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Autore Discussione: UMBERTO ECO: "Che bell’errore!": ecco la sua prima storica Bustina di Minerva  (Letto 4213 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Febbraio 26, 2016, 11:54:48 am »

La nostra storia
Umberto Eco: "Che bell’errore!": ecco la sua prima storica Bustina di Minerva
Era il 31 marzo 1985.
Ripubblichiamo qui la prima delle celebri rubriche ospitate sull'ultima pagina de "l’Espresso". Dove si celebravano lo sbaglio e il caso come strumenti di scoperta

Di Umberto Eco 
26 febbraio 2016

Sto iniziando una rubrica. Mi è accaduto altre volte e ho sempre avuto la forza di smettere nel giro di un anno. L’appuntamento settimanale corrode. Questa volta forse smetterò prima, provo soltanto, per far piacere al Direttore, uomo potentissimo e vendicativo, e in vena di novità.

L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare. Valentino Bompiani scriveva (e forse scrive ancora) le idee che gli passavano per la testa sul retro delle scatole di raffinatissime sigarette turche. Credo conservi migliaia di ritagli di scatole nei suoi archivi, e molte delle sue iniziative editoriali sono cominciate così. Dal numero delle schede accumulate felicemente, direi che il fumo non fa male.

Ritengo sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. A Lovanio non hanno ancora finito di decifrare tutto quello che ha scritto, e il rettore di quella università, che deve stanziare i fondi per la ricerca su quei crittogrammi, mi diceva tra il preoccupato e il faceto che un uomo che ha scritto tanti foglietti (credo siano centomila) non può sempre aver scritto delle cose sensate. Però le cose che ha pubblicate sono piene di senso. Questo significa che l’umanità pensante si divide tra chi si limita ai Minerva e chi poi coordina questi appunti in un discorso organico. Lì vengono i nodi al pettine.

Per intanto bustine: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che ci ha attraversato la mente in autostrada mentre si frenava per non finire in coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi si vedrà.

Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare lontano con una idea sbagliata. Anzi, con un pacchetto di idee tutte sbagliate: sbagliato il calcolo delle dimensioni della terra, sbagliato il credito dato a certi cartografi, sbagliato il progetto di redenzione dei selvaggi asiatici, sbagliato persino l’investimento economico. Povero Cristoforo finito poi così tristemente. Eppure, la sua scoperta ha rivoluzionato il nostro millennio.

Per questo genere di scoperte, fatte per sbaglio, gli inglesi hanno un termine che non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. È curioso che il termine si formi nel lessico inglese, a causa della storia dei tre principi di Serendip scritta nel Settecento da Horace Walpole. Perché di fatto la storia di questi tre principi, che trovano qualcosa cercando qualcosa d’altro, viene da una antica novella persiana, poi tradotta in italiano nel Rinascimento, poi passata alle altre culture europee, come anche ci ripeteva Carlo Ginzburg nel suo famoso saggio sul paradigma indiziario.

Il fatto è che tutte le grandi scoperte avvengono per una certa qual forma di serendipità. E non sto solo pensando a Madame Curie che lascia la pecblenda sul comodino per disattenzione, o allo sciagurato Bertoldo il Nero che cerca la polvere di proiezione e scopre la polvere da sparo. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il filologo, o il detective) invece di seguire le vie normali di ragionamento si diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare - se fosse vera - i fatti curiosi a cui con le leggi esistenti non si riesce a dare spiegazione. Ma questa legge inedita non viene fuori al primo colpo: si va per così dire per farfalle, si passeggia con la mente in territori altrui. In fondo il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che Colombo ha fatto per sbaglio: «Visto che non trovo una risposta a questo problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto extravagante?».

Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano fecondi. In fondo anche scrivere sulle bustine di Minerva può avere la stessa funzione. Dipende naturalmente se ci scrive Kant o se ci scrivo io (a cui Luis Pancorbo ha attribuito una volta l’angoscioso pensiero: «I can’t be Kant»).

Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di aver ragione. È mica vero quel che ci raccomandavano i genitori: «Prima di parlare pensa!». Pensa, certo, ma pensa anche ad altro. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue.

