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Autore Discussione: Bruno Ugolini: Se il governo dà ai più deboli  (Letto 9087 volte)
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« inserito:: Giugno 16, 2007, 06:25:12 pm »

Se il governo dà ai più deboli

Bruno Ugolini


Un po’ di chiarezza, alla fine. Il fumo che in questi mesi ha aleggiato attorno ai propositi del governo, sembra essersi almeno parzialmente diradato.

Dopo tanti si dice e non si dice il governo ha cominciato a dipanare la matassa aggrovigliata del famoso tesoretto. Ovverosia si è stabilito come suddividere quell’insieme di risorse finanziarie, in gran parte provenienti dalla sacrosanta lotta all’evasione fiscale. I primi beneficiari saranno gli appartenenti a due generazioni che molti vorrebbero chiuse e contrapposte da diversi interessi: gli anziani e i giovani.

È l’inizio di un processo riformatore, come ha voluto sottolineare il ministro del Lavoro Cesare Damiano. Un aggettivo, “riformatore”, che torna alla ribalta dopo essere stato spesso bistrattato e magari inteso non come misure ispirate da criteri d’equità sociale, bensì come un bisturi semplicemente rivolto proprio alle spese sociali.

Siamo però solo alle prime battute. La trattativa “no stop” di martedì non risulterà una facile passeggiata. I sindacati hanno preso atto delle novità ma hanno altresì manifestato le loro riserve su aspetti non secondari. Quello che è recepito con una certa soddisfazione, par di capire, è l’intervento sulle pensioni, soprattutto se davvero inteso non come un’operazione “una tantum”, ma come l’avvio di un meccanismo capace di difendere gli assegni mensili degli anziani dalle erosioni del carovita. Quelle erosioni che negli ultimi anni hanno provocato una perdita del trenta per cento. Altro interesse hanno suscitato le prime indicazioni relative al giovane popolo dei flessibili. Certo gli “investimenti”, per giovani e per anziani, sono ancora modesti, ma conta e conterà anche il percorso, l’orizzonte finale verso il quale s’intende procedere.

C’è un tema attorno al quale, però, ruotano le più serie e numerose incertezze. Esso riguarda il cosiddetto destino dello “scalone” inventato dal leghista Roberto Maroni e che scade nel 2008, Con l’improvviso posticipo di tre anni (alle 24 del 31 dicembre) della pensione per numerosi lavoratori. La proposta di finanziare magari il passaggio da “scalone” a “scalini”, rinvenendo risorse attraverso l’unificazione degli Enti previdenziali, non piace alla Cisl. Mentre nella Cgil si alzano le voci di chi sostiene, con molta fondatezza, che chi opera magari alla catena di montaggio da oltre 30 anni non può essere sottoposto automaticamente ad altri tre anni di fatica.

Esistono però studiosi, come Roberto Pizzuti, che sostengono come in parte questo fatidico “scalone” possa essere stato svuotato dagli stessi interessati. Cioè da chi, ad esempio, temendo l’arrivo del 2008, abbia fatto i suoi conti e sia riuscito ad andarsene prima. Altri ancora, sempre facendo i conti, potrebbero essere giunti alla conclusione che la pensione che percepirebbero ora sarebbe troppo modesta e sarebbe meglio rimpolparla facendo altri tre anni di lavoro. Sono dati da verificare, in una discussione destinata a ravvivarsi nel corso della prossima “no stop”. Con sul tappeto, poi, problemi come quello degli ammortizzatori sociali, dei coefficienti e del Mezzogiorno, del fondo ai non autosufficienti, degli incentivi da concedere, o meno, agli straordinari, dell’articolazione delle misure destinate ai precari.

Sarà possibile un’intesa sull’insieme di queste materie? E’ una scommessa ambiziosa. Il governo di centrosinistra ne trarrebbe gran giovamento. Sarebbe una risposta seria e decisa agli “schiamazzi” indecorosi del centrodestra, nelle piazze e nelle istituzioni. Un centrodestra che ha già profetizzato attraverso i suoi autorevoli rappresentanti, che proprio su queste materie il centrosinistra è inesorabilmente destinato a cadere. La speranza è che gli avvoltoi siano smentiti e che anzi la compagine al governo ritrovi l’unità d’intenti necessaria e superare questa boa, imboccando decisamente la strada del dialogo. E’ una prova difficile che riguarda anche il movimento sindacale. Una sconfitta, una mancata intesa sarebbe un danno, come ha voluto affermare Guglielmo Epifani non per questo per quello, ma per tutti, per l’intero Paese che ha bisogno di cambiamenti, di giustizia, di crescita. Anche così si combatte l’antipolitica.

Pubblicato il: 16.06.07
Modificato il: 16.06.07 alle ore 10.06   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 08, 2007, 10:37:57 pm »

Lezioni di democrazia

Bruno Ugolini


Vanno in scena da oggi, per tre giorni, milioni di operai, impiegati, tecnici: le forze produttive di questo Paese che sta vivendo una stagione tormentata. Vanno in scena, chiamati a un voto decisivo, i metalmeccanici, gli edili, i chimici, gli agroindustriali, i commessi, gli insegnanti, i ministeriali, i vigili del fuoco, gli impiegati dei Comuni, delle poste, del fisco e delle dogane. E con loro anche quelli che in America chiamano le pantere grigie, i pensionati.

E dove sarà possibile anche gli atipici, i «flessibili» troppo spesso precari. Una moltitudine non solo italiana, giacché ormai gran parte delle industrie, dei servizi o del commercio sono abitati da un popolo multietnico. Questa volta non si tratta di un sondaggio affidato a qualche società specializzata. È una vera e propria votazione con tanto di urne e di schede.

Il mondo del lavoro è chiamato a un pronunciamento importante: devono decidere se accettare o respingere il protocollo concordato dai sindacati col governo e con altre parti sociali.

Esso contiene misure che fanno compiere, per la prima volta dopo tanti anni, non un passo indietro, ma un passo in avanti. Poi si può discutere se un governo di centrosinistra non dovesse compiere scelte politiche ben più coraggiose per questa parte preponderante e decisiva della società. Ma non si può sostenere, come pure è stato fatto, che il protocollo del 23 luglio sia una cosa che assomiglia al patto per l’Italia, proposto a suo tempo dal governo di centrodestra. Allora fu varato, ad esempio, un progetto che spaccava il sindacato e il Paese, come si è visto nella lotta nei fatti vinta, attorno al tentativo di abolire quell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che impediva i licenziamenti immotivati. Nulla di tutto ciò nel protocollo, ma anzi le prime scelte per impedire il diffondersi di quella precarietà così diffusa dopo la legge 30 tanto cara al ministro Maroni.

