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Autore Discussione: Luigi ZINGALES. -  (Letto 50841 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:28:10 pm »

Banche e salvataggi, Zingales: “Far pagare tanti soldi a tutti: amministratori, revisori, sindaci, dirigenti e controllori”

L'economista della University of Chicago Booth School of Business commenta a ilfattoquotidiano.it la versione italiana del nuovo bail-in: "Finché a pagare è il contribuente, non ci sono incentivi per far causa alle attività di vigilanza. Con il nuovo meccanismo ci saranno più incentivi a promuovere delle class action anche nei confronti di Banca d’Italia e Consob"


Di Paolo Fior | 28 novembre 2015

Cresce la preoccupazione in vista dell’introduzione del bail-in anche in virtù del recente salvataggio di Banca delle Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti che ha determinato il completo azzeramento del capitale degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate. Oltre 1,2 miliardi di euro andati in fumo e migliaia di correntisti furibondi perché i loro risparmi sono stati cancellati da un giorno con l’altro con un semplice tratto di penna. Con l’introduzione del bail-in ai risparmiatori non verranno date più tutele, anzi: le raccomandazioni sulla trasparenza delle procedure e sulle garanzie di equo trattamento non sono state recepite dall’Italia. Come conseguenza, cresce la sfiducia nei confronti delle banche e aumenta il rischio di una corsa agli sportelli, mentre i costi della raccolta per le banche minori potrebbero salire vertiginosamente. Per capire quali problemi solleva il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie e quali correttivi sarebbe opportuno introdurre abbiamo interpellato Luigi Zingales, Robert C. McCormack professor of Entrepreneurship and Finance alla University of Chicago Booth School of Business.

Professore, con il bail-in si vuole evitare che a pagare le crisi bancarie siano i contribuenti, ma i problemi che si aprono rischiano di essere ben maggiori…
L’idea di non trasferire sulla collettività i costi dei salvataggi è sacrosanta. Con il bail-in si trasferisce il rischio delle insolvenze agli investitori e ai correntisti e si incentiva dunque il regolatore a essere severo: basta guardare l’attivismo della Banca d’Italia in questi ultimi sei mesi, su spinta anche della Bce. Sotto questo profilo si potrebbe quindi dire che a livello complessivo il rischio non solo si trasferisce, ma tende anche a ridursi grazie alla maggior efficienza del sistema. Tuttavia c’è anche un altro aspetto, ed è l’aumento del rischio sistemico di corse agli sportelli quando i soldi dei depositanti sono a rischio. Negli Stati Uniti dopo la crisi di Lehman Brothers si è verificata una corsa agli sportelli nel settore del mercato monetario, fermata solo da una garanzia statale.

A suo giudizio l’effetto netto che si avrà con l’introduzione del bail-in tenderà a essere più positivo o negativo?
Difficile a dirsi. Il problema sistemico si risolve con l’intervento della banca centrale che in caso di crisi di liquidità deve garantire interventi massicci a sostegno delle banche. E questo dovrebbe essere pacifico in caso di crisi generale. Ma in una crisi su base regionale, localizzata ad esempio in Italia, la Bce interverrebbe in modo deciso? La scorsa estate con la crisi di liquidità in Grecia abbiamo assistito a interventi a singhiozzo. Dunque, questa sicurezza manca.

Una fonte di preoccupazione è che il meccanismo del bail-in possa determinare una spinta al consolidamento del settore bancario, facendo sparire le realtà più vicine al territorio e alle piccole imprese, aggravando in questo modo il problema del finanziamento delle attività produttive…
E’ vero che le banche popolari e cooperative hanno una funzione importante per le piccole imprese e per il territorio, ma è anche vero che si sono spesso creati circoli viziosi che non promuovono innovazione e imprenditorialità. I finanziamenti vanno sempre alle stesse imprese e la difesa del territorio, che in sé sarebbe giusta, viene sempre più spesso utilizzata per proteggere interessi corporativi, politici e talvolta anche per coprire i manigoldi. Un consolidamento del settore sarà probabilmente inevitabile, ma occorre una politica antitrust seria, volta a ridurre i rischi per il credito derivanti da eccessive concentrazioni e molta, molta prudenza nel promuovere le fusioni bancarie. Le fusioni piacciono molto alle banche centrali, ma non sempre sono positive.