© Riproduzione riservata
26 febbraio 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2016/02/25/news/umberto-eco-che-bell-errore-prima-bustina-minerva-1.251605?ref=HRBZ-1
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 13, 2016, 06:23:28 pm »

Cercas dalla cattedra di Umberto Eco ci spiega la teoria del punto cieco

Pubblicato: 11/03/2016 18:33 CET Aggiornato: 2 ore fa
JAVIER CERCAS

La teoria del punto cieco è un'espressione che rimanda all'anatomia dell'occhio. I nostri occhi hanno "un luogo sfuggente, laterale e non facilmente localizzabile", come ipotizzò il fisico Edme Mariotte nel Seicento, un punto situato nella retina attraverso il quale non si vede nulla, perché privo di recettori per la luce. Non siamo in grado di notare l'esistenza di questo piccolo deficit visivo semplicemente perché vediamo con due occhi (i loro punti ciechi non coincidono) e poi perché il sistema visivo riempie il vuoto del punto cieco con l'informazione disponibile, dal momento che il cervello supplisce a ciò che l'occhio non vede. Al centro dei romanzi di Javier Cercas (autore di Sodati di Salamina, Il movente, Anatomia di un istante, Il nuovo inquilino, L'impostore e molti altri) e di quelli che ammira, "c'è sempre un punto cieco attraverso il quale, in teoria, non si vede nulla" ed è proprio attraverso di esso che quei romanzi vedono e si illuminano, "diventano eloquenti".

Il grande scrittore spagnolo ce lo spiega ne Il punto cieco (El punto ciego), il suo nuovo libro che, come gli altri, è pubblicato da Guanda nella traduzione di Bruno Arpaia. Un libro "nato per caso" - come si legge nella prefazione - e che è il risultato di una serie di conferenze da lui tenute a Oxford, nella cattedra di Weidnfeld Visiting Professor in Comparative Literature, la stessa già occupata in passato da Umberto Eco, Roberto Calasso, Amos Oz, Vargas Llosa e George Steiner. Cinque conferenze in lingua inglese, qui riportate in altrettanti capitoli, che partono tutte dalla sua esperienza come scrittore e con cui ha ragionato su questioni disparate.

All'inizio dei romanzi "ciechi", precisa, c'è sempre una domanda e tutto il romanzo consiste nella ricerca di una risposta a quella domanda centrale; al termine della ricerca, però, "la risposta è che non c'è risposta". La risposta, aggiunge, è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso. Ed è per questo che sostiene che il punto cieco dell'occhio e quello di quei romanzi non funzionano poi in maniera tanto diversa: "così come il cervello riempie il punto cieco dell'occhio, permettendogli di vedere dove di fatto non vede, il lettore riempie il punto cieco del romanzo, permettendogli di conoscere ciò che di fatto non conosce, di giungere là dove, da solo, non giungerebbe mai".

Nel libro - che spazia da Borges a Kafka, da Melville a Tomasi di Lampedusa, da Vargas Llosa a Cervantes fino a Sartre ("il più grane intellettuale francese del XX secolo e senza dubbio la perfetta incarnazione dello scrittore impegnato") - Cercas dice la sua anche su la letteratura e gli intellettuali.

"La letteratura - dice - rappresenta un messa a nudo della realtà, ma anche una sua confutazione, e la scrittura è per la società una coscienza inquieta, come diceva Sartre, è un fastidio, un ribelle, un impertinente, un impugnatore dei valori comunemente accettati, e le sue opere sono lo strumento di questa impugnazione. Dà ragione a Vargas Llosa - "il primo a sostenere che la letteratura continua a essere fuoco e lo scrittore un guastafeste" - e si definisce un grande ammiratore di David Foster Wallace quando affermava che la nostra cultura "ha acquisito uno scetticismo congenito", che i nostri scrittori "diffidano totalmente delle credenze salde e delle convinzioni aperte" e che "la passione ideologica li disgusta profondamente". Per non parlare, poi, della sua idea del postmodernismo, secondo cui sono rimasti solo il sarcasmo, il cinismo, l'ennui permanente e la diffidenza nei confronti di qualunque autorità.

La letteratura, e in particolare il romanzo, non deve proporre nulla, non deve trasmettere certezze né fornire risposte né prescrivere soluzioni, ma ciò che deve fare è formulare domande, trasmettere dubbi e presentare problemi. "L'autentica letteratura non tranquillizza, inquieta, non semplifica la realtà, ma la complica e le sue verità sono ambigue, contraddittorie, ironiche e l'ironia non è il contrario di serietà, ma la sua massima espressione e senza di essa non c'è narrativa degna di tale nome, è uno strumento indispensabile alla conoscenza".

In tutto questo, qual è il ruolo dell'intellettuale? Secondo Cercas, oggi come oggi sono troppi: "dovrebbe essere riformulato il suo compito", scrive. Chi interviene nella vita pubblica deve avere il tono e l'atteggiamento del semplice cittadino, non con quelli dell'intellettuale "con le sue pose pompose e oracolari, con quella superiorità morale e le confortevoli sicurezze dei dogmi e delle adesioni ai partiti". Non deve più credersi in possesso della verità: "la critica inizia con l'autocritica e l'ironia con l'ironia e l'onesta è fondamentale".

