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Autore Discussione: Maurizio CHIERICI. Conversando con Alejandro Inchauregui  (Letto 5090 volte)
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« inserito:: Novembre 05, 2007, 04:10:31 pm »

Immigrazione sfida del futuro

Maurizio Chierici


Bidonvilles evanescenti ingombrano ogni piazza di Asuncion, capitale del Paraguay. I sacchi della spazzatura diventano baracche dove dormono, mangiano, sopravvivono 15 mila famiglie scacciate dalla campagna per far posto all’oro verde della soia. Benzina al posto del pane. Contadini che non sanno dove mettere radici.

Il latifondo fa i conti: il grano rende il 30 per cento in meno della soia e i proprietari (due per cento della popolazione che amministra il 95 per cento dei terreni) scelgono di riempire la cassa. La gente non conta e non ha voce. Metà paese sbarca il lunario fra le immondizie. Mille più, mille meno non succede niente. Prima o poi il municipio troverà uno spazio fuori mano per far crescere baracche più consistenti, cartoni e lamiere. E la vita degli accampati diventerà la vita di chi si è accampato prima. La stessa infelicità potrà consolarli.

Ripulite le piazze, Assuncion tornerà una città in qualche modo sicura fino alla prossima invasione di nuovi disperati, metafora di ogni civiltà che rifiuta la barbarie dei vagabondi. C’é una festa di immigrati paraguayani nella villas miserias numero 31, attorno a Buenos Aires. Stamberghe piantate nel fango e nella polvere. Da una di queste stamberghe trent’anni fa, villa miseria Fiorito, viveva un ragazzo bravo col pallone. Quando è diventato Maradona non è più tornato a visitare la casetta dalla quale è partito. Il languore di un’orchestra guarany scioglie la nostalgia degli straccioni incantati dalle luci della città irraggiungibile: ballano ma non sorridono. Hanno voglia di tornare nel paese dal quale sono scappati per fame, eppure restano in attesa del miracolo: un posto, magari riconosciuto e non braccia nere. Qualche peso sicuro al giorno. Per il momento si arrangiano: schiavi dei piccoli imprenditori che nascondono il lavoro in fabbriche clandestine. Schiavi di un’emigrazione più dura e concreta: nord coreani che sfruttano i servi della gleba con la precisione sorridente della cultura orientale. Oppure allungano le mani. Rubano e minacciano. L’insicurezza ormai drammatica ha animato i discorsi della presidente eletta Kirchner e degli avversari che le rimproveravano di non proteggere la gente. Parole dure, classe media che per ripicca non vota Cristina nelle grandi città: ogni mondo è paese. Il taxista si spaventa. Dopo il tramonto le villas miserias diventano trappole pericolose, ma l’organizzatore guarany tranquillizza: vi accompagno fino a quando cominciano le strade della città. La tragedia dei rom e delle bindovilles di Roma,esercizio feroce di una violenza che la non vita ha metabolizzato, impensierisce chi guarda le miserie lontane con gli occhi del nostro mondo. A qualche chilometro o a pochi metri dalle favelas di San Paolo, Brasile, le vetrine della Paulista o gli antiquari di Morumbi e i ristoranti che legano alle poltrone le borsette delle signore nell’illusione di frenare le aggressioni delle turbe volanti, insomma, gli operatori normali della società che sembra normale, con quale tranquillità organizzano i commerci del mondo perbene assediato da centinaia di migliaia di spiriti che sono del male, ma anche affamati? Non sempre usano violenza e mercato della droga come lievito delle speranze quotidiane. A volte la fantasia eccita altre soluzioni. I raperos della favela Capào Ridondo, nord di San Paolo, cantano le vite brevi degli spacciatori. Raccontano come il loro racconto diventi pericoloso: ogni canzone finisce con la morte dell’autore. Non sempre è un’invenzione. Ritmi che fanno ballare le discoteche rosa dell’altra città, ma la musica è l’unico legame indolore con l’universo che ogni mattina progettano di saccheggiare. Noi benpensanti resistiamo nei nostri alberghi e nei nostri ristoranti e negli uffici e nei negozi, ma resistiamo senza cercare soluzioni durature che riavvicinino due tribù lontane. Ci difendiamo e basta. Non sempre gli inquilini delle baracche vendono musica. A Buenos Aires i cartoneros, esercito che striscia sui marciapiedi raccogliendo ogni briciola di carta da vendere a riciclatori industriali; i cartoneros, inaugurano un’attività editoriale che ha per materia prima le immondizie. Scatoloni di imballaggio ritagliati in copertine col titolo dell’opera colorata di verde e di rosso. Le offrono agli angoli di Florida, strada del gran passeggio. Dieci pesos, due euro per « Copi La guerra de las mariquitas», guerra delle coccinelle. Coppi, italo argentino disegnava le donne affrante pubblicate da Linus, scriveva racconti e commedie ispirate a Jonesco sul filo autorironico dell’omosessualità; Copi sta diventando il simbolo di una diversità umiliata. Una cartaccia lega in qualche modo le sue pagine dissepolte nelle rovine di qualche stamperia allo sfascio o nelle discariche dove finiscono i libri usati. L’autrice dell’edizione stradale firma con dedica l’opera che sto comprando quasi ne fosse l’autrice. Svolazzo di «Eloisa Cartonera Barilaro, artista plastica », ragazza col sottanone di chi pulisce i marciapiedi. La fantasia la salverà? Sono le immondizie a precisare la differenza tra il nostro mondo e il mondo nel quale le famiglie dei viandanti annegano. Per capire cosa divide la società delle banche e dei computer da milioni di cartoneros ed ermarginati di ogni favelas - America Latina, Africa, l’Asia delle tigri economiche, Europa meno felice- può essere utile cominciare dalle immondizie. Le immondizie restano una tragedia sulla quale vivono corruzioni e camorre.

La gente attorno a Napoli non respira mentre si discute all’infinito sul come riciclarle, bruciarle, soprattutto farle sparire. Da Buenos Aires alla Nairobi di padre Alex Zanotelli le immondizie diventano tesori che aiutano la sopravvivenza. Il modello sociale si rovescia. Scavare nei cascami della città dei palazzi, viene reclamato come diritto da chi non sa come andare avanti. Le autorità lo proibiscono: colera in agguato. Ma la gente non si rassegna. A Città del Guatemala la guardia nacional presidia una discarica infinita che incombe sulla capitale per impedire alla folla dei diseredati di riversarsi nel pattume alla ricerca della fortuna. Ma i ragazzi strisciano e non si arrendono. Nella notte spari e bengala per illuminare il cammino dei ladri. Qualche morto senza nome; nessuno ne parla. Anche nella Buenos Aires dalle abitudini borghesi, macroeconomia che vola, il governo si è arreso nei giorni delle elezioni. La proibizione resta, ma ogni pomeriggio dalle cinque alle sei, i cancelli della pattumiera sterminata di José Leon, benevolmente si aprono per lasciare passare la folla che aspetta. File ordinate, guai bruciare il posto dell’altro. Cinque, diecimila “cercatori d’oro” corrono fra i cascami puntando verso gli scatoloni abbandonati dai grandi magazzini: yogurth e latte scaduti da settimane, pesce nauseabondo, frutta marcia Per noi è veleno, per loro è la vita. Escono felici trascinando pacchi di plastica dove hanno insaccato ogni ben di dio. Da mangiare e da vendere nelle bancarelle delle villas miserias. E il colera ? Speriamo di no. Arrivando a Buenos Aires sotto l’ala dell’aereo brilla il tappeto sterminato dei tetti di latta. La città-città diventa un agglomerato grigio, assediato da una periferia che non finisce mai. Ogni mattina si allarga e non solo in questo sud. Città del Messico, 21 milioni di abitanti, cresce di 6 mila persone al giorno e ogni giorno le ruspe tracciano il segno di nuove strade, 100 chilometri dalla colonna dell’angelo d’oro, cuore simbolico di una capitale dove nemmeno i taxista della banlieu sono mai arrivati.

