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Autore Discussione: Mario LAVIA.  (Letto 7889 volte)
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« inserito:: Aprile 06, 2016, 11:38:18 pm »

Mario Lavia   @mariolavia
· 5 aprile 2016

Cosa c’è dietro le frasi di Cuperlo
Cuperlo che di solito è molto sensibile a non strappare la tela, pur nel suo stile compassato stavolta è stato particolarmente puntuto

Alla vigilia non c’era aria di tempesta ma invece ieri la sinistra pd ha scatenato un temporale primaverile che ha sorpreso per virulenza e per il suo protagonista, un Gianni Cuperlo forse mai così diretto contro il premier-segretario (Guarda il video). In una situazione politica nervosissima, nel giorno dello sbarco a Roma dei pubblici ministeri di Potenza per sentire la Boschi, con le opposizioni sul piede di guerra, la violenta polemica della sinistra in Direzione è stata la ciliegina sulla torta.

La “radicalità” dell’attacco di Cuperlo ha sorpreso tutti, mentre l’altro leader della minoranza, Roberto Speranza che ha usato toni ugualmente severi ma più dialoganti. Una divisione dei ruoli concordata? Probabilmente no. Era scontato che nella riunione di ieri la sinistra criticasse ma senza rompere, perché non è certamente questa la situazione politica ideale per forzare, davanti a una doppia scadenza elettorale – trivelle e amministrative – e in presenza di un violentissimo attacco al governo che vede muoversi in sintonia tutte le opposizioni. Anzi, semmai Speranza nei giorni scorsi è stato molto attento a non mischiarsi con la “Santa Alleanza” populista che muove lancia in resta contro Renzi (e infatti il segretario-presidente ieri ha pubblicamente apprezzato il nyet di Speranza a Di Maio che gli chiedeva di appoggiare la mozione di sfiducia prossima ventura): e però, una volta chiarito che non intende intrupparsi con i grillino-leghisti, l’ex capogruppo ha reclamato chiarezza, discussione, trasparenza su come si prendono le decisioni, per esempio sulla questione energetica che proprio nella sua Basilicata sta toccando un epicentro con i risvolti che sappiamo.

Insomma, ha riproposto un’annosa questione del metodo non disgiunta da quella del merito, con un occhio – anzi, tutti e due – “ai compagni che si riconoscono sempre meno in questo partito”: e però questo è un modo costruttivo di discutere. Mentre Cuperlo, di solito è molto sensibile a non strappare la tela, pur nel suo stile compassato stavolta è stato particolarmente puntuto. Non si conoscono i motivi più reconditi di questa asprezza – ammesso che vi siano – ma certo è che ha puntato a far male (“Non sei all’altezza, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo”) ponendo particolare enfasi sul referendum istituzionale dell’autunno: “Non è il tuo referendum, più lo personalizzi e più alimenti le ragioni del dissenso anche nel tuo campo”: parole forti, non spiegabili solo con la battaglia per una “libertà di coscienza” sulla riforma costituzionale che è richiesta veramente difficile per non dire impossibile accogliere, nel momento in cui il governo ne fa – come ha detto Renzi – “lo spartiacque” della stagione politica.

La “radicalità” dell’intervento di Cuperlo ha colpito anche uno che lo conosce bene come Paolo Gentiloni che ha messo i piedi nel piatto, alludendo al sentimento di alcuni che Renzi sia ancora considerato “un intruso”. La verità è che probabilmente Cuperlo teme quella che Vincenzo De Luca ha chiamato il rischio di una “pulizia etnica”, di una estromissione da ruoli politici e istituzionali, un’eventualità che l’esponente della sinistra non ha menzionato direttamente ma che deve essere all’origine delle sue preoccupazioni visto che ha parlato di “concentrazione del potere nelle mani di pochi” e del “rischio che si spezzi l’ultimo filo” che lo lega al Pd. E la domanda è sempre la stessa: è destinato a spezzarsi, questo filo? Non si prevede. Almeno fino alla prossima riunione.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/cosa-ce-dietro-le-frasi-di-cuperlo/
« Ultima modifica: Marzo 09, 2017, 11:54:20 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 17, 2017, 04:53:06 pm »

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Mario Lavia - @mariolavia
· 16 gennaio 2017

Sinistra italiana, neanche è nata e già è divisa. La lunga storia delle scissioni
Domani a Lecce con Pisapia i “dialoganti” dell’ex Sel

Ci ha pensato domenica Il Manifesto, con un lungo articolo di Daniela Preziosi, a gettare un fascio di luce sulla ennesima querelle a sinistra-sinistra. Querelle? Di più: diciamo che Sinistra Italiana, che nemmeno è formalmente nata, già si divide.

Il congresso fondativo infatti sarà a Rimini dal 17 al 19 febbraio, ad un anno e mezzo – addirittura – dalla prima iniziativa dei fuoriusciti del Pd che si incontravano con Sel, il 7 novembre 2015 al teatro Quirino di Roma: un tempo lunghissimo che evidentemente non ha sciolto ‘il’ nodo di fondo, quello del rapporto con il Pd.

Da quel 7 novembre 2015 moltissime cose sono successe e anche se l’impianto di fondo di SI non è cambiato (“Noi mettiamo a disposizione dei cittadini la possibilità di costruire un nuovo soggetto che non è di nessuno, che non ha un padrone. E’ una opportunità per quel popolo di sinistra che non ha più una casa”, ha detto Alfredo D’Attorre) pure la sottile linea di frattura gira sempre attorno allo stesso punto: col Pd ci si deve scontrare o ci si deve incontrare? Un classico del dibattito a sinistra.

A far esplodere la contraddizione in seno al partito è stata la scesa in campo di Giuliano Pisapia. Definito da qualcuno in casa Sel/SI (Giovanni Paglia) “un maggiordomo” del Pd, e invece artefice di un progetto interessante per altri: i quali hanno rotto gli indugi e scritto una lettera – sono in 16, fra cui il capogruppo Arturo Scotto – lamentando un brutto clima e reclamando che “sotto e oltre le differenze si riconosca un nucleo di verità e dignità”, che – tradotto – vuol dire pretendere un democratico spazio di parola.

Dietro il linguaggio felpato, i ’16’ pongono già il problema dei problemi: quello della democrazia interna, da sempre terreno di scontri interni nelle formazioni di sinistra. Oggi Stefano Fassina, uno dei ‘duri”, che si è “autosospeso” dal gruppo parlamentare di Sinistra italiana fino a che non ci sarà un chiarimento, ha detto a Repubblica.it che “il punto è che dobbiamo imparare a discutere al nostro interno in modo più rispettoso”. E in ogni caso, niente ruota di scorta, si sarebbe detto una volta: “Non siamo la compagnia low cost del Pd”.

E domani – informa ancora Preziosi – si terrà a Lecce una iniziativa proprio con Pisapia e alcuni dei ’16’, fra cui Dario Stefàno, da tanto tempi in rotta con la linea dura di Sel (Fratoianni, Fassina), il sindaco di Cagliari Massimo Zedda (idem), il vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio.

Da sempre le formazioni di ‘sinistra critica’ sbattono contro il muro del rapporto con il partito più grande della sinistra, ieri il Pci-Pds, oggi il Pd. Un giornalista attentissimo a queste dinamiche, anche dal punto di vista della ricostruzione storica, Ettore Maria Colombo, ha ricordato sul suo blog le tappe essenziali della scissione-mania che ci permettiamo di riportare in parte.

La sinistra cosiddetta ‘radicale’ – e già sarebbe meglio aggiungere ‘che tale fu’ – ha un’antica coazione a ripetere dalla quale non riesce proprio a discostarsi, neppur volendo. Una’storia’ e una ‘tradizione’ così radicata che ne ha causato una prima volta la morte – diciamo intorno al 2007/2008, quando Rifondazione comunista, fondata nel 1991/1992 per contrapporsi, da sinistra, allo scioglimento del Pci e alla sua trasformazione in Pds-Ds-Pd, si ruppe e diede vita a Sel di Vendola e Prc di Ferrero dall’altro (neppure insieme, nella fantomatica Sinistra Arcobaleno superarono il quorum a Politiche 2008 ed Europee 2009)  – e che sta per causarne, una seconda volta, la ‘ri-morte’ di quel che rimane di entrambe. Insomma, il rischio concreto è che, a sinistra del Pd, resti poco o nulla delle vestigia di un passato che fu, a metà degli anni Novanta, persino semi-glorioso. La Rifondazione di Garavini-Cossutta nel 1993/’94 prima e quella di Bertinotti-Cossutta nel 1996-’98 poi arrivarono a cifre elettorali ragguardevoli e condizionarono, per almeno tre volte, la nascita e poi la morte di governi di centrosinistra, cambiando di fatto la storia d’Italia: nel 1995-’96 dando, i Comunisti Unitari di Crucianelli, e negando, il Prc di Cossutta, la fiducia al governo Dini; nel 1996-’98 dando e poi negando, il Prc di Bertinotti e il Pdci di Cossutta, la fiducia al I governo Prodi e, il secondo, al I e al II governo D’Alema; nel 2007-2008 dando e poi negando, sempre il Prc di Bertinotti, la fiducia al II governo Prodi, che cadde ‘anche’ per colpa del Prc, pur se formalmente la crisi la aprì l’Udeur di Clemente Mastella. Poi, appunto, un lungo silenzio, quasi assordante, con Ferrero e Vendola che si litigarono le spoglie di una Rifondazione comunista ridotta in briciole (vinse Ferrero, congresso 2009 a Chianciano, Vendola, che di quella sconfitta ancora non si capacita, fondò Sinistra ecologia libertà con Verdi e Psi prima, poi da solo), il Pdci che si inabissava nel nulla, i Verdi pure. Infine, alle Politiche del 2013 – quelle ‘non perse’ ma neppure ‘vinte’ dal Pd di Bersani – la (finta, ingannevole, illusoria) rinascita: Sel, grazie alla coalizione Italia Bene comune, fatta con Pd e i centristi, rientrò in Parlamento dalla porta principale: gruppone alla Camera, Boldrini presidente, nuova attenzione dei media. Durò assai poco. Prima la scissione dei ‘miglioristi’ (nel senso di seguaci dell’ex enfant prodige di Bertinotti nel secondo Prc, Gennaro Migliore) che fondarono una piccola costola di area Pd e poi, nel Pd, entrarono, non pareggiati dai ‘nuovi innesti’ di fuoriusciti dal Pd (Fassina, D’Attorre, Galli, Mineo); poi la stagione dei sindaci ‘arancioni’ (Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Doria a Genova) che presto dilapidarono la ‘Nuova Speranza’ che si era accesa nel popolo della Sinistra.

