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« inserito:: Novembre 04, 2007, 09:36:07 am » |
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Roman il Prode e il naufragio annunciato
Andrea Camilleri
Si capì subito, fin dal momento che il malandato barcone salpò, che l’imbarcazione avrebbe tenuto assai poco il mare. Per metterlo in condizione di navigare erano già occorsi giorni e giorni di paziente calafatura, pece e stoppa si erano sprecati per tappare le falle, ma il fasciame era troppo usurato e di certo non avrebbe potuto reggere a qualche ondata più forte delle altre. Il comandante Roman, detto il Prode, inoltre, aveva imbarcato un equipaggio eccessivo, più di cento tra ufficiali, sottufficiali e marinai, mentre il barcone avrebbe potuto contenerne al massimo una quindicina.
Questo sovraccarico faceva sì che la linea di galleggiamento fosse di circa mezzo metro sotto il limite di sicurezza, bastava insomma che un gabbiano si posasse sull’unico albero e il barcone sarebbe andato a fondo. L’equipaggio inoltre era troppo eterogeneo, c’erano alcuni teodem (popolazione nota per il fanatismo religioso), molti sempercoglion (popolazione famosa per la stupidità), qualche approfitt (popolazione celebre per ricavare il suo tornaconto da ogni situazione), numerosi lassafà (popolazione costituita da varie tribù ognuna delle quali pensava solo a se stessa) e perfino alcuni discendenti dei famosi tagliatori di teste del Borneo. Per di più Roman il Prode non aveva il polso necessario a mantenere l’indispensabile, ferrea disciplina, si dedicava esclusivamente ad inventariare lo scarso approvvigionamento stivato nella cambusa assieme al capocambusiere, Pad Schiopp, il quale, fin dalla partenza, aveva cominciato a razionare i viveri e li riduceva sempre più ogni giorno che passava. Il barcone apparteneva a una società (Unione spa) che si fondava su di un capitale irrisorio, appena 25 mila (ma alcuni dicevano di meno) euro, del tutto insufficiente per affrontare spese impreviste. Che la navigazione non sarebbe stata tranquilla, lo si vide immediatamente, una feroce guerra di religione scoppiò quasi subito: i teodem volevano buttare a mare due marinai omosessuali che intendevano farsi sposare dal comandante (il quale, come si sa, ne ha facoltà, essendo Capitano dopo Dio); al terzo razionamento i tagliatori di teste del Borneo, ritrovate le antiche tradizioni, arrivarono a minacciare la decapitazione dello stesso Roman il Prode; i lassafà chiedevano quotidianamente a Pad Schiopp un trattamento di favore minacciando ritorsioni. Allungatasi inspiegabilmente la navigazione, forse perché, per i venti contrari, l’imbarcazione scarrocciava e non manteneva la rotta prevista, i viveri scarseggiarono e in un battibaleno il barcone si tramutò nella zattera della Medusa, si verificarono infatti numerosi episodi di cannibalismo. In questa situazione, Roman il Prode dovette ordinare degli arresti, ma il commissario di bordo, tale Mas Tellah, un levantino, pensò bene di liberare i carcerati sostenendo che la cella era troppo piccola per contenerli tutti. Appena tornati in libertà, gli ex carcerati non solo si abbandonarono a furti e rapine, ma si misero a compiere atti di sabotaggio sotto la protezione dello stesso commissario di bordo. Qualcuno allora si mise in sospetto: perché Mas Tellah non perdeva occasione di proclamare che avrebbe abbandonato la nave se non si faceva quello che lui voleva? E perché frequentava nottetempo il timoniere? Uno tra i marinai più coraggiosi, penetrato nella cabina del commissario, scoprì la terribile verità. Il cuore di Mas Tellah batteva non per la Unione spa ma per un’altra potente soscietà marittima, la Medset, dotata di un capitale di 25 mila miliardi di euro, e frequentava il timoniere perché questi aveva il compito di portare l’imbarcazione a sbattere sugli scogli. I due avevano ricevuto dalla Medset l’assicurazione che per loro sarebbe stato approntato un canotto di salvataggio. Di tutto questo venne avvertito Roman il Prode, ma egli, essendo uomo di smisurato, caparbio orgoglio, non volle ammettere l’errore d’avere imbarcato Mas Tellah e non solo lo lasciò fare, ma approvò fuor da ogni logica il suo operato. E adesso gli scogli si ergono minacciosi davanti alla prua e il nostro destino è segnato. Tanto più che questo mare ribolle di feroci squali di razza Berlusc. Ho fatto appena in tempo a scrivere questo biglietto e a infilarlo in una bottiglia. Se qualcuno avrà modo di leggerlo, saprà perché abbiamo fatto naufragio. Che Dio abbia pietà della mia anima.