Quando le villas miserias (o favelas o pueblos joverens di Lima, o i ranchos di Caracas ) vengono spazzate via e le ruspe abbattono le baracche, noi perbene respiriamo: finalmente si è fatto qualcosa per difendere la sicurezza di chi pretende una vita normale. Sospiro sacrosanto, ma il sollievo è provvisorio. Il nuovo sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macrì, destra alla Berlusconi, ha deciso di espandere un quartiere giardino nello spazio occupato da una villa miseria. Tensioni e proteste sconvolgono le strade. Manifesta chi è contento, manifesta chi è rabbioso: ha conquistato un rifugio evanescente e non vuole perderlo. Fra qualche settimana camion e polizia li butteranno fuori. Dieci-dodicimila profughi da trasferire ai margini di una favela lontana rubando il posto-casa agli sfollati di altre favelas. Come finirà il girotondo tra la società organizzata e la società senza speranza non è facile indovinare. Né quando; né per quanto tempo continueranno a fiorire baracche.
L’Europa ha finora sofferto marginalmente questo sfaldamento civile. Sta cominciando ad angosciarci con l’esodo dai paesi dell’est. Servirebbero case, ma non sono le case l’unico problema. Nelle periferie di Parigi allineate sulle fermate dell’ultimo metrò crescono quartieri dignitosi dove vivono magrebini, tunisini, iracheni: sempre islamici. Il dio diverso innescava diffidenza, obbligava all’ emarginazione. Ecco le rivolte di chi non sopporta l’espulsione dal futuro che la città madre sta programmando. Quei fuochi, un anno fa. Arrivano ucraini, ungheresi, polacchi, bulgari, rumeni: cristiani come tutti. La loro ondata rivela che la religione era solo l’alibi emotivo per difendere la discriminazione: paura e tensione non cambiano. E l’ostracismo resta. Le soluzioni sono sempre opposte: fermare l’emigrazione con la forza, reprimerla seminando paura, oppure elaborare una morale sociale inedita per non chiudere sotto i tetti di latta gli stranieri che sbarcano nella nostra tranquillità attraversando le frontiere della fame. Le squadre della morte di Rio de Janeiro insistono con la soluzione forte. Poliziotti che fanno gli straordinari. Mattanze dei bambini di strada, ladri che in un lampo vuotano i negozi. I loro corpi vengono esibiti per un intero giorno davanti alla vetrina che stavano saccheggiando. Il fascismo della ritorsione romana non ha inventato niente.

Ma la paura non spegne la necessità. E l’emigrazione è l’alluvione che non si ferma in ogni tropico del mondo. E la violenza si moltiplica; la rabbia cresce. In Salvador, Guatemala e Nicaragua si gonfia il mostro delle “pandillas”, bande armate di adolescenti. Affrontano armi alla mano le polizie. Ogni anno in un paesino che non ha mai fatto guerra a nessuno - El Salvador, appunto - vengono uccise 60 persone ogni mille abitanti, statistica irachena nel nome dell’integralismo della rapina e della difesa. Perché allarmarci ? Sono i popoli delle banane, dovranno crescere per imparare la decenza, ma non è così. L’allarme del governatore della Florida, feudo famiglia Bush, riguarda l’aumento del 200 per cento di bande giovanili criminali , ormai 7 mila attorno a Miami. Pericolo da affrontare con l’emergenza di una guerra per stroncare i tentacoli di un terrore che sconvolge il centro delle città . Città e disperazione è la scommessa del futuro. I muri non bastano anche perché la proiezione delle nazioni unite annuncia che nel 2050 metà della popolazione del mondo potrebbe vivere attorno alle luci di metropoli sconvolte da aggressioni e spedizioni punitive. E allora ? Mentre tramonta il liberismo selvaggio che mette in conto guerre ed invasioni per garantire la continuità delle nostre abitudini, é necessaria l’elaborazione di una dottrina globale che razionalizzi ricchezze e cultura in modo da non far correre i popoli verso i paesi padroni, i quali diventano paesi invivibili, rissosi e supponenti.

Serve una rivoluzione inedita e mai così borghese: la rivoluzione del buonsenso e dell’opportunità. Ogni religione l’invoca, ma ogni Wall Street la condanna. Vendere e vendere per arrotondare i bilanci; conquistare materie prime per garantire le abitudini della tradizione, più telefonini con videogiochi, musica e diretta Tv, costringe a fare i conti senza considerare la vita di un certo tipo di persone. Chiudere l’accumulazione del benessere nella cassaforte che la tecnologia protegge con sensori spietati, quali piaceri potrà garantire ai grattacieli assediati dai tetti di latta dove si raccolgono coloro che non hanno niente da perdere? L’assenza dell’identità rende insopportabili solitudine e bisogni. L’illusione che cultura e tecnologie possano riattivare la ragione, è l’astrazione che nel secolo scorso ha illuso la Germania di Hitler. Perché la cultura ormai non basta alle pance del mondo che chiede, e del mondo che difende il privilegio. Bisogna ricominciare dall’uomo e dalla sua dignità.

Pubblicato il: 05.11.07
Modificato il: 05.11.07 alle ore 8.43   
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 17, 2007, 03:45:08 pm »

Un Natale in Fuga

Maurizio Chierici


È un racconto del Natale di 30 anni fa dedicato al Bossi che urla sul palco di Milano assieme ai suoi sindaci X; X come xenofobia perché riesce difficile definire in altro modo quei primi cittadini che violano la legge per soffocare la vita dei lavoratori stranieri con la diffidenza di chi pretende «garanzie», ma solo dagli stranieri considerati braccia e non donne e non uomini.

Noi padroni bianchi facciamo come ci pare.

«Basta con la canaglia umana di Roma», è la minaccia del leader ruspante rivolta a chi si impegna a far rispettare la costituzione. Trent’anni fa era il Natale di un’Italia angosciata dal terrorismo, eppure gli italiani sembravano diversi.

24 dicembre 1977, l’inverno più freddo del secolo. Naviante ha 110 abitanti sulla strada tra Cuneo e Dogliani. Dietro i vetri di brina di una scuola abbandonata aveva trovato rifugio un gruppo di argentini fuggiti dai militari P2 al potere dopo il colpo di stato. Nella terra che consideravano di nessuno, la vigilia non ricordava gli anni felici. Quel gelo e gli abiti leggeri buttati nelle valige di chi scappa. «Mamma, la neve...», è la meraviglia di una bambina «col naso schiacciato sul vetro».

È il ricordo di Maria Seoane, scrittrice che ha raccolto i tremori della fuga in un libro tradotto anche in Italia e diventato un film: La notte delle matite spezzate, storia di una classe di ragazzi svaniti nelle cantine delle squadre della morte.

Oggi Maria Seoane fa la redattrice politica al Clarin, il più importante quotidiano di Buenos Aires. Laterza ne pubblica il saggio: Argentina paese dei paradossi. «Era la prima volta - racconta - che vedevo danzare i fiocchi in un paesaggio estraneo ma anche familiare nei ricordi della nonna che veniva dall’Italia. Quei fiocchi provavano la mia mutazione esistenziale: stavo diventando definitivamente una straniera». La foto della vigilia di Navigante fissa l’immagine di una ragazzona che beve maté, aroma della nostalgia. Navigante era un posto «molto cattolico, molto contadino. Abitavamo la scuola abbandonata dopo la caduta di Mussolini. Poco lontano Cesare Pavese aveva scritto Il mestiere di vivere. Fumando Gauloises pensavo ai libri lasciati a Buenos Aires e ai libri di Pavese. Anche i miei compagni d’esilio sognavano la strada del ritorno come l’avevano sognata i loro nonni, anni fa, partiti per sempre per l’Argentina a fare l’America. Non so perché pensavamo di mangiare da soli nella desolazione gelata della notte santa. Mangiare e cantare, Sur o La Zamba de mi esperanza, ballo della mia speranza. Non immaginavamo che cinque minuti dopo la mezzanotte sarebbero arrivate tante persone dai paesi vicini: una carovana di Fiat piene di regali per noi e per i bambini come se andassero a Betlemme. Mancava la mirra, quella notte, ma era come se la nonna mi avesse detto Buon Natale».