Come si può vedere da questa ricostruzione dei fatti, ogni volta che subentri una questione politica strategica si finisce con una scissione. E’ una maledizione che colpisce le organizzazioni della sinistra, seppure in contesti diversissimi, da sempre.

E in questo bailamme – nel quale va ricordato anche il flop della “Coalizione Sociale” di Maurizio Landini, tentativo un po’ ingenuo di fare una “Cosa” politico-sociale presto svanita nel nulla mentre resiste la civatiana “Possibile” – non sarà semplice per la nascitura SI tenere insieme le due anime, quella ‘irriducibile’ e quella attenta a non rompere il filo con il Pd tramite una nuova formazione Pisapia-Boldrini (se la presidente della Camera a un certo punto vorrà essere di questa partita), il ‘Campo progressista” dell’ex sindaco di Milano: chi vivrà vedrà.

Da - http://www.unita.tv/focus/sinistra-italiana-neanche-e-nata-e-gia-e-divisa-la-lunga-storia-delle-scissioni/
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 17, 2017, 12:00:18 am »

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Mario Lavia - @mariolavia
· 14 febbraio 2017

Chi è e cosa vuole Andrea Orlando. Gli inconvenienti di una candidatura
Giustizia: Orlando, su pene alternative passi avanti   
La “terza via” del ministro della Giustizia è un fatto nuovo nella geografia dem

Il prudentissimo Andrea Orlando ieri ha messo la testa fuori dal guscio e questa è una novità nella geografia politica del Pd.

“Prudentissimo” vuole essere un complimento. E’ un riconoscere, nelle mosse e nelle parole del Guardasigilli, tic e suggestioni che vengono da lontano. Perché l’esame del sangue di Orlando mostra nitidissime tracce della vicenda dei comunisti italiani, o meglio, della tensione dei comunisti italiani a superare se stessi, a “cercare altrove” ma in un “altrove” che non sia troppo distante, e comunque stando bene attenti a non deviare da una linea evolutiva abbastanza coerente – da Togliatti a Berlinguer a Napolitano, per capirci.

La prudenza dei comunisti, il pedalare in pianura, quel tipico “passismo” politico – per insistere con la metafora ciclistica – è un po’ la cifra del Nostro. Il quale ha fatto la “carriera” classica del dirigente politico, Fgci, consigliere comunale, segretario del Pci della sua La Spezia, assessore, deputato, portavoce del Pd, ministro. Una trafila relativamente lenta ma determinata. Sempre fedele a una certa idea della sinistra, Orlando non è uno che ama “strappare” quel filo rosso che svolge da quando era poco più che un ragazzino (è del ’69, a vent’anni era segretario della Fgci di Spezia, una organizzazione non gigantesca ma sempre presente): solo l’adesione al Veltroni del Lingotto (come detto, divenne portavoce del Pd) rappresenta uno scarto rispetto alla tradizione, peraltro interpretata anch’essa più come evoluzione che come rottura della tradizione.

E’ istintivamente un uomo del “centro” del partito, e con i vari segretari ha sempre collaborato: perché l’antica lezione comunista – che i partiti si guidano dal centro – è stata da lui ben assimilata. Lo stiamo vedendo anche adesso. Anche ieri, nella Direzione del Pd, nella quale Orlando si è smarcato da Renzi pur senza abbracciare Bersani, tentando di costruire una “terza via” in grado, nell’immediato, di disinnescare la polemica Congresso presto-Congresso lento grazie alla abbastanza tradizionale via d’uscita della Conferenza programmatica al posto del Congresso.

L’equidistanza, magari non millimetrica, fra Renzi e Bersani è stata comunque coraggiosa perché fra le altre cose pone a lui il problema del consenso nella sua corrente, quella dei Giovani Turchi che finora ha diretto insieme a Matteo Orfini che com’è noto è vicino a Renzi. Di fatto, con l’uscita di ieri, Orlando ha inferto un colpo serissimo alla componente. Il che è una bella responsabilità per uno che non dispone di tantissime truppe, pur calamitando – come ha notato Lina Palmerini sul Sole 24Ore – “tutto un mondo ex Ds che vorrebbe riprendere le redini del Pd”.

Si candiderà, Orlando? “Ne parleremo”, ha detto ieri ai giornalisti. Non è escluso. Di sicuro, renderebbe il Congresso più interessante – oltre al fatto che una sua candidatura “centrista” renderebbe ancora più valide le ragioni di quel Congresso che lui vorrebbe più in là.

Ma la sensazione è che, malgrado lusinghe e apprezzamenti (innanzi tutto da persone del calibro di Giorgio Napolitano e Emanuele Macaluso), Orlando lavori per smussare gli angoli (“Così c’è il frontale”, ha detto a Repubblica) elevando se stesso a eventuale “salvatore della patria”, se ve ne saranno le condizioni. Mediatore, più che protagonista diretto. Infatti è contro la scissione: “Credo che la parola scissione abbia già prodotto grandi danni nella storia della sinistra”.

Come tutti gli uomini politici esperti, Orlando infatti è uno che ha pazienza. Non è un velocista ma un fondista. E – complicazione forse insormontabile – è il ministro della Giustizia, ruolo che oggettivamente renderebbe complicato battere i circoli del Pd di tutta Italia e soprattutto sottoporsi a un voto che, in qualche modo, potrebbe avere un nesso con il giudizio sul governo.

E però intanto la sua bandiera, il Guardasigilli l’ha piazzata. Una bandiera “centrista” negli schemi del partito, “neo-socialdemocratica” dal punto di vista ideologico. Il richiamo alla necessità di una Bad Godesberg – la grande svolta revisionista della Spd – è sintomatico di un certo stilema tardo-Pci: andare oltre ma rimanendo in un solco ben definito, in omaggio a un “continuismo” che non esclude svolte ma le colloca con naturalezza in un alveo politico-culturale già noto.

Di certo, la sfida “socialdemocratica” di Andrea Orlando è partita, e paradossalmente nel tempo in cui proprio la socialdemocrazia sembra finire nei bauli della storia. Ma in politica, si sa, tutto è possibile.

http://www.unita.tv/focus/chi-e-e-cosa-vuole-andrea-orlando-gli-inconvenienti-di-una-candidatura/
« Ultima modifica: Febbraio 17, 2017, 12:05:03 am da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 17, 2017, 12:06:00 am »

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Mario Lavia - @mariolavia
· 16 febbraio 2017

La prudente battaglia di Orlando per il dopodomani
E c’è da chiedersi se la sua sarebbe un’alternativa al renzismo o un’alternativa nel renzismo

Il prudentissimo Andrea Orlando ha messo la testa fuori dal guscio e questa è una novità nella geografia politica del Pd. “Prudentissimo” vuole essere un complimento. È un riconoscere, nelle mosse e nelle parole del Guardasigilli, tic e suggestioni che vengono da lontano. Perché l’esame del sangue di Orlando mostra nitidissime tracce della vicenda dei comunisti italiani, o meglio, della tensione dei comunisti italiani a superare se stessi, a “cercare altrove”, ma un “altrove “che non sia troppo distante, e comunque stando bene attenti a non deviare da una linea evolutiva abbastanza coerente – da Togliatti a Berlinguer a Napolitano, per capirci.

La prudenza dei comunisti, il pedalare in pianura, quel tipico “passismo” politico –per insistere con la metafora ciclistica –è un po’la cifra del Nostro. Il quale ha fatto la “carriera” classica del dirigente politico, Fgci, consigliere comunale, segretario del Pci della sua La Spezia, assessore, deputato, portavoce del Pd, ministro. Una trafila relativamente lenta ma determinata. Sempre fedele a una certa idea della sinistra, Orlando non è uno che ama “strappare “quel filo rosso che svolge da quando era poco più che un ragazzino (è del ’69, a vent’anni era segretario della Fgci di Spezia): solo l’adesione al Veltroni del Lingotto (come detto, divenne portavoce del Pd) rappresenta uno scarto rispetto alla tradizione. Se fosse nato prima, Orlando sarebbe stato un berlingueriano, e prima ancora un togliattiano.

Ragionatore, freddo, è istintivamente un uomo del “centro “del partito, e con i vari segretari ha sempre collaborato: perché l’antica lezione comunista – che i partiti si guidano dal centro – è stata da lui ben assimilata. Lo stiamo vedendo anche adesso. Da ultimo, lunedì, alla riunione della Direzione del Pd, nella quale Orlando si è smarcato da Renzi pur senza abbracciare Bersani, tentando di costruire una “terza via” in grado, nell’immediato, di disinnescare la polemica Congresso presto Congresso lento grazie alla abbastanza tradizionale via d’uscita della Conferenza programmatica al posto del Congresso.