La «tre giorni» di questa singolare consultazione è stata preceduta da un confronto preventivo nelle assemblee. Una discussione dura, a volte feroce e drammatica e che risentiva del clima generale di sfascio. Ma non era un confronto motivato dalla caccia a poltrone ambite, a spazi clientelari, a privilegi che gridano vendetta. È stata una discussone di massa sull’esistenza e le istanze delle gente che lavora oggi. Sui salari, sulle pensioni, sulle difficoltà degli anziani che non ce la fanno e sui giovani senza un futuro sicuro. È apparsa un’Italia diversa da quella che appare ogni sera sugli schermi e sovente perfino nelle aule parlamentari, tra sghignazzi e ed epiteti insultanti. Un’Italia che ha tutto il diritto di indignarsi, più di tanti predicatori occasionali.

Ed oggi depositando le loro schede, con una partecipazione che si augura massiccia, daranno vita ad una nuova prova di democrazia e di unità. Un caso unico nel mondo e che torna ad onore dei sindacati che l’hanno voluto e organizzato. Quei sindacato così spesso accusato di saper difendere solo i fannulloni e gli scansafatiche, di proteggere solo i vecchi contro i giovani.

Cgil, Cisl e Uil possono certo essere incoraggiati nella difficile impresa di superare burocraticismi, ritardi nell’interpretare le trasformazioni produttive, nell’imboccare le vie dell’innovazione anche contrattuale. Ma oggi - perfino a prescindere dal risultato - potranno dimostrare la loro coraggiosa capacità di ricorrere alle armi del consenso, il loro radicamento sociale.

Potrebbe essere una lezione anche per coloro che all’interno stesso del centrosinistra testimoniano frequentemente un fastidio verso questo invadente soggetto sociale e verso le istanze di un mondo dei lavori che vorrebbe ritrovare davvero un ruolo non subalterno.

Pubblicato il: 08.10.07
Modificato il: 08.10.07 alle ore 9.32   
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 11, 2007, 04:40:44 pm »

La prova più difficile

Bruno Ugolini


Era una prova impervia. Milioni di operai e impiegati avrebbero potuto rispondere con un’alzata di spalle, con un gesto d’indifferenza, in questo enorme clima di avvilente sfascio che sembra attanagliare il Paese.

Non è andata così. Ecco perché è possibile sostenere che nel voto sul Protocollo di luglio, non hanno vinto solo i Si, ha vinto soprattutto l’unità dei sindacati, la scelta coraggiosa di organizzare una consultazione di massa.

Adottando così una forma di democrazia dal basso, ignota in tutto il mondo, e condivisa questa volta anche da chi avrebbe preferito appellarsi al solo parere degli iscritti. Cgil, Cisl e Uil sono state premiate, sia con l’affluenza altissima alle urne, sia con l’adesione maggioritaria alla loro richiesta di assenso, dopo un negoziato lungo e aspro. Quello da giudicare non era un pacchetto rivoluzionario, conteneva però misure importanti e la maggioranza dei lavoratori ha ragionato e ha capito. Ha capito soprattutto che è difficile conquistare miracoli e che siamo solo all’inizio di un tragitto lungo e attraversato da mille difficoltà. E che oggi i sindacati, resi più forti e rispettati, possono meglio cercare di ottenere non stravolgimenti, ma correzioni e chiarimenti su alcuni aspetti del protocollo stesso e su altri obiettivi (vedi tasse sul lavoro). E’ umiliante ipotizzare che milioni di donne e uomini in carne ed ossa possano essere stati oggetto di un colossale imbroglio. E che i sindacati (migliaia di militanti sindacati) siano da guardare come esperti del gioco delle tre carte, col cervello all’ammasso. Ecco perché appaiono stupefacenti i tentativi, operati da esponenti politici (Rizzo del Pcdi) ma anche sindacali (Cremaschi della Fiom) di gettar fango sulla prova del referendum.

Sarebbe però sbagliato, detto questo, ignorare la presenza significativa dei No, specie in grandi fabbriche metalmeccaniche del Nord, a cominciare dalla Fiat. Essi esprimono un disagio enorme, presente nelle stesse aziende dove ha prevalso il Si. Un disagio che ha ragioni economiche, ma che esprime anche la protesta per condizioni di lavoro intollerabili e che non trovano risposte adeguate nella politica in generale, ma altresì a livello aziendale. Non parliamo solo degli operai a posto fisso, ma soprattutto dei tanti che varcano i cancelli delle officine, nelle vesti di dipendenti di ditte cooperative o artigiane. Magari senza cassa integrazione e senza prepensionamenti, senza nemmeno l’articolo 18. O come quei lavoratori dipendenti di piccole imprese messi in mobilità ma senza le tutele dei loro compagni dipendenti dalle grandi imprese.

C’è nel Paese una "questione operaia " che parla all’annunciato Consiglio dei ministri. Potrà forse sul protocollo trovare una via d’uscita, una ricomposizione dei dissensi. Magari impegnandosi ad appoggiare concretamente, dopo l’approvazione del protocollo, quei chiarimenti già enunciati in queste ore, con l’accordo delle parti sociali. E pronunciarsi su impegni futuri, capaci di tener conto di quel malcontento operaio. Uno spazio che non dovrebbe trovare indifferenti le componenti più a sinistra dell’attuale maggioranza e che potrebbero considerarlo un risultato anche della propria pressione.

Quel che appare incomprensibile, in questa battaglia, sul protocollo è l’uso di certe affermazioni. Ad esempio quella che lo considerava da buttare perché piaceva anche alle imprese e a Montezemolo. Senza tener conto del fatto che la sinistra nella sua non breve storia non ha mai condotto battaglie "contro" le imprese: semmai lottava per mutarne la gestione gerarchica e oppressiva. Senza tener conto del fatto che quel protocollo cercava un equilibrio tra le proposte della sinistra e anche di quelli che con la sinistra non hanno mai avuto a che fare. Sono i vincoli di una coalizione, anzi di un’Unione. Ma è vero che incombono, in questa partita politica sul filo del rasoio, molti sospetti. Come quello, esplicitato a più riprese, che considera (magari leggendo "Il Corriere della sera") il nascituro Partito Democratico ormai prigioniero di una logica centrista e di un lucido disegno confindustriale. Senza rendersi conto che quello che nascerà sarà, volenti o nolenti, un partito composito, con una dialettica insopprimibile, soprattutto sui temi del lavoro. Un partito che per alcune sue forti componenti non sembra avere l’ intenzione di buttare a mare quel che resta di un antico insediamento sociale. Anche tutto quel che nascerà o resterà nella sinistra più a sinistra. dovrà fare i conti, costruire un rapporto, con queste novità. Ma per far questo sarebbe innanzitutto necessario guardare con rispetto tutte le discussioni in corso, senza anatemi, senza processi alle intenzioni, senza vedere all’angolo, prima ancora che compaia, il nemico principale. Sarà perciò interessante osservare - se non sarà sospesa, come è possibile augurare - l’annunciata manifestazione del 20 ottobre. Con l’augurio che non prevalga il populismo, la demagogia, ma semmai un progetto di società in grado di additare un ruolo al mondo del lavoro. E con la capacità di tener conto interamente delle sue espressioni. Anche quelle che in qualche modo hanno parlato nelle urne in queste ore: con i Si e con i No.