Avevano attraversato le frontiere con passaporti falsi e lo scappare sembrava una forma di vita permanente fino quando si erano fermati in un angolo sconosciuto del Piemonte. Lunghe discussioni se era possibile lasciar crescere i più piccoli nella campagna che non era la loro campagna. Anche negli adulti restava il dubbio sul vivere in un posto che consideravano fuori dal mondo, proprio lo stesso dubbio che trent’anni dopo inquieta chi attraversa il mare alla ricerca di una vita qualsiasi ma una vita normale. Per chi scappava nel 1976 e per chi scappa oggi il problema è sempre lo stesso: quel po’ di terra sotto i piedi sarebbe diventata per sempre la patria da conquistare? Gli uomini venivano dalla lotta armata contro la dittatura di Videla, Massera e degli altri generali. Nascoste nelle valige, le tessere dell’Esercito Popolare di Liberazione di Mario Santucho, assassinato assieme alla moglie Liliana, fratelli, cognate, bambini, figli e nipoti di un vecchio magistrato e di una vecchia insegnante nascosti in Svezia col dolore dei tanti familiari scomparsi.

Quando arrivano in Italia il Corriere della Sera dedica a questo dolore un titolo cinque colonne, prima pagina: «Fratelli Cervi Argentini - Avevano dieci figli, poi è venuta la dittatura». Il vice direttore Barbiellini Amidei non sa della P2 e la P2 provvede con rabbia a disinfettare i ricordi. Proibito parlarne. Intanto i clandestini di Naviante mantenevano il manuale della clandestinità non solo per restare vivi ma per non disperdere l’ideale dell’Argentina che avevano in mente di ricostruire nell’ipotesi (disperata) di un ritorno alla dignità di cittadini impegnati a fare politica seppellendo le armi quando le armi degli oppressori fossero sparite. Lo ricorda Roberto Baravalle nel libro Esercizi di memoria. E quando l’Argentina ricomincia a respirare tornano nella Buenos Aires anno zero con un’ombra nel cuore. Perché la democrazia di Alfonsin, primo presidente democratico, era minacciata dalle rivolte dei caras pintada, militari duri.

Una sera il presidente telefona ad Ernesto Sabato, grande vecchio della cultura. Presiedeva il tribunale Nunca Mas, mai più. Non una corte ufficiale. Sociologi, ricercatori, famiglie con tanti posti vuoti, mettevano ordine nell’elenco di chi non era tornato, risalendo ai responsabili di 30 mila delitti. «Stai lontano da casa per qualche giorno», è l’allarme del presidente al vecchio scrittore. Tragedie di ieri.

Trent’anni dopo gli esuli sono tornati a Navigante con un libro che ripercorre l’esilio. Ne ho condiviso la memoria in un teatrino di Cuneo durante gli incontri «Scrittori in città». Erano profughi politici dai documenti pasticciati; clandestini in quell’Italia insanguinata dal terrorismo. Eppure «si presentavano col sorriso sulle labbra, mai lamenti e, per quel che contava, rassicurati dalla solidarietà di un gruppo di giovani della sinistra e da ex partigiani: lentamente la solidarietà si era allargata all’intera provincia fino a coinvolgere istituzioni di vario orientamento, partiti politici, sindacati». Non doveva essere facile perché la dittatura argentina veniva coccolata dai giornali e dalle Tv italiane. La Rizzoli della P2 appoggiava il regime in divisa. A Buenos Aires il suo Il Corriere degli italiani imbrogliava milioni di italo-argentini invitandoli a difendere la civiltà dei militari, «protettori della Chiesa minacciata dal comunismo dei sovversivi». L’ipocrisia imbrigliava noi che raccontavamo quei paesi. Enzo Biagi rifiuta di scrivere sui campionati del mondo ’78 dopo la raccomandazione di non fare lo spiritoso sul buon governo dei generali e non mettere in dubbio la lealtà atletica e patriottica della nazionale e dell’allenatore argentino.

Ma la gente di Cuneo ragionava in modo diverso. Guardava i profughi in faccia e ascoltava le tragedie delle famiglie vagabonde. Perché l’ Italia non era un posto al di sopra di ogni sospetto e se i servizi, neanche tanto segreti e infarciti dai piduisti di Licio Gelli, avessero allargato al nostro paese la ragnatela del piano Condor, quei clandestini dai nomi inventati, dovevano rifare le valigie o sparire chissà dove. Già le squadre nere scrivevano con vernice nera minacce sui muri della scuola di Naviante. E i contadini e gli intellettuali hanno capito: non potevano solo guardare.

Sono accorsi Nuto Revelli e i politici della sinistra in quel momento imbarazzati dall’Unione Sovietica che si era messa d’accordo con la dittatura argentina pronta a garantire a Mosca lo status di cliente privilegiato nell’importazione del grano. Ma la gente della Langa se ne è fregata ed ha condiviso i problemi delle famiglie alla deriva. Trent’anni dopo sul palcoscenico di un teatrino di Cuneo, Jorge Alma presenta il suo libro di ricordi: Tributo a Navigante - Rivoluzionari argentini in terra di Langa. Jorge Alma è un nome che non diceva niente a nessuno. Quando aveva aperto le valige nella scuola abbandonata si chiamava Cacho Narzole e per i signori accorsi ad riabbracciarlo il suo nome è sempre Cacho...

Quale strada ha portato a Navigante i profughi dal terrore? Prima di lasciare la Casa Rosada, il presidente Kirchner si è impegnato a ritrovare i corpi di Mario Santucho e Liliana Delfino (la moglie) nascosti dagli assassini in chissà quale fossa comune. Ecco: la famiglia Delfino viene da qui. Luciana Delfino, cugina di Liliana, ha sposato Remo Masoero, partigiano uscito vivo da Dachau. E Susi Fantino di Monforte d’Alba, si era legata a Julio Santucho, uno dei fratelli sopravvissuto nell’esilio romano. Con l’ossessione del conservare identità e programmi politici nell’ipotesi del ritorno, Cacho e gli altri alternavano al lavoro per sbarcare il lunario, la disciplina di una pedagogia politica che li ha impegnati fino all’ultimo giorno d’esilio. Attorno, la curiosità affettuosa del paese. Della città, di tante province. I vicini di casa vogliono capire chi sono e perché scappano da un paradiso che l’informazione italiana racconta «civile e tranquillo». Capiscono subito; capiscono lentamente Pci, Cgil, cattolici della sinistra: «Ogni sera, quando scendeva il buio, la scuola si riempiva di gente. Domande e risposte, discussioni nella notte con in fondo lo stesso dubbio: come mai avete scelto la lotta armata?». Tormento di chi vive l’incubo delle Brigate Rosse.

Un giorno bussa il parroco. «Era agitato, noi più imbarazzati di lui. Dice che un gruppo di signore gli aveva chiesto di benedire la scuola e chi la abitava. Donne anziane, madri degli amici che frequentavamo, le stesse signore che mandavano di nascosto dolci e marmellate: pacchi senza nome al mattino davanti alla porta. Per testimoniare il loro affetto invocavano l’aiuto della grande forza alla quale affidavano le preghiere, la forza suprema di Dio».
Arrivano in processione assieme al sacerdote. «Fanno da coro alle sue giaculatorie. Quando il parroco si trova davanti alla poster di Lenin, regalo degli amici del Pci, non si scompone e agita la mano con maggior fermezza, benedicendo il volto e il corpo della rivoluzione».

Trent’anni dopo Cacho immalinconisce. «La voce che racconta questa storia non c’è più. A metterla a tacere non sono stati né morte, né carcere.
È sparita perché il mondo dove si svolgevano le storie del nostro racconto, questo mondo è scomparso. Il mondo di oggi non è né migliore, né peggiore, è solo diverso. Le sfide sono cambiate. Le sfide di generazioni arruolate nelle file di coloro che lottavano per costruire una società migliore, sembrano affievolite. Nelle nostre società occidentali non sono molti coloro disposti a scarificare la vita per un’ideale». Il «sacrificio» evocato da Cacho non precipita l’idealismo nella morte; misura realisticamente la solidarietà sulle abitudini dei giorni che attraversiamo: benessere, vacanze, un posto al sole, diffidenza per le facce diverse. E trent’anni dopo i profughi hanno capito di averla scampata bella. Sono sopravvissuti ai delitti e alle ramificazioni dei generali P2 che erano più profonde di quanto sospettassimo un po’ tutti in quell’Italia dalle maggioranze cattolico-bancarie silenziose. Oggi li avrebbero impacchettati su un volo delle linee aeree argentine. Cellule terroristiche «addormentate ma pronte a colpire». I loro nomi nell’elenco dei desaparecidos. E dei sogni di chi provava a sopravvivere senza tradire la dignità, non avremmo saputo niente.

