Colpa dei corrotti il 17% degli sprechi pubblici
Studio di tre economisti italiani pubblicato su una rivista americana. Intanto il Parlamento discute la legge, esperti divisi sul premio a chi denuncia illeciti
In inglese si chiama whistleblower letteralmente «colui che soffia nel fischietto», immagine suggestiva per descrivere chi scopre un illecito e lo denuncia18/02/2016
Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo
Roma
Secondo uno studio di tre economisti italiani (Oriana Bandiera, Tommaso Valletti e Andrea Prat) pubblicato sull’American economic review, in Italia su 100 euro di sprechi 83 sono dovuti a inefficienza, 17 a corruzione. Il criterio di calcolo potrebbe essere la base sistematica per valutare il peso dei danni subiti dalla pubblica amministrazione, se solo il governo istituisse un gruppo di lavoro incaricato di replicare lo schema. Gruppo, che però non esiste. E non è l’unica mancanza.
A dar retta a chi combatte per far quadrare i conti dello Stato, non si può vincere questo moloch illegale senza un attore indispensabile. In inglese si chiama whistleblower, letteralmente «colui che soffia nel fischietto», immagine suggestiva per descrivere chi scopre un illecito e lo denuncia. La novità è che dopo anni una legge sta per arrivare e si estenderà anche ai privati, malgrado l’opposizione di Confindustria. Approvata il 21 gennaio alla Camera, e a breve discussa in Senato, colmerà le lacune della legge Severino che nel 2012 ha introdotto una forma embrionale di whistleblowing, istituendo la figura del responsabile anticorruzione di cui ogni ente deve dotarsi.
LA NORMA A METÀ
La strada è tortuosa, piena di resistenze anche nella maggioranza di governo. Fa riflettere che neppure un whistleblower sia stato sentito in commissione. Alla fine il risultato non è proprio quello sperato. Lo conferma Francesca Businarolo, deputata M5S, principale artefice del provvedimento. «Il testo è scritto male - ammette - ma è un primo passo». Un passo sollecitato da tempo anche dagli Stati Uniti. L’ambasciatore a Roma John Phillips è uno dei massimi esperti mondiali del tema, e da procuratore ha creato il programma governativo sul whistleblowing attraverso il quale sono stati recuperati 55 miliardi di dollari dalle aziende che frodavano lo Stato. «Il primo Segretario dell’Ambasciata Usa, Anthony Renzulli – racconta Businarolo – mi ha detto che, se finalmente passa la legge, arriveranno molti più investimenti dagli Stati Uniti». Eppure in Italia le ostilità restano forti. I pregiudizi tanti, al punto che è difficile trovare un sinonimo nella nostra lingua. Corvo? Spia? Gola profonda? Sono tutti termini con un’accezione più o meno negativa. Luciano Berarducci, ingegnere e fino al 2014 vicepresidente dell’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici, poi confluita dell’Anac, l’Anticorruzione, liquida il whistleblowing come uno strumento «inefficace» aggiungendo: «Anche noi ricevevamo molte lettere anonime, ma ve la immaginate una Repubblica fondata sulla delazione?». Nella cultura italiana è in effetti molto difficile far passare il valore della segnalazione come arma contro la corruzione. Gustavo Piga, economista di Tor Vergata ed ex presidente della Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione, descrive così una lezione in una scuola per funzionari statali: «Avevo definito i whistleblower degli eroi. Saltarono sulla sedia e mi risposero che erano degli infami». Il presidente dell’Anac Raffaele Cantone conferma le difficoltà: «A oggi i dati del whistleblowing non sono positivi, anche perché non ci sono reali meccanismi di difesa contro i rischi di ritorsione». Nel report 2015 dell’Anticorruzione si parla di 158 segnalazioni. Da queste sono state aperte 17 istruttorie, 6 delle quali concluse. Poche? Lo riconosce lo stesso Cantone: «I dipendenti della p.a. ancora non sono molto collaborativi». E’ anche vero che l’Anac non garantisce l’anonimato. E questo è anche uno dei punti critici della legge.
L’Agenzia delle Entrate, intanto, è stata la prima amministrazione centrale che si è dotata di un servizio informativo che consente segnalazioni riservate e di interagire con il whistleblower per le verifiche. A farlo è Roberto Egidi, Responsabile anticorruzione dell’Agenzia: «Tutti i messaggi che ricevo sono crittografati». Solo lui conosce il nome del segnalante. «Raccolgo anche denunce senza firma, purché ben circostanziate». L’impatto è stato notevole: su 240 denunce in un anno solo 50 sono state archiviate. Diversi i procedimenti disciplinari aperti ed è scattato un licenziamento.
LA TAGLIA
Nella legge, allo stesso modo, il segnalante del pubblico impiego non resta anonimo ma viene secretata la sua identità con un codice. Fino a un certo punto però, a seconda se si tratti di un procedimento penale, disciplinare o della Corte dei Conti.