Pubblicato il: 11.10.07
Modificato il: 11.10.07 alle ore 8.34   
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 11, 2007, 04:42:04 pm »

Il protocollo è approvato, ora pensiamo ai salari

Roberto Rossi


Quando al ministro del Lavoro, Cesare Damiano, chiediamo un commento sul referendum, che poi promuoverà a pieni voti il protocollo che porta il suo nome, non c’è ancora certezza sui dati.

Ministro, secondo le prime proiezioni il “sì” avrebbe raccolto larghi consensi. Se lo aspettava?

«Si tratta di dati ancora parziali, vorrei aspettare la fine dello scrutinio, ma quello che si profila è un importante affermazione del “sì”».

La percentuale dei votanti è certa e si aggira attorno al 60%. Apprezzabile?

«La partecipazione al voto è molto alta e cancella i timori di quanti paventavano una tendenza all’astensionismo. Si conferma una voglia di partecipazione e una grande condivisione. Passa un messaggio fondamentale: che ci troviamo di fronte a una concertazione vera che ha prodotto un risultato di vantaggio, senza scambio, per lavoratori e pensionati».

Nelle grandi fabbriche sembrerebbe che il “no” prevalga. Che significato le attribuisce?

«Questo era un dato scontato considerato già l’andamento di alcune assemblee, i commenti, le interviste ai lavoratori che si sono susseguiti nel corso di queste settimane. Sicuramente ha pesato una posizione negativa della Fiom che in qualche modo ha oscurato anche gli elementi positivi, che riguardano gli stessi metalmeccanici, contenuti nel protocollo».

Sull’atteggiamento dei metalmeccanici non pesano anche problematiche slegate dall’accordo?

«Sicuramente sì. Questi fattori esterni li avevamo già rilevati prima dell’estate nelle assemblea di Mirafiori».

Quali sono?

«La percezione di una crescente invisibilità del mondo del lavoro soprattutto per ciò che riguarda il lavoro operaio e il lavoro manuale in generale, unita a un’inadeguatezza delle retribuzioni a fronte della crescita del costo della vita che, in molti casi, e penso al monoreddito del lavoratore operaio, mette le famiglie in una condizione di incertezza nella vita quotidiana. Tutto questo si è scaricato nel voto a testimonianza di un disagio che va colto».

In che modo?

«Io penso che il governo con il protocollo e l’ultima legge Finanziaria abbia dato un chiaro segnale alla parte debole del Paese. Ritengo che questo segnale, con il passare del tempo, verrà apprezzato da tutti. Per il futuro si potrebbe pensare a degli interventi fiscali a vantaggio delle retribuzioni».

Secondo lei il lavoro dovrà tornare come elemento di priorità politica?

«Il lavoro è tornato con questo governo un elemento di priorità politica, ma naturalmente recuperare la perdita di centralità e di visibilità, che si è verificata nel corso degli ultimi decenni, non sarà un’impresa facile. Non dobbiamo dimenticare che siamo di fronte a una tendenza che si è manifestata a partire dagli anni ‘80 dopo la sconfitta del sindacato alla Fiat e soltanto adesso si comincia a recuperare terreno».

Il dato sui metalmeccanici ha però un peso politico specifico. Rifondazione comunista parla di interpretazione del voto...

«Io so che in democrazia quando si ricorre allo strumento del referendum, che io ho sempre difeso come l’ha difeso Rifondazione Comunista, si vince con il 51%. In Italia il referendum sul divorzio, che ha cambiato il volto di questo paese e i suoi costumi, è passato con il 56% dei voti. Pur considerando le ragioni del “no” delle grandi fabbriche, non si può certo stravolgere il risultato che si sta delineando, altrimenti si offenderebbero le ragioni della democrazia».

Quindi, se fosse confermata la vittoria del “sì”, al Consiglio dei ministri di domani i problemi politici sollevati dalla sinistra radicale si potrebbero risolvere in maniera rapida?

«Il “sì” preverrà sicuramente: vuol dire che i lavoratori e pensionati hanno percepito la bontà e la giustezza delle scelte del governo attuate attravreso la concertazione. E hanno anche compreso che l’azione dell’esecutivo, al di là dell’ecesso di litigiosità che impedisce di trasmettere i buoni contenuti, è un’azione a tutto vantaggio di chi lavora».

Che va nella direzione del programma dell’Unione?

«È un’azione rispettosa del programma. Si tratta di un passo importante, non conclusivo, che apre la strada a ulteriori interventi a vantaggio dello stato sociale. Le persone che lavorano percepiscono quando una politica segna una discontinuità positiva rispetto al governo precendente. E anche chi è un accanito oppositore di questi risultati ne prenda atto. Perché è giusto fare le battaglie, sostenere le proprie tesi, ma è doversoso riconoscere i risultati della democrazia. Altrimenti si rischia di imitare Berlusconi che, perse le elezioni, pretendeva di averle vinte».

Ma il protocollo è aperto a modifiche?

«Al consiglio dei ministri presenterò, nel collegato, la traduzione del protocollo come è sottoscritto dalle parti sociali. Tutti sanno che la trascrizione di un testo di concertazione può contenere precisazioni finalizzata a chiarire dubbi e perplessità sollevati al momento della conclusione dell’accordo. In particolare su due punti, i lavori usuranti e il contratto a termine, la normativa potrà essere precisata, ma a una condizione: che sia condivisa dalle parti che hanno sottoscritto l’accordo».

Sullo staff leasing o sulla detassazione degli straordinari la linea rimane ferma. Non ci saranno variazioni.

«Nessuna variazione».

Sull’atteggiamento che ha la sinistra radicale quanto incide la manifestazione del 20 ottobre proprio sul welfare?

«Aver programmato questa manifestazione anche dopo la decisione del sindacato di consultare con referendum lavoratori e pensionati è stato, a mio avviso, un errore. Ma noi dobbiamo far prevalere la ragione e il buon senso e avere uno spirito costruttivo e unitario. Se trionfano le ragioni di un partito su quelle della squadra non si può fare molta strada».

Tra le ragioni di partito rientrano anche la denuncia di brogli ad opera dei Comunisti italiani?

«Mi sembra un atteggiamento inaccettabile. Che getta discredito sul sindacato e sullo strumento del referendum. Non credo che la politica debba conquistare gli spazi attraverso gli scoop televisivi. Ci vuole etica delle responsabilità».


Pubblicato il: 11.10.07
Modificato il: 11.10.07 alle ore 8.34   
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 08, 2007, 06:51:45 pm »

La spallatina

Bruno Ugolini


Avevano annunciato marce su Roma, fuochi artificiali. Qualcuno aveva parlato di "Idi di novembre". Raffiche di annunci funebri, insomma, per l'immatura scomparsa del governo di Romano Prodi. E invece continua a stare in piedi. 
Certo, al Senato stanno col fiato sospeso. Con i poveri senatori a vita sbeffeggiati dagli esponenti del centrodestra come se fossero in qualche modo i due ladroni crocifissi, accanto ad un Gesù morente.E la Montalcini deve andare tra il popolo eletto per ritrovare solidarietà e affetto.