Ecco perché ho mandato il libro a Borghezio, Calderoli e agli X della marca trevigiana. X, come xenofobia. Con quale tenerezza avrebbero accolto gli argentini in fuga dal paese dei militari amici P2, trent’anni fa?

mchierici2@libero.it


Pubblicato il: 17.12.07
Modificato il: 17.12.07 alle ore 8.50   
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 22, 2008, 12:12:50 am »

La solitudine dei non raccomandati

Maurizio Chierici


Ci guardiamo in silenzio come profughi nella stiva di una nave. I nomi non importa, sappiamo chi siamo: siamo tutti non raccomandati. Se avessimo avuto la tentazione di supplicare o ricattare, sussurri al telefono, pubblici inchini, non ci saremmo raccolti nella sala del Teatro Due di Parma per ascoltare Gherardo Colombo in questi giorni particolari. Colombo analizza l’evoluzione sociale della «cultura delle regole». Ha lasciato la toga col pessimismo di chi non vede nel futuro prossimo di un magistrato la possibilità di applicare senz scalare le montagne russe i comandamenti che la costituzione garantisce e che le Nazioni Unite annunciano. Alla fine si è arreso. La buona volontà di pochi finisce in niente se la maggioranza dei cittadini sceglie la sregotalezza come cardine della convivenza lasciandosi incantare dai tamburi dei leader sregolati. Colombo ha deciso di ricominciare dall’alfabeto del vivere civile; la vocazione alla giustizia è diventata pedagogica. Aveva lasciato la Milano dei processi di fuoco; ha lasciato la Cassazione.

Gira l’Italia con le sue lezioni, due o tre la settimana fino al prossimo autunno. Università e incontri pubblici, lezione programmata tempo fa. Il destino l’ha fatta scivolare nei giorni del caos. Gli ascoltatori arrivano stremati dalle voci che immalinconisco la normalità nella quale tutti vorremmo rifugiarci. Invece ogni ora delusione aumenta: signora Mastella agli arresti domiciliari mentre il marito, ministro della Hiustizia, bombarda i magistrati responsabili della retata in famiglia. Le sue mani tornano libere; il governo può tremare. Ecco che Silvio Berlusconi (a giudizio: sregolatezza ragazze-Rai) annuncia di voler tornare a Palazzo Chigi per salvare l’Italia dalle barbarie dei magistrati. Che sono sempre «certi magistrati», per caso sempre sventurati incaricati di controllare le carte dei giganti o dei nani politici proclamati intoccabili dai loro clan. E poi l’applauso travolgente di palazzo Madama mai tanto unito nell’assoluzione. E poi Cuffaro condannato a cinque anni di galera eppure contento come un bambino promosso a ottobre: aiutare un mafioso non vuol dire legami con la mafia organizzata. Prende esempio dalla signora Mastella: non abbandonerà la poltrona. Il posto è mio. La gente mi vota. Al tribunale degli elettori il giudizio finale. E le ragazze che lo baciano e Casini che si complimenta. E poi l’allarme subliminale che i giornali distribuiscono quando scelgono lo stesso titolo per la prima pagina. «Così fan tutti». Uniformità che ricorda lo scoppio di una guerra. Intanto le immondizie di Napoli sono sempre lì. Ruini beato fra gli atei devoti esulta per i 200 mila fedeli arrivati in piazza San Pietro. Questa la settimana degli spiriti confusi. Con un filo che riconduce ogni dissapore alla sanità. Per caso si gira sempre attorno alla salute della gente, grande industria nell’Italia mediterranea, ma non solo. Cuffaro è medico e governa la Sicilia; il sindaco di Catania ha in cura Berlusconi, Fortugno è stato ucciso mentre scavava negli intrighi di una Asl calabrese.

Anche noi giornalisti abbiamo le nostre colpe: non abbiamo capito quando bisognava capire. Trent’anni fa i nostri libri e le nostre inchieste portavano alla luce il legame baronale che eternava il potere delle stesse famiglie nelle corsie degli ospedali. A Torino il grande Dogliotti passava il bisturi al professor Morino marito della figlia. Morino aveva 28 anni ed eredita la cattedra del maestro schiacciando ogni concorrente. Non è un esempio clamoroso, solo la prassi accettata in silenzio dagli esclusi i quali speravano che la riforma sanitaria guidata dagli eletti dal popolo finalmente tenesse conto in meriti e non solo le raccomandazioni. Ma il familismo politico era in agguato e la politica non solo lo ha moltiplicato ma ha aggregato appalti ed altri affari. Trent’anni dopo il bilancio scende ogni mattina dai giornali: dalla mala sanità allo spintone dell’onorevole. Con passaggi epocali nell’industria farmaceutica. Come mai i prezzi delle medicine italiane a volte raddoppiano i prezzi delle farmacie francesi? Sul Servizio farmaceutico nazionale ha governato per anni il professor Duilio Poggiolini. Storia dell’altro secolo che continua nel terzo millennio: tangenti e amicizie avvolte nella P2. Quando arriva la polizia scopre 39 miliardi di lire nascosti in banche compiacenti, e gli strapuntini del salotto imbottiti di diamanti. Scandalo, ma i prezzi non cambiano. Poggiolini era amico del professor Francesco de Lorenzo, liberale di grande famiglia napoletana: ministro dell’Ambiente e della Sanità, sette anni e mezzo a Poggio Reale. La mano dei giudici era sembrata criminale: una così brava persona... Francesco aveva un padre, Fernando de Lorenzo, tessera P2. Presiedeva l’Ente nazionale previdenza e assistenza. Coi soldi dell’ente ha comprato due hotel a Segrate e centinaia di appartamenti: indovinate da chi? Ha affidato la gestione del teatro Manzoni all’astro nascente dello spettacolo: Silvio Berlusconi, naturalmente P2. Il familismo amorale nella società mediterranea ispira il saggio del sociologo americano Edward Banfield, pubblicato dal Mulino a cura di Domenico De Masi. «Il familismo è responsabile dell’inaffidabilità civile di una certa Italia». Italia anni 70, venerabile Gelli in agguato. Ascoltando le voci di questi giorni si ha l’impressione che il suo piano Rinascita sia tutt’altro che superato. Decalogo P2: la magistratura deve essere subordinata al potere politico. Abolizione del ruolo centrale della Rai. Tv via cavo impiantata a catena, ogni casa di ogni città, in modo da controllare la pubblica opinione nel vivo del Paese. Immagino l’impazienza dei reduci P2 nel riascoltare gli antichi comandamenti: ancora quella vecchia storia! Ma è davvero vecchia? Gli spettatori accorsi ad ascoltare la lezione di Colombo non hanno questa impressione.

Colombo apre il microfono e dialoga con Andrea Porcheddu, critico teatrale. Comincia evocando Antigone: 2500 anni fa Sofocle la incarna nel dissidio tra leggi morali non scritte ma eterne, e le leggi del sovrano, dogmatiche nell’interpretare le abitudini del potere. Quand’è che una norma viene riconosciuta iniqua? Ciascuno di noi - risponde Colombo - non importa dove è nato, non importa come arriva, ha lo stesso diritto al lavoro, allo studio all’assistenza e alla dignità civile. Non può essere scavalcato perché privo di amicizie. La legge è giusta quando non rompe l’uguaglianza tra cittadini attribuendo a tutti le stesse opportunità. Ma se ne tollera la diversità può diventare iniqua. Purtroppo le nostre società sono organizzate in piramidi gerarchiche. C’è chi comanda ed ha solo diritti; man mano si scende, alla base della piramide restano solo i doveri. La legge è giusta se impedisce le sperequazioni eppure ogni legge può essere ritorta da furbi, potenti, ricchi, magari anche intelligenti, appollaiati al vertice.