Piano piano, l’idea “terzista” ha guadagnato il sì della sua componente e qualche adepto: Bettini, Zingaretti – insomma, i “renzisti non renziani” – un discreto bottino per uno che peraltro non dispone di tantissime truppe, pur calamitando – come ha scritto Lina Palmerini sul Sole 24Ore – tutto un mondo ex Ds che vorrebbe «riprendere le redini del Pd».

Il punto è esattamente questo. Esiste un pezzo importante del Pd di provenienza comunista che non ha del tutto elaborato il lutto della fine del Pci e che pertanto seguita a vivere il Pd come soggetto provvisorio, o al massimo come aggiornamento di quella storia. Il sospetto che uno come Massimo D’Alema, per fare il nome più significativo, viva il Pd in questo modo non è infondato: e infatti quel mondo, quella sensibilità, vedono ora in Orlando l’uomo giusto per chiudere la stagione “eccentrica “del renzismo. E il fatto che l’ex portavoce di Veltroni –lo ha notato perfidamente Orfini – possa essere il candidato appoggiato da D’Alema è una di quelle cose che la vita politica può riservare, malgrado la sua stranezza. Se ci fosse, la sua candidatura a segretario dunque potrebbe produrre l’effetto di neutralizzare la scissione, “trattenendo la sinistra bersaniana.

Ma c’è da chiedersi se la sua sarebbe un’alternativa al renzismo o un’alternativa nel renzismo: sinceramente, questo non è ancora chiaro. «Ne parleremo», ha detto ai giornalisti rispondendo alla milionesima domanda su una sua eventuale candidatura. È molto pressato, anche se nelle ultime ore l’ipotesi ha perso quota. Di sicuro, avrebbe reso il Congresso più avvincente e forse più incerto. Tuttavia la sensazione prevalente è che, malgrado lusinghe, apprezzamenti e pressioni, Orlando stia piuttosto lavorando per smussare gli angoli, senza scendere in campo. Un mediatore per definizione non si candida. E se resta fuori dalla pugna è anche perché c’è la non piccola complicazione che è il ministro della Giustizia, ruolo che oggettivamente renderebbe complicato battere i circoli del Pd per due mesi.

Con Renzi non rompe: «Io credo che Renzi abbia le energie per guidare questo passaggio e il partito. Io non ho mai detto che il tema sia Renzi. Farei male l’antirenziano avendo fatto il ministro nel suo governo. Ma dopo la sconfitta del referendum dobbiamo riposizionare il partito». Correggere, non svoltare. Però intanto la sua bandiera, il Guardasigilli l’ha piazzata. Una bandiera “centrista “negli schemi del partito, “neo -socialdemocratica “dal punto di vista ideologico. Il richiamo alla necessità di una Bad Godesberg –la grande svolta revisionista della Spd – è sintomatico di un certo stilema tardo Pci: andare oltre ma rimanendo in un solco ben definito, in omaggio a un “continuismo “che non esclude svolte ma le colloca con naturalezza in un alveo già noto. Di certo, la sfida “socialdemocratica” di Andrea Orlando è partita, e paradossalmente nel tempo in cui proprio la socialdemocrazia sembra finire nei bauli della storia. La sua è una battaglia non per domani, ma per dopodomani. Perché in politica, si sa, tutto è possibile.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-prudente-battaglia-di-orlando-per-il-dopodomani/
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 26, 2017, 12:17:35 pm »

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Mario Lavia   - @mariolavia
· 19 febbraio 2017

L’angoscia della minoranza, una scissione “triste”
   
Pier Luigi Bersani arriva alla Direzione del PD al Centro Congressi di via Alibert, Roma, 13 febbraio 2017. ANSA/ ANGELO CARCONI   

Speranza, Rossi e Emiliano: la scissione è colpa di Renzi

Ufficialmente, la scissione oggi non c’è. Sostanzialmente, c’è. Una giornata particolare, davvero, per la minoranza del Pd. In bilico fra voglia di recidere gli ormeggi e il realismo su una scelta che non si sa quante “truppe” porterà con sé.

La nota serale di Speranza, Emiliano e Rossi spazza via i dubbi. È rottura, addebitata tutta a Renzi. Ma per tutta la giornata è stato un susseguirsi di toni diversi, dalla “controrelazione” di Guglielmo Epifani – a nome di tutta la minoranza – all’intervento, molte ore dopo, di Emiliano – “Siamo a un passo dalla soluzione, ho fiducia in Renzi” – la minoranza del Pd ha parlato lingue diverse.

Il più duro è Bersani. E i suoi, Zoggia, Stumpo, Gotor. Anche Enrico Rossi, tra l’altro molto seccato per le voci su eventuali ripercussioni sulla sua giunta toscana. Mentre il governatore pugliese e Francesco Boccia hanno dato la sensazione di voler trattare sulla data, e insomma di trovare una giustificazione per restare nel partito.

La nota dei “tre del Vittoria” dissipa l’idea di una scissione fra gli scissionisti. I quali tuttavia ancora non annunciano chiaramente l’uscita dal Pd, aspettano ancora chissà quale segnale, un segnale che Renzi a questo punto non può (e non intende) dare.

Martedì infatti la Direzione sarà una riunione abbastanza rapida, per non dire formale: Orfini proporrà i nomi della commissione congressuale e stop. La macchina è partita. Per restare a bordo, servirebbe alla minoranza una capriola: come fare per tornare indietro? Ma soprattutto: come spiegare una scissione perché il Congresso durerà tre mesi e non cinque (come suggerito da Boccia)?

Può darsi che il dado non sia ancora tratto, ma stasera la scissione è praticamente una realtà. Se si limiterà ai bersaniani o coinvolgerà anche Emiliano lo capiremo fra qualche ora. E se raccoglierà forze importanti nella base e nei gruppi parlamentari lo si capirà nelle prossime settimane. Ma è una scissione “triste”, senza l’epica dei grandi fatti politici. A meno che non si torni indietro…

Da - http://www.unita.tv/focus/langoscia-della-minoranza-una-scissione-triste/
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 09, 2017, 11:55:31 am »

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Mario Lavia - @mariolavia
· 7 marzo 2017

Renzi, il premier deve essere il leader del partito. Orlando: no, separare i ruoli
L’ex leader riafferma la coincidenza di leadership e premiership, Orlando le separa


Il “nuovo” Renzi riprende il “vecchio” Renzi su un punto qualificante e addirittura preliminare a tutto il resto: il Pd conferma la sua vocazione maggioritaria, si candida a guidare il Paese e anzi candida il suo leader a palazzo Chigi. Sembra una cosa da poco. E invece, nell’Italia post 4 dicembre battuta dal vento proporzionalista, si tratta di idee controcorrente. E innovative, di fronte alla restaurazione del vecchio.

La presa di posizione di Renzi nella sua mozione congressuale è netta: “Analogamente a quanto accade in tutte le democrazie parlamentari, anche in quelle basate sui sistemi proporzionali, crediamo che la leadership che si propone per il governo del Paese debba essere la stessa che guida il partito”. Coincidenza fra leadership e premiership, come disegnata da Veltroni all’atto di nascita del Pd.

Così, l’ex premier ripropone il percorso che egli stesso seguì: conquista della premiership del partito con le primarie e conquista della premiership (con una manovra interna nel 2014, con le elezioni nel 2018).

Andrea Orlando e Michele Emiliano, nel momento stesso in cui escludono che il segretario del Pd venga indicato come leader di governo, vanno una direzione opposta.

Sulla mozione di Orlando si legge infatti: “È giunto il momento di riaffermare la distinzione tra partito e governo, che non è una questione organizzativa, è una scelta politica. Non solo per senso del limite. È una condizione per tornare a vincere, in un contesto politico e istituzionale mutato rispetto a quello bipolare e maggioritario in cui immaginammo le nostre regole. È il segno di aver colto la lezione della sconfitta del 4 dicembre: un partito nei fatti ‘assorbito’ nel governo non è stato in grado di coinvolgere la società e nemmeno di comunicare. Da tutto questo deriva la necessità di distinzione delle figure del candidato premier e del segretario del partito per testimoniare un modo di concepire la politica e un impegno nei confronti della nostra comunità. Il partito non è un comitato elettorale permanente”.

Peraltro sia il prima che il secondo hanno ormai aderito – non si quanto per convinzione, quanto per rassegnazione – all’ipotesi del ritorno al proporzionale, o meglio, all’idea della coalizione. Il recupero del cosiddetto “ulivismo” da parte loro allude alla necessità di formare un cartello, non importa quanto frazionato, in grado di essere competitivo per la vittoria finale, mandando poi al palazzo Chigi non necessariamente – anzi – il capo del partito più forte.

Di qui anche una profonda differenza fra Renzi e gli altri sul rapporto fra Pd e Mdp. Mentre per il primo si tratta di una rottura incomponibile e in ultima analisi quasi fisiologica, per i secondi è un accidente momentaneo in vista, se non di una ricomposizione organica, almeno di un’intesa forte di governo.

Insomma, per Renzi resta fermo il principio che deve animare la legge elettorale: garantire ai cittadini il potere di nominare non solo chi li rappresenta in Parlamento ma anche chi li governa. E’ un punto fondante dell’identità del partito nato nel 2008 che giustifica la costruzione di un partito fondato sul leader e sulle primarie che ne costituiscono la fonte di legittimazione (senza vocazione maggioritaria le primarie non hanno senso).

La novità semmai è nel superamento della leadership solitaria. Per la prima volta, a Otto e mezzo (la frase è passata inosservata perché l’attenzione di tutti era sul caso-Consip e il coinvolgimento di suo padre) Renzi ha parlato di “squadra”, una “squadra” di cui naturalmente egli si sente il “capitano”: e aver istituito un “ticket” con Maurizio Martina ne è certamente una spia.