Durerà, non durerà. Il quotidiano di Rifondazione Comunista Liberazione ha proposto un amaro quesito ai lettori. Esso dice pressappoco: "È giusto che la sinistra-sinistra stia nel governo o non è meglio lasciar perdere?". Io proporrei ai compagni e amici del quotidiano un altro quesito più elementare: "È meglio un centrosinistra malconcio e moderato o un centrodestra vigoroso e arzillo capace di durare per i prossimi 20 anni?".

C'è però nelle ansie di sinistra un recondito pensiero: è molto meglio stare all'opposizione senza responsabilità, senza tanti pensieri, senza fare accordi, organizzando liberamente molteplici manifestazioni. Così si forgiano le masse. Per che cosa? Per la dittatura del proletariato? Non è più di moda.E intanto si aspetta la spallata, anzi la spallatina.

http://ugolini.blogspot.com/


Pubblicato il: 08.11.07
Modificato il: 08.11.07 alle ore 14.08   
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 20, 2007, 10:17:03 pm »

Se la questione salariale è solo uno spot

Bruno Ugolini


Per milioni di famiglie di lavoratori sarà un Natale angosciante, mentre per altre si potrà tirare un sospiro di sollievo. Sembrava che sull’onda fatta di lacrime e sangue, con le tante morti quotidiane nei luoghi che dovrebbero servire solo a produrre, si fosse estesa nel Paese una coscienza nuova. Molti riscoprivano la "questione operaia", la "questione salariale". Ma ecco che quando si tratta di passare dalle parole ai fatti spesso le sensibilità si fanno arcigne. Ad esempio a proposito di contratti di lavoro da rinnovare e che non si rinnovano. E così milioni di famiglie operaie affronteranno le scadenze festive con i tagli nelle buste paga, per via degli scioperi effettuati. E così l’incubo del rischio economico, per le più alte spese da affrontare a fine anno, si accompagna all’incubo ormai quotidiano dell’infortunio. Mettetevi nei loro panni, mettetevi nei panni dei metalmeccanici, oltre un milione e mezzo di persone, spesso a capo, appunto, di un nucleo familiare. La notizia è di ieri. Il loro contratto non si riesce a stipulare, la trattativa non ha portato ai risultati necessari. Saranno necessari altri scioperi e uno è già stato annunciato per l’undici gennaio.

Non saranno soli i metalmeccanici a vivere in tal modo questa poco luminosa fine d’anno. Avranno accanto, ad esempio, i lavoratori del commercio che sono costretti ad incrociare le braccia proprio tra candeline e Babbi Natale, nei giorni di più intenso shopping, il 21 e 22 dicembre. Sono circa due milioni e mezzo di lavoratori. Qui è la Confcommercio che ha rotto le trattative, come dicono i sindacati. Gli imprenditori del ramo non ne vogliono sapere, tra l’altro, di regolamentare gli orari di lavoro. Vogliono mantenere il diritto unilaterale di decidere oggi dieci ore domani magari quattro. E quindi rifiutano il contratto. Un Natale gonfio d’apprensione sarà anche per la grande categoria del pubblico impiego (tre milioni di addetti). Qui non si hanno ancora vere certezze sulle risorse atte al rinnovo contrattuale, mentre, come denunciava ieri Paolo Nerozzi, segretario Cgil, si destinano "prebende per dirigenti e assunzioni, sempre di dirigenti, dall’esterno senza alcun criterio se non quello clientelare".

Ma perché queste difficoltà a rispettare le regole normali della contrattazione nazionale, il ruolo esercitato dal sindacato in questi settori? La domanda è collegata anche al fatto che una parte del mondo imprenditoriale ha invece scelto di accettare la strada del dialogo e di giungere ad una conclusione. E per le famiglie di chi lavora in queste imprese il Natale avrà almeno un tocco di serenità. Proprio ieri è giunta in porto l’estenuante vertenza che vedeva protagonisti uomini e donne ignorati dalle cronache ma essenziali per la vita moderna. Sono i 500 mila addetti ai servizi di pulizia. Le loro trattative sono iniziate, pensate un po’, il 21 luglio del 2005. Hanno conquistato un aumento di 115 Euro a regime (cioè nel 2009). Gente che vive spesso nella precarietà, tra un appalto e l’altro.

Ed infine sarà un Natale più tranquillo anche per importanti categorie come i lavoratori dell’industria elettrica (116 Euro d’aumento medio), come i lavoratori dell’industria chimica (103 Euro). Categorie dove, però, la strada di un rapporto costruttivo tra le parti è stata affermata da tempo. Ed è qui, forse, la risposta alla domanda sul perché ci sia chi rinnova facilmente il contratto e chi no, chi fa di tutto per farsi carico di un Natale sereno e chi no. Le resistenze, le caparbietà, nascono in posizioni imprenditoriali miopi, di chi cerca una rivalsa tutta politica ed è convinto che si possano gestire i governi aziendali senza concordare diritti e benefici. Magari sono gli stessi che in queste settimane abbiamo visto mossi a compassione per giovani vite spedite al sacrificio. Come se fossero problemi di un altro mondo.

Pubblicato il: 20.12.07
Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.22   
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 07, 2008, 03:27:54 pm »

Ha quasi quarant’anni, ma funziona ancora

Bruno Ugolini


Lo ha detto in modo sornione Silvio Berlusconi «bisognerebbe cambiare l’intero Statuto dei lavoratori». Una frase gettata lì, non racchiusa nei programmi ufficiali della destra. Quasi una minaccia, capace di far sobbalzare. Perché il ricordo va subito al 23 marzo del 2002, alla folla che occupava il Circo Massimo a Roma, attorno alla Cgil di Cofferati. Anche allora si parlava di norme moderne adeguate ai tempi. Presto si era però capito che l’unica cosa che si voleva colpire era il diritto dei lavoratori, nelle aziende con più di 15 dipendenti, a non essere licenziati senza una giusta ragione.

“Ad nutum”, con un cenno del dito, come si scrisse allora. Era solo un articolo dello Statuto, il numero 18. Ora il tema torna a occupare la campagna elettorale. E attraverso quella frase, tutta al condizionale (“bisognerebbe”), s’intuisce che quel che sta a cuore non è certo una tutela più adeguata del mondo del lavoro. L’obiettivo è riscrivere lo Statuto, per cancellare alcune regole. Perché è vero che quella legge è vecchia. È nata il 20 maggio del 1970, attraverso ministri e studiosi come Giacomo Brodolini, Gino Giugni, Carlo Donat Cattin, ma prima ancora (nel 1952) era stata proposta da Giuseppe Di Vittorio. Quelle che oggi però appaiono inadeguate, non sono le tutele assegnate ai lavoratori dipendenti. È, invece, l’assenza o l’inadeguatezza di tutele per quell’esercito via via ingrossatosi dei lavoratori cosiddetti atipici. Sono i collaboratori coordinati continuativi, i lavoratori a progetto, i lavoratori in “associazione in partecipazione”, quelli con contratto a termine, gli interinali (oggi si chiamano “somministrati”). Molti di loro sono privi oltre che dell’articolo 18, di tutele primarie, come quella di poter aderire a un sindacato senza rischiare, o di potersi ammalare, o di partecipare ai corsi di formazione aziendale. Sono i figli del post fordismo, orfani di Statuto.