I pensieri della gente che lo ascolta improvvisamente ondeggiano tra Parma e la Milano della signora Moratti. Un’assonanza. Per ristabilire il diritto previsto dalla legge italiana che ha ratificato la decisione Onu, l’Unicef, Cgil, Partito Democratico ed ogni sinistra che non accetta soprusi, hanno difeso con la protesta i figli degli emigranti clandestini. Don Luciano Scaccaglia si è infuriato dall’altare perché un assessore sudafricano (Sudafrica prima di Mandela) della giunta comunale della città aveva proibito gli asili nido agli ultimi degli ultimi. E l’assessore si è dovuto arrendere. Questa volta le piramidi provinciali non ce l’hanno fatta. La gente non ha dimenticato la lezione amorosa di Mario Tommasini: per primo ha permesso a Franco Basaglia di liberare i sepolti vivi dai manicomi. E ha chiuso i brefotrofi restituendo ad una vita familiare i piccoli dispersi nei lager della carità di mezza Italia. Più di mille senza nome; li ha affidati a famiglie generose che hanno accettato un figlio in più anche se negli anni cinquanta il pane era contato. Possibile che cinquant’anni dopo la zona grigia di una città ricca si sia talmente ingrigita da accogliere con indifferenza il progetto apartheid? La maggioranza silenziosa non ha aperto bocca; altri lo hanno fatto, per fortuna. E la giunta si è arresa. Colombo non segue la curiosità di chi ha voglia di spostare la sua analisi sulle cronache vicine e lontane. Non crede nello scollamento tra cittadini e istituzioni ma nello scollamento tra i cittadini e le leggi. Sono i cittadini a scegliere i politici che sentono vicini al cuore. Ricorda come nel passato appena passato ogni due anni venisse concesso il condono a centinaia di migliaia di contribuenti che avevano imbrogliato. Capitali all’estero, guadagni nascosti alle tasse, affari mascherarti nei labirinti di fiduciarie in maschera nei paradisi fiscali. Ecco perché queste persone fanno riferimento alla gerarchia più che alle norme da seguire. E la gerarchia si incarica di rappresentarli ammorbidendo il fastidio delle norme. La costituzione precisa che siamo un popolo di uguali con regole comuni, ma la comodità di farsi coprire le spalle, o spalancare le ambizioni, può travolgere l’equità codificata. Ed è lo spazio di scontro tra chi ha il dovere di applicare sanzioni ai trasgressori della legge, e i vertici delle piramidi che difendono il diritto di non osservare le leggi in certe circostanze .

Bisogna dire che i non raccomandati raccolti in teatro speravano in parole più dure. Nei giorni dello sfascio volevano essere spiritualmente confortati per aver scelto la lealtà del cittadino normale. Ma Colombo non si è liberato dalla pignoleria di magistrato: è un intellettuale che usa le parole solo dopo averne collaudato l’autenticità. La sua storia è una specie di storia dell’Italia nera: dal delitto Sindona, misteri banca vaticana, scoperta della P2; dai miliardi che sfarfallavano sul metrò della Milano da bere a Mani Pulite. Ha inseguito Previti e i suoi miliardi nascosti nei passaggi svizzeri Mediaset. Fino al 1994, fino a quando Berlusconi non è diventato primo ministro, i politici avevano rispettato l’indipendenza della magistratura. Ma nel ’94 per Colombo e gli scavatori di Milano cominciano i guai. Sei volte messo in croce dalle indagini. Poteva succedere che le conclusioni fossero paradossali. Il fastidio di una certa Roma politica voleva seppellire a tutti i costi quei matti di Mani Pulite anche se il rapporto degli ispettori liberava i magistrati da ogni sospetto. E la disperazione degli accusati che accusano diventava surreale: se gli ispettori non hanno trovato niente è perché Colombo li ha minacciati o intimiditi. Allora Colombo va a Roma. Pretende chiarimenti, tutti scappano, nessuno chiede scusa. La gente lo ascolta in un silenzio rassegnato. La constatazione dell’essere minoranza avvilisce mentre applaudono. Tornano a casa confortati dal signore impegnato a resuscitare la cultura delle regole, ma con la conferma che non tutti hanno voglia di una società trasparente. La “modernità” dei prestigiatori assolve le trasgressioni e i magistrati indifferente al censo degli indagati cominciano ad arrendersi. Si spengono le luci del teatro si riaccende la Tv. Ruini commosso dopo il grazie di Benedetto XVI. Dai colori della folla i politici escono angelicati. Borghezio Lega dura non ha dubbi: il Papa day è la risposta alle forze occulte che tramano contro la libertà. Più in là aspetta l’intervista Fabrizio Cicchitto, spalla di Bondi in Forza Italia, vecchia tessera P2.

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Pubblicato il: 21.01.08
Modificato il: 21.01.08 alle ore 8.23   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 11, 2008, 05:49:36 pm »

La rosa (bianca) rubata

Maurizio Chierici


Rubare un fiore ormai non è reato. La morale si adegua al marketing della modernità. Nell’Italia politica dei Dini e dei Mastella, viados alla ricerca del marciapiede d’alto bordo; o dei Cuffaro, Previti, Dell’ Utri, insomma, gente così, il peccato sembra veniale e nessuno se ne meraviglia. Purtroppo c’è chi insiste nel brontolare con la malinconia del sopravvissuto a una morale trascurata: non si rassegna alle mani lunghe dei nostri tempi. È successo a Milano, qualche sera fa, fondazione Lazzati, Corsia dei Servi. Nel presentare il saggio di Paola Rosà, Willy Graf - Con la Rosa Bianca contro Hitler, prefazione commossa di Moni Ovadia, la piccola casa editrice Il Margine distribuisce due foglietti. E li distribuisce in ogni città dove si parla del libro: Novara, Brescia, Rovereto. Continuerà; non si rassegna. La gente deve sapere.

«Va bene che la rosa e il bianco non sono marchi brevettati - è un po’ la rabbia di Paola Rosà e Paolo Ghezzi (autore de La Rosa Bianca, gruppo di resistenza nel nome della libertà e Sophie Scholl e la Rosa Bianca) - ma i parlamentari dell’Udc Baccini e Tabacci hanno esagerato, usurpando un nome storico per battezzare il loro gruppo politico col nome del gruppo di studenti ghigliottinati dai nazisti nel 1943 per aver stampato e diffuso sei volantini contrari al regime. Cosa c’entra il neocentrismo moderato con la gloriosa storia del radicalismo resistenziale? Invitiamo il senatore Baccini e l’onorevole Tabacci a ripensarci, visto che non sembra vogliano candidarsi all’eroico martirio». Anche perché dall’Ottanta esiste un’Associazione Nazionale Rosa Bianca, sigla depositata, presidente Grazia Villa la quale apprende «con stupore la notizia del possibile utilizzo del nome Rosa Bianca per la costituzione di un nuovo partito. La nostra è una storia di incontri, convegni, azioni politiche e culturali stratificate nel corso di 27 anni».

Hanno creato un’identità nella quale si riconoscono migliaia di persone legate dal «comune sentire fin dall’inizio ispirato alla memoria pericolosa della Weisse Rose: cristianesimo libero e fedele dei giovani antinazisti. La loro resistenza interiore trasformata in azione politica non violenta, il coraggio di seguire la propria libertà di coscienza, l’assunzione di responsabilità fino al martirio, continuano ad essere gli ideali sui quali cresce la nostra attività. Confidiamo che si tenga conto della possibile confusione, proprio oggi, mentre viene auspicata da parte di tutti, anche dai promotori della nuova formazione, una maggiore trasparenza “fiore di speranza per la politica italiana”». Ultime parole del duo Baccini-Tabacci, propensi al “tanto chi si ricorda”. Invece ricordano. Ricorda Vincenzo Passerini, presidente del Margine, casa editrice di nicchia: «Per 30 anni non abbiamo osato usare il simbolo della Rosa Bianca per fare politica». Molti di loro ne sono protagonisti. Anche Passerini ha un passato da consigliere delle province autonome Trento-Bolzano, base Lega Democratica e La Rete. Senza contare i corsi di formazione che alla fine di ogni agosto raccolgono i giovani con lezioni ispirate all’etica che non accetta compromessi; insegnamenti della Rosa Bianca analizzati da David Turoldo, Camillo Dal Piaz, Paolo Giuntella, Ermanno Gorrieri, Scoppola, Prodi, Ardigò, Veltroni, D’Alema, Martinazzoli, Rosy Bindi, Angela Finocchiaro, Nino Andreatta, Alexander Langer, Roberto Ruffilli, Luca Orlando, Franco Monaco, Nando dalla Chiesa, Adornato, eccetera. Elenco disperso nel tempo, generazioni di giovani invitate ad affrontare la vita pubblica senza le ipocrisie e i tatticismi compagni di viaggio delle vanità Italia 2000. E i ragazzi tornano nelle loro città: diventano sindacalisti, politici, cooperanti magari ispirati dall’innocenza che i protagonisti della Rosa Bianca allungano ai nostri giorni. Nell’incontro di Milano, Anneliese Knoop-Graft, sorella minore di Willi, ascolta la storia dello strano «furto» e scuote la testa. Ha 87 anni e non riesce a capire come il sacrificio di un gruppo di credenti possa trasformarsi nella griffe per allodole politiche.