Questo breve racconto di Andrea Camilleri apre il nuovo numero della rivista MicroMega, tutto sul tema «La legalità è il potere dei senza potere», con articoli tra gli altri, di Carlo Lucarelli, Marco Travaglio, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Luigi De Magistris, Margherita Hack
Pubblicato il: 03.11.07 Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.21 © l'Unità.
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« Ultima modifica: Marzo 28, 2009, 12:31:25 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 24, 2008, 11:45:58 pm » |
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25 Aprile. La storia non si cancella
Andrea Camilleri
Un senatore, persona assai vicina al presidente Berlusconi, poco prima del voto, ha dichiarato che si sarebbe adoperato perché, nei libri di storia, almeno in quelli a uso scolastico, il «mito» del 25 aprile, cioè della Liberazione, venisse opportunamente ridimensionato.
Non è il primo e, certamente, non sarà l’ultimo a manifestare questo proposito. Che equivale, esattamente, a voler ridimensionare il Risorgimento. Il Risorgimento non è un mito, ma un fatto, come lo sono la Resistenza e la Liberazione.
Gli eventi storici che portarono alla Resistenza sono così semplici da essere assolutamente incontrovertibili, non possono essere né revisionati (la Storia non è un’automobile alla quale rilasciare tagliandi di validità a scadenze stabilite) né ridimensionati. Dopo l’ignominiosa fuga del re e di Badoglio da Roma, gli italiani e le forze armate italiane furono abbandonate a se stesse e il nostro paese venne militarmente occupato dai soldati di Hitler. Allora furono in molti a ribellarsi a questa occupazione diventando partigiani, combattenti per liberare la Patria dallo straniero.
Si trovarono fianco a fianco comunisti, socialisti, cattolici, liberali, uomini del partito d’azione, ufficiali dell’esercito, graduati, soldati, senza partito, reduci dai vari fronti.
Fu un movimento del tutto spontaneo e popolare. Solo dopo, solo quando il fantoccio Mussolini creò la Repubblica di Salò, la guerra di Liberazione divenne anche lotta contro i repubblichini che avevano così entusiasticamente affiancato i nazisti, autori d'innumerevoli stragi contro la popolazione inerme.
Non si trattò di una guerra civile, come affermano alcuni storici, e se lo fu in parte questo avvenne come conseguenza dell’intervento dei fascisti. I partigiani hanno segnato una pagina gloriosa della nostra storia. Hanno permesso che l’Italia si riscattasse dalle colpe del fascismo, prime tra tutte le leggi razziali, e riacquistasse la sua dignità di nazione. Hanno fatto sì che nascesse uno Stato democratico, hanno fatto sì che si potesse scrivere una Costituzione alla stesura della quale hanno contribuito tutti i rappresentanti delle diverse volontà popolari.
Hanno fatto rinascere l’Italia. Che c’è da revisionare?
Testo scritto per la rivista «Il Salvagente»
Pubblicato il: 24.04.08 Modificato il: 24.04.08 alle ore 13.10 © l'Unità.
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:38:15 am » |
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«Poesie incivili» su MicroMega
Camilleri in rima diventa «cattivo» Trivialità su Bossi e il suo dito medio
ROMA — Andrea Camilleri ha dato un calcio al buonismo. Direte: ma si sapeva, basta vedere come ha trasformato in fedifrago il suo commissario Montalbano. Ma quello è niente: leggete l'ultimo numero di MicroMega. Il servizio di apertura: le «Poesie incivili» di Andrea Camilleri, scrittore esimio e di successo. Non è certo la prima volta che il papà di Montalbano si diletta in rime più o meno dissacranti. Ma è la prima volta che i suoi sussurri si sono trasformati in urla. Urla politiche. E senza tema di volgarità. Un esempio? Le rime scritte per il leader della Lega. Un inno al Senatur. Leggiamo il primo verso. Un verso d'autore, integrale: «Quel medio alzato all'inno di Mameli se lo metta nel culo Senatore, già fatto largo per averci infilato il Tricolore. Mi congratulo per la capienza!».