Ma non è per loro che si batte la destra. Si muove contro i padri per intrappolare anche i figli. Non è su queste tematiche che è intervenuto il governo di centrodestra nei cinque anni prima di Romano Prodi. Ha operato per moltiplicare le possibilità di estendere le forme contrattuali flessibili e poi ha infierito sull’unico articolo che premeva: il diciotto, per ottenere i licenziamenti facili. Come se passasse da lì la ricetta capace di imprimere una svolta nell’assetto economico e sociale del Paese, impegnato nella gara della competitività internazionale. E invece il tema dovrebbe essere quello relativo a come costruire un capitale umano capace davvero di ridare slancio alla società e all’economia.

Non certo togliendo o ridimensionando le grandi conquiste del 1970. Parliamo del diritto all’assemblea in azienda; il diritto a non subire indagini sulle proprie opinioni politiche, religiose o sindacali; il diritto quando si è studenti- lavoratori a turni agevolati; il diritto a non essere obbligati a fare gli straordinari; il diritto a svolgere attività sindacali. Nonché il divieto alla concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio. Sono conquiste di civiltà, sono alcuni aspetti di quel vituperato Statuto del resto non sempre rispettato.

Uno Statuto che, ripeto, avrebbe bisogno di coinvolgere anche quella parte dimenticata del mondo del lavoro. Come? C’è una parte della sinistra ­ oggi rappresentata nella lista Arcobaleno ­ che giudica in sostanza l’esercito post-fordista solo frutto di una macroscopica truffa. Per cui tutti o quasi gli atipici sarebbero da ricondurre nell’esercito dei normali salariati a posto fisso. Negando così l’esistenza, sia pure parziale, di forme produttive e di nuove tecnologie collegate a esigenze di vera flessibilità (da risarcire con diritti e redditi adeguati) e non la conseguenza di un complotto. O l’esistenza di fasce di giovani lavoratori che non sognano il cartellino da timbrare tutte le mattine, preferiscono mirare a lavori di qualità, accumulando esperienze e culture anche queste, però, ricche di tutele.

Un'altra parte della sinistra ­ quella confluita nel Pd ­ ha ipotizzato una “Carta dei diritti” (integrante lo Statuto) che desse una risposta a tali problematiche. Basti ricordare le elaborazioni di Tiziano Treu e Cesare Damiano al tempo dell’Ulivo, o alle prime misure varate dal governo Prodi. Ma altri prima - da Gino Giugni, a Massimo D’Antona, a Bruno Trentin - avevano lavorato attorno a questo tema.

Ed ora che cosa succederà? È probabile che Berlusconi come il solito si rimangi quanto ha detto, spinto da preoccupazioni elettorali. Rimane un oscuro presagio.

La vittoria di un governo di centrodestra, anzi di destra, porterebbe con sé il seme inquinante di nuovi scontri sociali. Non certo di soluzioni eque, costruttive e moderne. Un guaio per il Paese mentre si avvicina una tempesta dai connotati recessivi.

Pubblicato il: 06.03.08
Modificato il: 06.03.08 alle ore 9.39   
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 13, 2008, 05:44:51 pm »

La maledizione degli operai

Bruno Ugolini


Sembra una maledizione. Quella che nelle ultime ore ha segnato la morte di altri due operai a Torino. Sono storie emblematiche dell’Italia di oggi, intrecciate alle statistiche indecenti sui salari italiani. Parlano di un lavoratore in appalto, massacrato da un cuscinetto d’acciaio infilato nello stomaco.

E di un altro, lavoratore in affitto, auto-appesosi a una corda: non sopportava il mancato rinnovo del contratto temporaneo, non ce la faceva più e non ha retto.

La tragedia della ThyssenKrupp non rallenta i suoi effetti visto che il secondo lavorava per un’azienda fornitrice proprio della Thyssen. E così si parla di maledizione. Ma non è colpa del destino cinico e baro.

Leggiamo il tremendo biglietto lasciato alla moglie e ai due figli dal trentanovenne suicida Luigi Roca: «Ho perso il lavoro e con quello la dignità. Scusami». Quella parola ­ dignità ­ fa rabbrividire. Perché parla a tutti noi. Racconta di un uomo ­ e come lui sono tanti, uomini e donne, giovani e meno giovani ­ che da tre anni passava da un contratto all’altro e ora si era convinto di essere arrivato, ormai quasi a 40 anni, a una meta più solida. Era convinto di aver finalmente conquistato l’attesa sicurezza. Invece no.

Che cosa pretendeva Luigi Roca? Forse pretendeva di essere considerato anche lui, certo, davvero, un “produttore”, uno che vede riconosciuto il proprio ruolo di fornitore non solo di “manodopera” ma anche d’intelligenza, di sapere acquisito. Ecco perché la sua morte parla anche a questa campagna elettorale. A certe polemiche che bollano il Pd come un partito che avrebbe voltato le spalle al mondo del lavoro. Magari perché ripropone, appunto, un “patto tra i produttori” capaci di risollevare le sorti del Paese.

Quella formula, non estranea alle riflessioni della sinistra, dovrebbe però essere interpretata meglio. Intanto bisognerebbe che davvero operai come l’interinale Luigi Roca, ma anche come Antonio Stramandinoli, lavoratore in appalto, fossero riconosciuti davvero fino in fondo come “produttori”. E quindi in possesso di diritti e tutele adeguati, di un ruolo non secondario, non da interrompere quando si vuole, o da sottoporre a rischi vitali. Stramandinoli lavorava per un’azienda dove era in corso una trattativa sull’uso degli straordinari. E forse la richiesta insistente di allungare gli orari di lavoro non è del tutto estranea all’intensificarsi d’incidenti.

Fatto sta che l’aspirazione a passare da sfruttati a produttori (come recitava il titolo di un grande libro di Bruno Trentin) è ancora tutta da realizzare. E per questa via sarà necessario l’esercizio di un conflitto organizzato, vitale per le stesse sorti qualitative di un’impresa moderna. Una volta si diceva “conflitto fisiologico”. Certo che non siamo più di fronte ad una “classe” come quella conosciuta nel ‘900 con connotati di forte omogeneità. La frammentazione, il decentramento, il progresso tecnologico hanno mutato il mondo del lavoro. E in esso si aggirano spesso donne e uomini soli. Come Luigi Roca. Che col suo gesto disperato racconta una solitudine anche ideale. Una solitudine che forze sindacali e forze politiche sono chiamate a riempire con un progetto che davvero sappia organizzare, parlare, destare coscienze, ridare fiducia. Anche proponendo tappe ravvicinate, inserite in un orizzonte riconoscibile. Senza limitarsi a predicare un mondo migliore.