D’altra parte, da molte parti Renzi viene invitato ad essere non più solo leader di un gruppo di sodali – il famoso Giglio magico e dintorni. Lo hanno fatto Beppe Sala e Sergio Chiamparino (renziano della prima ora, si badi) mentre anche una sostenitrice di Orlando come Anna Finocchiaro critica il ritorno al proporzionale e si augura “la ricostruzione di un soggetto politico, di un partito”, e da Areadem non contano le pressioni per una leadership che tenga conto della complessità del partito. Per esempio, Marina Sereni ha scritto due giorni fa che “l’esperienza di questi anni ha troppo spesso rimandato l’immagine di una forte leadership, fatto in sé positivo, poco disposta tuttavia all’ascolto”.

Ovvio che tutti questi appelli insistano in una situazione di debolezza dell’ex premier e che siano mosse da naturali e legittime istante di protagonismo.

Renzi lo sa e capisce che deve tenere conto di una situazione nella quale ha bisogno di altri: e nel frattempo – e forse proprio per questo – riafferma in un documento congressuale per il quale chiede i voti di iscritti e elettori la forza della leadership e la sua coincidenza con la premiership. Come a voler dire: terrò conto di tutti, ma il leader per il partito e per l’Italia resto io. E non c’è dubbio che una sua vittoria congressuale fermerebbe il vento proporzionalista che soffia sulla politica italiana, facendo ri-andare l’orologio dell’innovazione istituzionale.

Solo i fatti diranno se questa “novità nella continuità” sarà risultata vincente ma l’impressione – solo un’impressione – è che Matteo Renzi abbia ricominciato a dare le carte.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/renzi-aggiusta-la-strategia-la-squadra-dentro-la-vocazione-maggioritaria/
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 16, 2017, 05:27:20 pm »

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Mario Lavia - @mariolavia
· 12 marzo 2017

Lo squadrone della sinistra in questo lungo weekend
La svolta del Lingotto: il Pd si riconnette ai cento fiori d Veltroni

Si scherza. Ma non poi tanto. Perché si è capito – anche con una certa sorpresa – che il Pd “largo” non è più il Pd di Matteo Renzi e basta. Matteo Renzi ha scelto (per necessità? Per tardiva convinzione?) di virare: verso il partito-comunità – dizione di matrice cattolica – o se si vuole verso il partito plurale – dizione più laica. Solo giornalisti frettolosi possono scrivere che “non c’è la notizia” e non vedere che siamo entrati nel post-4 dicembre. È più preoccupante che non lo colga Michele Emiliano, che in questo nuovo quadro rischia di apparire come un solitario giustiziere della notte.

Ci si riavvicina dunque al Pd dei cento fiori di ispirazione veltroniana, meno caserma e più aperto alla società; ed è un gran risarcimento morale e politico per Walter Veltroni il teorizzare oggi quello che lui teorizzò dieci anni fa. (E sarebbe l’ora di chiamarlo, Veltroni, non a cariche burocratiche o onorarie, ma per chiedergli semplicemente di fare quello che lui vorrebbe e saprebbe fare. Esempio: perché non dargli carta bianca per costruire un nuovo rapporto con la cultura, con gli intellettuali che finalmente al Lingotto sono apparsi in carne e ossa – Magatti, Fabbrini, Vacca, Recalcati?).

Già, perché ci si è accorti che bisogna rifare i conti con l’egemonia, perché, come ha ammonito Panebianco e come sappiamo tutti per esperienza di vita, è proprio questo il terreno su cui stanno vincendo le due destre, grillini e sovranisti. E non basterà la piattaforma Bob e la Frattocchie 2.0 (così come non bastava la Frattocchie 1.0). Eppure il ritorno di una “questione degli intellettuali” chiamati non a suonare il piffero della rivoluzione ma a farsi carico della salvezza della democrazia è una buona notizia, specie se seguiranno i fatti.

Renzi dunque non è più il capo del Giglio magico ma si candida a leader di un partito complesso. Un partito che nel suo gruppo dirigente reale è già cambiato: Maurizio Martina ne è l’emblema. Incarna il renzismo dal volto umano – se si passa un po’ d’ironia – consapevole delle radici ma da quelle radici ormai lontano. Vengono avanti “esperti” come Tommaso Nannicini, il regista del Lingotto, o grandi figure “sociali” come Teresa Bellanova; viene fuori l’enorme popolarità di Paolo Gentiloni, la stima per Marco Minniti, l’energia di Matteo Richetti. E di tanti altri.

Ora, se – come insegnava Paolo Spriano – la storia di un partito è la storia dei suoi gruppi dirigenti, c’è da concluderne che il Lingotto 17 stata una po’ una svolta proprio perché c’è in campo una nuova tensione unitaria nel nuovo gruppo dirigente, che si innesta e non scalza il vecchio: quello che si sintetizza con la frase che si è passati dall’io al noi.

Si è spostato a sinistra, il Pd del Lingotto? Sì, ma è anche un’illusione ottica. Nel senso che il Pd del Lingotto di Veltroni era molto di sinistra, malgrado una certa vulgata gruppettara e radical chic dicesse il contrario: come se rifarsi a Palme e a Bobbio fosse un cedimento e non un inveramento dei grandi valori di progresso e del liberalismo democratico. Guarda alla sua sinistra, Renzi? E certo, dove dovrebbe guardare? È lì che si agita un pensiero, è lì che s lavora alle idee. Non certo da Casini e nemmeno da Alfano. Il Campo progressista di Giuliano Pisapia in questo senso è un laboratorio interessante, soprattutto perché trae linfa da concrete esperienze di governo (Milano, Cagliari, Bologna, il Lazio) e non per caratterizzarsi come una ridotta minoritaria e malmostosa, come purtroppo appare il partitino degli scissionisti e quello che resta di Sel.

Ascoltando Nicola Zingaretti e Andrea Orlando all’Eliseo di Roma non si percepivano francamente grandissime distanze da quello che contemporaneamente si stava dicendo a Torino. E non è solo per la mitezza di Orlando e per il suo ragionare serio e pacato: è che l’Eliseo e il Lingotto non sono due luoghi della politica alternativi, e neppure complementari. Possono benissimo andare insieme, una volta corretto quello che Renzi sta già correggendo.

C’è una sola vera differenza strategica fra Renzi e Orlando. Renzi non si rassegna alla logica proporzionale che soffia sull’Italia, Orlando sì. Per cui, il primo ragiona dentro la cornice della vocazione maggioritaria, l’altro è già nell’idea del cartello elettorale di sinistra. Ma i due convergono su un punto, che bisogna sempre più pensare a un campo largo, se si vuole arginare la rabbia che gonfia le vele delle due destre, il M5S e la destra sovranista, e riprendere il discorso delle grandi riforme, che in fondo sono l’unica ragione per cui la parola “sinistra” oggi ha un senso forte.

Da - http://www.unita.tv/focus/lo-squadrone-della-sinistra-in-questo-lungo-weekend/
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 22, 2017, 12:13:49 pm »

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Mario Lavia   - @mariolavia
· 22 marzo 2017

L’ultimo intellettuale-politico
Reichlin fu sempre alla ricerca del rinnovamento della sinistra


Il fascino che Alfredo Reichlin ha esercitato su generazioni di comunisti italiani stava nel suo complesso e sofferto ragionare. Un intellettuale, Reichlin, più che un politico d’azione – sebbene basti leggere la sua biografia per capire che fu anche dirigente di prima fila.

Ma insomma quello che voglio dire è che quando sentivi Reichlin ne uscivi immancabilmente diverso da come eri entrato. Fino all’ultimo, ragionò arrovellandosi su come restituire fascino e sostanza alla sinistra, quella sinistra di marca Pci che faceva tutt’uno con la sua vita.

Il comunismo italiano ha avuto in Reichlin un esempio alto e persino raro: di formazione togliattiana, di sostanza ingraiana, leale ma non aderente al berlinguerismo, e negli ultimi anni, cadute le certezze e i muri, sempre alla ricerca di qualcosa che, va detto, non trovò: non fu veltroniano pur attendendosene frutti positivi, non fu renziano pur intuendo che lì dentro c’era qualcosa di sensato.

Cos’era il Pd per un uomo come lui? Difficile dirlo. “E meno male che lo abbiamo fatto, il Pd”, ci disse il giorno dopo la sconfitta del Pd di Veltroni nel 2013. Per aggiungere subito dopo: “Avessi 40 anni lo farei io il PD!”. Voleva dire che l’operazione di fondo era giusta, un avanzamento nel solco della storia del riformismo italiano, ma che non era ancora, il Pd, un attore della Storia in senso gramsciano, capace cioè di rappresentare i bisogni delle classi subalterno in vista del governo dell’Italia.

Era, come dire, pessimista della ragione. Gli mancava la forza di un Togliatti, di un Ingrao, di un Berlinguer ma anche di un Lombardi, di un Moro, di un La Malfa. Inutile, era scomparso il suo mondo. Eppure fino alla fine scrisse, sulla sua Unità, che qualcosa si poteva e si doveva fare per sbarrare la strada ai mostri di questo tempo. Coltiviamo, immagino che avrà letto molto fino all’ultimo, che avrà cercato ancora.