Ed è soltanto un assaggio. Perché Umberto Bossi è il primo della lista, ma la verità è che ne ha per tutti il papà del commissario più famoso della televisione. Fendenti e strilli che entrano in quel merito troppo spesso dimenticato dall'opposizione. Fendenti e strilli che colpiscono al cuore proprio la stessa opposizione. Ricordano tanto le urla di Nanni Moretti in Piazza Navona, quelle che aprirono le danze dei girotondini. Adesso ci pensa lui, Andrea Camilleri, milioni e milioni di copie di libri vendute. Milioni e milioni di telespettatori catturati sempre con le storie del suo ineffabile commissario Montalbano. Camilleri che in piazza Navona ci ha già fatto un salto l'estate scorsa, il giorno che Sabina Guzzanti ha massacrato dal palco Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità.
Ci era arrivato un po' in punta di piedi nel luglio scorso in quella piazza, Camilleri. Ma adesso che il buonismo è sepolto, qualche settimana fa nella piazza ci è tornato per scendere accanto agli studenti in protesta contro la riforma. In senso metaforico, per carità. Meglio, letterario: «La Gelmini? Di sicuro non è un essere umano...». La strada è aperta. Spianata. Un'altra «Poesia incivile»: «Quando in pochi parlammo di regime fummo derisi. I politologi più sottili ci spiegarono che sbagliammo a demonizzarlo, non era il diavolo, infatti non indossava coda e corna regolamentari. Ora gli stessi politologi eminenti ogni tanto si fermano per strada, annusano l'aria, si chiedono perplessi: "Ma cos'è questa puzza di zolfo?". E ancora non se lo sanno spiegare». Fendenti e strilli. A destra: «Per partecipare al Family day è indispensabile aver sposato due mogli o avere avuto figli dall'amante mentre la moglie era in carica...». Ma anche a sinistra. Ai leader della sinistra. Senza sconto alcuno: «Spacciano agli elettori come dialogo il suo farneticante monologare, fanno qualche timorosa obiezione, ma se lui batte il pugno, si piegano e vendono alle tv le loro quotidiane sconfitte come accordi raggiunti con arte sottile. Pallide ombre di un governo ombra che non riesce a far ombra a nessuno».
Alessandra Arachi 29 novembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 29, 2009, 06:19:16 pm » |
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«Una lista di onesti e giovani. Perché la politica cambi» di Saverio Lodato Camilleri, lei una ne fa e cento ne pensa. Corre voce che adesso avrebbe intenzione di fare una “lista degli onesti” in vista delle prossime europee. Cosa c’è di vero? Ma, soprattutto, che significa? «L’idea di una lista è sorta durante una conversazione telefonica fra Paolo Flores D’Arcais, Antonio Di Pietro e me, destinata alla pubblicazione su Micromega. Durante questa conversazione ho suggerito l’ipotesi di una lista di candidati che avesse alcune caratteristiche: essere suddivisa al cinquanta per cento fra uomini e donne; che gli eventuali candidati non abbiano più di 50 anni; una notevole partecipazione di extracomunitari con cittadinanza italiana. Suggerivo anche che questi partecipanti abbiano come comune segno di riconoscimento la fedina penale pulita. E la volontà di partecipare attivamente alla vita politica, anche se prima non l’avevano mai fatto». Mi par di capire che la sua lista ideale dovrebbe esser composta da cittadini senza precedenti politici e senza precedenti penali. Giusto? «Esattamente. Questo per rinnovare un certo quadro politico ormai consunto, immettendo forze nuove e generose. Probabilmente si tratta di un’utopia, ma è pur vero, per dirla con Max Weber, che “il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. Non si tratta di fondare un nuovo partito, ma di far coagulare, attorno a un simbolo qualsiasi, una fortissima volontà di cambiamento». Perché questa lista degli onesti dovrebbe affiancarsi a quella dell’Idv di Di Pietro? Non c’è il rischio di lanciare agli elettori un duplice messaggio: se vi riconoscete nella lista ispirata da Camilleri votatela, se invece pensate di non essere proprio immacolati al cento per cento votate l’altra? «Questa è una domanda cattivella. Se la proposta mi è venuto spontanea farla a Di Pietro è perché Di Pietro ha dimostrato, nel compilare la sua lista, di essere aperto a certe istanze che provengono dalla cosiddetta società civile». Insomma, caro Camilleri, mi par di capire che lei non investa granché sulla possibilità di