Altro nodo della norma, forse il più importante, è l’assenza di un meccanismo premiale per il whistleblower. La cosiddetta «taglia», un contributo che può andare dal 15% al 30% sulla cifra recuperata dallo Stato grazie alla soffiata. Serve come incentivo alle denunce e a ulteriore tutela. Perché, anche per i lunghi tempi della giustizia italiana, comprese le cause di lavoro, il premio permette di affrontare spese legali e altri eventuali danni di tipo economico e morale derivanti da mobbing o sospensioni illegittime dall’impiego. Il tema è controverso. Per l’Agenzia delle Entrate un premio si può introdurre, «ma solo quando il sistema sarà più collaudato» spiega Egidi. Tra i principali sostenitori della «taglia», oltre a tanti economisti, c’è Ermanno Granelli, consigliere della Corte dei Conti che nel 2012, sotto il governo Monti, faceva parte della commissione anticorruzione assieme all’attuale capo di gabinetto del Tesoro, Roberto Garofali e a Bernardo Mattarella, oggi alla guida dell’ufficio legislativo della Funzione Pubblica. «Allora proponemmo all’unanimità, sul modello di Stati Uniti e Giappone, il premio per il whistleblower con un tetto di due milioni di euro. Senza la taglia lo strumento è inutile». Della commissione era membro anche Cantone, che oggi sul premio ha cambiato idea e avverte: «Le denunce a volte posso essere solo sfogatoi, bisogna stare attenti». Servono riscontri oggettivi per evitare che qualche furbo voglia lucrare sulle spalle dei colleghi: «Ma la taglia è indispensabile, porterebbe a più segnalazioni - insiste Granelli convinto che il whistleblower vada protetto come un pentito di mafia -. La stessa Corte dei Conti ha sollecitato l’adozione di standard internazionali che prevedono tutte una qualche forma di premialità. È il vero deterrente contro i corrotti». La nuova legge, intanto, stabilisce una multa fino a 30 mila euro per le ritorsioni contro il segnalante, che però potrà essere licenziato in caso di falsa denuncia.
VOCI DALL’INTERNO
Ma chi controlla i controllori? Il possibile anello debole della catena è il responsabile prevenzione corruzione (Rpc) al quale ogni singolo ente affida le segnalazioni. E se quest’ultimo è corrotto, insabbia o non è abbastanza qualificato? L’Anac ha limitatissimi poteri, non ha un controllo diretto sugli Rpc, né può comminare sanzioni. La gran parte dei whistleblower è finita nei guai dopo soffiate cadute nel nulla.
Giorgio Rinaldi, impiegato all’Ispettorato dello Sviluppo economico di Bologna ha aspettato fino al mese scorso per vedere condannati i fannulloni che aveva denunciato nel 2007. Ci racconta di essere stato, in tutti questi anni, «perseguitato dal dirigente a cui avevo fatto la segnalazione, odiato, circondato dalle persone che erano indagate e che invece di essere sospese sono state premiate». Alla fine ha avuto ragione lui: «Non voglio essere definito un eroe, ma non posso rimanere senza tutela. Va incentivato chi ha il coraggio di denunciare colleghi che truffano, invece veniamo lasciati soli».
Lo scorso 15 dicembre il presidente delle Ferrovie Nord di Milano Andrea Gibelli, a conclusione di un anno orribile per l’azienda e a nome del nuovo management, ha lanciato l’«operazione trasparenza», basata sul «nuovo Codice Etico che promuove e incoraggia la pratica del whistleblowing». Nel 2015 il gruppo Fnm è stato travolto dallo scandalo giudiziario delle spese pazze che ha decapitato i vertici. A denunciare il malaffare è stato un dipendente dell’azienda controllata dalla Regione Lombardia: Andrea Franzoso, funzionario dell’audit, la valutazione interna. Franzoso è un whistleblower. Ma prima di raccontare la sua vicenda, La Stampa ha fatto un esperimento: andando a verificare chi è il referente etico, abbiamo provato a vedere come funziona l’indirizzo
referenteetico@fnmgroup.it. Tutte le mail ci sono tornate indietro. Qualcosa non va nel sistema di whistleblowing di Fnm. Il nuovo management avrebbe dovuto marcare una discontinuità rispetto al passato, in realtà Franzoso è finito prima isolato, poi demansionato. Ha chiesto inutilmente di poter lavorare, invece, sostiene nel ricorso al Tribunale del Lavoro, è stato tagliato fuori e relegato in un ufficio creato ad hoc dove ha «mansioni impiegatizie».
LA STANZA DELLE «SOFFIATE»
A censire le storie di Franzoso, Rinaldi e tanti altri è Giorgio Fraschini, responsabile Alac di Transparency International. Alac è l’allerta anticorruzione, un sistema che usa la piattaforma GlobaLeaks e che assicura l’anonimato dei segnalanti. Dall’ottobre 2014 sono 179, con un tasso di rilevanza del 72%. Un team di sei persone occupa un piccolo ufficio di quattro stanze nella zona San Siro di Milano. Per arrivare fino al computer di Fraschini la segnalazione segue un percorso rigido, con un doppio livello di protezione. Quello più sicuro si appoggia al browser Tor che scherma l’origine e renderebbe difficile anche a un hacker risalire all’indirizzo Ip.
Transparency processa la denuncia, chiede di circostanziarla, fa le verifiche, propone una strategia al whistleblower reso anonimo attraverso il codice numerico: «Chiediamo se vuole fornirci i suoi dati, ma spesso ci risponde di no». Tra denunciante e referente in azienda, Transparency si pone come scudo terzo, proteggendo la fonte. S i mette in contatto con il responsabile anticorruzione, standogli addosso per giorni. Se le risposte non arrivano, l’associazione si rivolge all’Anac, alla magistratura o alla polizia. «Il sistema funziona se il responsabile anticorruzione reagisce subito alla denuncia». Ma nel whistleblowing c’è anche un paradosso: se funziona le denunce sono zero, perché agisce da deterrente, ma sono zero anche se fallisce. Perché o la corruzione è totale oppure nessuno segnala: «E i motivi sono due – chiude Fraschini – o la paura di ritorsioni o la consapevolezza che non servirà a nulla».
Da -
http://www.lastampa.it/2016/02/18/italia/cronache/colpa-dei-corrotti-il-degli-sprechi-pubblici-TemgKvADQ97JRRQxuaR3DO/pagina.html