Per chi non ha letto i libri o visto il bellissimo film, ecco la storia dei veri protagonisti Rosa Bianca. Sophie Scholl viene giustiziata a 22 anni. Dopo la maturità lavora come maestra d’asilo e studia a Monaco città della quale è ospite il fratello Hans che ha lasciato disgustato la gioventù hitleriana: galera e poi università. Incontra fra i banchi Alexander Schmorell e Willi Graft. Non sopportano la violenza settaria del nazismo. Nasce la Rosa Bianca, scrivono e stampano i primi quattro volantini. Assieme partono per il fronte russo. Al ritorno tentano un collegamento con la resistenza berlinese. Scholl viene arrestato assieme alla sorella mentre distribuiscono manifestini. Tortura e ghigliottina. Dopo la caduta dei due fratelli, Schmorell prova a scappare in Svizzera, ma un’amica lo tradisce: per lui è finita. L’odissea di Willi Graft comincia presto: arrestato per l’appartenenza all’Ordine Grigio, giovani cattolici illusi di poter restare lontani dall’isterismo delle associazioni hitleriane. Ritrova Monaco dopo la Russia. Assiste alla stesura degli ultimi due volantini e viene arrestato con la sorella Annelise, proprio la vecchia signora invitata in Italia dalla Rosa Bianca pre Baccini-Tabacci. Ricorda le ultime parole di Willi condannato a morte, seviziato per settimane e poi decapitato il 19 aprile 1943. Due mesi prima era stato giustiziato (definizione rivoltante) un loro insegnante. Professore di filosofia e musicologia all’università, Kurt Huber non faceva mistero dell’avversione al nazionalsocialismo. Lezioni frequentate dai ragazzi della Rosa Bianca. Huber aveva scritto il quinto e il sesto volantino. La moglie e due figli restano abbandonati.

Difficile cucire queste vite trasparenti alle carriere politiche della Rosa Bianca partitica, made in Italy due. Baccini è cresciuto alla scuola romana di Antonio Gerace (detto er Luparetta), famoso per storie dalla trasparenza strapazzata, soprattutto per essere venuto quasi alle mani in Campidoglio col socialdemocratico Robinio Costi mentre si stava decidendo se concedere o non concedere la licenza di un chiosco. Anni della Roma andreottiana, tangenti e verde saccheggiato da costruttori d’assalto diventati rispettabili man mano che allargavano palazzi e potere. Roma dello squalo Sbardella, grondante avvisi di garanzia. Ricorda Jacopo Iacoboni, sulla Stampa, il Baccini che si defilava mormorando: «Ce sto ma nun me faccio vede’ troppo». Col Polo della Libertà si è fatto vedere per quattordici anni: chissà per quale background sottosegretario agli esteri, più adatto come ministro della funzione pubblica essendosi irrobustito politicamente nelle reti delle burocrazie. Tabacci è diverso. Viene dalla provincia mantovana, concreta e attenta ai numeri dei capitani d’industria: Colaninno, Marcegaglia. Ha attraversato i giardini degli imprenditori che contano: Parma, Milano, Brescia. C’è chi millanta la sua amicizia nel comprare terreni e costruire supermercati. Tabacci non lo sa e non se ne può dargli colpa. Bisogna dire che assieme a Baccini ha a lungo meditato sull’inesistenza del conflitto di interessi, riforme giudiziarie, legge elettorale porcellum. Con introspezioni diverse. Tabacci si dissociava in Tv ma si rassegnava a votare in sintonia con Giovanardi mentre Baccini votava non facendosi vedere. Bisogna riconoscere il coraggio di una decisione che taglia col Cavaliere mentre i corridoi delle alleanze sono in subbuglio.

Chi va, chi viene, chi torna. E loro, decisi: adesso basta, ecco la Rosa Bianca. Ma proprio quando la vocazione all’indipendenza è finalmente maturata, per quale ragione appropriarsi di un nome che ha un’altra storia? Diciamolo: Pezzotta non assomiglia al professor Huber anche se il filo della devozione lo accompagna nelle interviste o durante i raduni Papa e Family Day. «Noi siamo un luogo aperto di ispirazione cristiana. Parliamone, ma presto». Insomma, i protagonisti della Rosa Bianca made in Italy ricordano pochissimo i protagonisti silenziosi della vera Rosa Bianca. All’università di Tubinga, 4 novembre 1945, mesi dopo la fine della guerra, il teologo Romano Guarini ha sottolineato l’umiltà del sacrificio dei giovani e del loro professore: «Hanno misurato le azioni sull’onesta, sulla chiarezza, sul silenzio, virtù poco appariscenti ma faticose e fondamentali nella vita di un credente. La virtù del coraggio che abbandona il terreno protetto ed esce all’aperto perché sente una chiamata; la forza di cominciare che rinuncia alle cose conosciute e ne osa di nuove».

Guarini era un teologo nato a Verona ma cresciuto in Germania. I nazisti gli strappano la cattedra a Berlino dove ritorna con la fine del regime. Il giovane don Joseph Ratzinger lo seguiva con attenzione. Sfogliando la sua commemorazione, si resta ammirati dell’ardire dei quattro politici che oggi ne vogliono indossare la memoria. Come può essere nata l’improprietà dell’idea? Si diceva sempre cosa bianca, così fan tutti, ma era la copertura provvisoria dei lavori in corso. Bisogna dire che anche terzo polo non suona bene: aria di una gobba inutile da quando Galileo ha raccontato del polo nord e del polo sud che ruotano. Con l’obbligo di mantenere l’aggettivo «bianco» dovevano inventare qualcosa ritoccando la cosa. Le consonanti utilizzabili sono appena due: la “r” di rosa e la “t” di tosa, ma presentarsi col partito della Tosa Bianca poteva suscitare equivoci nel ricco nord est. Senza contare la delusione di chi pretende la novità urgente di una morale che non rimastichi vecchie promesse. Non per i brontoloni del Margine o per l’inquietudine degli autori impegnati a scavare il sacrificio dei giovani tedeschi, ma Pezzotta, Baccini, Tabacci devono augurarsi che il paragone con la Rosa vera non li rimpicciolisca agli occhi di chi vorrebbe votarli. Vendere una cosa per un’altra può essere controproducente. Ricordo la delusione di tre famiglie italiane, viaggio in camper fra i parchi California-Nevada. Padri, madri, ragazzi. Sfogliando la mappa di Reno (vice capitale del gioco dopo Las Vegas) cercavano il «chiosco delle sorelle di Santa Chiara», immaginando un monumento dimenticato dalla colonia spagnola. Appena arrivati, hanno capito: posto per soli adulti abitato da signore operose di piccola virtù. Addio a Reno per sempre.

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Pubblicato il: 11.02.08
Modificato il: 11.02.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 20, 2008, 05:45:10 pm »

Quell’umanità spazzatura

Maurizio Chierici


«Nomadi, realtà orribile dell’Italia»: è la notizia di prima pagina di ogni giornale d’Europa. Tutti ci guardano; vorrebbero non fosse vero. «Incredibile che in un Paese democratico vi siano persone che vivono senza diritti e senza documenti anche se nati in famiglie “italiane” da 40 anni». Parole che stanno facendo il giro del mondo; parole del rapporto che sta per essere depositato alla Commissione UE dall’europarlamentare ungherese Victoria Monacai.