rinnovamento del Pd e sulla sua eventuale affermazione alle europee. «Hanno scritto che io avrei abbandonato il Pd, ma la verità è che non ne ho mai fatto parte. L’ho votato, questo sì. E se la mia proposta non avesse seguito continuerò a votarlo, ma questo non significa che io sia d’accordo sul modo di fare opposizione del Pd. Insomma: sto facendo il possibile perché io, e altri come me, non vadano ad ingrossare l’esercito dei non votanti». Cosa rimprovera, in concreto, al Pd? «Paradossalmente, il buonismo verso la maggioranza. Forse il Pd, per il fatto di essere nato una creatura con due teste, rischia di non poter muoversi con quella scioltezza che oggi è più che mai necessaria». saverio.lodato@virgilio.it 29 gennaio 2009 da unita.it
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« Ultima modifica: Marzo 07, 2009, 09:50:28 pm da Admin »
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:08:30 am » |
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Lo chef consiglia
di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
L'articolo
Le mille balle di Berlusconi, unico premier eletto sulla sfiducia
Camilleri, parola di Obama: «Entro il 31 agosto 2010 la missione in Iraq finirà». Parole inequivocabili! Tommaso Buscetta, qualche mese prima di morire, mi disse: «Quando gli americani guardano gli uomini politici in tv sanno che se il politico dice di voler fare una cosa farà il possibile, ma se dice il contrario vuol dire che non la farà. Da noi, no: l’italiano sa che il politico dice proprio il contrario di quello che pensa». La sostanza delle cose non gli sfuggiva.
Anche se mi porta l’autorevole avallo di Buscetta, lei, caro Lodato, non mi dice niente di nuovo. Tutti i politici degli altri paesi, e quindi non solo americani, sanno che se non mantengono le promesse o non vengono rieletti o sono costretti alle dimissioni. A volte si dimettono preventivamente: veda per esempio il ministro delle finanze tedesco che ha rassegnato le dimissioni perché, a 65 anni, sentiva di non avere più l’energia per affrontare i problemi della grande crisi attuale.
Non solo: ma arrivano anche a precisare, come ha fatto Obama, mese, giorno, e a momenti il minuto, in cui manterranno l’impegno. Nel nostro perenne Carnevale, le cose vanno diversamente. Berlusconi è dal primo governo del 1994 che promette mari e monti agli italiani: non è mai riuscito a mantenere neanche il dieci per cento delle sue promesse.
E non ha mai dato la colpa dei suoi fallimenti a se stesso, ma ha sempre invocato giustificazioni indipendenti dalla sua volontà: i freni posti dagli alleati, gli effetti dell’11 settembre, lo tsunami… Il fatto è che l’Italia è un paese inverso. Mentre i politici stranieri sono eletti sulla fiducia, Berlusconi è eletto sulla sfiducia. Gli italiani sanno benissimo che non manterrà le promesse, che racconta solo balle mirabolanti, eppure continuano ad illudersi. Avranno, purtroppo, un risveglio tristissimo.
da unita.it
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« Ultima modifica: Marzo 06, 2009, 03:11:38 pm da Admin »
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 07, 2009, 09:51:25 pm » |
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Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
L'olio di ricino? Molti giornalisti già lo ingoiano da soli
Camilleri, leggo su Wikipedia, alla voce “olio di ricino”: “ Durante la dittatura fascista l’olio di ricino fu uno degli strumenti di tortura impiegati dalla Camicie nere... I dissidenti e gli oppositori presi di mira venivano obbligati a ingerirne grandi quantità, provocando gravi sofferenze gastroenteriche, diarrea e disidratazione che potevano condurre le vittime alla morte. Il mezzo di tortura fu ideato da Gabriele D’Annunzio, durante l’occupazione di Fiume”.
Ce lo vede Gasparri con l’imbuto in mano che fa trangugiare olio di ricino ai giornalisti non allineati? E sente nell’aria odore di olio di ricino? L’olio di ricino era un purgante in uso almeno sino agli anni trenta e credo sia stato il purgante ufficiale durante la guerra 15-18. Da piccolo mi è stato propinato in minime dosi da mia madre, che poi passò al calomelano, una specie di cioccolatino amarissimo, altrimenti detto «il bel nero». Il sapore dell’olio di ricino era abominevole, quasi quanto quello dell’olio di fegato di merluzzo. Il ricino aveva effetti immediati e dirompenti.