Con il bail-in però i risparmiatori si ritrovano in portafoglio titoli che hanno improvvisamente assunto un altro livello di rischio. Non sarebbe stato meglio prevedere un maggiore gradualismo?
Il gradualismo comporta grossi problemi e distorsioni per il mercato. Applicare il bail-in ai soli titoli emessi a partire da gennaio 2016 avrebbe comportato una concentrazione delle emissioni in quest’ultima parte dell’anno, creando non solo distorsioni ma anche problemi di equità tra possessori di identiche categorie di titoli. Un’obbligazione bancaria emessa negli anni scorsi aveva ed ha lo stesso profilo di rischio dell’obbligazione bancaria che rientra nel meccanismo del bail-in, nel senso che non era e non è un’obbligazione garantita. Questi strumenti sono stati invece collocati come “sicuri”, come se avessero una garanzia implicita, e il rischio non è stato prezzato. Il problema qui è quello di chi li ha collocati in quel modo e, soprattutto, di chi glielo ha fatto fare impunemente. Mi riferisco ovviamente alle autorità di vigilanza.

Una crisi bancaria che si trascina per anni fino ad arrivare alle estreme conseguenze è in realtà un fallimento dell’attività di vigilanza. Perché è così difficile chiedere risarcimenti alle autorità di vigilanza quando sbagliano?
L’attività di vigilanza ha dimostrato molte carenze, basti vedere i nodi che sono venuti al pettine quando la vigilanza delle maggiori banche è stata trasferita alla Bce. Finché a pagare è il contribuente, non ci sono incentivi per far causa alle attività di vigilanza. Con il nuovo meccanismo di bail-in ci saranno, molto più che in passato, gli incentivi a promuovere delle class action anche nei confronti della Banca d’Italia e della Consob. E questa possibilità costringerà le autorità a essere più severe e più attente.

Ancora una volta però i risparmiatori si ritrovano a pagare, mentre chi ha violato le regole e commesso reati resta impunito. Non sarebbe il caso di aumentare le sanzioni per i reati finanziari e accorciare anche i tempi della giustizia
Sono d’accordo, soprattutto sul fatto di inasprire sanzioni e risarcimenti più che le pene. Far pagare tanti soldi, soldi veri, a tutti: amministratori, revisori, sindaci, dirigenti, controllori. Solo così si può migliorare il sistema e mantenere la fiducia dei risparmiatori. Sono convinto che se c’è la volontà politica si può fare in tempi brevi.

di Paolo Fior | 28 novembre 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/28/banche-e-salvataggi-zingales-far-pagare-tanti-soldi-a-tutti-amministratori-revisori-sindaci-dirigenti-e-controllori/2260219/
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 25, 2016, 09:33:46 am »

«Uber Act»: come liberare il Paese dalle piccole caste

Di Luigi Zingales24 aprile 2016

La battaglia per la liberalizzazione del mercato dei taxi non mi aveva mai entusiasmato. Non perché questa liberalizzazione non fosse sacrosanta, ma perché non l'avevo mai ritenuta una priorità. Con tutti gli oligopoli presenti nel nostro Paese, quello dei taxisti non mi sembrava il più dannoso. Tanto più che Stati Uniti e Gran Bretagna, economie molto più dinamiche della nostra, soffrivano dello stesso problema.

L'arrivo sul mercato di Uber, la società che connette tramite smartphone la domanda e l'offerta di servizi di trasporto, non aveva cambiato radicalmente la mia opinione. Da consumatore ne ero entusiasta. Vivendo in un quartiere periferico di Chicago, faticavo a trovare taxi e li pagavo cari. Adesso in 5 minuti al massimo un Uber è sotto casa, con un'auto più pulita, dei guidatori più gentili, e una tariffa il 40% più bassa. Ciononostante continuavo a vederlo come un gioco a somma zero: io risparmiavo a spese dei taxisti, non esattamente il tipo di redistribuzione che viene considerata socialmente desiderabile.