Ecco l’ansia della ricerca, la contezza degli errori commessi, quel senso di inadeguatezza del presente e di provvisorietà della politica, il tutto unito a una forza intellettuale rara e, anche, a una arguzia tutta “romana”: questo e molto altro fu Alfredo Reichlin, grande direttore dell’Unità e ultimo esempio di una lunga storia che oggi è un po’ più lontana.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/lultimo-intellettuale-politico/
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 23, 2017, 10:58:00 am »

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Mario Lavia - @mariolavia
· 21 marzo 2017

La cruda analisi di McEwan e il possibile vento anti-Trump in Europa
Dopo l’Olanda, le speranza in Francia e in Germania: ed ecco che il vento può cambiare

Nel suo ultimo, bellissimo romanzo – “Nel guscio” – Ian McEwan scrive una mezza paginetta lucidissima, dolorosissima, sul nostro presente. “La libertà di parola non è più garantita. La democrazia liberale non è più l’ovvio porto di destinazione. Robot che rubano posti di lavoro. La libertà individuale in rotta di collisione con la sicurezza. Il socialismo è in disgrazia. Il capitalismo corrotto, rovinoso e non meno in disgrazia. Nessuna alternativa in vista (…)”.

“Abbiamo costruito un mondo – prosegue McEwan – troppo pericoloso e complesso per poterlo governare con il nostro temperamento attaccabrighe. Si fa sera in questa seconda Età della Ragione. Siamo stati magnifici, ma ormai è finita”.

Sembra – forse è – proprio così. La vittoria di Donald Trump nel più grande paese democratico del mondo segna un prima e un poi. Nella vecchia Europa si subiscono pericolosi contraccolpi della crisi della democrazia del benessere in atto dal 1945: e dunque populismo, sovranismo, xenofobia; e povertà crescente, insicurezza, terrorismo, tensioni di ogni tipo. “Il socialismo è in disgrazia”, dice McEwan: e questo in un certo senso era noto da tempo. Ma che “la democrazia liberale” non sia più “l’ovvio porto” della nostra civiltà europea, questo sì fa male anche solo a dirsi.

E’ dunque tutto finito? No, dice più avanti lo stesso protagonista del romanzo di McEwan: l’Europa e il suo benessere, l’informazione e la tecnologia, le medicine e la cultura ci sono ancora. Politicamente – ci chiediamo – non siamo forse all’alba della costruzione di argini alla Grande regressione di inizio millennio?

Sembra infatti di essere in bilico. “Loro” non sono ancora passati, ma non sono nemmeno sbaragliati. Trump, la Brexit, l’involuzione dell’Europa dell’Est: tutte cose enormi che sono lì, a far da corona al putinismo, a Erdogan, alla mostruosa innovazione cinese… Eppure.

Eppure in Olanda l’onda nera è stata fermata, anche se non è tutto rosa e fiori, come spieghiamo qui. Ha scritto Walter Veltroni: “Vivo entusiasmo ha destato il risultato delle elezioni olandesi. I populisti xenofobi di Wilders non hanno avuto il successo atteso. Sono cresciuti ancora, ma sembra esserci un invisibile tetto di cristallo che ne contiene l’espansione, almeno in un’Olanda in cui l’immigrazione cala e il Pil cresce. Ma il motivo di soddisfazione, pur rilevante, è davvero solo quello. Per il resto va registrata la vittoria di un partito di destra, non certo filo europeo, che ha, per contenere, i populisti, rafforzato oltremodo la sua linea critica verso l’Unione europea”.

E ora tocca alla Francia. Dopo secoli, la Francia torna ad essere il termometro europeo: è lì che si vedrà se la febbre è finalmente scesa. E lì che si deciderà se l’Europa è solo un’espressione geografica oppure un qualcosa di politicamente vitale.

Ieri sera sulla principale rete francese è andato in onda Le grand débat, lo scontro fra i cinque candidati più forti: François Fillon (repubblicano, ex gollista), Emmanuel Macron (indipendente, ex ministro socialista), Marine Le Pen (Front National), Benoit Hamon (socialista), Jean-Pierre Melenchon (estrema sinistra).

Un dibattito molto ricco che – stando alle impressioni dei più importanti organi d’informazione francesi – ha segnalato una buona performance di Macron (sempre premiato dai sondaggi), una prestazione abbastanza buona del chiacchierato Fillon, una prova non entusiasmante di Marine Le Pen, una prestazione così così di Hamon e una performance brillante sotto il punto di vista comunicativo di Melenchon.

Tutti i sondaggi ormai vedono al ballottaggio Macron e Le Pen, una sfida che assomiglia ad uno scontro di civiltà. Eccoli ieri sera faccia a faccia.

Peccato che la Rai non abbia trovato il modo di far vedere questo importante dibattito, o almeno una sua sintesi, al pubblico italiano. E nemmeno La7, sempre così lesta ad arrivare dove gli altri non arrivano. Ovviamente, neppure Sky in chiaro.

Peccato perché le elezioni francesi sono uno spartiacque per l’Europa: dal prossimo maggio francese può partire una prima reazione al vento trumpista.

E il voto di Parigi è in un certo senso molto significativo per l’Italia, giacché anche qui, come in Francia, la partita è fra un progetto modernizzatore di riforme (Macron) e la chiusura nazionalista e reazionaria (Le Pen). Insomma, il clivage francese somiglia, mutatis mutandis, a quello italiano. Anche da noi inoltre si assiste ad una seria difficoltà di una destra “repubblicana” ed europeista – che fine ha fatto il “montismo”, che pensa di fare Forza Italia? – e al declino della sinistra socialista classica (il partito di Mitterrand che non va al secondo turno è il segno di una crisi storica, non occasionale come quella del 2002 quando Lionel Jospin non passò il primo turno).

La sinistra, già. In difficoltà ovunque: ai minimi termini in Spagna, Olanda, Francia, Gran Bretagna, Grecia, laddove cioè si è intestardita a replicare se stessa, più o meno. In difficoltà ma tutt’altro che spacciata in Italia – governata da un Pd ancora forte, mentre alla sua sinistra c’è vita, sebbene confusa. In piena corsa in Germania, alla vigilia delle cruciale elezioni del 24 settembre, con Martin Schulz che ha rinnovato l’immagine un po’ polverosa di una Spd col fiatone dopo anni di Grossa coalizione con Angela Merkel. Quella che appare oggi è una Spd arci-europeista e modernizzante, non più il partitone rosso e operaio (che già comunque era molto avanti, quello di Brandt e Schmidt, che aveva già fatto il gran salto riformista con Schroeder), che punta a battere l’avversario del partito popolare europeo: una Spd rinvigorita da un candidato che, come vogliono prassi e logica, è stato subito eletto leader del partito.

In conclusione. Lo stop olandese; la possibile vittoria del socialismo liberale di Macron; la possibile vittoria di una Spd moderna; ecco che l’Europa può reagire spinta da una sinistra liberale e rinnovata, magari in concomitanza con le prime difficoltà del presidente americano. Ecco che il vento può di nuovo cambiare, almeno un po’. E smentire Ian McEwan.

Da - http://www.unita.tv/focus/la-cruda-analisi-di-mcewan-e-il-possibile-vento-anti-trump-in-europa/
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 22, 2017, 11:52:26 am »

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Mario Lavia  @mariolavia  · 20 maggio 2017

Il travaglismo malattia infantile del giornalismo

Emerge la sostanza reazionaria del direttore del Fatto quotidiano

Lo “scoop” gli ha dato alla testa. Il Fatto sta diventando preda di un misto di parossismo, mania di persecuzione, fanatismo, arroganza e presunzione che non è esattamente un cocktail degno di serio strumento d’informazione. Ed è un peccato. Perché tra l’altro questa bevanda malefica conduce ad una regressione all’infanzia, al piagnisteo, al considerarsi vittime dei bambini più grandi. E così un giornale di battaglia sta diventando un distillato di nevrastenia. Un manualetto di liste di proscrizione, di fotografie dei “cattivi”, di propaganda anche un pochino volgarotta e guardona. Peccato – ancora una volta- perché non gli mancano giornalisti colti, intelligenti, purtroppo sovrastati dai famosi “segugi”, quelli degli “scoop”.

E’ un peccato, perché qui pensiamo che il giornalismo di battaglia, quello che non si riduce a fare gli scherzetti telefonici e le pernacchie, è un bel giornalismo. E che il giornalismo deve “prendere parte” in nome di quelli che si ritengono gli interessi dei cittadini e del Paese. Pensiamo che la dialettica, e la polemica, fra giornali e giornalisti sia un un elemento di vivacità intellettuale e di democrazia.

Ma qui più che di vivacità si tratta di sputtanamento. All’analisi è stato sostituito lo sberleffo. Parafrasando Lenin, l’estremismo di Travaglio è la malattia infantile del giornalismo.

Il problema è che il direttore e i suoi colleghi (che in questi giorni sono tutti su di giri, come punti dalla tarantola travagliesca che inocula evidentemente il liquido dell’arroganza) stanno dimostrando come mai prima d’ora la sostanza reazionaria del loro pensiero.

Travaglio è l’ultimo rampollo di una ideologia paurosamente antimoderna, autoritaria, antilibertaria. Nel suo mondo non c’è spazio per la pluralità delle idee, non c’è l’aria della libertà. E’ una cultura che promana dalla peggiore interpretazione del giacobinismo che intimamamente esclude il gioco fra fazioni diverse, il pluralismo e la tolleranza. C’erano solo loro, i giacobini, in nome e per contro del Popolo. Tutto si poteva fare, con quel mandato popolare (presunto). Sta qui la radice del totalitarismo contemporaneo.