Apprendo da lei che il primo a farne un uso, diciamo così improprio, è stato D’Annunzio a Fiume. Può darsi, perché D’Annunzio la grande guerra l’aveva combattuta. Va ricordato che al fascismo il Vate nazionale fece un altro regalo , quell’ incomprensibile “eja, eja, alalà” che costituiva il saluto al duce. Gli squadristi usavano l’olio di ricino contro avversari isolati e inermi, in genere di età avanzata, per dileggiarli e umiliarli: splendido esempio di assoluta vigliaccheria.
Lei mi chiede se ce lo vedo Maurizio Gasparri con in mano l’imbuto e il bottiglione d’olio di ricino. Le rispondo che non ce lo vedo, perché non ce n’è più bisogno: sono talmente tanti i giornalisti che l’olio di ricino lo ingoiano di loro spontanea volontà! Per i rari dissenzienti non serve sprecarlo.
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 09, 2009, 10:30:49 am » |
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Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Ingratitudine e volubilità, il taxista romano e i difetti degli italiani
Camilleri, ai funerali di Luigi Petroselli, sindaco di Roma(1981), fu cospicua la rappresentanza dei taxisti. Lo consideravano: «uno di loro». La settimana scorsa mi è capitato di salire su una ventina di taxi e tutti ce l’avevano con Veltroni per aver concesso 2500 licenze. Possibile che non mi sia capitato neanche uno di quelli freschi di licenza? Il taxista romano è come il vaso di Plotino, le cui verità teologiche sgorgano per emanazione del sentito dire dei clienti? O è lui il gran regista del chiacchiericcio qualunquista? Va bene il fine corsa, un po’ meno la fine della gratitudine.
Grazie per l’occasione di ricordare Luigi Petroselli, uno dei grandi sindaci di Roma, amato e stimato da tutti, non solo dai taxisti, che per lui facevano un’eccezione. Almeno a Roma, i taxisti hanno due particolarità: si lamentano con il cliente per il traffico, cosa comprensibile, ma se il cliente ha altro per la testa e glielo fa capire, si vendicano accendendo la radio ad alto volume. Poi criticano sempre il sindaco che in quel momento è in carica, a qualsiasi partito appartenga.
E dal sindaco passano a mettere in discussione il presidente del consiglio, il capo dello Stato, l’Europa, l’America, il mondo. Anch’io li ho sentiti infurentiti contro Veltroni, e infatti sono stati fra i grandi elettori di Alemanno. Ora cominciano a essere delusi anche da lui. Non credo si tratti di riconoscenza o irriconoscenza, penso, piuttosto, che in essi si condensi la quintessenza delle caratteristiche italiane, come la volubilità delle opinioni, sostanziale qualunquismo, non celato razzismo, perenne supponenza. Ci sono le eccezioni, naturalmente. Ma se uno straniero mi chiedesse chi scegliere nel campionario per fare un ritratto dell’italiano, fra i primi indicherei un taxista romano.
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 11, 2009, 09:29:14 am » |
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Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Lo stupro vale meno se a governare è Berlusconi.
Come nell’era Minculpop
Camilleri, facciamoci i complimenti da soli: ricorda che definimmo buffi gli osservatori tv che non ci spiegano perché all’epoca di Prodi la «nera» veniva sbattuta in prima pagina e oggi - invece - molto meno (23 febbraio)? Ecco la risposta: durante i due anni di Prodi il peso della «nera» raddoppiò, oggi è dimezzato. Zampa (Pd): «ce ne siamo accorti a spese degli italiani». Caselli: «mali ingigantiti». E i diretti interessati? Cantano come usignoli. Mimun (Tg5): «Un’idea che lascia il tempo che trova». Mazza (Tg2): «imputare ai tg il fallimento delle elezioni non è accettabile». Giordano (ex Studio Aperto): «Impiegando la nera in chiave politica si fa un pessimo servizio». Ma davvero?
Niente di nuovo sotto il sole, caro Lodato. Durante il fascismo, gli ordini che il Minculpop inviava ai direttori di giornali erano severissimi: vietavano di riportare fatti di cronaca nera come furti, rapine, omicidi. L’Italia fascista doveva sembrare il migliore dei paesi possibili. Persino i nostri commediografi, se volevano raccontare un adulterio o un omicidio, li ambientavano all’estero. Si vede che qualche traccia di Minculpop si è trasmessa nel Dna di molti giornalisti di oggi. Durante il governo Prodi hanno talmente enfatizzato i reati contro la sicurezza che la sconcia campagna è rimasta nella nostra memoria, anche se siamo un popolo di smemorati. Ora che gli stupri si moltiplicano e l’insicurezza dilaga, gli stessi giornalisti non possono fare altro che mettere la sordina alle loro trombe. Per favorire coloro che, da Berlusconi ad Alemanno, ci avevano promesso un’Italia da bere, come la Milano di una volta. E per giustificare la loro supina acquiescenza, a questi giornalisti non resta che l’arrampicarsi sugli specchi. Che, come ognun sa, è tentativo che non riesce mai.