Perché la maledizione può essere combattuta e vinta. Magari anche contrastando coloro che nella Confindustria mettono in discussione, oggi, le agevolazioni del centrosinistra per chi è addetto a lavori usuranti. Oppure coloro che osteggiano sanzioni per imprenditori inadempienti in materia di sicurezza. Temi anche questi di conflitto civile, ma necessario. Lo stesso conflitto che ha portato nel passato a mutamenti sostanziali. La sequela terribile degli incidenti sul lavoro aveva subito, a un certo punto, una severa cesura. Me lo ha ricordato in un’intervista per «Eguaglianza e Libertà» (la rivista on-line di Pierre Carniti e Antonio Lettieri) un dirigente della Cgil, Giuseppe Casadio, oggi responsabile della commissione Lavoro del Cnel, nonché autore di un rapporto su queste tematiche per la commissione presieduta da Pierre Carniti. Ebbene, controllando studi e statistiche si è capito che negli ultimi tre - quattro decenni c’è stato un calo di vittime mortali, da 3500 morti l’anno a 1300. Ma negli ultimi cinque anni non c’è stata più alcuna variazione significativa. È diventata una specie di orrenda consuetudine. Collegata anche a quella frammentazione del lavoro. Ma anche alla perdita di ruolo di quel mondo del lavoro.

http://ugolini.blogspot.com/


Pubblicato il: 13.03.08
Modificato il: 13.03.08 alle ore 9.29   
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 13, 2008, 05:46:04 pm »

Boccuzzi: «Sicurezza, non ci si fermi a spot elettorali»

Andrea Carugati


«È scioccante leggere il nome della Thyssen ancora una volta associato alla morte di un operaio. La tragedia del 6 dicembre non è legata al dramma di Luigi, ma è assurdo che la fine di una vita derivi dalla perdita del lavoro, da questa precarietà sconsiderata che è una vera emergenza». Antonio Boccuzzi, 34 anni, unico sopravvissuto al rogo della Thyssenkrupp e ora candidato con il Pd in Piemonte, è profondamente turbato: «Mi ha colpito quello che ha scritto Luigi, “ho perso il lavoro e ho perso la mia dignità”. Lui non ha nessuna colpa, sono le leggi del mercato del lavoro che permettono questo precariato a 40 anni, anche per chi ha due figli. Altri gli hanno imposto questa situazione, gli hanno negato la dignità, e fa ancora più male pensare che lui abbia creduto di aver perso la dignità».

Ritiene che la sfiducia, l’assenza di speranza, sia diffusa tra gli operai?

«Noi alla Thyssen l’abbiamo vissuta. Al momento dell’accordo per la chiusura dello stabilimento di Torino ci sono state fatte grandi promesse sulla ricollocazione: e invece pochi ce l’hanno fatta, per chi è rimasto c’è il dramma di doversi accontentare di un contratto a tempo e con metà stipendio. Mi batterò perché tutti i discorsi di questa campagna elettorale, dai salari alla precarietà alla sicurezza sul lavoro, non siano solo degli spot».

Da alcune settimane lei è entrato in politica. Ha trovato qualche elemento di speranza in più?

«Nel programma del Pd ho trovato cose chiare sulla sicurezza e penso che Cesare Damiano sia un ottimo alleato dei lavoratori e per questo sta pagando anche dei prezzi nei rapporti con Confindustria. Io voglio dare il mio contributo: più lavoratori saremo in Parlamento meglio sarà, perché sappiamo cosa vuol dire essere precari e non arrivare a fine mese anche con un contratto “sicuro”, dover ancora chiedere i soldi ai genitori. Per me questa sarà una missione, ho addosso un marchio che me lo impone».

Perché una missione?

«La vivo così, credo nella battaglia per ridurre drasticamente le morti sul lavoro. La precarietà ti costringe a fare cose non sicure, ti rende ricattabile, così i bassi salari: pur di guadagnare qualcosa in più fai cose che non faresti. Dopo quel che ho vissuto, ho deciso di dare un senso alla mia vita battendomi per la sicurezza».

Cosa pensa del programma Pd sulla precarietà?

«Il programma è serio, ma sarà una sfida difficile. Quando ero precario 15 anni la situazione era migliore, oggi con la legge 30 ci sono troppe tipologie di contratto: servono delle modifiche per impedire lo sfruttamento della precarietà, per rendere meno convenienti per le imprese alcuni tipi di contratti».

E le candidature nel Pd di Calearo, Colaninno e Ichino che effetto le fanno?

«Sull’articolo 18 non sono per niente d’accordo con Ichino, ma è una sua proposta e nel programma non c’è. Non si sconfigge la precarietà abolendo l’articolo 18. Quanto a Calearo, credo che in Veneto sia una buona candidatura: è una terra ricca di imprenditori, funzionerà. Da sindacalista in una multinazionale come la Thyssen sono abituato a trattare con persone come loro e a trovare le soluzioni migliori: continuerò a farlo. Berlusconi nel 2001 si è presentato come presidente operaio: almeno nel Pd ognuno ha il suo ruolo. Io so chiaramente qual è il mio».

Bertinotti dice che Calearo e Colaninno sono di troppo...

«Nessuno è di troppo, non mi piace la logica delle barricate. Ho incontrato Colaninno e mi è piaciuto come persona».

Qualcuno mugugna tra i suoi colleghi?

«Qualcuno storce il naso, ma c’è un programma che abbiamo condiviso. E l’ho firmato perché credo possa funzionare».

Cosa pensa della candidatura del suo collega Ciro Argentino al posto di Diliberto?

«Sono felicissimo per Ciro che conosco da più di 10 anni, anche se a volte ci siamo divisi: siamo nella Rsu della Thyssen insieme, lui della Fiom e io della Uilm. Non condivido come è avvenuta la scelta, è sembrata quasi un’elemosina al mondo operaio, e invece avrebbe dovuto essere una candidatura naturale, soprattutto per la Sinistra arcobaleno».

Cosa si sente di dire ai tanti Luigi che a 40 anni ancora non hanno un lavoro stabile?

«Che vado in Parlamento per provare a ridare fiducia anche a loro, non per occupare una poltrona ma per cambiare le cose. E con me ci sarà anche Ciro».