Non c’è democrazia, nel cielo del Fatto. Solo sospetti, inquisizione, denigrazioni, complotti. “Tutti possono essere intercettati”, ha detto Travaglio in un dibattito televisivo dov’ero presente. Come nella Germania Est de Le vite degli altri, dove lo spione della famigerata Stasi ascoltava tutti. E in effetti il direttore del Fatto non avrebbe sfigurato negli anni bui del Terrore staliniano, “quadro” della Gpu, pronto a mettere in croce non i dissidenti ma quelli che – forse! – erano amici o parenti di possibili dissidenti… Lo Stato di Travaglio – e del suo faro morale Piercamillo Davigo – è lo Stato dell’ordine, della disciplina e dei codici. Non c’è speranza, non c’è salvezza. Una Repubblica Giudiziaria inquietante, uno Stato etico dei Gran Sacerdoti della morale di regime.

Nel travaglismo c’è dunque molto di culturale – giacobinismo, Restaurazione, stalinismo – e qualcosa di religioso – la Missione mistica di ripulire il mondo che egli si è autoassegnato e che alimenta a dismisura la sua vis polemica. E c’è – legittimamente – qualcosa di più prosaico, vendere copie, vendere libri… La Chiesa ha bisogno di carburante, no?

Sotto quest’ultimo aspetto Travaglio è stato bravo. Il Fatto è un giornale con buoni guadagni, dicono loro; il sito (diretto dal “rivale” Peter Gomez – un ben diverso approccio alla realtà, un altro spessore) va benissimo; pubblicazioni, libri, spettacoli, corsi; è un ottimo network con addentellati con la rete di Cairo (una bella rete, sia chiaro) e qualche influenza sui alcuni giornalisti: tutto bene, tutto lecito. Non è chiarissimo se gli riuscirà la “connection” politico-culturale con il M5S: l’impressione è che Travaglio non abbia voglia di imbarcarsi direttamente in politica, o forse è Grillo che non lo vuole fra i piedi, non sapremmo dire.

Sul grande “scoop” di Marco Lillo (non si capisce perché egli sia così eccitato in questi giorni, consiglieremmo maggiore aplomb anche se si comprende lo stress di vendere il libro: si è portato le copie persino in sala stampa al Foro Italico per gli Internazionali di tennis, su…) diciamo qui poche cose.

Di per sé non è un attacco alla democrazia: non è piazza Fontana o la P2. E’ piuttosto un attacco politico, come ci siamo permessi di dire davanti a Travaglio, e lui si è offeso. Un attacco politico a base di brogliacci, mezze rivelazioni, ma non è questo il punto. I giornalisti pubblicano quello che ritengono giusto pubblicare; il problema vero è che la magistratura è diventata un colabrodo, nel senso che pezzi di magistratura passano a giornali amici quello che vogliono in un circuito interessato e velenoso: politico, appunto.

Difficile (impossibile?) trovare rimedi. E’ possibile che la Storia dia ragione a Travaglio quando dice che nell’era di Internet come si fa a bloccare il flusso delle notizie. In attesa del verdetto finale, però, la legge andrebbe applicata. Soprattutto, ripetiamo, da chi amministra la legge, la magistratura.

Intanto i giorni dello “scoop” si vanno esaurendo – la gente in fondo ha altro da fare e la politica pure – e trascolorano in un mezzo disastro per i nostri eroi.

L‘inchiesta Consip – boh – vedremo come va a finire ma non sembra che siamo in presenza dell’Affaire Dreyfus che mutò il volto della Francia. I magistrati amici del Fatto sono oggetto di un’inchiesta. Il Csm è preoccupato. E dal punto di vista dei giornali, l’isolamento di Travaglio è evidente: e non perché ci sia il regime ma perché, ancora una volta, le grida manzoniane del direttore non sembrano supportate dalla realtà dei fatti. Coma sempre, c’è sempre qualcosa che non quadra, nelle sue campagne.

Qualche esempio al volo. Il caso di Vasco Errani. Il Fatto vi dedica pagine e pagine e nel novembre 2013 arriva addirittura a scrivere “10 buoni motivi per dimettersi”. Lui si dimette. Alla fine, Errani è assolto.

Ilaria Capua: Il Fatto nel 2014 intitola “Parlamento, commissioni a delinquere: 1 poltrona su 10 a condannati e indagati” e “Insegnanti, le oziosità di Ilaria Capua e i vecchi ritornelli”. Lei si dimette. Risultato finale: archiviata.

Raffaella Paita, siamo al 2015 ed ecco che il giornale di Travaglio scrive: “Regionali 2015, il sistema Paita delle erogazioni liberali che piace alle aziende”, oppure “Renzi e Bagnasco resteranno invischiati nella vicenda Paita?”. Lei perde le elezioni regionali in Liguria, anche a causa di questa vicenda. Risultato: assolta.

Pierluigi Boschi, il padre dell’ex ministra per le riforme sembra al Fatto proprietario di Banca Etruria, tanto da titolare: “Banca Etruria, il tesoro di Pierluigi Boschi che rischia di essere pignorato”. Dopo articoli e articoli diffamatori arrivano anche a scrivere: “Pierluigi Boschi, il socio legato alla ‘ndrangheta e le accuse (archiviate) di turbativa d’asta ed estorsione”. Risultato: archiviato.

Federica Guidi, l’ex ministra viene intercettata e tutto viene pubblicato sul quotidiano. Titolo: “Federica Guidi, storia dell’emendamento a favore di Tempa Rossa” e poi Governo Renzi, tutti i conflitti di interessi del neo-ministro”, nel 2016 “Federica Guidi, un altro esempio di politica interessata solo a se stessa”. Risultato: archiviata.

Beppe Sala: a dicembre 2016 “Giuseppe Sala indagato, i fatti erano noti. Perché candidarlo?”. Addirittura a gennaio si lamentano con Repubblica e Corriere che avrebbero messo la notizia in un “boxino” invece che in prima pagina. Lui si autosospende. Risultato: archiviato.

Per non parlare di Vincenzo De Luca, Stefano Graziano, Federico Pizzarotti e tanti altri, tutti archiviati e/o assolti. E la notizia dell’assoluzione di Renato Soru nascosta a pagina 20, dalle parti dei programmi televisivi.

Diciamo che sono tutti infortuni del mestiere. Nulla di eversivo. Finora, almeno.

Da - http://www.unita.tv/focus/il-travaglismo-malattia-infantile-del-giornalismo/
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 17, 2017, 11:27:49 pm »

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Mario Lavia @mariolavia  · 16 giugno 2017

M5S nuova Dc? Il colpo di sole di Padellaro
I grillini esprimono molte pulsioni della classica destra italiana

Poiché Antonio Padellaro non solo è un grande giornalista ma un grande giornalista sulla scena dai tempi della Prima Repubblica – era cronista politico del Corriere della Sera – fa particolarmente impressione leggere su Il Dubbio la sua tesi secondo la quale “I MS non sono di destra, semmai più simili alla Dc”.

L’analisi politologica dell’ex direttore del Fatto è che “per vocazione tendono a occupare uno spazio che durante la Prima Repubblica fu occupato dalla Dc e dal ’94 da Forza Italia”.

Il punto, al di là delle apparenze di tipo geometrico, sta tutto qui: mentre il grillismo si nutre di sottocultura antiparlamentare alimentata dalla protesta (il populismo 2.0), dalla artefazione della realtà tramite strumenti vecchi e soprattutto nuovi (il web, dal giustizialismo, dalla a-democraticità della vita interna, dal rifiuto del dissenso, mentre la Dc espresse una cultura imperniata sulla capacità di mediare fra spinte diverse in vista di soluzioni di governo. L’abbiamo detta in due parole – ci si perdoni – ma la differenza è abissale.

Pensiamo che il Movimento di Grillo e Di Maio abbia chiare connotazioni di destra. Che sia attraversato da pulsioni (abbiamo citato l’antiparlamentarismo e più in generale il disprezzo verso la democrazia dei partiti democratici) che rientrano a pieno titolo nel bagaglio della storia della destra italiana. C’è anche un tratto violento – nel linguaggio, negli atteggiamenti dei leader, nella volgarità dei suoi aderenti – che non ricorda nulla di bello.

E certo non basta dirsi né di destra né di sinistra per porsi automaticamente al centro: altrimenti anche certi gruppi fascisti sarebbero centristi. E soprattutto essere di centro non significa scegliere una volta una cosa una volta l’altra, una volta con gli immigrati (Raggi 1) una volta contro gli immigrati (Raggi 2): quello è, nella migliore delle ipotesi, tatticismo. Nel peggiore (come nel caso citato), si chiama opportunismo.

Lo stesso Padellaro se ne rende conto e infatti a un certo punto dice una cosa diversa da quella detta poco prima: “Il M5S sta usando l’immigrazione come un taxi su cui salire per arrivare un po’ più avanti nei sondaggi. Quando non funzionerà più scenderanno”.

Ecco, appunto. Scusate la volgarità, ma che minchia c’entra la Dc con tutto questo?

Da - http://www.unita.tv/opinioni/m5s-nuova-dc-grillo-fatto-colpo-di-sole-di-padellar/
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 17, 2017, 11:29:05 pm »

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Mario Lavia @mariolavia  · 9 giugno 2017

Caro Serra, la situazione è chiara: ecco cosa succederà
Si voterà nel 2018 col Consultellum: e forse non è un male…

 
Con l’abituale autoironia, Michele Serra scrive nella sua Amaca: “Dopo 40 anni che scrivo sui giornali, non sono capace di commentare la giornata di ieri”. Chi ne fosse capace – prosegue – può “spedire il suo articolo alla giuria selezionatrice del Pulitzer”. Fantastico.

Noi siamo certi che Michele Serra, al di là del paradosso, abbia ben compreso cosa sia successo alla Camera e cosa succederà adesso. Ma siccome lo prendiamo sul serio, spediamo questo articolo alla giuria del premio Pulitzer, hai visto mai…

E dunque, ecco cinque cose che crediamo di aver capito.