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 16, 2009, 05:09:26 pm » |
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16/03/2009
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Niente inciuci.
Così Franceschini ribatte colpo su colpo a Berlusconi
Camilleri, de profundis per l’inciucio. Chissà cosa combinerebbe Berlusconi se dovesse vincere le europee. È il concetto espresso da Dario Franceschini che ha definito «clerico fascista» Berlusconi, il quale lo aveva definito «catto comunista». Franceschini ci fa correre un brivido gelido lungo la schiena, visto ciò che dice, dichiara, propone, progetta, congettura, almanacca, fa, trama, dispone, ordina, smentisce, Berlusconi, che ancora non ha vinto. Ma Franceschini ha il merito, quasi rivoluzionario, di non cedere alla tentazione dell’inciucio. Tante uova di Colombo sono state scoperte quasi per caso. che ne pensa?
Penso che Franceschini stia mettendo a fuoco il giusto modo di fare opposizione. Da un lato fa proposte concrete che mettono il governo in imbarazzo, come l’assegno ai disoccupati, reperendo la copertura necessaria con una dura lotta all’evasione fiscale. Il no del governo è stato stupefacente: sarebbe un incentivo per i licenziamenti. Come dire: non diamo soldi alla sanità se no le malattie aumentano. Dall’altro Franceschini reagisce colpo su colpo alle ingiurie di Piccolo Cesare, non gliene lascia passare una. Dato che Piccolo Cesare parla a ruota libera, è bene che le risposte che gli vengono date sottolineino il suo sproloquiare. Franceschini trema all’idea di quello che farà Berlusconi se stravincerà le europee. E c’è da esserne seriamente preoccupati. Il suo delirio di onnipotenza è ormai pericolosamente vicino all’incontrollabilità. Metterà mano alla Costituzione, ai poteri del capo dello Stato, del Parlamento, del Csm, travolgerà giustizia, libertà d’informazione, ogni cosa che possa dargli il minimo fastidio. La sua pericolosa ambizione non ha né freni né limi
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 17, 2009, 03:43:26 pm » |
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Appunti per una definizione
Camilleri: Cos’è un italiano
di Andrea Camilleri
[Questo saggio, già su Limesonline, uscirà a fine luglio su LIMES, rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo]
Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.
E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.
Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.
Premessa generale
Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.
Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.
Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.
Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.
Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?
Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.
Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.
Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.
Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.
È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.
Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.
Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.
Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.
Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.
L’uso dei dialetti
È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.
Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?
In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.
Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?
C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.
Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.
Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».
Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.
Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.
Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.
L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.
Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).
Già, il fascismo…
La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.
Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.
La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.
Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.
All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.
Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.
Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.
Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.
Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.
Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».
Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.
Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.
Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.
Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.
Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.
A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.
Le particelle di Majorana
Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.
C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.
Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.
Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.
Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.
Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.
Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.
Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.
L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.
Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.
Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.
C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.
Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.
Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.
E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.
Il rutto del pievano
Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».
Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.
L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.
Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.
L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.
Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.
E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.
Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.
Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.
Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».
Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.
Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.
Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.
L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.
Per la Storia invece è un’altra storia.
Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.
La memoria corta
Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.
Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.
«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».
Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.
È un esempio banale, lo so.
Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.
Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.
Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.
A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.
L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.
A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.
Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia. (Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.) Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.) Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati. (Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.) La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa. (La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.) La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica. (La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.) Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli. (Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)
Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.
E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.
Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.
L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.
Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».
Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.
Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.
Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.
Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.
Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.
L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.
(10 marzo 2009) da micromega-online
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 19, 2009, 11:07:06 pm » |
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Appunti per una definizione
Camilleri: Cos’è un italiano
di Andrea Camilleri
[Questo saggio, già su Limesonline, uscirà a fine luglio su LIMES, rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo]
Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.
E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.
Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.
Premessa generale
Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.
Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.
Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.
Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.
Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?
Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.
Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.
Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.
Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.
È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.
Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.
Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.
Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.
Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.
L’uso dei dialetti
È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.
Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?
In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.
Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?
C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.
Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.
Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».
Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.
Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.
Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.
L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.
Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).
Già, il fascismo…
La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.
Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.
La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.
Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.
All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.
Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.
Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.
Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.
Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.
Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».
Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.
Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.
Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.
Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.
Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.
A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.