Pubblicato il: 13.03.08
Modificato il: 13.03.08 alle ore 9.35   
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 18, 2008, 12:28:23 am »

Quelli che il salario non lo vedono più

Bruno Ugolini


I lavoratori italiani navigano nel fondo della classifica dei salari redatta dall’Ocse. Ma anche tra i poveri salariati italiani c’è chi sta peggio, anzi rimane senza paga. È il caso di molti lavoratori relativamente anziani, posti in mobilità dalle loro aziende, e alla vigilia del trattamento pensionistico. Succede però che sono costretti ad affrontare una specie di terra di nessuno, un interregno nel quale rischiano di non percepire alcun reddito. Una delle ultime lettere giunte a questo giornale è firmata da Antonella Melegari, parente di una di queste vittime di disguidi legislativi. Costui era stato posto, tre anni fa, in mobilità dall’azienda per cui lavorava. Il prossimo 27 marzo, ovverosia tra pochi giorni, compirà i 65 anni di età e avrebbe dovuto godere della cosiddetta «pensione di vecchiaia». Questo, sostiene, per via della legge che ha abolito lo scalone Maroni e ha introdotto la cosiddetta «finestra» per le pensioni di vecchiaia.

Il problema è che l’uomo riceverà l’assegno di mobilità fino al 27 marzo, mentre la pensione promessa gli sarà destinata dal primo luglio. Che fare per questi tre mesi vuoti di reddito? Antonella ha interpellato i sindacati ma non ha avuto risposte rassicuranti. Ha scritto anche al presidente della Repubblica che ha inoltrato il caso al Ministero dl Lavoro. Fatto sta che quell’uomo, se non interverranno fatti nuovi, dovrà vivere per 90 giorni senza reddito e con lui altri che magari dovranno aspettare non tre, ma sei mesi.

Esistono poi centinaia di vicende che chiamano in causa i famosi cinquantasettenni, anche loro costretti alla mobilità senza alcuna possibilità di trovare un’occupazione nuova e stabile. A molti di loro era stato promesso il passaggio alla pensione ma ora rischiano di vivere per un certo periodo senza reddito. È la storia di Giuliano Ciampolini. Lui è stato autore di una lotta, condotta con estrema tenacia e che ha trovato spazio anche su questo giornale. Si è rivolto presso forze politiche e sindacali, presso ministeri e giornali. Alla fine è riuscito a raggiungere qualche risultato con l’emissione, proprio qualche giorno fa, di una circolare Inps dedicata, appunto, ai problemi dei lavoratori in mobilità ordinaria, prossimi alla pensione. La sua testimonianza è quella di un operaio tessile di 57 anni con circa 38 anni di contributi, posto in mobilità, con la misera somma di 620 euro il mese. È stato questo, dal 23 novembre 2004, il suo salario. Una mobilità lunga, interrotta con due contratti a tempo determinato. Ora la scadenza dei tre anni di mobilità è prevista per metà maggio 2008. Aveva maturato il diritto ad andare in pensione ma non poteva mettersi il cuore in pace perché l’Inps non inviava un’apposita «Circolare attuativa» alle proprie sedi periferiche. Così nella sua ultima missiva Giuliano Ciampolini chiedeva se avrebbe dovuto venire a Roma per incatenarsi «davanti al Ministero del Lavoro o alla Sede dell’Inps». Oppure iniziare panellianamente uno sciopero della fame. Raccontava come esistevano centinaia di lavoratori che avevano compiuto i 57 anni a partire dal primo gennaio 2008 e che non riuscivano ad avere risposte dall’Inps. Tutti lavoratori in mobilità che temevano di finire in una situazione di disperazione, dopo lo stop alla misera indennità di 620 euro il mese. Ma ora ecco la circolare che dovrebbe consegnare a costoro un minimo di tranquillità. Anche se c’è un codicillo che preoccupa Ciampolini e compagni. Laddove si dice che chi ha condotto, durante la mobilità, qualche attività lavorativa sarà escluso dai benefici pensionistici. Storie diverse di salariati che hanno speso una vita per «produrre», poi costretti a fermarsi per qualche tempo, con molti anni di contributi versati alle spalle. Speravano di essere giunti al traguardo e ora stanno come color che stan sospesi. Che cosa potranno rimproverare a costoro i candidati della destra? Di non essere figli di Berlusconi?

Pubblicato il: 17.03.08
Modificato il: 17.03.08 alle ore 8.56   
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 19, 2008, 02:48:26 pm »

La trattativa che non tratta

Bruno Ugolini


Crolla anche l’umore dei lavoratori interessati e crolla l’umore del Paese di fronte a una storia dalle incognite rischiose. Una bomba sociale rischia di esplodere nel corso di una tormentata campagna elettorale e alimentare una tensione d’altri tempi. Un brutto esempio si è visto ieri negli scontri tra le forze di polizia e gruppi di lavoratori, con il conseguente ferimento di un operaio.

La difficile trattativa tra sindacati e i dirigenti dell’Air France-Klm è cominciata così. E non è stato un buon auspicio. Con la presenza, nel contempo, di tanti candidati-avvoltoi che da destra cercano di far dimenticare le proprie trascorse e pesanti responsabilità.

Cercano di lasciare nell’oblio i tanti loro manager spediti sul fronte aeroportuale a promettere splendidi rilanci. E ritornati poi a casa, dopo fallimentari esperienze, muniti di sostanziose liquidazioni d’oro. Ma gli italiani dovrebbero avere una memoria lunga.

È anche per questo "passato" indecente che è difficile fare ingoiare oggi ai lavoratori dei trasporti una medicina fatta di migliaia e migliaia di "esuberi". Soltanto costoro dovrebbero, infatti, essere chiamati al sacrificio doloroso. E la domanda, a parte le doverose considerazioni sulla sorte di tante famiglie spedite al macello, non può che essere improntata al dubbio: ne vale davvero la pena? È questo il modo per salvaguardare sul serio una prospettiva di sviluppo in questo settore decisivo per la mobilità crescente di milioni di cittadini? Vale la pena accettare senza batter ciglio il piano massacrante di Air France- Klm?

Un piano che prevede, appunto, come unica via d’uscita, la rottamazione di un massiccio "capitale umano", un patrimonio fatto anche di esperienze e saperi. Quei lavoratori non sono pacchi d’immondizia da scaricare in qualche modo. Senza offrire in cambio, oltretutto, alcuna certezza, alcuna garanzia - a quanto si sa - sul futuro, sulla possibilità davvero questa volta, di un rilancio del servizio aeroportuale, basato sull’efficienza, ma anche su solidi livelli occupazionali, sulla crescita e non sul ripiegamento. Perché se la ex-Alitalia francesizzata dovesse essere rinchiusa in uno spezzone da immettere tra la miriade di compagnie "low cost", allora sì bisognerebbe dire che non vale la pena.

Il penoso appuntamento di ieri non è stato del resto preparato con avvedutezza. I sindacati - mentre ogni giorno si decantano gli alti pregi della concertazione - sono stati tagliati fuori, messi con le spalle al muro. Ora sono andati alla trattativa di fronte ad un menù già illustrato e approvato. E che elenca i tanti numeri chiamati esuberi. Una specie di odioso ultimatum, come se i rappresentanti del mondo del lavoro fossero da considerare solo degli assistenti sociali. Come se il loro compito fosse solo quello di ricevere la direttiva per poi convincere gli interessati, gli esuberi, ad accettarla.

