.
«Ho conosciuto Paolo, il mio attuale compagno, quando avevo 17 anni e lui 18. Abbiamo fatto i fidanzatini per due anni e poi la vita ci ha portato altrove. Ventiquattro anni dopo l’ho rincontrato per caso in un ospedale e una mia cugina lungimirante ha voluto farci sedere accanto al tavolo di un ristorante. Aveva capito prima di noi che eravamo fatti l’uno per l’altra. Ora viviamo insieme, abbiamo una bambina e siamo veramente felici».

Fare un figlio a 45 anni non è più un’eccezione, ma è comunque un impegno notevole. Come lo sta affrontando?
«Con entusiasmo e tutta la fatica necessaria. Questa bimba è nata per la testardaggine del padre, perché io in fondo non ci speravo più. Anche se c’è stato un periodo in cui ho pensato seriamente di fare un figlio da sola. Non avevo una persona di cui essere innamorata e stavo bene con me stessa».

Anche questa non è più un’eccezione. Che cosa l’ha fatta desistere?
«Ci ho riflettuto a lungo prima di lasciar perdere perché una delle lezioni che ho avuto dalla vita è quella di non forzare le cose. Ciò che deve accadere, accade comunque. E non lo dico perché credo al destino».

A che cosa crede?
«Se allude alla fede in Dio, le rispondo che sono credente, non cattolica, molto cristiana. Però qui si tratta di altro. Io penso che ciascuno di noi sia portatore di una serie di semi che devono soltanto aspettare le condizioni migliori per germogliare nella vita personale, nel lavoro, in ogni altra situazione. Quando si sbaglia stagione, i semi si trovano davanti un inverno gelato».

Se questa è la sua filosofia, lei sta davvero vivendo una buona primavera.
«Grazie, lo prendo come un augurio».

ANNA FALCONE
© Riproduzione riservata 14 giugno 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/06/13/news/anna-falcone-la-nuova-scommessa-della-pasionaria-del-no-al-referendum-1.304206?ref=RHRR-BE
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