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Autore Discussione: Marco ZATTERIN Ecco perché la Bundesbank attacca la Commissione  (Letto 2536 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Aprile 28, 2016, 06:19:26 pm »

Ecco perché la Bundesbank attacca la Commissione
«Non vigila abbastanza».
La “Buba” spalleggia il rigore della Merkel.
E finisce per mettere nel mirino gli Stati dell’Unione dal deficit facile

27/04/2016
Marco Zatterin
Corrispondente da Bruxelles

Chiamiamola la «Parabola del pescatore con le tasche bucate». Per spiegare gli effetti che uno Stato europeo con troppo debito può generare sugli altri soci dell’Eurozona, Jens Weidmann sfodera una metafora ittica, e parla del «sovrasfruttamento da parte di un singolo che riduce la disponibilità di pesci per gli altri e minaccia nel lungo periodo le risorse della collettività». È un linguaggio immediato, e deciso, che consente al presidente della Bundesbank di attaccare con un colpo solo chi non tiene i conti pubblici in ordine e chi non fa rispettare con la dovuta energia le regole destinate ad imbrigliarle. Sono loro che generano «la tragedia dei beni comuni». Ovvero il «problema dell’almenda» che, nel medioevo germanico, erano i pascoli e terreni coltivabili condivisi, situati appena fuori dai villaggi agricoli.

Il banchiere centrale tedesco sente l’antica «tragedia» rimaterializzarsi nell’Eurozona: qualcuno sfrutta i campi degli altri, per non parlare delle riserve di pesca. Chiama in causa le capitali che gli paiono leggere nella gestione delle proprie casse - in testa l’Italia, col debito oltre il 130% del Pil, il terzo del pianeta - e poi la Commissione Ue che «tende continuamente a scendere a compromessi a danno del rispetto del bilancio, ad esempio prorogando di volta in volta la scadenza dei periodi di adeguamento per gli Stati in situazione di deficit» (riferimento a Francia e Spagna). Così facendo, svela un pensiero in cui si legge l’ambizione di frenare chi, come Renzi, chiede più flessibilità. I Trattati diventano dogmi intoccabili. Anche perché solidarietà è, per Weidmann, «il non rendere responsabili gli altri delle conseguenze delle proprie scelte».

È la posizione classica della Bundesbank che, espressa a Roma e in questi tempi di euroscetticismo e populismo galoppanti, diventa una linea «classica più». La negazione del debito eccessivo è nel Dna tedesco. Va a nozze con la logica protestante dell’opposizione all’azzardo morale, col rifiuto della possibilità che qualcuno profitti del bene comune. È un pensiero diffuso ai piani alti di quella che una volta era la sola banca centrale di Francoforte come nello spirito comune della gente alemanna. Così viene il sospetto che Weidmann rinvigorisca il messaggio anche per rafforzate la politica di cui è emanazione. Quella della cancelliera Merkel, certo l’unica vera leader continentale, certo in difficoltà, certo tedesca.

 

Già quando è andato contromano rispetto alla politica monetaria della Bce di Mario Draghi, Weidmann ha espresso una valutazione «nazionale» dei tassi azzerati. Ora tende la mano all’italiano dell’Eurotower, almeno a parole, e definisce «appropriata la politica monetaria dell’Eurozona». La usa anche per dire che la possibilità da essa creata «per ridurre i deficit strutturali» non è stata sfruttata. Strumentale, può sembrare tanto è «germanica», l’offensiva contro il debito e i suoi derivati. Il banchiere centrale la reitera quando parla dello schema di garanzia dei depositi che Berlino respinge perché troppi sono i legami fra cosa pubblica e banche. Nessuno, è la morale, deve pagare per le colpe degli altri. Soprattutto la Germania.  

Per Angela Merkel è una sponda. Le permette di dire che la «Buba» - come lei e il suo governo - combatte per la morale tedesca, e che non permetterà ai contribuenti di Monaco o Hannover di versare un solo cent per salvare una banca spagnola o il Tesoro italiano. Per Matteo Renzi è un tiro insidioso. Le parole di Weidmann sulla Commissione troppo generosa, pronunciate a tre settimane dalle decisioni di Bruxelles sui conti pubblici, rischiano di irrigidire il fronte dei falchi (e dei popolari), e di rendere più difficile il giudizio positivo sull’Italia e non solo. Nell’almenda della «Buba», evidentemente, chi aveva finito i semi - per colpa, imperizia, sfortuna o altro - doveva arrangiarsi. O morire di fame.  