La vicenda comunque non è chiusa. Il manager corso, anzi francese, Jean-Cyrill Spinetta, è stato descritto, sul "Sole-24 ore" come un negoziatore infaticabile: «può restare tre giorni e tre notti senza dormire». Sarà necessario prenderlo in parola e fargli capire che con quell’impostazione il gioco non vale la candela. Non vale la pena. Ed è un po’ questo, nella serata, il commento di Fabrizio Solari segretario Cgil per i trasporti: «A queste condizioni non si fa nulla». Ma intanto non sarebbe nemmeno giusto incamerare la sconfitta, perdere ogni speranza. Soprattutto appare davvero stridente un balletto macabro di ciniche forze politiche attorno a una tale esplosiva vicenda. Non dovrebbe essere tempo di faziosi patriottismi di partito per tentare di raccattare qualche voto in più.

Pubblicato il: 19.03.08
Modificato il: 19.03.08 alle ore 8.08   
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:29:33 pm »

La linea dura del governo e la ricerca dell’unità sindacale

Bruno Ugolini


C’ è una vena autoritaria in questo governo». La battuta è di un delegato a questa Conferenza nazionale della Cgil. Un appuntamento voluto per affrontare la necessità di cambiare pelle, come spiegherà più tardi Carla Cantone, poiché visto che tutto cambia nel mondo del lavoro, il sindacato non può stare fermo come una statua di marmo. Un tema che però rischia di essere travolto dall’attualità. Lo stesso delegato mi mostra la prima pagina del Corriere della sera. con quel titolo d’apertura «Cgil, subito rottura con il governo» accompagnato da un commento sferzante nei confronti del sindacato.

Perché tanta veemenza? Il pretesto è dato da quanto avvenuto nell’incontro per i problemi del pubblico impiego. Con il baldanzoso neoministro Renato Brunetta che pretende di colloquiare con i vertici confederali, escludendo i rappresentanti delle categorie confederali. Magari avviando un nuovo tipo di concertazione, quella elettronica, via Email. Lui comunica e gli altri recepiscono.

Nasce da qui la battuta sulla «vena autoritaria». Il neonato governo ha adottato, infatti, nei suoi primi vagiti, una specie di «faccia feroce». Magari per poi raddolcirsi e cambiare fisionomia. È successo per Rete Quattro e magari, nella cornice romana, per la via da dedicare al camerata Almirante. Tra i combattenti spediti in avanscoperta per ora eccelle Roberto Maroni al quale sono stati affidati gli immigrati, mentre a Maurizio Sacconi e a Renato Brunetta sono stati affidati i sindacati. Un’orgia di decisionismo spinto al massimo, con la convinzione che i complicati processi democratici siano una via troppo complessa. Anche se la storia insegna che è quella che da maggiori risultati, anche in termini di efficienza. Prendete il caso di questi incontri sul pubblico impiego. Davvero si crede possibile stabilire, in quattro chiusi in una stanza, piani industriali, strategie, una mezza rivoluzione, senza coinvolgere le categorie interessate? È una strada che porta, questa sì, alla morte del sindacato generale e alla diffusione dei Cobas corporativi di ogni genere. Il rifiuto metodologico della Cgil non è del resto isolato se è vero, come ha scritto "Il Messaggero", che nella Cisl su questo è scoppiato il parapiglia. E come mai autorevoli commentatori non s’indignano per il fatto che il neo ministro in sostanza vuole ritornare all’epoca in cui il pubblico impiego era regolamentato solo da leggi e leggine, care al clientelismo imperante. Facendo fuori quella riforma che ha portato alla "privatizzazione " del rapporto di lavoro, riconoscendo, appunto, moderna contrattazione e ruolo del sindacato anche nell’azienda pubblica. Una svolta sulla quale bisognerebbe procedere, discutendone i risultati, correggendo e magari approvando contratti scaduti e attuando "memorandum" per l’efficienza già concordati.

Calma e gesso, però. La folla di donne e di uomini riuniti nel mastodontico complesso della fiera di Roma non sembra lasciarsi prendere dal nervosismo o dall’ansia di rispondere colpo su colpo. Guarda lontano. Il segretario della Cgil non pronuncia un discorso altisonante, demagogico. Ragiona freddamente sulle prime pecche del governo, avanza critiche serie su alcuni provvedimenti. Spiega come avrebbero potuto essere spesi altrimenti i soldi per un Ici che mette sullo stesso piano il ricco commerciante e la famiglia di Cipputi, o per quelle facilitazioni nel lavoro straordinario che possono ingolosire un po’ di maschi specializzati del Nord ma non tanti altri operai. L’alternativa c’era ed era quella che prevedeva interventi su fisco e tasse, decisi solennemente in una grande assemblea a Milano da Cgil Cisl e Uil e che avrebbero portato nelle tasche dei lavoratori 400 Euro il mese. Dopo tante lacrime sui salari vergognosi, sarebbe stato un discreto vantaggio.

Così riflettendo Epifani adotta una linea tesa a mettere alla prova la coalizione di centro destra. Non scappa e non grida nemmeno "O la va o la spacca". Non si lancia a ipotizzare, come teme fortemente "Il corriere", un nuovo Circo Massimo ricolmo di folla tumultuante. Anche perché (almeno finora) non si sventola dal centrodestra un nuovo articolo 18 da affossare (anche se forse bisogna prepararsi al peggio). Epifani insiste, semmai, sul tasto delle proposte. A cominciare dal famoso modello contrattuale che dovrebbe sopperire alle deficienze dell’accordo del 1993. E annoda ancor più fortemente i legami con Cisl e Uil. Che hanno magari accenti diversi, un maggior ottimismo sulla possibilità di portare a casa discreti risultati con questo governo, ma che confermano la vocazione unitaria.

Tutto chiaro, dunque, tutto a posto? Non lo diremmo. Nel sindacato, nella stessa Cgil si agitano pareri diverse. Non parliamo della dura opposizione Fiom al modello contrattuale, di cui nella relazione non si fa cenno. Parliamo di un malessere più generale non superato. Con la richiesta di un ruolo più alto, un argine, di fronte a una marea montante fatta di violenze e degrado. Un malessere che non coglie solo la tradizionale sinistra. Sbagliano coloro che dividono questo sindacato tra riformisti e massimalisti considerando i primi una specie di massa di pecoroni senz’anima. La partita è lunga e comunque saranno decisive per il futuro della Cgil le decisioni che saranno prese, annunciate da Carla Cantone, per dare energia e vitalità ad una organizzazione potente ma non immune da pigrizie e burocraticismi. Ha bisogno di una sferzata e di un mutamento, ritornando a "sporcarsi le mani" nell’impegno militante rintracciando i gomitoli di un lavoro disperso in mille rivoli.




Pubblicato il: 30.05.08
Modificato il: 30.05.08 alle ore 8.17   
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