E la cronaca dei testimoni (Pais, Guardian, Pagina 12 e altri sette giornali stranieri) che hanno accompagnato la signora nella visita al Casilino, campo nomadi di Roma o nel cimitero napoletano delle ceneri di Ponticelli, baracche bruciate dalle molotov di una folla inferocita, queste cronache ricordano le nostre cronache nei viaggi africani o di quando attraversiamo le favelas dell’America senza niente. Umanità spazzatura immersa nelle immondizie. Disgusto, repulsione, per fortuna storie lontane. Invece eccole qui. Questo il made in Italy? Non è successo all’improvviso. Seduto davanti all’altare della piccola chiesa di Pratovecchio, parco del Casentino, un mattino 2003 l’Abbè Pierre compiva 91 anni ripetendo con l’ultimo fiato i versi di una sua poesia: «Ma dove siete? - C’è troppa sofferenza - C’è troppa miseria - In mezzo a tanti farabutti perbene». Il religioso che aveva dedicato la vita ai sans papiers, senza documenti, ricordava con un sorriso la definizione di Sergio Zavoli: «Chiamatemi monsignor Spazzatura perché il mio impegno continua ad essere la restituzione della dignità alla spazzatura umana».

A proposito: noi dove siamo? Per anni l’autorità morale della Chiesa ha consolato l’emarginazione dei nomadi sopravvissuti ai forni di Hitler o ancora ingabbiati nell’emarginazione del socialismo reale, paesi dell’Est. Chiesa polacca, chiesa ungherese, ma anche l’arcivescovado di Milano. Il cronista ricorda il Natale 1959. Gli zingari del campo di Porto di Mare, periferia sud, scrivono disperati al cardinale Giovanni Battista Montini. Sfumava il tepore del primo benessere e la grande città operaia soffriva «il disordine dell’emigrazione che risaliva dall’Italia del Sud»: quante Milano-Coree, ghetti per le facce diverse dal biondo Brianza. Chiusi nel ghetto dei ghetti sopravvivevano a Porto Mare nomadi impediti a trovare lavoro dalla legge che imponeva un domicilio sicuro. «In quale modo, monsignore - invocava la lettera - possiamo affittare due stanze se ci è impossibile garantire l’affitto con un lavoro che non sia in nero?». La notte di Natale il cardinale dice messa in duomo. Il mattino dopo celebra nella baraccopoli degli zingari. Non arriva da solo. Lo accompagna il sindaco Virginio Ferrari, socialdemocratico; medico dai baffi asburgici. Montini gli aveva telefonato: andiamo assieme. Al momento della predica, con la voce timida di un intellettuale che non ha mai alzato la voce, il futuro papa annuncia: «Oggi questa è la mia cattedrale. Ho portato il sindaco. Spero gli vogliate bene e che lui voglia bene a voi». E nel discorso il sindaco si impegna a distribuire 200 appartamenti: finalmente gli zingari trovano casa. E poi il lavoro: milanesi come tutti.

Cinquant’anni dopo l’Italia è cambiata, il mondo è cambiato ma la Chiesa resta il riferimento al quale i credenti affidano la speranza. Se don Luigi Ciotti chiede scusa ai Rom dalla prima pagina dell’Unità, è il quasi silenzio dei palazzi vaticani sui nomadi perseguitati da sospetti che spesso svaniscono ma che la strategia politica della paura trasforma in un odio da rafforzare per controllare l’elettorato; è questo quasi silenzio ad agitare messaggi e lettere. Continuano ad arrivare. Turbamento dei cattolici ma anche di laici che non nascondono la meraviglia. Perché tanta prudenza? Ne scelgo due. Lettera amara di Ettore Masina. È stato il primo vaticanista (la parola non gli è mai piaciuta) della Rai-TV. Due volte deputato della sinistra, fondatore di Rete Resch: solidarietà ai profughi, dalla Palestina all’America Latina. Autore di tanti libri: «L’arcivescovo deve morire», biografia di monsignor Romero pubblicata dal Gruppo Abele: «Il vinceré», edizioni san Paolo, finalista al Viareggio; e «Le nostre barche sono rotonde», da poco in vetrina. Ecco la tristezza che lo accompagna. «Non turbate il Santo Padre. Ditegli che c’è un guasto nei ripetitori di Ponte Galeria e perciò nei palazzi vaticani per qualche giorno radio e televisori sono in black out. Ditegli che c’è uno sciopero dei giornalisti di tutto il mondo, quindi non arrivano notizie. Fate che non sappia, insomma, quel che sta succedendo in Italia ai Rom, cioè che da mesi gli “zingari” vedono (non soltanto a Ponticelli ma in molte città e paesi) i loro campi assaltati da facinorosi o “rimossi”, quasi senza preavviso, dalle forze dell’ordine. È una specie di pulizia etnica, senza morti, per fortuna, ma con valanghe di odio, inasprimento di una miseria già di per sé dolorosa e terribili traumi per centinaia di bambini. La comunità europea aveva già sanzionato l’Italia come paese meno accogliente per i Rom: il nuovo governo ha deciso una soluzione radicale. Razzista. Il Papa tutto questo non lo sa. Se lo sapesse, certamente Benedetto XVI, Vicario di Gesù Cristo, Patriarca dell’Occidente e Primate d’Italia, lascerebbe i suoi preziosi paramenti per affrontare il fango dei “campi” contro cui si accaniscono le bottiglie moltov della gente bene; vi andrebbe per gridare su quelle devastazioni la parola del Cristo: “Ciò che viene fatto ai poveri è a me che viene fatto”. Papa tedesco, sicuramente non riesce a dimenticare il genocidio degli zingari compiuto dalla Germania nazista ad Auschwitz, centinaia di bambini orrendamente torturati dal dottor Mengele; e questo ricordo, se lui sapesse ciò che sta accadendo a pochi chilometri dalla sua finestra domenicale, lo spingerebbe a levare alta la voce per difendere i membri di una etnia dalle vere e proprie persecuzioni in atto. Così attento alle leggi italiane che “violano i diritti del feto”, mostrerebbe di non essere meno sensibile ai provvedimenti governativi che violano i diritti umani di migliaia di persone colpite in base alla loro nazionalità... Il Signore ha voluto che le genti “da un confine all’altro della Terra” diventassero un solo popolo, radunato dall’amore. Per questo chi odia una stirpe pecca gravemente contro Dio. Questo stanno dicendo i vescovi italiani pellegrini fra le rovine fumanti degli abituri devastati dei Rom. Come dite? Nessun vescovo è là, fra quelle roulottes sfasciate, fra le motocarrozzette caricate di poveri suppellettili e avviate verso chissà quale destino… Ahimé, i vescovi rimangono nei loro palazzi e tacciono o (vedi monsignor Bagnasco) condannano con flebili e gelide parole quelli che con bell’eufemismo definisce “estremismi”. Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?... Non vedo una marea di indignazione levarsi contro la criminalizzazione di un popolo marcato dai segni evidenti di estrema povertà ma la cui pericolosità sociale è enormemente minore di quella dipinta dai politici della destra. La Caritas, unica e vera “esperta di umanità”, definisce “pesantemente forviante” il ritratto dei Rom disegnato da mass media. La politica della paura che ha avuto un peso tanto grande nei risultati elettorali, sventola statistiche false. L’Italia è paese più sicuro della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti… Nelle statistiche del Ministero degli Interni non c’è un solo Rom condannato per aver organizzato un omicidio…

Può darsi che la storia abbia decretato la fine dei popoli nomadi: l’evoluzione culturale e il rimodellamento della Terra (quello fisico e quello politico) sembrano imporre una definitiva stanzialità. Del resto siamo tutti discendenti da antenati nomadi perché il nomadismo è stata una tappa fondamentale della vicenda umana. Ma se davvero è finito il tempo di genti sospinte a un cammino ininterrotto dalla necessità e da un’inesauribile voglia di libertà, allora, almeno, esse hanno il diritto di attendersi l’aiuto di una società dominante che ha già compiuto da secoli un trapasso di civiltà. Invece è proprio quello che non vogliamo consentire ai Rom. La stanzialità e l’integrazione…

La citazione conclusiva viene da Bertold Brecht. Raccoglie uno scritto del pastore luterano Martin Niermoller. «Prima vennero per i comunisti e non alzai la voce perché non ero comunista. Quindi vennero per gli ebrei, e non alzai la voce perché non ero ebreo. Quindi vennero per i cattolici, e non alzai la voce perché ero protestante. Poi vennero per me e a quel punto non vi era rimasto nessuno che potesse alzare la voce». Torna la domanda dell’Abbé Pierre: «Dove siete?».