Dopo aver ascoltato David Plouffe, un tempo consulente politico di Obama e oggi evangelizzatore del messaggio di Uber, ho dovuto ricredermi. L'uso che della tecnologia fa Uber non solo espande il mercato dei trasporti (a vantaggio di tutti), ma trasforma il modo stesso di lavorare. Mi sono reso conto che anch' io ero involontariamente caduto vittima della propaganda dei difensori dell'esistente, a spese del progresso.

L'entrata di servizi come Uber (oggi ce ne sono molti) non è un gioco a somma zero. Riducendo il costo, Uber aumenta enormemente la dimensione del mercato dei trasporti a pagamento. E non lo fa necessariamente riducendo il compenso del guidatore, ma riducendo i tempi morti. L'inefficienza è data dal tempo che un taxista passa inattivo aspettando chiamate. Più questo tempo viene ridotto dalla tecnologia, più ci guadagnano sia il guidatore che il passeggero.

Questa espansione del mercato aumenta l'occupazione (nella sola Chicago ci sono 30mila guidatori Uber), a vantaggio di chi più stenta a trovare lavoro: i neri e le donne. Un terzo dei guidatori di Uber sono donne: una guidatrice si sente più protetta perché fa salire solo clienti che sono preventivamente identificati (devono registrare una carta di credito).

Ma questo è solo uno dei vantaggi. Negli Stati Uniti Uber sta già promuovendo Uber Pool, un servizio in cui i passaggi sono condivisi con altri clienti. Costa il 40% in meno di un normale Uber (e quindi poco più di un terzo di un normale taxi) e allunga di poco il tempo di percorrenza, grazie ad un algoritmo di ottimizzazione dei percorsi disegnato da Uber. Oltre al risparmio per i consumatori, rappresenta anche un risparmio per l'ambiente. Se ogni auto che entra a Milano o Roma avesse altri due passeggeri, ridurremmo di due terzi il traffico e l'inquinamento. Per non parlare degli spazi dedicati ai parcheggi. A Chicago, per la prima volta nella storia, il numero di parcheggi richiesti per un nuovo edificio è sceso, grazie alla riduzione del numero di automobili richieste dagli inquilini. Il fenomeno è così importante da impattare il mercato delle automobili.

In altri termini, la tecnologia permette non solo di produrre meglio ciò che veniva già prodotto (il servizio taxi), ma apre nuovi mercati e crea nuovi modi di produrre, impensabili prima. Dalla consegna di pasti a quella della spesa, sono nati moltissimi servizi ausiliari a Uber.

Tutto questo in Italia è bloccato. Uber è presente nel mercato delle limousine, ma non può operare in quello dei normali trasporti urbani, per proteggere il valore della licenza di pochi taxisti. È una metafora del sistema Italia. Per proteggere le rendite di pochi, si blocca l'innovazione e il progresso, non solo a danno dei più, ma anche a danno dei più deboli. Negli Stati Uniti Uber è considerato il miglior programma di welfare, il metodo più sicuro per emergere dalla povertà.

Il problema non riguarda solo il mercato dei taxi, ma anche quello degli alberghi (dove è entrata Airbnb), e quello del credito, dove stanno cercando di entrare i cosiddetti peer-to-peer lender, ovvero delle piattaforme che fanno incontrare la domanda e l'offerta di credito. Purtroppo quella stessa regolamentazione che è stata incapace di evitarci disastri come quello della Banca Popolare di Vicenza, è molto efficace a ostacolare ogni nuova iniziativa in questo senso. Il potere politico delle lobby sta bloccando la modernizzazione del Paese. Nel 21° secolo, rischiamo di confinare l'Italia alle tecnologie del Novecento.