1. Il patto sul tedeschelum è saltato. Lasciamo qui perdere di chi sia la colpa (per chi scrive, di un Grillo impaurito dalla sua stessa svolta politicista). Ma alla fin fine, nessuno si sta strappando i capelli. Era una legge che in fondo non eccitava nessuno (tranne Berlusconi). Che grazie alla demagogia pecoreccia di social e talk dava l’idea di un inciucione. Che non avrebbe dato un governo coeso al Paese. Si è infine chiarito che il M5s è un tantinello ondivago, e che non esiste un’intesa Pd-Berlusconi.

2. Probabile che ci risparmieremo mesi di manfrine e finte trattative su una nuova legge elettorale. Rimarrà agli atti che l’unico partito che vuole un sistema che dia ragionevolmente un governo (cioè il maggioritario) è il Pd: ma è roba per la prossima legislatura, ormai. Infatti in primavera si voterà con il Consultellum – che è un proporzionale – che di positivo ha il fatto di fissare esplicitamente il traguardo del 40% per avere la maggioranza assoluta. Un obiettivo difficilissimo per tutti ma per il Pd non impossibile.

3. Il Pd si sta voltando alla sua sinistra, non per rifare una coalizione organica ma un’alleanza elettorale. L’interlocutore di Renzi è Pisapia, che è una persona molto seria e pensosa degli interessi della sinistra e dell’Italia (le due cose vanno insieme, come ci hanno insegnato decenni fa). La sinistra deve dunque scegliere se allearsi con Renzi o battersi contro di lui: Pisapia sembra sulla prima posizione, Massimo D’Alema sulla seconda.

4. Parallelamente sarebbe utile se i famosi moderati decidessero cosa fare da grandi. Dopo tanti fallimenti – da Casini a Fini, da Monti a Alfano – sarebbe l’occasione per fare punto e a capo e puntare a darsi una nuova fisionomia autonoma in grado di superare lo zerovirgolaqualcosa cui sono abituati.

5. C’è tempo per il Pd di organizzarsi meglio, sul territorio, sul web, ovunque. Renzi si può liberare dall’assillo delle elezioni presto, tanto si voterà nella primavera del 2018 (è chiaro che i parlamentari escogiteranno di tutto pur di non farsi mandare a casa). Un tempo prezioso per il governo Gentiloni di concludere la sua azione di governo riformista e di portare il Paese alle urne quando la legislatura sarà esaurita. Ci sono dunque diversi mesi per recuperare in pieno la famosa “vocazione maggioritaria”, recuperare un forte spirito di squadra e presentarsi come il partito delle riforme contro il partito dell’avventura o della conservazione.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/caro-serra-la-situazione-e-chiara-ecco-cosa-succedera/
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 17, 2017, 11:30:55 pm »

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Mario Lavia  -  @mariolavia
· 17 giugno 2017

Italia 2017: anatomia di un colpo di Stato
Scafarto, le indagini manomesse, i punti oscuri

“Nel marzo del 2017 in Italia venne perpetrato un colpo di Stato“: scriveranno così i libri di storia sui quali studieranno i nostri nipoti. Sarà un capitolo importante della recente storia italiana nel quale si racconterà di un tentativo di rovesciare il governo del Paese in quel momento presieduto da Matteo Renzi.

Mentre ne scriviamo oggi naturalmente non sappiamo i nomi dei burattinai del tentato golpe, e nemmeno ne conosciamo a fondo dettagli, personaggi, conseguenze.

Nulla al momento sappiamo dell’esito dell’inchiesta Consip, entro la quale il tentativo prese corpo. Non avendo accesso a fonti dirette né essendo abituati a svuotare i cestini dell’immondizia delle Procure, ci affidiamo alle cronache, quelle condotte da cronisti ad alto tasso di professionalità, quelli che non hanno bisogno di scooppettini per vendere qualche copia dell’house organ delle procure diretto da Travaglio giornale o un po’ di libri di Lillo in più.

A noi pare una vicenda piena di cose strane, ma questo non conta nulla: per fortuna indaga una delle migliori Procure d’Italia, quella di Roma, subentrata a degli inquirenti su cui sta indagando il Csm.

Però sappiamo per certo che nell’anno di grazia 2017 in Italia c’è qualcuno che ha lavorato scientemente per colpire il presidente del Consiglio, il governo, il suo partito. Un golpe non deve essere necessariamente armi in pugno, occupazione della televisione e dei posti chiave della Capitale. Si può fare anche manomettendo atti giudiziari.

Andiamo al nocciolo. Al caso-Scafarto. Una storia di ordinario depistaggio, intricata trama di veleni, gerarchie, sottomissioni, millantato credito.

Scrive Claudia Fusani sul suo blog: “A questi che sono i filoni storici s’è aggiunta negli ultimi mesi l’indagine su chi ha fatto le indagini: il nucleo del Noe dei carabinieri a cui a fine febbraio è stata tolta l’indagine. In questo ambito sono indagati il capitano Gianpaolo Scafarto (falso documentale e ideologico) e il suo capo numero 2, il colonnello Alessandro Sessa, questa volta per depistaggio. La chat del gruppo di Scafarto acquisita su Whatsapp e i riscontri con sottufficiali impegnati nelle indagini già sentiti dai pm romani, raccontano, secondo l’accusa, di un’inchiesta che a un certo punto avrebbe lasciato da parte i fatti per inseguire un obiettivo politico, e cioè inguaiare Renzi Sr. Con inevitabili conseguenze sul figlio, all’epoca ancora premier”.

Punire il padre per educare il figlio: pochi dubbi su questo. Renzi figlio, chiaramente più politicamente smaliziato di Tiziano, intuisce la trappola e si sfoga duramente col padre in una telefonata intercettata non si sa quanto legalmente e pubblicata illegalmente dal Fatto di Marco Travaglio e contenuta nell’ultima opera di Marco Lillo.

Il tentato colpo di Stato teso a mettere in crisi il governo Renzi tramite la fabbricazione di false prove ruota, come detto, intorno alla figura di Gianpaolo Scafarto, capitano del Noe, che è il braccio investigativo a disposizione della Procura napoletana dove il pm Henry John Woodcock dirige l’inchiesta Consip (poi passata a Roma per competenza territoriale).

E’ Scafarto, per esempio, che assembla i pezzetti di carta finiti nel cestino dell’imprenditore Alfredo Romeo (tuttora in carcere), quelli con la mitica scritta “T.R.”, il “pizzino” che “incastrerebbe” Tiziano Renzi. Una prima bufala.

E’ Scafarto che accredita la tesi che attribuisce a Romeo la famosa frase su Tiziano in realtà pronunciata da Italo Bocchino.

E’ Scafarto che accredita la bugia sul coinvolgimento dei servizi segreti. Come scrivono Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi su Repubblica, ”il carabiniere scelto Biancu e il brigadiere Locci lo avvisarono tempestivamente che il sospetto che le indagini del reparto sul conto dell’imprenditore napoletano Alfredo Romeo fossero monitorate da uomini dei servizi segreti non solo non aveva fondamento ma, per giunta, era smentito da una prova contraria”.

E’ Scafarto, soprattutto, ad affannarsi non a cercare le prove ma a falsificarle – come ha scritto Annalisa Chirico sul Foglio – “per avvalorare una tesi”. E la “tesi” era semplice, mettere nei guai Tiziano Renzi, fino ad arrestarlo: “Remooo, ascoltala subito (una certa intercettazione-ndr) questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano”, come emerge da una ormai leggendaria chat.

Ma è Scafarto a essere incastrato. “Gli accertamenti fin qui espletati – spiega la Procura di Roma al momento di togliere l’incarico al Noe – hanno evidenziato che le indagini del procedimento a carico dei Alfredo Romeo sono state oggetto di ripetute rivelazioni di notizie coperte da segreto”. Quando gli uomini di Pignatone si trovano davanti Scafarto, vedono un uomo che prima si avvale della facoltà di non rispondere ma poi un po’ nega, un po’ minimizza, un po’ chiama in causa Woodcock.

In effetti, Scafarto chiama in causa un sacco di gente, Woodcock innanzi tutto. Lo “scoop” è di Francesco Grignetti sulla Stampa.

Qui il pezzo di Fiorenza Sarzanini e Fulvio Fiano sul Corriere della Sera.

“Posso aver commesso errori ma non c’è stato dolo”, dice Scafarto ai magistrati romani. Certo, come no. La credibilità dell’uomo del Noe è ormai ridottissima. Ne scrive su Incammino Carmine Fotia.

E noi sul sito Unità.tv chiediamo chi ci sia dietro questo golpe da operetta. E intitoliamo il pezzo “Enough is enough”, ora basta. Speriamo.

Da - http://www.unita.tv/focus/consip-renzi-scafarto-travaglio-colpo-di-stato/
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 19, 2017, 05:35:11 pm »

Focus
Mario Lavia  @mariolavia  · 18 giugno 2017

I “duri” in campo contro Pisapia. Con la manina del lider Maximo
In campo l’anima avversa alla leadership dell’ex sindaco di Milano

La nuova coppia della sinistra italiana – Tomaso Montanari e Anna Falcone – ha promosso un’assemblea per chiamare a raccolta la parte più radicale della galassia a sinistra del Pd, quella, diciamo così, irriducibile ad ogni ipotesi di accordo con il partito di Renzi.

Al Brancaccio di Roma oggi Montanari ha tenuto un discorso che è piaciuto tantissimo a chi era presente. Un manifesto antirenziano in piena regola ma anche un altolà a chi pensa di collaborare con il Pd.