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Da - http://www.lastampa.it/2016/04/27/economia/ecco-perch-la-bundesbank-attacca-la-commissione-1fesCk1S1sRQFm8R7Ogo1I/pagina.html
« Ultima modifica: Gennaio 09, 2017, 06:05:34 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:05:47 pm »

“Donald e Brexit sono figli della rivolta del ceto medio”
L’ad di Borsa Raffaele Jerusalmi: ora politiche contro la diseguaglianza


Pubblicato il 12/11/2016
Ultima modifica il 12/11/2016 alle ore 07:38

Marco Zatterin
Milano

Tutto si spiega con la globalizzazione e il modo in cui è stata gestita. «Non voglio demonizzarla, anzi», ammette Raffaele Jerusalmi, però è chiaro che la caduta delle barriere globali «ha avuto un forte impatto negativo sul ceto medio di cui il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump sono riflesso diretto, alla stregua del fiorire e dell’affermarsi di movimenti populisti in paesi come Grecia, Francia, Germania e Italia». Chi ha dubbi rilegga le cronache di questi mesi, lo shock britannico e quello americano erano già scritti. «Non è un caso - concede l’amministratore delegato di Borsa Italiana - che i due paesi che più aggressivamente hanno pensato, a torto o ragione, che la globalizzazione fosse una grande opportunità si ritrovano il conto politico più salato: non è un caso perché pagano l’indebolimento e la perdita di fiducia della classe media». Se ne deduce che l’Occidente corre su un crinale insidioso, verso la “terra incognita” della post globalizzazione, con americani e britannici in testa. Forse. «Il malessere è emerso e si è manifestato alle urne», sottolinea Jerusalmi, classe 1961, scacchista, esperto di affari e mercati, dal 2010 alla guida di Piazza Affari, appassionato del grande schema delle cose. Rivela di aver predetto sia la Brexit che Trump, dati inevitabili resi più anomali dal fatto che «America e Regno Unito sono i Paesi usciti meglio dalla crisi». Hanno finito per essere vittime, riassume, «dei tanti che, col voto, hanno protestato per il loro malessere». In altre parole, sono stati scossi «dal prevalere della paura sulla speranza».

Rivolta del ceto medio, dunque? 
«Un effetto della globalizzazione è stato l’affermarsi di aree geografiche dalla manodopera meno costosa. Questo ha mosso rapidamente i capitali, insieme con le produzioni. Le classi medie hanno perso lavoro, in difficoltà davanti a questa nuova concorrenza. Si è generata una deflazione che ha ridotto i salari nominali, colpendo gli operai e gli impiegati delle aziende rilocalizzate. È un tema globale. Ma più pronunciato nei Paesi più aggressivi che oggi sono i primi a cercare alternative».

Eccoci a Usa e Regno Unito. Come se ne esce? 
«È un brutto circolo vizioso dal quale si può uscire solo con politiche che facilitino la redistribuzione della ricchezza, agendo su variabili come i contratti o la tassazione».

 
Mica facile, visti i tempi. 
«Per nulla. Anche perché la crisi del ceto medio non sarebbe stata altrettanto grave se non fosse coincisa con la digitalizzazione e lo sviluppo tecnologico. Essi hanno consentito di aumentare l’attività, ma hanno ridotto il mercato del lavoro. Su questo s’è innescata la crisi finanziaria». 

Il voto del malessere porta a una nuova rivoluzione? 
«È un segnale. Conforta che il processo ha una natura pienamente democratica e non si vedono i rischi di una deriva autoritaria».

 È possibile che il superconservatore Trump sia costretto a fare il socialdemocratico? 
«Potrebbe essere, ma non è detto. Le differenze fra destra e sinistra sono più difficili da rappresentare. Molte ideologie su cui si basavano le dinamiche politiche non esistono più. Oggi c’è la necessità di rispondere in modo più pragmatico alle richieste dei singoli individui. A prescindere da destra e sinistra».

 Immagina il paradosso in cui il nuovo Presidente degli States diventa il più democratico dei repubblicani. 
«Chi governa non può agire indipendentemente dal suo paese. Non scrive su un foglio bianco, ha dei vincoli di cui tenere conto, a partire dalla percezione dei cittadini a cui deve rispondere».

 I casi Trump e Brexit ci dicono che siamo in un fase di post globalizzazione? 
«Abbiamo visto dei segnali necessari. O richiesti dalle circostanze. La storia dirà quale tesi è buona. L’importante è prendere atto del problema e della complessità delle soluzioni. La consapevolezza è sempre un buon punto di partenza». 

 Dopo Trump e Brexit, dobbiamo aspettarci una vittoria di Hofer in Austria e una sconfitta di Renzi al referendum? 
«Il voto americano e quello britannico denunciano il desiderio di protestare, ma anche di smentire i sondaggi. Ora potrebbe prevalere la voglia di un effetto sorpresa».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/12/economia/donald-e-brexit-sono-figli-della-rivolta-del-ceto-medio-oqMxSJ4M2DHzbCyVnSGJxI/pagina.html
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