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Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 12.53   
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:02:57 pm »

Conversando con Alejandro Inchauregui


di Maurizio Chierici


Alejandro Inchauregui è un antropologo argentino. Capelli e barba che sbiancano, 52 anni. Era nero come il carbone quando i giornalisti lo hanno incontrato con gli occhi che ridevano. Scavava fra i sassi di Valleverde, Bolivia dove era stato ucciso Guevara; aveva trovato ciò che restava del Che, quel corpo misterioso nascosto dai militari trent’anni prima. Non sopportavano che la sua tomba richiamasse i pellegrini della nostalgia. Attorno ad Alejandro e all’antropologo cubano Jorge Hernandez Perez e ai contadini che spalavano senza fare domande, le ruspe e un cordone di militari. Per evitare il fastidio dei curiosi, si diceva ma Inachauregui era agitato da altri sospetti. Solo le Tv e le facce che non andavano mai via lo confortavano: in quell’angolo dimenticato delle americhe la gente continuava a vivere come raccontano i diari di Guevara. Fame e miseria. Il richiamo del ricordo del Che, un monumento, chissà, apriva la speranza di un turismo immaginario, adesso immaginario non lo è piu. Atterra l’elicottero del generale Josè Perez, vecchio capo di stato maggiore. Passi larghi e furiosi.. Non è d’accordo col presidente Sanchez Losada il quale ha permesso la ricerca dei resti di sette guerriglieri: fra loro il Che. Non vuole gli sia data «sepoltura cristiana. Un terrorista. Finché sono vivo non lo permetterò».

Racconta Alejandro ai ragazzi che lo ascoltano a Pordenone, Festival «Le voci dell’inchiesta», dove sta per cominciare la proiezione di «Che Guevara, il corpo e il mito», documentario di Raffaele Brunetti e Stefano Missio; racconta Alejandro che l’ostilità delle alte uniformi che gli erano sempre addosso con domande non gentili, gli aveva messo paura. «Quando ho riconosciuto il giubbetto del Che e nella tasca le briciole del suo tabacco; quando ho confrontato le protesi dei denti con le radiografie arrivate dall’Avana; quando il ciuffo dei capelli rimasto sulla nuca aveva il colore e lo spessore dei reperti che l’amico cubano custodiva in certe buste. Quando fra i sette scheletri riportati alla luce, ciò che restava di Guevara mancava di qualcosa, mancavano le mani, ho capito che di avercela fatta. Subito dopo la morte le mani erano state tagliate e portate a La Paz per le impronte digitali da confrontare con le impronte arrivate da Buenos Aires, ufficio passaporti. Insomma, quando ho capito che era proprio lui e lo hanno capito i comandanti che ci stavano addosso, ho pensato: adesso lo fanno sparire».

Alejandro non esce più dallo scavo. Per tre notti dorme accanto alle spoglie di Guevara con tanti pensieri. Anche di giorno non si stacca. E nell’ospedale giapponese di Santa Cruz de la Sierra ancora spalle militari che li isolano dal mondo, il dottor Ichauregui non esce per un secondo dall’ l’obitorio dove i medici legali confermano: è proprio il Che. Dorme e mangia qualcosa. «Non so cos’hanno pensato».

Quale può essere il suo timore se il presidente Sanchez Losada aveva approvato il recupero? La Bolivia è il paese dove la storia va avanti e indietro: prima di Evo Morales i protagonisti non cambiavano mai. Quindici anni dopo anche Sanchez Losada era ancora li, sempre dalla parte dell’america di Bush. Appartiene alle grandi famiglie dell’altipiano. E’ nato a La Paz e non ha niente da spartire con le famiglie militari di Santa Cruz, grano, petrolio e gas con attorno i reduci dell’Europa nazista: tedeschi e ustascia, Kluas Barbie e Stefano delle Chiaie. Una cultura radicata: sopravvive negli scontri che agitano la Bolivia di oggi. Sanchez Losada aveva studiato ad Haward ed era tornato in patria con l’impegno di modernizzare il paese. Nel suo governo un vice ministro degli interni socialista - generale Hugo San Martin - raccontava ad Alejandro che le forze armate erano contrarie a disseppellire Guevara. Avevano destituito il generale Mario Vargas Salinas per la colpa insopportabile di aver descritto nel suo libro di memorie - «Il Che, una vita rivoluzionaria» - il luogo nel quale aveva sepolto il suo corpo assieme a sei guerriglieri. Poche righe in un volume pesante non sono niente, ma poche righe che il New York Times allarga con un’ intervista. È passato tanto tempo e il militare che aveva messo le mani sul Che stremato dall’asma, circondato e ferito, non pensa di tradire la patria raccontando il finale di una storia lontana. Ma non potendo bloccare chi scava, gli alti comandi si sfogano con lui: accusa di alto tradimento per aver rivelato segreti di stato. Arresti domiciliari e in pasto alla stampa storie più o meno vere: coca e rapporti gay. Nel ’67 era solo un capitano; le promozioni arrivano dopo. Un po’ l’invidia per aver guidato l’impresa di un esercito che ha sempre perso ogni guerra, soprattutto perché volevano seppellire la memoria del Che, la rivelazione lo hanno messo alla berlina.

Alejandro sapeva e sapeva di un altro pericolo. Il partito di Sanchez Losada ( Movimento Nazionale Rivoluzionario ) aveva perso le elezioni. Stava per tornare alla presidenza il generale Hugo Banzer Suarez, latifondo di Santa Cruz, cugino di Alvaro Gomez Suarez, re della cosa, l’uomo più potente della Bolivia. Alla prima presidenza Banzer era arrivato con un colpo di stato, 1971. Washington lo aveva scelto come protagonista dell’esperimento che doveva portare alla «normalizzazione» di Pinochet e al piano Condor. La democrazia era riuscita a mettere da parte Banzer il quale ne stravolge le regole fondando il partito Democratico Nazionalista che risale da Santa Cruz e vince le elezioni mentre Alejandro sta scavando per cercare Guevara. Dittatore che diventa presidente imponendo il voto. I «suoi» militari danno l’ultimatum agli antropologi di Valleverde. Quando il primo agosto 1997 Banzer si siederà a palazzo Quemando, se i resti di Guevara non sono apparsi, ricerche finite. Non possono più scavare. Alejandro e Jorge Hernandez ritrovano ciò che restava negli ultimi giorni di luglio, ecco perché l’antropologo argentino ha paura che glieli portino via. Con Banzer presidente tutto era possibile.

Il primo agosto i resti del Che tornano all’Avana. Cinque milioni di persone sfilano davanti all’urna, fra loro anche Alejandro Inchauregui. Coda di due chilometri: 80 visitatori possono sfiorare la bara al ritmo di 80 ogni minuto. Alejandro si confonde con la gente senza far sapere chi é. Sei ore di attesa e tanti discorsi. < Chiedevo ad ogni persona: il Che cosa è stato per lei ? Le risposte si somigliavano. Ho cominciato a capire davvero chi era. Sono cresciuto nell’Argentina della dittatura militare. A Buenos Aires era proibito farsi crescere la barba. Un sospetto e sparivi. Come tutti ammiravo il Che in silenzio e da lontano, ma certe cose non mi piacevano: l’intransigenza e la violenza della sua rivoluzione armata, ma chi faceva la fila raccontava la storia di un ministro che misurava con parsimonia la benzina della sua auto di stato. Non voleva che la moglie andasse far spesa con la «macchina di tutti». Uomo generoso, dicevano; idealista che pensava solo agli altri. Ascoltavo passavo in rivista i politici i politici del mio paese. Prima la carriera e poi gli altri.. Allora sono stato contento di partecipare in qualche modo alla storia del Che: lo avevo ritrovato. L’ho accompagnato a Santa Clara, monumento e mausoleo. La folla era immensa, succede in America Latina. Ma era una folla commossa e questo non sempre succede.

18 aprile 2009
da unita.it
« Ultima modifica: Aprile 21, 2009, 11:23:51 am da Admin » Registrato
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