Le particelle di Majorana
Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.
C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.
Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.
Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.
Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.
Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.
Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.
Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.
L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.
Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.
Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.
C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.
Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.
Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.
E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.
Il rutto del pievano
Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».
Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.
L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.
Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.
L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.
Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.
E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.
Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.
Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.
Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».
Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.
Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.
Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.
L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.
Per la Storia invece è un’altra storia.
Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.
La memoria corta
Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.
Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.
«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».
Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.
È un esempio banale, lo so.
Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.
Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.
Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.
A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.
L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.
A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.
Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia. (Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.) Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.) Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati. (Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.) La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa. (La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.) La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica. (La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.) Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli. (Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)
Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.
E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.
Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.
L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.
Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».
Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.
Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.
Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.
Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.
Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.
L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.
(10 marzo 2009) da micromega-online
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 21, 2009, 11:57:06 am » |
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Lo chef consiglia di
Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Berlusconi i colonnelli o i tonni di An
Camilleri, il copione vuole che nel congresso di scioglimento di AN, l’ “Ultimo dei Mohicani” sarà sconfitto. L’indiano è Fini. E la Storia è più atroce degli uomini che pretendono di farla, scriverla, interpretarla. Scherzando, si può parafrasare Lino Banfi: “In Italia un dittatore è poco, due sono troppi”. In “Una tigre in redazione” (Marsilio), sono raccolte le corrispondenze di Emilio Salgari, quando Buffalo Bill venne in Italia con seguito di indiani e cowboy (1890). Fra un secolo, chi farà parte del circo? E dove saremo?
Dove saremo non ha nessuna importanza. Né mi sento di fare pronostici, se fra cento anni esisterà ancora il circo Barnum della politica come è intesa oggi o saranno tempi più seri. Noto che Berlusconi non interverrà al congresso di An. Dicono che lo farà per cortesia, per lasciare il palcoscenico tutto a Fini. Non credo sia così: sotto quello che vorrebbe apparire come un commosso rito d’addio si svolgerà una lotta senza quartiere fra Fini e i suoi colonnelli e tra i colonnelli fra loro. La presenza di Berlusconi acuirebbe le faide. Non tutti i colonnelli di Fini, a cominciare dall’ineffabile Gasparri, condividono le sue esternazioni, sentendosi ormai più vicini a Berlusconi che a lui.
Inoltre il partito unico comporterà un sensibile dimagrimento delle poltrone in dotazione ai due partiti satelliti di FI, la quale farà la parte del leone. È inevitabile una notte dei lunghi coltelli. Ha mai assistito a una mattanza, caro Lodato? Quando la rete, detta “camera della morte”, comincia a essere tirata in superficie, le decine e decine di tonni che vi sono intrappolati prendono a contendersi il poco spazio acquatico rimasto fino a quasi uccidersi fra loro. Solo in quel momento il rais, nel caso specifico Berlusconi, ordina di arpionare.
da unita.it 21/03/2009
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 24, 2009, 05:02:41 pm » |
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Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Montalbano è allibito: le «mele marce» di Genova e i precedenti di Bolzaneto
Camilleri, alle notizie di Genova, Montalbano sarà rimasto di sasso: scoperta una banda di 25 poliziotti dedita a cocaina, bische clandestine, festini con prostitute. Agghiaccianti le telefonate fra i Rambo di cartapesta: «Voglio fare una rissa della Madonna, finisce che ammazzo tutti»; «Sei dei tanti che consumano droga, sei nella norma». Di un neofita, un veterano dice: «Non vorrei che finisse lì, e poi ci tocca buttarlo nella spazzatura». Della storia i giornali hanno parlato un giorno solo. In fondo, sono italiani come noi.
Montalbano, caro Lodato, è allibito e nauseato. E vorrebbe rivolgere qualche domanda a chi di ragione. La prima è per il Questore di Genova che ha dichiarato, a stare al Corriere della Sera, che si tratta di «poche mele marce». Sappiamo che è consuetudine delle Questure il ridurre sempre a un terzo i partecipanti a una manifestazione a esse non gradita. A logica di Questura, dunque, i poliziotti dovrebbero essere molti di più che 25. Ma anche restando a questo numero, non pare al signor Questore che 25 mele marce siano un po’ troppe? Ne basta una sola in un cesto per infettare tutte le altre. Il contadino lo sa e si affretta a gettarle via. Come mai alla Questura di Genova nessuno si è accorto di quello che stava succedendo? E pare che uno degli arrestati avesse subito una condanna a 3 anni e 2 mesi per avere massacrato a Bolzaneto la mano di un no global. Lo stesso agente, nel 2007, era stato indagato perché accusato di avere violentato con alcuni suoi colleghi tre prostitute straniere proprio nei locali della Questura genovese. Ecco le altre domande: come mai un tipo simile ha potuto continuare a vestire la divisa della polizia? Anche allo spirito di corpo c’è un limite, passato il quale, lo spirito di corpo diventa complicità.