Rivoluzionare questo status quo, dovrebbe essere la nuova priorità del governo Renzi. Per farlo non deve procedere a spizzichi e bocconi: richiederebbe troppo tempo e verrebbe logorato in battaglie con ogni singola lobby. Dovrebbe fare come fece Obama all'inizio della sua amministrazione: nominare un esperto di regolamentazione (come Cass Sunstein) e con un unico atto eliminare tutte le regole inutili e tutte quelle il cui unico scopo è proteggere una piccola casta. Visto che al nostro premier piacciono nomi immaginifici, gliene suggeriamo uno: Uber Act. Sicuramente piacerà anche alla cancelliera Merkel.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-04-24/liberare-paese-piccole-caste-140432.shtml?uuid=AClvHgED
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« Risposta #92 inserito:: Aprile 26, 2016, 09:09:01 am »

Salvare il capitalismo dai capitalisti
Manifesto capitalista


Nel 2012 esce in Italia "Manifesto Capitalista. Una rivoluzione liberale contro un'economia corrotta", saggio all'interno del quale Zingales affronta la crisi economica sotto la prospettiva della collettività, ponendo dunque l'accento su questioni come meritocrazia, clientelismo e degenerazione del libero mercato. Egli afferma sostanzialmente che chi aveva creduto che libertà e uguaglianza fossero raggiungibili grazie al libero mercato si sia ritrovato deluso e ancor più truffato da un capitalismo che ha causato un incubo di ingiustizia e povertà, dovuto in primis dalla mancanza di un sistema anti-trust adeguato e di un clientelismo diffuso. La soluzione non sta nella ricerca di un populismo che rifiuti i meccanismi economici perché altrimenti si rischierebbe di perdere ciò che rimane di quello che viene definito da Zingales come "il migliore dei sistemi possibili, che, pur con tutti i suoi difetti, offre sempre il maggior numero di opportunità al maggior numero di persone". La soluzione sta proprio nella difesa del libero mercato, purché sia ripulito dalle lobby, dai monopoli e dalla corruzione che ne hanno causato la sua degenerazione; bisogna premiare il merito, favorire la concorrenza, eliminare i privilegi e sostenere l'istruzione. In conclusione, dunque, il "Manifesto Capitalista" non si pone altro fine se non quello di proporre un attento programma per rifondare il capitalismo, per renderlo più giusto, più umano ed efficiente, tutti elementi che fanno ovviamente capo al libero mercato.
Europa o no

Luigi Zingales in un saggio dal titolo Europa o no uscito in aprile 2014 per l'editore Rizzoli, criticando fortemente l'attuale conduzione della Zona euro, ha auspicato che nel mondo politico e intellettuale italiano si consideri più seriamente l'opportunità o meno dell'adesione all'euro, affermando, tra l'altro, che l'Eurozona deve riformarsi nel volgere di 18-24 mesi, altrimenti, a suo giudizio, i costi di rimanere cominceranno a eccedere i benefici e l'uscita diventerà il male minore.[8]

Ciò non toglie che il professor Zingales rimane ancora ancorato all'idea che uscire dall'euro potrebbe portare a gravi conseguenze per l'Italia, quali il default, tant'è che egli stesso scrive nel suo libro: "Il messaggio più importante che vorrei trasmettere, però, è che [...] la nostra crisi attuale, in cui siamo da quasi vent'anni, non è colpa dell'euro né può essere risolta uscendo da esso. Anzi, la nostra crisi strutturale rischia di essere peggiorata da una nostra uscita dall'euro [...]. Il vero problema è che sono vent'anni che la produttività nel nostro paese non cresce. E se la nostra produttività non riprende a crescere, non possiamo competere in Europa e nel mondo, con o senza euro. Se la nostra produttività non riprende a crescere, non siamo in grado di sostenere il nostro debito pubblico né dentro né fuori dall'euro."

Riconoscimenti

Nel 2012 è stato inserito nella lista, redatta dalla rivista Foreign Policy, dei 100 pensatori più influenti al mondo, unico italiano presente oltre al Presidente della BCE Mario Draghi[9].

da - Wikipedia
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