Di Montanari  – uomo molto intelligente, colto, affabulatore (mirabili le sue trasmissioni su Rai5 su Caravaggio) – offrì tempo fa un bel ritratto Marianna Rizzini sul Foglio, sostenendo che il presidente di Libertà e Giustizia (il cenacolo di Zagrebelsky-ndr) ha tutto “per piacere alla meglio gioventù del Pigneto (quartiere off di Roma e base dell’ avanguardia ‘anti’ che legge e cita gli articoli firmati dallo scrittore e giornalista Christian Raimo su Internazionale) e ce n’è abbastanza anche per tramutarsi in idolo della pancia indignata del web, tanto più che il Montanari prof. non governativo è ora anche molto ricercato come consulente culturale presso le nuove giunte grilline o di sinistra-sinistra”.

Politicamente l’indicazione di Montanari e Falcone è chiara: ripartire dal No al referendum del 4 dicembre (i due furono alfieri di quella battaglia): “Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione“, hanno scritto.

E’ dunque una iniziativa che punta a distinguere quest’area da quella di Giuliano Pisapia, che sarà a Piazza Santi Apostoli il 1 luglio con una sua manifestazione. Il discrimine “plastico” – al di là di differenze di analisi – sta esattamente nel No al referendum istituzionale: non a caso Pisapia (e gli viene sempre rimproverato) il 4 dicembre votò Sì.

Ma è evidente che il referendum a questo punto è poco più di un simbolo. Lo scontro vero è sul rapporto con Renzi.

Montanari e Falcone d’altronde sono chiari sul punto: “La leadership di Giuliano Pisapia (il sindaco dell’Expo e un uomo del Sì al referendum costituzionale) è il sigillo di questa ennesima versione del centrismo. E infatti Pisapia continua a predicare la possibilità/necessità di un’intesa col Pd renziano: che per la sinistra-sinistra invece “è indistinguibile da qualunque centro-destra liberista europeo”.

Ergo: il No al referendum significa anche un No alla leadership di Pisapia (se non addirittura al suo diritto di cittadinanza nell’area della sinistra a sinistra del Pd).

L’ex sindaco di Milano infatti è sospettato di “intelligenza col nemico”, fautore – come abbia visto nelle parole di Montanari e Falcone – di una “ennesima versione del centrismo”.

Sembra evidente che Pisapia non condivida (almeno non del tutto) questa analisi che sovrappone il Pd alla destra, con l’obbligata conclusione della primaria necessità di abbattere il leader riformista, giacché l’avvocato milanese ricorda sempre positivamente la collaborazione unitaria del Pd alla sua giunta milanese e non esclude chiude (anzi, lavora per questo) che Renzi sposti a sinistra la sua barra.

Sono due linee diverse, anzi confliggenti. Man mano che passano i giorni in quest’area le posizioni si vanno radicalizzando. E si assiste ad una crescente insofferenza, per esempio, di Sinistra Italiana verso Pisapia e una differenziazione in Mdp, dove la posizione di Massimo D’Alema pone come pregiudiziale la testa di Renzi mentre Pier Luigi Bersani appare pronto ad accettare la leadership di Pisapia.

Su Huffington post, Montanari si era espresso molto criticamente verso Mdp: “E’ diffusa la sensazione di una certa confusione tra mezzi e fini. Come se la principale preoccupazione dei pezzi di sinistra che provano ad unirsi fosse quella di garantire un futuro materiale ai loro apparati. Quasi che l’obiettivo primario sia cercare di andare in Parlamento: e non cercare di capire a cosa servirebbe andarci”.

Per questo il dilemma resta: o D’Alema o Pisapia.

D’Alema – non è un mistero – coltiva da tempo un rapporto speciale con Montanari con il quale si trova d’accordo con una valutazione di fondo: “Renzi non fa più parte della foto di famiglia del riformismo europeo”. Lo spinse per entrare nella giunta Raggi, lo convoca spesso nella prestigiosa sede della fondazione ItalianiEuropei, vede nello storico dell’arte un possibile leader. E anche Anna Falcone si è molto messa in mostra nella campagna anti-referendum, evidenziando, anche lei, una ottima preparazione: un ticket nuovo, affabile, radicale.

L’ex leader dei Ds dunque ha tutto l’interesse a una forte scesa in campo di un motivato gruppo anti-Pisapia. C’è la sua linea dietro l’iniziativa di domenica.

I due intellettuali, che peraltro giurano di non essere candidati a nulla (ma, si sa, esiste una forza delle cose…), dunque il 18 cominceranno a contarsi. Potrebbe uscirne l’ennesima versione di una sinistra minoritaria e identitaria, refrattaria alla prospettiva di governo, esaltata dai (relativi) successi di Mélenchon e Corbyn (dopo la delusione storica di Tsipras): e soprattutto pronta a combattere “derive centriste”. Quella di Renzi? No, quella di Pisapia.

Da - http://www.unita.tv/focus/tomaso-montanari-contro-pisapia-dalema-falcone-sinistra/
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 02, 2017, 05:13:13 pm »

Opinioni
Mario Lavia - @mariolavia
· 29 giugno 2017

Il Grande Congiurato vittima della Grande Congiura
Da Natta a Renzi, la lunga storia delle lotte dalemiane

Al Congresso del Pds del 2000 a Torino – quello dell’I Care di Veltroni – Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, alla fine del suo discorso disse una frase che grosso modo diceva così: “Cari compagni, quando mi accorgerò di non avere più il vostro sostegno, lascerò un minuto prima“. Una frase tanto più significativa in quanto egli lasciò per davvero palazzo Chigi qualche settimana dopo all’indomani di un cattivo risultato elettorale.

Ecco, 17 anni dopo, D’Alema non ha saputo rispettare questa promessa. Non se n’è andato “un minuto prima” ma molti minuti dopo. E’ da marzo infatti che dal partito socialista europeo gli avevano detto di lasciare la mitica Feps (l’associazione delle Fondazioni culturali dei partiti socialisti europei, fra le quali la sua Italianieuropei); e tuttavia lui ha resistito fino all’ultimo, persino proponendo una poco decorosa proroga fino all’autunno (ma che senso avrebbe avuto?) e beccandosi il più plateale dei “no” soprattutto dai rappresentanti italiani.

E però il Nostro l’ha presa molto male. Il problema, secondo D’Alema, sarebbe nel modo in cui è avvenuto un “cambio” che lui stesso si aspettava dopo 7 anni: “E’ stata un’operazione imposta dal partito, dall’esterno, e questa è una pesante violazione dell’indipendenza culturale della Feps”.

Tradotto: una congiura. Una parola magica nella biografia politica dalemiana.

Qualche osservatore di cose della sinistra italiana notò una volta che D’Alema eliminò, o concorse ad eliminare, tutti –  ma proprio tutti! – i capi.

Non solo i capi della sinistra. Il capolavoro tattico dalemiano resterà per sempre la Grandissima Congiura del contro Silvio Berlusconi ideata assieme a volponi come Buttiglione e Bossi davanti a una poco eroica scatola di sardine. Ma in fondo questo era il suo compito. Ma far fuori i leader della sinistra no, quella è un’altra storia.

Il primo fu Alessandro Natta, il segretario del Pci dopo Berlinguer, uomo di grande finezza intellettuale ma politicamente debole, il quale, dopo un serio malore, fu gentilmente persuaso dai giovani D’Alema e Occhetto (quella volta uniti nella lotta) a cedere il passo. Ad Achille Occhetto infatti toccò, e D’Alema ne fu il numero due: e tutti sanno come finì, quel “numero uno” che nel frattempo aveva liquidato il comunismo.

D’Alema segretario, dunque, bypassando il “popolo dei fax” che voleva Veltroni: e fu presto tostissima competition con Romano Prodi, e anche in questo caso sappiamo come finì. Non fu, banalmente, un colpo di mano del segretario dei Ds contro il Professore (altrimenti ci dà dello stupido come è capitato all’amico Marco Damilano) ma una sottile tela tutta politica ordita nei mesi di governo ulivista sempre nel nome del primato del Partito, dei Partiti (remember Gargonza) e nell’auspicio di una più forte guida in senso riformista (remember Clinton&Blair, due fugaci numi dell’universo dalemiano).

D’Alema non amò mai Rutelli né Fassino né “l’amalgama non riuscito” – il Pd veltroniano – tanto che contro Veltroni costruì una piccola macchina da guerra chiamata Red e infine piano piano ciao Veltroni. Di Bersani probabilmente il Nostro pensò che non c’era bisogno di particolari manovre, finché non apparve Renzi, il più odiato: cacciare Renzi divenne un’ossessione. Tutto ciò che fosse utile alla bisogna andava esperito, e dunque via alla scissione, dopo la violentissima campagna per il No al referendum del 4 dicembre.

E’ più forte di lui. Non è solo e tanto una questione di vendetta personale. E’ che siamo d’altronde nel pieno dei grandi romanzi politici, di cui le lotte interne costituiscono i capitoli più intriganti. E feroci. Quando la politica diventa davvero lo scontro corna contro corna, come i cervi.

Nel suo personale cahier des doléances, nel “diario intimo” dei suoi rancori, oggi Massimo D’Alema – ex enfant prodige, ex segretario, ex premier – annota l’ultima, a suo dire, Grande Congiura, l’estromissione dalla guida della Feps, ultima casamatta di un qualche pregio: a lui, il Grande Congiurato di almeno due decenni di vita della sinistra italiana, si attaglia in questa torrida estate l’antico motto di un grande vecchio del Pci che lo conosceva bene, Aldo Tortorella: “D’Alema? E’ rimasto vittima delle sue macchinazioni”.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/dalema-feps-prodi-veltroni-renzi-il-grande-congiurato-vittima-della-grande-congiura/
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