Parole, le sue, da tenere bene a mente, ma, soprattutto, da mettere in pratica.

Da - http://www.huffingtonpost.it/giuseppe-fantasia/cercas-dalla-cattedra-di-umberto-eco-ci-spiega-la-teoria-del-punto-cieco_b_9439106.html
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 30, 2017, 12:41:28 pm »

Ecco il primo articolo scritto da Umberto Eco
Uscì per il settimanale diocesano “La Voce Alessandrina” nel ’51, come dichiarato dallo stesso autore in un’intervista su L’Espresso pubblicata postuma il 12 febbraio scorso
Umberto Eco, l’alessandrino più famoso al mondo, è morto il 19 febbraio 2016 a Milano

Pubblicato il 30/03/2017

VALENTINA FREZZATO
ALESSANDRIA

Umberto Eco fu giornalista, ad Alessandria, già a 19 anni. Il suo primo articolo è stato dimenticato fino a qualche mese fa, quando se n’è riparlato di sfuggita su L’Espresso. E poi è stato bravo un esperto di giornalismo a ritrovarlo. 
 
Fine anni Novanta, una chiacchierata a casa di Umberto Eco (nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932 e morto a Milano il 19 febbraio dell’anno scorso) insieme a Livio Zanetti, incaricato di scrivere un libro sulla storia de L’Espresso. Volume mai uscito, le registrazioni delle interviste fatte allora son rimaste solo su nastro, fino al 12 febbraio di quest’anno, giorno in cui proprio il settimanale pubblica «L’Eco ritrovato», il colloquio su media e giornalismo fra i due esponenti della cultura italiana. 
 
Durante l’intervista, Zanetti chiede a Eco: «Qual è il primo articolo che hai scritto?». E lui risponde: «Credo sia stato in assoluto su un settimanale diocesano che si chiamava La Voce alessandrina». Tema? «Non me lo ricordo con esattezza, ma era qualcosa di costume». In realtà si tratta di una riflessione sulla cultura. 
 
Alla Voce quell’articolo l’hanno cercato, è stato Marco Caramagna (ex direttore dl periodico della diocesi di Alessandria) a trovarlo: «Consultando l’archivio di “Voce” ho scovato l’articolo del nostro illustre concittadino nell’edizione del 26 aprile 1951 con il titolo “Responsabilità di una cultura cristiana”. Ora lo ripubblicheremo» a puntate, oggi, 30 marzo, la prima (in edicola), il 5 aprile la seconda. 
 
Eco aveva diciannove anni, la sua analisi è lucida e fuori dal tempo, con periodi che sembrano tratti da scritti di pochissimi anni fa. Eccone uno stralcio: «Si dice che la cultura moderna si sia allontanata dal cristianesimo ed in parte è vero; in periodo di crisi la cultura ha sofferto la crisi; ma non ha saputo risolverla, anzi si è compiaciuta di diventare “cultura della crisi”. E da questo i giovani sono stati attratti, in parte perché ciò corrispondeva ad alcune loro confuse esigenze, in pare per darsi ad una esperienza nuova ed eccitante. Ma la cultura cristiana ha sovente ignorato queste esperienze rifilandole tra gli scarti di una mentalità malata; i giovani cristiani, che sentono di aver risolto i loro problemi nel modo più luminoso, hanno guardato con certo disprezzo a quella anarchia dissolutrice permeata di un certo qual masochismo intellettuale che si bea del tormento e della impotenza. Han guardato con distacco a quei giovani che si proclamavano i corifei di verbi nuovi e che non riuscivano ad approdare a nulla, anche se lo desideravano. E questi a loro volta hanno accusato i cristiani di semplicismo, di conformismo, di dogmatismo, scambiando il proprio brancolare nel buio per una libera ricerca. E così si è camminato per strade parallele – una superiore all’altra – senza incontrarsi mai. Con danno per entrambi».
 
Nota a margine: Umberto Eco si ricordò di quella chiacchierata, ma dopo aver letto e corretto la trascrizione dattiloscritta della cassetta, disse di chiuderla in un cassetto perché «gli veniva l’orticaria al solo immaginare eventuali tagli o riassunti». È stato Ottavio, figlio di Livio Zanetti, a chiedere di cercare quell’intervista, poi pubblicata da L’Espresso il 12 febbraio. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/30/edizioni/alessandria/ecco-il-primo-articolo-scritto-da-umberto-eco-hOqJt2NdQQZnxh52qbh8mO/pagina.html
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