da unita.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:30:23 pm » |
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Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Biotestamento, una vergogna. Sarà il grimaldello per scassinare altre libertà
Camilleri, ha visto come è andata al Senato? Tanto tuonò che piovve. Testamento biologico bay bay. E Berlusconi può concedersi anche il lusso di bistrattare i parlamentari che stanno lì solo «a far numero», insomma «pansa e presenza». Fra poco, le cronache parlamentari diventeranno assai più snelle: «Il numero 1 ha votato a favore della legge proposta da lui medesimo». Fine della seduta. Prosit!
A quanto mi è parso di capire dai resoconti giornalistici, la legge che si è votata sul testamento biologico è risultata essere ancora più dura e infame di quanto si pensasse. L’intransigenza invocata il giorno avanti dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, è stata messa in atto da Berlusconi e dai suoi, con l’esclusione di ogni possibilità di discussione e di mediazione. Senza la più lontana preoccupazione di salvare un minimo di laicità dello Stato. Ho ancora la libertà di dire che è stata scritta una pagina vergognosa della nostra storia? Ho sostenuto altrove, e qui lo ripeto, che questa legge verrà usata come un grimaldello per scassinare altre nostre libertà fondamentali, altre regole del vivere civile. Infatti, malgrado questo felice risultato, che apre a Berlusconi l’onore degli altari, egli non ha esitato ha dichiararsi insoddisfatto. Piccolo Cesare avverte le regole della democrazia come fastidiose remore che gli impediscono di fare ciò che gli torna personalmente utile. Considera i deputati come semplicissimi numeri. Fini gli ha ricordato che le regole vanno rispettate da tutti, a cominciare dal premier. Piccolo Cesare ha replicato, al solito, che le sue parole sono state travisate. È vero. Ciò che in realtà voleva dire, si trova già scritto nei libri di storia e le parole sono queste: «Farò di quest’aula sorda e bigia un bivacco per i miei manipoli».
da unita.it
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 30, 2009, 09:34:51 am » |
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Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
Le più belle storie d'amore del Novecento le hanno scritte comunisti
Camilleri, il comunista che scrive storie d’amore è una mosca bianca o, visti i tempi, è prevedibile la nascita di un nuovo autentico filone? Glielo chiedo perché è appena uscito “Ricordi di Rosa e di come la storia ne attraversò la vita” (Navarra editore) che è, ma non solo, una struggente storia d’amore.
A scriverlo è Gianni Parisi, palermitano, che negli anni 70, mentre alla guida del Pci c’era Enrico Berlinguer, fu segretario della Federazione di Palermo e poi segretario regionale del PCI; per tre volte parlamentare siciliano. Fra i tanti che lo conoscono, non è stata poca la sorpresa.
Mi scusi, caro Lodato, ma non ho ancora letto il libro di Gianni Parisi e non appartengo alla categoria di persone che dissertano su un libro senza averlo letto, o avendo appena dato un’occhiata al risvolto di copertina. Però mi meraviglio che Lei si meravigli del fatto che un comunista abbia scritto una struggente storia d’amore. Forse Lei continua a credere, seguendo l’alto insegnamento berlusconiano, che i comunisti erano, e sono - perché a Dio piacendo ancora qualcuno ce n’è -, quegli esseri feroci, crudeli, disumani, che a pranzo e a cena si nutrivano di bambini? O vuole semplicemente prendermi in giro? Comunque le dirò che le più belle poesie d’amore di tutta la letteratura del novecento, le hanno scritte tre comunisti, due dei quali hanno patito l’esilio e la galera per le loro idee: Nazim Hikmet, Pablo Neruda e Paul Eluard. E in quanto ai romanzi, Le dirò che non tutti nella stessa Urss seguivano i dettami del realismo socialista.
Guardi, tanto per fare un esempio, “Il dottor Zivago”.
Non è un romanzo d’amore? In patria, Pasternak venne duramente attaccato , la circolazione del suo libro non fu consentita, ma, checché se ne dica, il romanzo non può essere spacciato per anticomunista. Come la mettiamo?
da unita.it
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